1938 Lo sport italiano contro gli ebrei
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1938 – Lo sport italiano contro gli ebrei Esiste una sola razza, quella umana. Albert Einstein Il 18 settembre 1938 fu una domenica di pallone per gli italiani. Quel giorno prendeva infatti il via il campionato di Serie A. E le sorprese non mancarono: la Roma batté in casa il Milan per 1-0 e con lo stesso punteggio la Juventus di Foni e Rava, freschi campioni del mondo, venne sconfitta dalla piccola Lucchese. Però il fatto più rilevante, quello destinato a entrare nei libri di storia, andò in scena lontano dai campi di gioco ed ebbe come scenario Trieste, dove la città era stata ricoperta da alcuni giorni con luci e insegne inneggianti al duce. Lui, Benito Mussolini, gran capo del fascismo, sbarcò sul molo giuliano di mattina, vestito con la divisa militare che indossava dalla conquista dell’Etiopia di due anni prima. Sfilò lungo le vie del centro, cibandosi del solito bagno di folla, e poi scelse piazza dell’Unità per scandire il discorso sulla razza, portato nelle case gli italiani dall’Eiar, l’Ente radiofonico nazionale. Fu un colpo duro per tutti. Con quelle parole minacciose, sfrontate, l’Italia entrava ufficialmente nella stagione delle leggi razziali. Fu un risveglio brusco e insopportabile per migliaia di ebrei presenti nel Paese, alcuni attivi patrioti sin dai tempi del Risorgimento, altri fascisti della prima ora. Per molti si spense lì ogni passione politica, si chiuse la dimensione civile e pubblica della loro vita. Di colpo, sparì in tutti la sicurezza data dalle abitudini quotidiane, dai ritmi scanditi dal fluire normale del tempo, e tra queste mutò all’istante la vita degli sportivi ebrei, visto che le leggi investirono società di Serie A e circoli sportivi, atleti di ogni disciplina, i campi da tennis come i ring del pugilato. Una bufera esistenziale poco nota, pochissimo raccontata, ma che accadeva esattamente 80 anni fa nello sport del nostro Paese. Va detto che sino ad allora, l’Italia non si era mai professata razzista, distante dall’ossessione antisemita che Adolf Hitler portava avanti, in Germania, dalla salita al potere e dalle leggi di Norimberga del 1935. Qualche anno prima, in una intervista rilasciata al giornalista americano Emil
Ludwig, Mussolini si era tenuto neutrale rispetto alla materia. Ma qualcosa da un paio di anni era cambiato e stava continuando a cambiare in quei mesi del 1938. In febbraio era giunta l’informazione diplomatica n° 14, il primo, vero atto ufficiale sul tema razziale in Italia. A quel provvedimento sarebbero seguiti i virulenti attacchi dell’estate e l’impianto normativo dell’autunno. A cambiare le convinzioni e i sentimenti di Mussolini erano stati due fattori. Il primo risiedeva nell’alleanza con il nazismo tedesco, rafforzato dall’unione dei Paesi durante la guerra civile di Spagna tra il 1936 e il 1939, e da una serie di incontri fra i due dittatori, ultimo dei quali nel maggio del 1938. Ai quali si aggiungevano le legislazioni antiebraiche varare da Paesi come Romani, Slovacchia, Ungheria e Polonia. Il secondo fattore, ancora più decisivo, risaliva alla precedente campagna d’Africa, conclusa con l’ingresso delle nostre truppe ad Addis Abeba nel maggio 1936. In quella vicenda, gli italiani erano entrati in contatto per la prima volta con altri gruppi, con etnie diverse. E quell’incontro, lungi dall’aprire la Nazione al nuovo mondo, aveva acceso in Mussolini e nei suoi collaboratori una crescente fobia per la contaminazione. Nello scatolone di sabbia che il fascismo chiamava impero, fu scorta l’insidia del “meticciato”, cioè dell’incrocio tra il sangue italiano – giudicato superiore – e la “negritudine”. Tanto che la legge n. 880 del 19 aprile 1937 vietò il “madamato”, ogni unione tra i nostri soldati e donne africane. Stando all’ambito sportivo, la proibizione fu estesa ai tornei di calcio: nessun contatto era più ammesso tra le squadre dei primi coloni e le squadre locali. Il 14 luglio 1938, due mesi prima che Mussolini tenesse il discorso di Trieste, era stato pubblicato il manifesto della razza, firmato da antropologi, medici e docenti universitari. Si scoprirà più tardi quanto l’apporto dello stesso Mussolini e del ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri, fosse stato fondamentale nella stesura dei 10 punti. Eccone alcuni: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana/ Esistono grandi razze e piccole razze/ È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti/ Esiste ormai una pura razza italiana”. Sfidando il ridicolo, un ultimo punto sosteneva che “la popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana”. Ma visto l’aspetto poco biondo e per nulla muscolare dei nostri ragazzi, venne varata la categoria dei sedicenti ariani-mediterranei. Cioè noi. Lo sport non rimase fuori. Tra i