4 OTTOBRE 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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4 OTTOBRE 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa
UFFICIO STAMPA

4 OTTOBRE 2018
4 OTTOBRE 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa
LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA

                      già Provincia Regionale di Ragusa

                                   Ufficio Stampa

Comunicato n. 116 del 02.10.18
Il 4 ottobre si apre a Palazzo la Rocca la mostra “Cenere – Il teschio che ride”
con prologo in piazza Duomo
Sarà aperta il prossimo 4 ottobre alle ore 18 nei saloni di Palazzo La Rocca (Ragusa
Ibla) la mostra ‘Cenere – Il teschio che ride’ promossa dal Libero Consorzio
Comunale di Ragusa e dall’Associazione Culturale Aurea Phoenix. L’esposizione di
Momò Calascibetta e Dario Orphée La Mendola, a cura di Andrea Guastella, è una
riflessione ironica sul sistema dell’arte contemporanea, vale a dire sui vizi e le virtù
dei “potenti” che influenzano il lavoro degli artisti, le cui effigi sono immortalate su
una macchina scenica riproducente un curioso cimitero. A questa installazione si
accompagnano un autoritratto di Momò Calascibetta, alcuni “ex voto”, una scultura
simbolica, un leggio con un racconto di Dario Orphée e un video con foto realizzate
durante il montaggio della mostra.
La rassegna, itinerante, inaugurata alla Farm di Favara lo scorso 16 giugno, e che ha
già toccato il Polo Museale A. Cordici di Erice e l’ex chiesa di San Giovanni a Gela,
toccherà dopo la tappa di Ragusa Ibla (Palazzo La Rocca dal 4 ottobre al 30
novembre 2018), Siracusa (Palazzo Bellomo), Catania (Palazzo Platamone), Cefalù
(Museo Mandralisca), Termini Imerese (Museo Civico), per concludere il suo giro
isolano presso il Polo Museo Regionale d’Arte Contemporanea di Palazzo Belmonte
Riso a Palermo. Successivamente si sposterà presso la Fondazione Mudima a Milano,
per l’Italia, e lo Spinnerei di Lipsia, per l’Europa.
In occasione della serata inaugurale della Mostra, il pubblico della mostra si riunirà
alle ore 17.30 nello spazio antistante il Circolo di Conversazione di Ragusa Ibla per
celebrare ironicamente i funerali della pittura. Accompagnato da alcuni elementi della
Banda di San Giorgio, si recherà quindi in corteo sino a Palazzo La Rocca,
procedendo lungo Piazza Duomo e lungo via Capitano Bocchieri. Giunto al palazzo,
intorno alle 18.00 assisterà all’inaugurazione vera e propria, durante la quale verrà
data lettura del Teschio che ride, un dialogo sull’arte d’oggi di Andrea Guastella e
Dario Orphée La Mendola.

(gianni molè)
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Il dossier
Mappa del personale

Regione, laureati fuori posto agronomo un
dirigente su cinque
Negli anni assunzioni senza alcun legame con il titolo di studio adatto Un chimico si occupa
di buste paga. Ecco perché i dipendenti non bastano

