Una "razza mediterranea"? - Giovanni Cerro

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Giovanni Cerro
Una „razza mediterranea“?
Il dibattito antropologico sulla questione meridionale (1897–1907)

Abstract: This article reconstructs the anthropological debate on the Southern ques-
tion, focusing on the decade between 1897 and 1907 and on three protagonists: the
statistician and criminologist Alfredo Niceforo, the economist and politician Napole-
one Colajanni and the anthropologist and psychologist Giuseppe Sergi. Sergi’s the-
ories on the Mediterranean „race“, its African origin and role in the population and
above all in the process of civilization of the European continent were used to support
opposing positions: Niceforo referred to them to affirm the backwardness of the pop-
ulation of Southern Italy; Colajanni, by contrast, employed them to defend the dignity
of the inhabitants of the South, against the advocates of the superiority and inferior-
ity of different „races“. The analysis of these discussions shows how anthropologists
and ethnologists, playing on the delicate balance between „race“ and „environment“,
contributed – in often contradictory ways – to the socio-political project of defining
Italian national identity in the early decades after Unification.

Introduzione
Alle discussioni che si svolsero in Italia sul tema della questione meridionale tra la
fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli antropologi di ispirazione lombro-
siana diedero un contributo rilevante, ancora però in larga parte inesplorato.1 Molti

1 La letteratura sulla questione meridionale è vastissima. Mi limito perciò qui a citare soltanto alcuni
studi che trattano del contributo degli antropologi a tale dibattito o che quantomeno vi accennano:
Massimo L. S alvad o ri, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci,
Torino 1976; Alberto Bu rg io/Luciano C asali (a cura di), Studi sul razzismo italiano, Bologna 1996;
Mary Gibso n, Biology or Environment? Race and Southern „Deviancy“ in the Writings of Italian
Criminologists, 1880–1920, in: Jane S ch n eid er (a cura di), Italy’s „Southern Question“. Orientalism
in one Country, New York 1998, pp. 99–115; Alberto B u rgi o (a cura di), Nel nome della razza. Il
razzismo nella storia d’Italia, 1870–1945, Bologna 1999; Roberta P a s s i o n e, Il Sud di Cesare Lom-
broso fra scienza e politica, in: Il Risorgimento 52,1 (2000), pp. 133–154; John D i ck i e, Darkest Italy.

Nota: Desidero ringraziare Carlo Altini, Lutz Klinkhammer, Antonello La Vergata, Amedeo Osti Guer-
razzi, Lucetta Scaraffia per l’incoraggiamento a scrivere questo articolo e per i loro consigli. Sono
inoltre riconoscente agli anonimi revisori di QFIAB per le loro indicazioni e a Susanne Wesely per la
cura con cui ha seguito l’intero lavoro redazionale.

Kontakt: Giovanni Cerro, giovannicerro84@gmail.com

                                              QFIAB 102 (2022)           DOI 10.1515/qufiab-2022-0018
  Open Access. © 2022 bei den Autorinnen und Autoren, publiziert von De Gruyter.            Dieses Werk
ist lizenziert unter der Creative Commons Namensnennung – Nicht-kommerziell – Keine Bearbeitungen
4.0 International Lizenz.
                                                                Una „razza mediterranea“?             387