dieci firmatari, di cui l’unico noto a un pubblico più ampio era Nicola Pende, comparve Lino Businco, docente di Allergologia alla Sapienza di Roma, soprattutto collaboratore dello Sport Fascista, giornale che da qualche anno occupava le edicole. Per lui, i dieci punti del manifesto andavano applicati allo sport. Perché la razza – questo era il suo pensiero - andava conservata e rafforzata attraverso la pratica. La differenza scientifica con altre etnie, insisteva Businco nel manifesto del 9 settembre 1938, era all’origine dell’affermazione italiana in alcune discipline e il fine ultimo doveva essere preservare integrità e prestigio della razza. Era come se l’Uomo Nuovo auspicato da Mussolini, lontano nei costumi e nei modi dalla pigrizia borghese, coincidesse in modo perfetto con i corpi dei migliori atleti nazionali, spesso ritratti in alcuni manifesti dell’epoca e nelle prime immagini dell’Istituto Luce. Secondo i difensori della purezza, che stando a Julius Evola e ad altri ideologi doveva invece essere spirituale prima ancora che biologica, tutto passava per il rafforzamento fisico e morale della stirpe. Il campione non era più solo tale, ma diventava “campione di razza”. Lo sport fu considerato lo strumento ideale per rigenerare una popolazione uscita malconcia dalla miseria dei lunghi secoli, dalle privazioni e dalle malattie, assecondando il sogno di nuova potenza. E i numeri suonavano impressionanti: dalla salita al potere del fascismo, nel 1922, l’Atletica leggera aveva aumentato di dieci volte gli iscritti, il calcio era passato da poco più di 2mila tesserati a oltre 50mila, il ciclismo era aumentato di quattro volte e il tennis, dai 500 iscritti del primo dopoguerra, era salito alla vigilia della seconda guerra mondiale sino a 7.500.
Il duce, in proprio, non era un grande sportivo, si destreggiava con la racchetta in qualche scambio nel giardino di casa sua, a Villa Torlonia, con il campione del mondo di calcio Eraldo Monzeglio, già terzino di Bologna e Roma. E si esibiva talvolta a cavallo, più che altro per coltivare il mito dell’uomo forte voluto dalla provvidenza. Trebbiava, arava, nuotava nel mare per piacere alle donne e pure agli uomini. In compenso, aveva dato grande importanza allo sport come macchina per il consenso, frutto del fiuto di giornalista che lo portava a interpretare i gusti popolari prima di altri. L’ingresso delle masse nella storia attraverso lo sport era un’occasione irripetibile e l’ex maestro elementare lo colse al volo. Il maggiore tempo libero delle classi operaie, grazie alle conquiste sull’orario di lavoro, aveva favorito gli hobby, il dopolavoro, lo sport. Mussolini fece defluire tutto questo nelle associazioni giovanili fasciste e dall’altro lato, per giornali e tv, si fece fotografare sempre di più negli stadi. Aveva adottato la Nazionale azzurra di Vittorio Pozzo, la squadra in grado di vincere due volte di seguito il Mondiale tra il ‘34 e il ‘38, grazie ai gol di Giuseppe Meazza, alle geometrie di Giovanni Ferrari e a un gruppo di oriundi – quali Orsi, Monti, Guaita e Andreolo - ritenuti più italiani degli ebrei per via del sangue degli antenati. La Nazionale, vincitrice anche delle Olimpiadi del 1936 con un gruppo di studenti guidati in quel caso dall’occhialuto Frossi, fu ricevuta più volte a Palazzo Venezia, col capo del fascismo affiancato nella circostanza da Achille Starace e dal fidatissimo collaboratore di questi, Giorgio Vaccaro, presidente della Federcalcio. Del resto, a rimarcare l’importanza dello sport per il regime, il ruolo di segretario del Partito nazionale fascista coincideva per statuto, dalla metà degli Anni 20, con quello di capo del Coni. Nel giro di pochi anni sorsero moltissimi nuovi stadi, oltre 2.000 secondi i calcoli del Partito nazionale fascista. Da Bologna a Firenze, da Livorno a Torino, cambiò la faccia degli impianti, molti di allora rimasti purtroppo gli stessi di oggi. Ma Mussolini estese la maniacale propaganda ad altre discipline, ad altri campioni dello sport. Il più celebrato fu Primo Carnera, alto oltre due metri e dunque immagine perfetta, quasi plastica, della forza muscolare e della giovinezza del fascismo. Un accostamento mantenuto intatto fino a quando il gigante di Sequals, eroe nazionale, non cadde al tappeto contro l’ebreo Max Baer, il quale aveva combattuto con la stella di David cucita sui calzoncini. Una notizia tanto sconveniente da costringere il Minculpop, l’ala del ministero che si occupava della stampa, ad affrettarsi a cancellarla dai giornali con un’apposita velina. La propaganda riguardò meno il ciclismo, sport povero, eppure amatissimo dagli italiani, grazie alle imprese di Gino Bartali, l’uomo che durante la guerra avrebbe salvato molti ebrei mascherandosi da staffetta lungo l’Appennino, e che proprio in quell’estate del 1938 trionfava al Tour de France. Nella scia