ANTONIO FRASCHILLA

Che ci fa un ingegnere civile a dirigere un ufficio del dipartimento lavoro che si occupa di centri per l’impiego? Perché
un laureato in chimica guida l’ufficio buste paga del personale? Perché un agronomo per anni ha diretto il parco
archeologico più grande del Mediterraneo, adesso guidato comunque non da un archeologo ma da un architetto?
L’allarme lanciato dagli uffici regionali sulla mancanza di tecnici, con la richiesta da parte dell’assessore Gaetano
Armao di fare almeno trecento assunzioni, cozza in parte con la folle distribuzione del personale e dei dirigenti della
Regione che ha comunque, nonostante i pensionamenti da qui al 2020, sul groppone ha e avrà ancora un esercito di
dipendenti.
Dopo gli anni delle grandi infornate nel ruolo unico della dirigenza e dei trasferimenti ad personam per venire incontro a
chi magari voleva lavorare nell’ufficio più vicino a casa, tradizione che ha riguardato qualsiasi governo, adesso la
macchina burocratica è davvero in grandi difficoltà causa mancanza di laureati nei posti chiave. L’assessorato alla
Funzione pubblica ha da poco concluso un report su dipendenti e tipologia di lauree e i dati sono in alcuni casi
sconfortanti, perché alcune lauree come quella in scienze agrarie sono molto predominanti rispetto ad altre, come
giurisprudenza ed economia, ad esempio. Come se Palazzo d’Orleans non fosse una regione ma un ente agricolo.
Su 1.318 dirigenti in servizio, oltre il 20 per cento ha una laurea in scienza agrarie: ben 384 hanno questo titolo di
studio. Ed è chiaro che gli agronomi sono piazzati a dirigere uffici di qualsiasi tipo.
Due guidano uffici del dipartimento della Famiglia, che si occupa di assistenza sociale, una decina, non si sa perché,
guida uffici del dipartimento Istruzione occupandosi di scuola e università. Un agronomo lavora al fondo di quiescenza,
e circa quaranta lavorano al dipartimento Beni culturali e sono disseminati tra assessorato, sovrintendenze e musei. Un
agronomo, ad esempio, ha guidato per anni il parco archeologico di Selinunte. A fronte di questa mole di agronomi,
nella terra che ha il più grande patrimonio archeologico del Mediterraneo dopo la Grecia in servizio ci sono appena 12
laureati in archeologia. Così alcuni dei principali parchi archeologici sono guidati da architetti, che dopo le assunzioni
della fine degli anni Ottanta per le famose sanatorie hanno rimpolpato la dirigenza: oggi i dirigenti architetti sono ben
251.
Insomma, più di un terzo di tutti i dirigenti è agronomo o architetto. Architetti guidano il parco di Selinunte, quello di
Agrigento o quello di Giardini Naxos.
Nella Regione che ogni anno non riesce a far quadrare i conti, nell’amministrazione che negli anni passati si è data alla
ristrutturazione dei debiti con derivati e altri strumenti che stanno costando carissimo alle casse pubbliche, i dirigenti
laureati in Economia sono appena 46. Lavoreranno tutti quindi nell’omonimo assessorato?
Manco per sogno: ben quattro hanno incarichi esterni, due in società regionali, uno all’Aran e un altro alla Camera di
commercio di Palermo. Tre sono al turismo, quattro alla famiglia, altri quattro alla presidenza.
I dirigenti laureati in Giurisprudenza sono 114, quelli con un titolo in Ingegneria 198 e quelli in Scienze matematiche e
fisiche naturali 132. In soldoni, la Regione che non fa concorsi pubblici da venti anni, non vara da decenni un vero
piano di assunzioni in base al reale fabbisogno. Non si spiegano altrimenti questi numeri. Di certo c’è comunque che da
qui al 2020 il numero dei laureati è destinato a scendere ancora: i dirigenti con i pensionamenti passeranno dai 1.328 di
oggi a 798 e nel comparto andranno via 5 mila dipendenti, un terzo tra quelli oggi in servizio. La speranza è che
finalmente si facciano assunzioni con concorsi e per professionalità davvero necessarie alla pubblica amministrazione.
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POLITICA                                                                                                   4/10/2018

Il retroscena
La kermesse renziana

Alla “ Leopoldina” prove di dialogo Pd-
Miccichè
Sfilata di big all’iniziativa di Faraone Fra gli invitati le possibili sponde a destra

EMANUELE LAURIA

Una sfilata di big per tentare di rilanciare il Pd in Sicilia: Delrio, Minniti, Guerini, Rosato. Tutti sul palco di Santa
Cecilia, domani e sabato, per tracciare la via di una ripresa dopo le batoste alle Regionali, alle Politiche e alle
amministrative. È la “Leopolda” in salsa sicula di Davide Faraone, alla terza edizione, che giunge nel momento più buio
per i dem — privi anche di una sede nell’Isola — ma che inevitabilmente diventa un crocevia verso un futuro segnato
dai congressi. E a far discutere, in una due giorni fitta di appuntamenti, sarà soprattutto il confronto con gli esponenti
di un centrodestra moderato cui i dem, o almeno la componente più marcatamente renziana, guardano in chiave anti-
populista.
I tempi sono maturi almeno per scommettere su una prova di vitalità, in Sicilia, del partito-guida di un centrosinistra
che finora è sembrato non aver superato lo choc del post-Crocetta. Spaventa la crescita della Lega, sono ormai
tristemente assodate — in casa Pd — le dimensioni del fenomeno 5 Stelle al Sud. Ci sono gli spazi politici per
un’opposizione al governo gialloverde anche da questa parte dello Stretto?
Di questo si parlerà alla “Leopolda”. Sullo sfondo due tesi differenti. Chi si ritrova nella candidatura di Zingaretti alla
segreteria nazionale (per ora l’unica in campo) crede nella rinascita di un centrosinistra tradizionale e a un dialogo con
M5S, almeno con il suo elettorato. I renziani, che stanno per ora dall’altra parte della contesa, puntano invece sulla
costruzione di un’area popolare e riformista che conquisti anche chi, dentro il centrodestra, vive con sofferenza la
deriva leghista, l’ascesa di Salvini e le posizioni nordiste e di chiusura sul tema immigrazione.
In questo senso centrale è la presenza di Gianfranco Micciché, presidente dell’Ars e simbolo di una Forza Italia che
non vuole piegarsi all’egemonia del Carroccio. Faraone l’ha voluto insieme ai protagonisti della protesta simbolica
contro lo stop allo sbarco della Diciotti, assieme ad esponenti di sinistra come Laura Boldrini o come il deputato
palermitano di Leu Erasmo Palazzotto. Ma l’invito a Micciché, diventato celebre anche per avere dato dello “stronzo” a
Salvini, non può non avere un significato più largo: le sue posizioni sull’immigrazione e contro la Lega, non comuni nel
suo partito, vengono definite “coraggiose e interessanti” dagli orgaizzatori. E Micciché, fino all’ultimo in dubbio per via
di una partenza per gli States, non si tira indietro: «Io la mia posizione l’ho espressa chiaramente, dicendo che non
voglio morire razzista. Che ci sia bisogno, in Italia, di un fronte moderato che vada oltre il centrodestra e il
centrosinistra non ci sono dubbi. Come questo si possa realizzare, è presto per dirlo: e purtroppo non possiamo
deciderlo da soli io e Faraone». I prossimi mesi saranno decisivi: bisognerà vedere cosa farà Renzi prima e dopo il
congresso e se ci sarà una spaccatura dentro Fi fra i filo-leghisti e gli eletti nel Mezzogiorno. Intanto, Santa Cecilia è un
primo luogo di confronto. E in questo senso interessante sarà anche la presenza dell’ex presidente della Camera
Pierferdinando Casini, esponente di un centrosinistra moderato, e sul piano regionale, dell’assessore Roberto Lagalla,
che proviene dalla stessa area politica ma in Sicilia fa parte di una giunta di centrodestra. Le grandi manovre sono (ri)
cominciate.
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POL:>ANSA-BOX/ Sos Province, serve manutenzione 65%       2018-10-03
ponti e viadotti                                                   19:26
>ANSA-BOX/ Sos Province, serve manutenzione 65% ponti e viadotti
Costo oltre 3mld.Variati(Upi), 'ma intanto 730mln in dl Genova'
ROMA
(ANSA) - ROMA, 3 OTT - Il 65% delle opere gestite dalle Province
necessita di interventi urgenti di manutenzione. Si tratta di 30
mila infrastrutture, soprattutto ponti, viadotti e gallerie. Ingente
secondo l'Unione delle Province d'Italia il costo per gli
interventi: poco più di 3 miliardi di euro. Dopo la tragedia del
viadotto Polcevera le Province riaccendono dunque i riflettori sulle
loro infrastrutture rendendo noti i risultati di un monitoraggio
sollecitato dal Mit a cui tutti i 76 Enti a statuto ordinario hanno
risposto. Dai dati emerge che 5.931 opere sono già sotto
l'attenzione delle Province, peraltro con un quadro di interventi
chiaro, così come il totale delle risorse necessarie, che ammonta a
2 miliardi 454 mila euro. Sul totale, 1.918 opere sono stimate dai
tecnici in 'priorità 1', necessitanti cioè di interventi urgenti,
con alcune già soggette a limitazione del transito, se non chiuse.
Altre 14.089 sono considerate dai tecnici come opere da sottoporre a
indagini tecnico-diagnostiche urgenti, il cui costo ammonterebbe a
oltre 566 milioni. Variati chiede quindi al governo di accelerare i
tempi e di "stanziare almeno 730 milioni per le manutenzioni delle
infrastrutture a 'priorità 1', impegno che dovrebbe essere inserito
nel dl Genova". A questo stato di cose ha contribuito in maniera
pesante, ha insistito Variati, il calo degli investimenti delle
Province, oggetto di una drastica sforbiciata, il 51%, tra il 2013 e
il 2017, passando da 1,328 miliardi a 712 milioni. Per questa
ragione l'Upi pungola il governo, segnalando che l'ammontare di 1,5
miliardi per il Fondo di investimenti per le opere di manutenzione
straordinaria viaria "è del tutto insufficiente e assolutamente non
paragonabile agli oltre 22 mila euro a km di cui dispone l'Anas per
la rete stradale, o ai 120 mila euro a km per la rete autostradale".
Per Carlo Riva Vercellotti, presidente della Provincia di Vercelli e
vicepresidente Upi, "all'ammaloramento delle infrastrutture viarie,
e non solo, ha contribuito il fatto che dal 2015 al 2017 il Mit ha
stanziato zero euro per gli investimenti finalizzati alle
manutenzioni. E ora, nel 2018, abbiamo a disposizione 120 milioni, e
tutto ciò è criminale", ha commentato. "In linea con quanto
dichiarato dal governo - ha aggiunto l'amministratore piemontese -
per far ripartire l'economia è necessario riavviare gli
investimenti, unico modo con cui si possono dare risposte efficaci
sulla sicurezza. Cosa che si sarebbe continuato a fare se i nostri
enti avessero potuto far conto ancora sulle risorse derivanti dalla
RcAuto e dall'imposta di trasferimento di proprietà, ma dalla legge
di bilancio del 2014 lo Stato ha avviato un prelievo forzoso,
giudicato peraltro 'irragionevole' anche dalla Corte dei Conti".
L'ammontare complessivo era pari a 2,4 miliardi per la RcAuto e a
1,4 miliardi per l'Ipt.(ANSA).