della velocità, cara al futurismo di Marinetti, molto spazio fu dato a Tazio Nuvolari, vincitore del GP di Italia e di Inghilterra, e alle due ruote di Omobono Tenni, trionfatore a Monza su MotoGuzzi. Con loro, la velocista Claudia Testoni, trionfatrice europea degli 80 metri ostacoli, due anni dopo il successo di Ondina Valla nella stessa specialità alle Olimpiadi di Berlino, prima azzurra medaglia d’oro nella storia. Anche le donne servivano ora alla causa, come il basket femminile campione d’Europa. E il trionfo del cavallo Nearco a Parigi fu un altro sigillo del regime. Simbolo della Terza Roma vagheggiata da Mussolini, lo sport divenne dunque palestra formativa ed elemento esponenziale nella politica della razza, una sorta di necessaria premessa per sostenere le leggi di Stato pronte a essere varate. I primi provvedimenti antisemiti si svilupparono nell’ambito dello sport attraverso gli allenatori di calcio. All’inizio della stagione 1938-39, più della metà dei tecnici di Serie A era straniera e la gran parte era di origine danubiana, là dove il calcio si era espanso enormemente tra le due guerre. Di questo gruppo, facevano parte alcuni allenatori ebrei, e su di essi si abbatterono le conseguenze più immediate. Va ricordato che dopo la pubblicazione del manifesto
della razza, una sorta di piattaforma ideologica indispensabile a giustificare la persecuzione legislativa, le prime norme colpirono, agli inizi di settembre, allievi e insegnanti ebrei delle scuole e gli ebrei stranieri. Questi, se entrati nel Regno dopo il 1919, erano ora costretti a lasciarlo entro sei mesi per imposizione del decreto n° 1381. Un terzo di essi, quasi 3mila persone, otterrà la proroga. Purtroppo però nessuno nell'ambito dello sport, visto che essere personaggi popolari costituiva in questo caso un'aggravante. Se il provvedimento fu in sé vergognoso, altrettanto oltraggiosa fu la ferocia mostrata nella circostanza dai giornali sportivi, protagonisti – al pari di tutta la stampa italiana - di una lunga campagna diffamatoria. Merita rileggere quanto scrisse il Calcio Illustrato, principale periodico, in un documento di forte impatto. Il titolo recita semplicemente BONIFICA: “La vigorosa e decisa opera di difesa della razza intrapresa dal regime, avrà naturalmente le sue conseguenze benefiche anche nel campo sportivo, per quanto, in fatto di atleti militanti, non debbano essere molti gli ebrei. Riguardo al mondo calcistico, che è quello che ci interessa più da vicino, vi è però una zona in cui si è trapiantata, crediamo, una discreta rappresentanza israelita straniera, ed è quella degli allenatori. Non riteniamo di dovere fare dei nomi, ma è certo che fra i moltissimi allenatori danubiani non mancano gli israeliti. Ebbene, che costoro – venuti tutti fra noi dopo il 1919- debbano far le valigie entro sei mesi, non ci rincresce davvero, poiché così finiranno di vendere fumo con quell’arte imbonitoria propria della razza e lasceranno i posti a tanti ex-giocatori di razza italiana che sono benissimo in grado di tenerli, e che al confronto con gli stranieri di cui sopra non sono inferiori che sotto una voce: la faccia tosta! La bonifica della razza è pertanto destinata ad avere più che salutari conseguenze calcistiche”. I primatisti della faccia tosta, per dirla con l’anonimo estensore dell’articolo, si chiamavano Jeno Konrad, costretto a lasciare la panchina della Triestina e a cercarsi lavoro prima in Francia e poi in Portogallo; Vilmos Wilheim, obbligato a lasciare l’incarico nel Padova, tornato al suo posto solo a guerra finita; Erno Egri Erbstein, allenatore del Torino, espulso dal Paese e salvato dal coraggio del presidente granata Ferruccio Novo, che lo nominò rappresentante della sua azienda a Budapest, condividendo con lui la costruzione del Grande Torino, assieme al quale Erbstein morirà a Superga nel 1949. E ancora: Imre Hermann, tecnico del Treviso, licenziato dal club; Gyula Feldmann allontanato la stagione precedente dal Torino. Tutti loro, mettendosi al riparo, riusciranno a salvarsi la vita. Cosa che invece non riuscirà al più vincente e sfortunato di tutti: Arpad Weisz. La storia di Weisz è la principale nell’ambito delle leggi razziali dello sport italiano. Nato nel 1896 a Solt, in Ungheria, era giunto in Italia come calciatore. In seguito a un infortunio e alla Carta di Viareggio, che nel 1926 aveva escluso l’utilizzo degli stranieri, l’ex studente di giurisprudenza di Budapest era passato a fare l’allenatore. Con ottimi risultati. Vincitore dello scudetto con l’Inter nel 1930, ad appena 34 anni, un primato anagrafico che tutt’ora gli appartiene, dopo una salvezza con il Bari e un brevissimo passaggio a Novara, raggiunse l’apice della carriera con il Bologna. Due scudetti consecutivi vinti tra il 1936 e il 1937, assieme alla conquista del Trofeo delle Esposizioni a Parigi contro i maestri del Chelsea, e un terzo titolo già avviato nel 1938-39, quando fu obbligato a lasciare il Paese, lo stesso Paese al quale aveva donato sei calciatori iridati, a partire da Giuseppe Meazza, fatto debuttare nell’Inter a 16 anni. Weisz uscì dall’Italia nel gennaio del 1939, riparando prima a Parigi e in seguito in Olanda, dove fu allenatore del Dordrecht. Proprio nella cittadina al confine con la Germania verrà catturato, nell’agosto del 1942, con la moglie Elena e i figli Roberto e Clara, entrambi nati a Milano ed entrambi
cresciuti nella bolognese via Valeriani, sotto il portico di San Luca. Saranno uccisi ad Auschwitz. Doloroso sapere che tra i collaboratori del Calcio Illustrato, così duro contro i tecnici ebrei, ci fosse stato il magiaro, in un articolo da lui firmato nel 1937. Il nome di Weisz, al pari di molti ebrei presenti nel Paese, compare nel censimento del 1938. Il 22 agosto di quell’anno, infatti, il Ministero degli Interni, attraverso la nuova Direzione generale per la demografia e razza, abbreviata in Demorazza, dispose una rilevazione su base razzista degli ebrei residenti in Italia. Era l’atto necessario a iniziare la strategia di separazione dal resto della popolazione, schedando e registrando ogni nome. L’obiettivo era capire chi fossero i nemici dell’italianità, gli stessi che fino al giorno prima erano stati amici di scuola, colleghi di lavoro, compagni di squadra. Risultarono 58.412 persone con un genitore ebreo e 46.656 di essi si dichiararono ebrei, di cui 37.341 stranieri e 9.415 italiani, le cui schede prefettizie sono conservate all’Archivio di Stato di Roma. La proporzione era di un ebreo su mille italiani. E quella fu la percentuale che Mussolini provò a imporre a tutte le categorie professionali: avvocati, medici, professori universitari. Il principio fu ancora più duro per gli impiegati pubblici, estromessi al completo dagli organigrammi statali. Il calcio non sfuggiva alle regole proporzionali. Detto degli allenatori stranieri, un’altra categoria presa di mira dal regime fu quella dei presidenti. Il caso più clamoroso riguardava Raffaele Jaffe, già numero uno del Casale calcio, colui che era stato capace nel 1914 di rompere l’egemonia della vicina Pro Vercelli e di portare i nerostellati alla vittoria del campionato. Fondatore della società, nonché cassiere, segretario, allenatore e infine presidente, il garbato professore dell’Istituto Leardi di Casale Monferrato verrà arrestato dalla polizia fascista il 16 febbraio 1944, internato nel campo di Fossoli, luogo di concentramento nei pressi di Carpi da cui passarono quasi tutte le vittime italiane, e infine deportato ad Auschwitz. Qui morirà poche ore dopo l’arrivo nell'agosto 1944. Diverse sue lettere, scritte durante la prigionia, sono attualmente conservate al Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. La follia non risparmiò altri suoi colleghi. Pochi sanno ancora adesso chi sia stato il fondatore del Napoli, e questo perché l’imprenditore tessile Giorgio Ascarelli si vide privato del nome sullo stadio subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1930. Lo stadio Ascarelli, lo stesso che ospitò le partite del Mondiale 1934 e da lui interamente finanziato, finì per chiamarsi Stadio Partenopeo, prima che venisse raso al suolo dai bombardamenti alleati nel 1942. Oggi, su quel terreno, sorge un rione di Napoli, fatto di case e palazzi, di vita quotidiana, e porta proprio il nome di quel vecchio presidente che il regime tentò e in parte riuscì a cancellare. La colpa di Ascarelli? Essere ebreo, sufficiente a cancellarne ogni ricordo. Eppure aveva portato Attila Sallustro fino alla Nazionale, aveva ingaggiato grandi allenatori come Carlo Carcano e l’inglese William Garbutt, cui dobbiamo il termine Mister utilizzato per indicare gli allenatori. Se Ascarelli fu cancellato dalle liste, al romanista Renato Sacerdoti, fondatore del club e padre dello stadio Testaccio, un gioiello per l’epoca da 20 mila posti su cui la Roma scrisse pagine memorabili della sua storia, toccò un linciaggio non minore, accusato da politici e giornali di essere al centro di uno scandalo mai provato. Come racconta il massimo storico del ventennio, Renzo De Felice, “la popolarità del Sacerdoti fu sfruttata in ogni maniera dalla propaganda fascista, che lo montò al massimo sottolineandone le origini ebraiche”. In pratica, lo accusarono di avere dato un milione di lire a uno spallone di frontiera per recapitarlo in Svizzera. Condannato a 5 anni di confino, anche lui riuscirà miracolosamente a salvarsi, trovando riparo nel Convento di San Pietro in Montorio dopo l’8 settembre, quando la caccia all’ebreo si farà massiccia, specie a Roma. Sacerdoti tornerà alla guida del club nel Dopoguerra e farà in tempo, prima dell’addio nel 1958, a portare in giallorosso il campione del mondo uruguaiano Ghiggia.