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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   4 OTTOBRE 2018

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Manovra nel limbo

Def, annuncio bis senza cifre Sul deficit
l’incognita spread
tommaso ciriaco carmelo lopapa,

Sfida alla Ue sul disavanzo al 2,4, ma Palazzo Chigi valuta di ridurlo in caso di Btp-Bund a 400 Lite Di Maio- Tria sul
reddito, poi il vicepremier va di nuovo a fare festa in un barcone sul Tevere
roma
Il Def non c’è, anche se viene annunciato per la seconda volta in quattro giorni. Esiste soltanto una photo opportunity
del governo nella sala stampa di Palazzo Chigi e una festa notturna del gotha grillino su un barcone del Tevere, per
celebrare un reddito di cittadinanza che non sembra avere le coperture. Mancano ancora le tabelle, mentre i megafoni di
Cinquestelle e Lega litigano fino a notte sulle risorse. Neanche il deficit al 2,4% è reale, l’esplosione della spesa prevista
lo ha fatto già lievitare, come fanno notare i tecnici ai ministri. C’è soltanto una promessa politica di Luigi Di Maio,
ripetuta durante l’ennesimo vertice nella sede del governo: « Anche se l’Europa boccia la manovra, noi non la
cambiamo » . Il progetto è tirare al massimo la corda, anche a costo di pagare un prezzo alto sui mercati come sta già
avvenendo. Scommettendo sul fatto che l’Unione accetti un compromesso piuttosto che mandare in malora l’eurozona.
Ma c’è una " zona rossa" varcata la quale la scommessa è già persa: la soglia spread a 400.
L’allerta è già scattata a Palazzo Chigi: nelle ultime ore sul tavolo di Giuseppe Conte è planata una proiezione da brividi
che rimetterebbe tutto in discussione. Se lo spread supera e si mantiene oltre il limite dei 400, l’intero sistema rischia di
cedere rapidamente. È un punto di non ritorno del quale ragionano il premier e i suoi vice, assieme a Giovanni Tria e a
Giancarlo Giorgetti. Dovesse verificarsi lo scenario estremo, Movimento e Lega si ritroverebbero di fronte a un bivio:
cambiare la manovra per raffreddare i mercati, oppure passare la mano a un esecutivo tecnico e chiedere nuove
elezioni entro marzo.
Ma prima quel Def bisognerebbe metterlo nero su bianco. Assieme a Conte, Salvini e Tria, Di Maio annuncia un
progetto di bilancio ancora pieno di spazi bianchi, frutto dei veti incrociati. Quei quattro si presentano per la prima volta
insieme davanti ai giornalisti, peccato che non lascino neanche fare domande, scatenando la protesta dell’Associazione
stampa parlamentare. «Abbiamo inviato il testo al Parlamento e all’Europa » , annuncia il vicepremier grillino. Ma alle
22 la commissione Bilancio della Camera non ha ricevuto ancora nulla. Siamo all’ennesimo annuncio a vuoto. Per i
grillini conta poco. Dal balcone di Palazzo Chigi al barcone il passo è breve, per Di Maio è sempre festa. A sera, la
comitiva si trasferisce sulla pista da ballo sul Tevere, la stessa su cui il capo grillino ha danzato per la sue festa dei
trent’anni.
Lasciano che siano i tecnici del Mef ad arrovellarsi sui numeri. Il deficit al 2,4% nel 2019 è il punto di partenza di ogni
ragionamento. Ed è la causa principale dell’impennata dello spread e dell’incertezza sui mercati. Per provare a mettere
una pezza, l’esecutivo cala durante il vertice un secondo colpo di forbice sul deficit dei due anni successivi,
cancellando la previsione originaria del 2,4 per cento nel triennio e abbassando quella del 2020 al 2,1 e del 2021 al
1,8%.
Non basta, sa di camomilla scaduta, che infatti non tranquillizza Bruxelles. Un pasticcio aggravato da altri due duelli
interni all’esecutivo. Il primo: la sottosegretario 5S Laura Castelli propone di coprire il reddito sforbiciando il budget
destinato alla riforma delle pensioni, in modo da dimezzare la platea dei 400 mila beneficiari. Giorgetti la gela. Il
secondo: un violento litigio fra Tria e Di Maio, con il primo che propone clausole di salvaguardia per il 2020 e 2021 sul
reddito di cittadinanza mettendolo di fatto a rischio, visto che il deficit è destinato a salire. Il grillino lo stoppa.
La verità è che il governo procede a tentoni, senza avere ancora in tasca un piano B. Cosa accadrà, ad esempio, di
fronte a una bocciatura della manovra da parte dell’Europa, che avrebbe come effetto quello di scatenare ulteriormente
i mercati a causa di conti ballerini? La tesi di Paolo Savona è nota: non arretrare, si fermerà prima l’Unione. Sempre
che lo spread non sfondi prima quota quattrocento. A quel punto, addio "manovra del popolo". Per i due leader non
avrebbe più senso restare al governo. Il capo del Movimento il suo altolà lo ha fatto risuonare anche ieri: «Senza reddito
di cittadinanza io mando tutti a casa».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il capo del M5S sicuro: "Se l’Europa boccia il testo, noi andiamo avanti". E si tiene
la carta estrema del voto anticipato
Ellekappa
POLITICA                                                                                                     4/10/2018