Il discorso pronunciato da Mussolini a Trieste non fu l’ultimo passo dell’escalation razzista. Il 6 ottobre, appena 23 giorni dopo, lo stesso Mussolini firmò la Dichiarazione sulla razza al Gran consiglio del fascismo. Il tutto si inseriva in un clima di odio fomentato da tempo dalla propaganda. La saggistica, attraverso libri colmi di veleno, alzava il tiro: dopo la pubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion, un falso storico creato nella Russia zarista e destinato a seminare altro disprezzo, fu “Gli ebrei in Italia” di Paolo Orano ad aprire un’ulteriore stagione nella corsa al discredito. Gli ingredienti erano noti: un pregiudizio severo, un linguaggio violento, le accuse continue rivolte al sionismo internazionale, colpevole di sostenere il capitalismo di Stati Uniti, Inghilterra e Francia, nostri nemici sulla cartina del mondo. I giornali, come detto, non diedero tregua. Vignette, caricature, una satira sempre più violenta e sconcia. Il più integralista dei fogli fu la Difesa della Razza, uscito nell’estate del 1938 a firma del siciliano Telesio Interlandi, in passato direttore del Tevere e spregiudicato polemista. Su quel quindicinale, impaginato e scritto in via delle Mercede, a pochi passi da Trinità dei Monti, comparivano l’esame delle caratteristiche fisiche delle razze, la fisionomica attribuita ai vari popoli, un insieme di folli elaborazioni con l’unica finalità di suscitare il risentimento nei confronti degli ebrei. I giornali sportivi non si tirarono indietro nemmeno loro: sulla Gazzetta dello Sport, Bruno Roghi esaltava il “genio della razza”. Stesso concetto espresso dallo Sport Fascista, che asseriva convinto come “lo sport è uno dei più efficaci mezzi per la difesa della nostra razza”. Sul Littoriale, l’attuale Corriere dello Sport, si leggeva: “Gli sport idonei alla nostra razza sono anche i migliori per preparare la gioventù alla vita pratica del soldato”. Emilio De Martino, tra le firme più famose del giornalismo dell’epoca, fu pure più esplicito nel libro “Tre volte campioni del mondo”. Scrisse: “Ha vinto la virtù della razza”. A quest’ultimo aspetto guardò in modo deciso il Coni, che aveva – allora come oggi – la responsabilità dell’intero movimento sportivo. Purtroppo non soltanto non si sottrasse al fango ideologico che copriva l’Italia dell’epoca, ma ne fu invece attivo protagonista e spesso motore. La missione fu esplicitata da un’indicazione data dal Comitato olimpico italiano alle Federazioni e, a cascata, alle associazioni sul territorio. Già dalla fine del 1938, fu chiesto a tutti di inserire nei loro statuti una dicitura: “Condizione indispensabile per poter essere soci della società è l’appartenenza alla razza ariana”. Ancora più aberrante sarà la norma programmatica del 1942, che reciterà: “Tra i compiti del Coni c’è l’indirizzo verso il perfezionamento atletico, con particolare riguardo al miglioramento fisico e morale della razza”. Del resto, il Coni era emanazione diretta del regime, al punto che ne era capo Achille Starace, braccio destro di Mussolini, ideologo e scenografo della peggiore retorica fascista, assertore della vigoria fisica, con risultati piuttosto comici quando erano lui e o altri gerarchi a doversi trasformare in uomini sportivi. Ma dietro al folklore, alle parate, agli abiti in orbace, ai sabati fascisti, alle insulse marcette con moschetto, si celava tutta la pervicacia di Starace, che così si pronunciava in quei giorni: “I campioni valgono in quanto sono espressione di una razza sviluppata e potenziata. Nella bellezza del gesto atletico si deve riflettere la sanità della stirpe”. Il pensiero si propagò in fretta dal Coni alle realtà periferiche. Vaccaro si raccomandò con i presidenti di “dare assicurazioni in proposito”. La prima Federazione a espellere gli ebrei fu la Vela, il 7 dicembre fu la volta di tennis e del ciclismo, l’11 dicembre toccò al pugilato, quindi al canottaggio. Il calcio aveva già proceduto il 30 novembre, riunendosi allo stadio del PNF di Roma, dove l'Italia era diventata Campione del Mondo quattro anni prima. Unico assente, il Ct Vittorio Pozzo. Il 20 dicembre, i lettori del Tevere, come ricorda lo storico Piergiorgio Renna, furono informati che la Società sportiva Lazio “sta provvedendo alla radiazione dei soci non di razza ariana”. In certi casi, furono i singoli circoli ad anticipare le disposizioni centrali. Valse per squadre giovanili, organizzazioni universitarie, persino circoli della caccia e sale biliardi. Vedi il caso di Trieste, di nuovo al centro questa terribile vicenda di
sport e antisemitismo. Le prime misure prese contro gli atleti ebrei si registrarono proprio nell’unica città italiana che pochi anni più tardi avrebbe ospitato – nella vicina risiera di San Sabba – l’unico campo in Italia dotato di un forno crematorio. Mentre il giornale cittadino, il Popolo di Trieste, scriveva che “i giudei vanno messi al bando anche nel settore dello sport”, e mentre i dipendenti delle assicurazioni Ras e Generali venivano licenziati in tronco, nei circoli si iniziava l’opera di segregazione. Il 14 novembre avvenne l’espulsione degli ebrei dalla Società ginnastica Triestina e dalla Triestina Nuoto. Un altro concittadino, Egone Mayer, fu espulso dagli elenchi del Cita, l’equivalente dell’attuale Can, il gruppo di arbitri chiamati a dirigere in Serie A. Sempre a Trieste, agli ebrei fu impedito di partecipare agli eventi sportivi in qualità di spettatori. I divieti aumentarono in fretta, in ogni settore. La repressione fu istituita in maniera definitiva con il regio decreto n. 1728 del 17 novembre. È quello che va considerato come l’atto finale e più importante della lunghissima sequenza di decisioni discriminatorie da parte del governo. Nel provvedimento per la difesa della razza italiana, controfirmato dal poco nobile Vittorio Emanuele III, si legge: “Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. L’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunciata e annotata nei registri dello stato civile e della popolazione”. A seguire, una serie infinita di proibizioni: divieto di prestare servizio militare; divieto di essere curatore di minore non ebreo; divieto di essere proprietari o gestori di aziende, terreni e fabbricati urbani; divieto di avere alle proprie dipendenze cittadini ariani; divieto di fare parte di amministrazioni civili o militari dello Stato, di aziende municipalizzare, di banche o di assicurazioni. In Germania, intanto, agli ebrei erano state già chiuse le piscine. Alcune restrizioni furono grottesche: non si potevano prendere i libri in prestito dalle biblioteche; non si poteva avere il porto d’armi; non si potevano esporre le carte geografiche murali di autori ebrei nelle scuole medie; non si poteva avere la licenza di guida turistica e di interprete; non si poteva esercitare la professione di notaio e, da ultimo, non si poteva nemmeno andare al mare. Un bando ridicolo, ma proprio per questo ancora più indigesto. Non a caso, con immagini che suscitano tenerezza e dolore, colpiscono le ultime fotografie scattate dalle famiglie ebree in villeggiatura, un ricordo non più ripetibile. Le leggi razziali, introdotte e compiute, si faranno sempre più pressanti nel 1939, nel 1940 e nel 1941, non risparmiando più nulla, nemmeno gli apparecchi radiofonici nelle case, la vendita di pellicce da parte di ebrei, financo l’allevamento di colombi viaggiatori, e ovviamente tutti i lavori che prevedessero un contatto con il pubblico. In questo contesto, il Coni e l’intero sport italiano furono complici e tristi protagonisti, come detto. Le società sportive dipendevano in modo diretto per la “linea politica e morale” dai segretari delle Federazioni provinciali, sotto il controllo del Partito nazionale fascista. Tradotto, significava non poter più scappare alle stringenti disposizioni del Coni, sempre più sottomesso da Achille Starace, che dal 1938 assunse il controllo dello sport per non concedere spazi alla politica repressiva del governo. Grazie a un documento mai visionato sinora, esclusivo, rispuntato dagli archivi del Comitato olimpico nazionale grazie al lavoro dello storico Marcello Pezzetti, possiamo aggiungere un capitolo decisivo alla storia delle leggi razziali nello sport italiano. Dal registro contenente le relazioni del Coni, mancano tre pagine, certamente strappate a guerra terminata da chi aveva interesse a cancellare un suo coinvolgimento. Avvenne così con centinaia, migliaia di atti pubblici sottratti o bruciati nel dopoguerra. Eppure qualcosa resta. Qualcosa di fortemente imbarazzante per il mondo dello sport. Un documento che va esaminato. Dopo le scuse di Starace per il ritardo causato dalla riunione precedente con Mussolini, leggiamo che la parola passa al suo braccio destro Giorgio Vaccaro, segretario del Coni e, come ricordato, capo della
Federazione italiana giuoco calcio, il quale plaude al grande lavoro svolto dal Coni nella promozione sportiva. Ma poi si legge: COMPLETAMENTO DELLA EPURAZIONE RAZZIALE NEI QUADRI DEL CONI In ottemperanza alle direttive che la politica del regime ha stabilito in ogni attività della Nazione, per la salvaguardia della purezza della razza, il C.O.N.I. ha provveduto alla esclusione di ogni elemento ebraico dai suoi quadri. Tale operazione razziale è oggi completa. Altro passaggio della riunione, tenuta il 23 febbraio 1939 nella sede del Coni e che lascia intuire la velocità con cui si agì nel processo di “arianizzazione” dello sport, riguarda la relazione del Coni con la famigerata Demorazza: RAPPORTI CON L’ISTITUTO DI BONIFICA UMANA ED ORTOGENESI DELLA RAZZA Il C.O.N.I. attraverso la Federazione Medici degli Sportivi ha offerto la sua collaborazione all’Istituto di Bonifica Umana ed Ortogenesi della razza di recente costituzione. Le modalità di tale collaborazione non sono state per ora precisate, ma si impernieranno nel reciproco scambio ed utilizzazione di tutto quel materiale di consultazione, di statistica, di valutazione che è possibile