Il caso

Battaglia Lega- 5S sulla spartizione dei soldi (
da trovare)
ROBERTO PETRINI,

ROMA
Le tabelle arriveranno oggi in Parlamento, la retromarcia dopo gli schiaffi di Bruxelles e dello spread, c’è stata. Ma non
illudiamoci che sia finita: mancano ancora 20 miliardi e le coperture sono tutte da trovare. Quello che invece è ben
chiaro è che spartizione delle risorse tra leghisti e grillini è stata fatta, come in tarda serata, dopo una guerra di cifre,
hanno dichiarato entrambe le parti: 10 miliardi sono di colore " giallo" per il reddito di cittadinanza, altri dieci sono di
colore "verde" e riguardano la modifica della Fornero (7 miliardi), la flat tax per le partite Iva (2 miliardi) e 1 miliardo (
assunzioni nelle forze dell’ordine). Il resto sta in capo a Tria: 0,2 per cento di Pil, pari a 3,4 miliardi per la politica di
investimenti sulla quale scommette il ministro dell’Economia.
Ma se questa è la spartizione politica delle risorse il tema, anche dopo il vertice di ieri, è sempre lo stesso: « Non si può
fare finanza allegra » , come ha detto ieri Tria intervenendo in Confindustria. I conti che portano al 2,4 li ha fatti lui
stesso: ha detto che con la sterilizzazione dell’Iva e le correzioni necessarie siamo al 2 per cento, più lo 0,2 per
investimenti, resterebbero 3,4 miliardi (un altro 0,2 per cento) per una " forte gradualità" del programma. Dunque se le
richieste sono di 20 miliardi, bisognerà trovarne almeno 16,5. Così il tema delle coperture resta aperto. Un passo in
avanti comunque è stato fatto indicando nelle agevolazioni fiscali alle banche uno degli obiettivi e nella lotta all’evasione
con la tracciabilità degli scontrini una fonte di gettito. Naturalmente c’è la spending review che Tria ieri ha definito
«forte».
L’aspetto positivo è comunque la clamorosa retromarcia sulle variabili di finanza pubblica. In primo luogo, l’idea di
tenere inalterato il deficit- Pil per tre anni al 2,4 per cento ha lasciato spazio ad una riduzione al 2,1 nel 2020 e all’ 1,8
nel 2021. Anche sul debito rassicurazioni: sotto 130 il rapporto con il Pil nel 2019 (il piano del precedente governo
indicava 128 per cento) e soprattutto il ministro del Tesoro ha detto che scenderà nel 2021 di 4 punti percentuali,
collocandosi al 126,5 per cento. Resta una incognita che ieri si sussurrava: i nuovi numeri sarebbero tutelati da una
nuova clausola di salvaguardia con a garanzia l’Iva, tagli alle agevolazioni fiscali o alle spese.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Una nota cerca di mettere una toppa: 10 miliardi "gialli" per il reddito e 10 "verdi"
per Fornero e flat tax
ECONOMIA                                                                                                   4/10/2018

Il caso
La misura- simbolo dei grillini

Dieci miliardi al reddito di cittadinanza ma Di
Maio: "Niente spese immorali"
VALENTINA CONTE,

ROMA
Pensione e reddito di cittadinanza «partiranno entro i primi tre mesi del 2019». Ma almeno i soldi del reddito non
potranno finanziare le «spese immorali». Il ministro del Lavoro e vicepremier Luigi Di Maio non le elenca. Ma sembra
ormai chiaro il no ai "gratta e vinci", alle slot machine, agli acquisiti reiterati «da Unieuro» (esempio caro alla
viceministra dell’Economia Laura Castelli), alle sigarette. Di Maio traccia linee guida stringenti: «Il reddito sarà erogato
su una carta e questo permette la tracciabilità», spiega.
Trascurando per ora le scontate future obiezioni del Garante della privacy. Una concezione orwelliana, da Grande
Fratello, attaccano Forza Italia e Pd.
Inevitabile l’ironia social. Come considerare d’altro canto la carta igienica a quattro veli e la Nutella? «Nel segreto del
carrello della spesa Dio ti guarda, Giggino pure», ci scherza su un utente twitter.
«È chiaro che se vado con quella carta a comprare beni non di necessità, la carta non funziona», insiste Di Maio. Lo
scopo insomma è «abolire la povertà» e nel contempo spendere «nei negozi sul suolo italiano perché vogliamo iniettare
nell’economia italiana 10 miliardi all’anno per tre anni e così far ripartire i consumi».
Che poi non saranno proprio 10, perché un miliardo va ai centri per l’impiego. Dote dimezzata in pochi giorni. «Datemi
il tempo di metterli a posto e un software per gestirli», rassicura il ministro. Basteranno 3 mesi?
Ecco che per reddito e pensione di cittadinanza (l’aumento delle minime a 780 euro) restano 9 miliardi. E di questi,
quasi 3 lasciati in eredità dal governo Gentiloni, stanziati per il Rei.
Non sarà semplice mettere in moto la macchina.
E non solo perché non basta un software per rivitalizzare i centri per l’impiego, così che siano pronti a fare le tre
proposte di lavoro ad ogni percettore del reddito di cittadinanza (si perde se si rifiutano). Bisogna mettere a punto il
sistema elettronico che consentirà ai bancomat e alle carte esistenti (o quelle virtuali alla stregua di PayPal) di
funzionare come strumento di spesa del reddito. Basterà digitare un Pin ad hoc - il "Pin di cittadinanza" - per attivare il
"borsellino" dello Stato, pronto a rimborsare l’esercente. Come impedire però gli acquisti «immorali» o «non italiani»,
visto che basta fare spesa su Internet - ad esempio su Amazon - per mandare all’estero i soldi pubblici? Ci sarà tempo,
di qui al 15 ottobre per mettere a punto i dettagli.
Per chiarire ad esempio in che modo il reddito sarà legato all’Isee. La prima casa di proprietà peserà, dice ora Di Maio
(non era così nell’idea originaria del M5S). L’affitto figurativo - quello che si sarebbe incassato se l’immobile fosse
dato in locazione - sarà scalato dall’assegno. E se i 780 euro non si spendono tutti, il resto rimane allo Stato. Meglio
allora «comprarsi un divano col reddito», si legge in un tweet. Un posto comodo «per goderselo».
Sempre che non sia «immorale».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il reddito si spenderà negli esercizi commerciali e nelle aziende italiane per i beni di
prima necessità Quindi non spese pazze e spese inutili
ECONOMIA                                                                                                    4/10/2018

Lo scenario
Gli ostacoli per il governo

Già pronto il "no" della Ue a Roma e il
prossimo colpo verrà dal rating
Entro il 15 bisogna mandare alla Commissione il Documento di bilancio con le cifre esatte
Per il 29 ottobre la risposta, che si preannuncia negativa. E il 26 tocca a Standard & Poor’s