tra i due Enti, nel superiore intento di collaborare profondamente alla politica razziale del Regime. Sono termini spaventosi, orribili, che segnano una ferita difficile da rimarginare tra lo sport e il mondo ebraico, trattato da impostore come andava succedendo nell’Italia di quegli anni negli uffici o nelle università. Lo sport che dovrebbe sempre essere veicolo di integrazione, di unione, divenne la base per creare il razzismo in un Paese che non aveva un fondamento scientifico e nemmeno una base popolare pronta a sorreggerlo. Nella creazione del nuovo sentimento d'intolleranza, mentre tutto attorno cresceva un fanatico dibattito sull’Eugenetica, un ruolo cruciale fu richiesto alla medicina sportiva, raggruppata per la prima volta in Federazione al fine di inserire nel Coni i medici dello sport. Sotto la guida di Augusto Turati, ex segretario del Pnf, fu chiesto loro di studiare la capacità di resistenza degli adolescenti, per allevare una generazione di soldati in grado di servire la patria. E gli fu chiesto di redigere, attraverso i risultati dei gabinetti scientifici-sportivi, un rapporto semestrale sull’attività svolta. La salute e la forza erano diventati un’ossessione per il regime, impegnato a combattere malaria, tubercolosi e rachitismo, nemici antichi da fronteggiare con l’educazione fisica nelle scuole, con la costruzione delle colonie marine, con l’opera maternità e infanzia. Ai medici italiani, nel 1932, si era rivolto Mussolini con un appello: “Tutto quello che voi farete nel vostro campo per abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica e allo sport sarà ottimo”. Accanto alle nuove pubblicazioni universitarie, ai medici dello sport – come ricorda il documento del Coni – fu domandato di dialogare con i responsabili della Demorazza, in funzione dal 17 luglio 1938 e al riporto diretto del Ministro degli Interni Buffarini Guidi. Gente come Guido Landra, prototipo del razzista, assistente di antropologia all’Università di Roma, collaboratore di Interlandi alla Difesa della Razza, e più tardi Giovanni Preziosi, il più feroce persecutore di ebrei che l’Italia abbia mai conosciuto. Lo spretato Preziosi, che aveva seguito da vicino l’antisemitismo tedesco con frequenti viaggi in Germania, divenne il più efferato sostenitore della persecuzione, specie a partire dal settembre 1943, quando lui e altri personaggi come Roberto Farinacci, già podestà di Cremona, rinsaldarono il già
stretto collegamento con gli occupanti tedeschi, mettendo tra i principi ideologici della Repubblica sociale italiana la caccia agli ebrei. Vanno in effetti distinte due diverse fasi della politica antiebraica nel nostro Paese. E, con essa, delle sue ripercussioni nello sport. La prima arriva fino al 1943, fino all’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre, firmato a Cassibile cinque giorni prima con inglesi e americani. La seconda riguarda la susseguente guerra civile, quella contro l’occupante nazista in casa e dell’ormai caccia aperta, da parte di nazisti e fascisti, agli ebrei ancora presenti nello Stivale. Al Nord, al di sopra della linea gotica, il precedente antisemitismo di Stato diventerà a breve antisemitismo di sangue. Lo sport non si fermò mai durante la guerra, nemmeno negli ultimi mesi del conflitto. Badoglio fece commissariale le Federazioni, mettendo a capo della Federcalcio l’ex arbitro Giovanni Mauro. Ma ovviamente l’innalzamento delle misure persecutorie costrinse tutti gli ebrei a mettersi al riparo, dopo che dal 1940 era stato decretato l’internamento per i pochi stranieri rimasti e per quelli giudicati più pericolosi. Se qualcuno di loro era riuscito a continuare l’attività fisica, spesso falsificando il nome nel registro dei circoli sportivi, dopo il 1943 l’unica sfida di tutti fu quella di nascondersi e di cercare di sopravvivere. Nella carta di Verona, manifesto della nuova Repubblica sociale italiana, un’emanazione diretta del soverchiante alleato nazista, era specificato che “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazione nemica”. E la situazione precipito il 30 novembre, con l’ordine di polizia numero 5 del governo della RSI, che dispose l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei. Questo rese la persecuzione più sanguinaria e serrata, le squadracce i nazisti setacciarono casa per casa, registro per registro. Di ebrei italiani, compresi quelli residenti nelle isole del Dodecanneso, allora terra italiana, ne furono catturati quasi 9.000, la gran parte dei quali uccisi ad Auschwitz-Birkenau. La maggioranza proveniva da Roma, dove il 16 ottobre 1943, nel Ghetto, ma anche nei quartieri Prati, Paioli e Garbatella, venne attuato il più grande rastrellamento nella storia del nostro Paese, per quella che è e rimane la maggiore vergogna vissuta dall’Italia. La razzia nel ghetto iniziò all’alba, alle 5.30, e terminò solo alle due del pomeriggio, dopo che le vie di accesso erano state tutte bloccate. A guidare le operazioni fu l’Einsatzkommando Italien di