CLAUDIO TITO,

ROMA
La lettera è già pronta.
Sarà recapitata a Palazzo Chigi negli ultimi dieci giorni del mese.
L’Unione europea con quella missiva boccerà la manovra economica del governo italiano.
Una prima comunicazione, del tutto informale, di quel che accadrà nelle prossime settimane è già stata trasmessa
all’esecutivo di Conte. Se le cifre della Legge di Bilancio saranno per il 2019 quelle anticipate ieri, la procedura di
infrazione contro Roma sarà inevitabile. E lo scontro con Bruxelles, a quel punto, sarà frontale. Le trattative convulse e
nervose che hanno messo a soqquadro la maggioranza negli ultimi due giorni sono state determinate proprio
dall’indicazione arrivata dall’Ue. Il taglio al deficit per il 2020 e per il 2021 è stato un tentativo di negoziato con la
Commissione tanto goffo e scomposto quanto inutile. Sia Conte, sia Tria lo sapevano. Il rapporto deficit-pil al 2,4 per
cento nel prossimo anno da sempre non aveva alcuna possibilità di promozione. Ma la scelta di Di Maio e Salvini è del
resto volta proprio ad aprire questo fronte. La guerra con gli organismi comunitari. Anche a costo di mettere in crisi il
governo. Tra i ministri, e in particolare tra il premier e il titolare dell’Economia, si sta allora materializzando un vero e
proprio incubo. Che tutto possa precipitare nell’ultima settimana del mese. Una sorta di resa dei conti. Racchiusa in una
sigla – DPB - e in un nome Standard&Poor’s.
Il Dpb è il Documento programmatico di Bilancio. Un testo, che come prevede il regolamento comunitario, ogni
governo deve trasmettere a Bruxelles entro il 15 ottobre. E non si tratta di un documento vago in cui si può assumere
un atteggiamento evasivo sui provvedimenti da adottare. Deve contenere in maniera dettagliata tutte le cifre relative al
Pil, alle spese da sostenere e alle loro coperture. Soltanto le misure con un impatto inferiore allo 0,1 per cento del
Prodotto interno lordo possono essere meno circostanziate. Insomma il reddito di cittadinanza non può essere
occultato, l’intervento sulla legge Fornero nemmeno e forse neppure l’introduzione della flat tax per le partite Iva. Ma
soprattutto deve contenere un’indicazione che rappresenta una sorta di test preliminare.
Deve cioè spiegare se gli obiettivi di bilancio «si scostano da quelli previsti dal più recente patto di Stabilità» e «le
differenze vanno debitamente motivate». Una formula che sembra studiata su misura per il caso italiano.
Anche perchè, proprio in casi del genere, la Commissione «adotta il proprio parere entro due settimane dalla
trasmissione del progetto di documento programmatico di bilancio».
Quindi entro il 29 ottobre.
Ma solo tre giorni prima è fissato un altro appuntamento cruciale: l’agenzia di rating Standard&Poor’s emetterà la sua
pagella sull’Italia. E prevedibilmente declasserà il nostro debito pubblico.
Avvicinerà i nostri Btp ai cosiddetti titoli "spazzatura". Un eventuale doppio colpo di questo tipo non potrà che
provocare un altro scossone sui mercati finanziari e in modo particolare sulla reputazione dei titoli di Stato. Una bufera
che potrebbe prendere le forme di una nuova esplosione dello spread con i bund tedeschi. Una dinamica che sempre
più assomiglia a quella del 2011 che portò alla crisi del gabinetto Berlusconi.
Nel caso di un ulteriore aumento dei tassi di interesse, infatti, tutte le risorse grattate dal Tesoro per dar corpo a questa
manovra e dare soddisfazione alle richieste di leghisti e pentastellati, verrebbero sostanzialmente bruciate. Una
situazione che farebbe saltare definitivamente la tenuta dei nostri conti pubblici. In quel contesto, dunque, la
Commissione chiederà con la sua lettera di modificare la Legge di Stabilità. E lo farà proprio durante l’esame in
Parlamento. La risposta dell’esecutivo – che dovrà avvenire entro metà novembre – sarà la prova finale. Se Lega e
M5S confermeranno le intenzioni dichiarate in questi giorni, ossia che la manovra non cambierà, il conflitto sarà totale.
Le conseguenze imprevedibili. Sia sul piano economico, sia su quello politico. Chi investe - in modo particolare
all’estero - si chiederà ancora di più se valga la pena scegliere ancora l’Italia.
Basti pensare che a settembre, secondo l’ultimo rapporto di Bank of America, il nostro è il secondo Paese - dopo la
Gran Bretagna - da cui si vuole disinvestire. La Germania, al contrario, è quello sul quale si sposteranno ancora di più
risorse a titolo di business. Nella Nota di aggiornamento al Def illustrata ieri dal governo, del resto, restano senza
risposta una serie di interrogativi. Che la Commissione considera cruciali.
Non solo il rapporto deficit-pil che va oltre qualsiasi margine di flessibilità. Ma ci sono delle previsioni che Bruxelles già
valuta come inattendibili. Una riguarda la crescita. Secondo il ministero dell’Economia si potrebbe attestare sull’1,6 per
cento. Tutti gli organismi ufficiali non vanno oltre l’1,1. Il che fa nascere il sospetto che il deficit effettivo nel 2019
sarà intorno, se non sopra, il 3 per cento. Persino superiore alla Francia che però ha uno spread con i bnd tedeschi che
non supera i trenta punti e un rapporto debito-pil sotto il 100 per cento. E a proposito di debito, il punto debole del
nostro Paese, il Def considera una lieve discesa il prossimo anno. Ma i calcoli di tutti gli istituti hanno fissato nel
rapporto deficit-pil al 2,2 per cento come soglia limite affinchè il debito non cresca.
Sostanzialmente anche su quel versante, si rischia di disattendere gli impegni e di violare pesantemente i trattati.
La maggioranza giallo-verde, però, coltiva altri parametri di riferimento.
Le loro decisioni si basano su un rapporto diretto tra consenso e distribuzione dei soldi. Chi ha più voti, deve poter dare
più risorse al suo elettorato. Politiche di breve durata, nessuno slancio nel lungo periodo. Esattamente come accadde
negli ultimi quindici anni della Prima Repubblica. Deficit non per finanziare gli investimenti ma per conferire rendite alle
clientele elettorali. E debito pubblico alle stelle.
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ROBERTO MONALDO/ LAPRESSE
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L’incontro riservato

Mattarella convoca Salvini: tanti dubbi su
decreto sicurezza e conti pubblici
Carmelo Lopapa,

roma
Il faccia a faccia al Quirinale dura meno di un’ora. Sufficiente però a chiarirsi le idee sulla stretta per la sicurezza, ma
anche per cercare di capire che rotta intende seguire il governo sulla manovra, in questo mare in tempesta, tra borse
che tremano e Bruxelles che attacca. Incontro destinato a restare riservato, come altri allo Studio alla Vetrata, ma cade
in un momento che più delicato non si può. E l’ospite del presidente Sergio Mattarella è il vicepremier Matteo Salvini.
Primo pomeriggio, il capo del Viminale ha appena infiammato l’aula di Montecitorio nel corso del question time sui temi
dell’immigrazione. Ma a rendere inquieto il leader della Lega è il decreto-manifesto sulla sicurezza, approvato la
settimana scorsa in Consiglio dei ministri e non ancora firmato dal Colle. I nodi, i dubbi sulla legittimità costituzionale di
alcuni articoli non sono stati ancora sciolti del tutto, nonostante le modifiche apportate alla stesura definitiva del
pacchetto che introduce una stretta in tema di immigrazione. La presidenza vuole vederci chiaro. « Questione di ore,
conto di avere buone notizie e chiudere il percorso » dice in mattinata Salvini in tv. Nel colloquio pomeridiano con la
prima carica dello Stato emergono tutte le questioni che gli uffici legislativi hanno cerchiato in rosso, a cominciare dai
nodi legati all’eventuale automatismo della sospensione del riconoscimento della protezione umanitaria per l’immigrato
che commette reati senza una condanna definitiva, le norme transitorie che disciplinano l’entrata in vigore del decreto e
altro. Salvini spiega, argomenta, torna sui 41 articoli. Si saprà oggi se ha convinto il Colle.
Mattarella - in contatto comunque col premier Conte - chiede anche al vicepremier del Def, dei numeri che hanno
intenzione di inserire, quale deficit. L’ospite conferma il 2,4 nel 2019 e la progressiva riduzione. Inevitabile parlare del
pressing Ue sui conti italiani, l’invito finale del presidente è a non gettare altra benzina sul fuoco delle polemiche, a
smorzare i toni. «Moscovici? Parla a vanvera», ribatte il leghista al commissario Ue quando ha da poco lasciato il
Quirinale.
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