Theodor Dannecker, lo sterminatore che aveva perseguitato gli ebrei in Francia e che si renderà responsabile – con Eichmann – della deportazione di oltre 400mila ebrei ungheresi. Via del Portico d’Ottavia, via Arenula, via Catalana, via del Progresso, via del Pianto: furono tutte le strade battute dalle camionette e dai soldati tedeschi, che arrestarono oltre 1.200 persone, poi trasportate con i camion al Collegio Militare e da qui alla Stazione Tiburtina, dove 1.022 ebrei romani partirono tre giorni più tardi alla volta di Auschwitz-Birkenau. Di loro, solo 16 torneranno vivi, 15 uomini e un’unica donna: Settimia Spizzichino. Ad Auschwitz moriranno anche i 106 bambini caricati su quel treno alla Tiburtina. Nessuno di loro si salverà. La comunità ebraica romana pagò un prezzo elevato, il più alto del Paese. I tedeschi aspettarono per ore la reazione – temuta - del vaticano. Ma Pio XII rimase in silenzio, preoccupato – si dice – di non compromettere le sorti del Vaticano e di non aggravare già difficile situazione di molti cattolici. Gli ebrei rimasero ancora una volta soli, malgrado proprio alla città avessero dato pochi anni prima un sindaco, Ernesto Nathan, e malgrado fossero in quella zona di Roma dal 1555, anno in cui Papa Paolo IV aveva deciso di creare l’Antico Ghetto a ridosso del Tevere per rinchiudervi la comunità israelitica. Eretta nel 1904, la splendida Sinagoga nel cuore del ghetto era, allora come oggi, il simbolo principale di quella comunità, che lì si trovava a pregare e che lì ha ritrovato sempre la sua identità. Fu proprio tra le panche e gli oggetti di devozione che i tedeschi entrarono per razziare i libri della biblioteca e del Collegio rabbinico. Manoscritti, incunaboli, stampe orientali risalenti al XVI secolo, gioielli unici della
cultura. Non era bastato quello, non era bastata neppure la donazione dei 50 chilogrammi imposta dai nazisti qualche settimana prima agli abitanti dell’ex ghetto. Da Berlino, Hitler era stato categorico: “Vi ordino di deportare gli ebrei di Roma”. Così accadde. Tra questi c’erano anche sportivi, in particolare c’era Leone Efrati, detto Lello. Nel 1938, per sfuggire alle prime leggi razziali, il forte "peso gallo", carnagione scura e fisico erculeo, era volato negli Stati Uniti, affrontando diversi match nell’Illinois. A Chicago aveva incontrato e sfidato il campione del mondo Leo Rodak, la notte del 29 dicembre 1938. Sui giornali italiani il suo nome non trovò mai spazio, ma molto ne fu invece dato da quelli americani, cui il pugile romano piaceva per il coraggio con cui combatteva. Sfiorò la corona del titolo NBA, ma non sopportava la lontananza da moglie e figli e per loro scelse di tornare a Roma nel 1939, continuando a incrociare i guantoni in città con pugili dilettanti, tra cui l’ebreo Giacomo Di Segni, che nel dopoguerra arriverà a disputare le Olimpiadi di Londra e di Helsinki, e Lazzaro Anticoli, conosciuto nel ghetto come Bucefalo: lui verrà ucciso alle Fosse Ardeatine. Leone Efrati venne arrestato a Roma il 7 maggio 1944, in uno degli ultimi convogli partiti dalla Capitale, e da qui trasportato a Fossoli, prima di trovare la morte ad Auschwitz nel 1944. In quel lembo polacco di ghiaccio e di orrore, lo sport non mancò. Nemmeno nel contesto macabro di quel luogo. Un’immagine rinvenuta di recente indica l’esistenza di un campo di calcio, proprio accanto ai forni crematori. In questa tragica commedia, di una vita sospesa, Efrati aveva dovuto accettare l’imposizione di salire sul ring per divertire gli aguzzini del campo e, ribellandosi ad alcuni di loro, fu massacrato di botte. In quel modo se ne andò il 28enne Lello, un italiano, un figlio di Roma. Questa inchiesta sulle leggi razziali si conclude qui. Un viaggio partito da Trieste e giunto nell’antico ghetto di Roma. Perché è da Roma, molti anni dopo la fine della guerra, che arrivano le ultime immagini antisemite. La figurina di Anna Frank con la maglia giallorossa ha fatto il giro del mondo. Una profanazione brutale quanto demenziale di una ragazzina scomparsa a Bergen Belsen. Assurdo come quello che è toccato sentire nei cori o vedere negli striscioni degli anni Duemila. Le vicende di Leone Efrati, di Arpad Weisz, dell’austriaco Cartevelina Sindelar, suicidatosi assieme alla moglie ebrea per sfuggire ai nazisti, e con loro di tutti gli oscuri sportivi che tra il 1938 e il 1945 furono costretti ad abbondare l’attività e, in molti casi a perdere la vita, devono servire a ricordarci come una società moderna debba contrastare ogni giorno il rischio di discriminazione, violenza, fanatismo, xenofobia, semplice disinteresse. Servono invece tolleranza, rispetto, altruismo, tutto quello che le leggi razziali negarono allo sport degli Anni 30 e 40. Il nostro mondo – quello dei gol, dei record, dell’attività di milioni di ragazzi e ragazze – non è un dato assicurato per sempre. Libertà e civiltà vanno difese, protette, alimentate. Assieme alla memoria.
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