di loro si interrogarono sulle ragioni del divario tra Nord e Sud, mescolando, non
senza incoerenze e contraddizioni, discorsi sulle „razze“, indagini criminologiche e
analisi sociopolitiche. Nell’articolo si intende ricostruire un momento di tale dibattito,
concentrandosi sul decennio compreso tra il 1897 e il 1907 e su tre protagonisti, tutti e
tre siciliani: lo statistico e criminologo Alfredo Niceforo, l’economista e uomo politico
Napoleone Colajanni e l’antropologo e psicologo Giuseppe Sergi.
     La scelta delle due date non è casuale. Il punto di avvio del dibattito fu, infatti,
la pubblicazione nel 1897 del volume di Niceforo „La delinquenza in Sardegna“, in
cui l’elevato tasso di criminalità di una precisa zona dell’isola era imputato princi-
palmente a fattori „razziali“. Questa spiegazione, presto usata da Niceforo anche per
comprendere il sottosviluppo di tutta l’Italia meridionale, era rifiutata da Colajanni,
secondo il quale erano le condizioni sociali, economiche e politiche a determinare le
differenze tra il Nord e il Sud. Dal canto suo, Sergi proponeva una terza via: pur non
disconoscendo la centralità della variabile etnica, sottolineava l’importanza dell’am-
biente. Il manifesto di questa soluzione intermedia sarà il libro „La Sardegna“, scritto
da Sergi nel 1907 e interpretato da molti lettori contemporanei come una „risposta“
a Niceforo.
     Proprio Sergi fu il vero centro di questo dibattito, dal momento che le sue teorie
sulla stirpe mediterranea, sulla sua provenienza africana e sul suo ruolo nel popo-
lamento e soprattutto nel processo di civilizzazione del continente europeo furono
usate da una fazione e dall’altra: Niceforo se ne servì per sostenere l’arretratezza della
popolazione dell’Italia meridionale (i meridionali erano impulsivi e inclini al crimine
proprio a causa della loro origine africana); al contrario, Colajanni vi fece ricorso per
difendere la dignità degli abitanti del Sud, adoperando contro i teorici delle „razze“ i

The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, 1860–1900, New York 1999; Claudia Pe t r a ccon e, Le
due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, Roma-Bari 2000; e a d., Le „due Italie“. La
questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Roma-Bari 2005; Aliza S. Wong, Race and the
Nation in Liberal Italy, 1861–1911. Meridionalism, Empire and Diaspora, New York 2006; Vito Te t i , La
razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma 2011 (nuova edizione; prima edizione
1993); Antonino De Fr an cesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Mi-
lano 2012; Giuseppe Cim in o/Renato Fo sch i, Northerners Versus Southerners. Italian Anthropology
and Psychology Faced With the „Southern Question“, in: History of Psychology 4 (2014), pp. 282–295;
John A. Davis, A Tale of Two Italys? The „Southern Question“ Past and Present, in: Erik Jo n e s/
Gianfranco Pas quino (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford 2015, pp. 53–67;
Angelo Panarese, Le „due Italie“. Liberalismo e socialismo. La questione meridionale da Croce e
Gramsci ai giorni nostri, Napoli 2016; Rhiannon Noel Wel ch, Vital Subjects. Race and Biopolitics
in Italy, 1860–1920, Liverpool 2016; Sabino Cassese (a cura di), Lezioni sul meridionalismo. Nord e
Sud nella storia d’Italia, Bologna 2016; Antonello Petrillo, Eccezione e sacrificio. Il destino „fede-
rale“ del Mezzogiorno nella sociologia, in: Cartografie sociali. Rivista di sociologia e scienze umane
1,1 (2016), pp. 31–83; Guido Pesco so lid o, Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in
Italia, Soveria Mannelli 2017; Salvatore Di M aria, Towards a Unified Italy. Historical, Cultural, and
Literary Perspectives on the Southern Question, London 2018; Adriano Pro s p e r i, Un volgo disperso.
Contadini d’Italia nell’Ottocento, Torino 2019.

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loro stessi argomenti (se i meridionali appartenevano alla stirpe mediterranea, al pari
degli artefici delle grandi civiltà del passato, come si poteva sostenerne l’inferiorità?).
     Una discussione sulla questione meridionale si trasformò così in qualcos’al-
tro. Anzitutto, in uno scontro, interno dell’antropologia criminale italiana, tra due
generazioni. Da una parte, il „vecchio“ Sergi, che, nato nel 1841, aveva partecipato
al processo di unificazione nazionale (nel 1860 si era addirittura unito alle truppe
garibaldine nella battaglia di Milazzo) e rivendicava costantemente il proprio legame
con l’esperienza risorgimentale. Dall’altra parte, il „giovane“ Niceforo, che era nato
nel 1876 (anno in cui apparve la prima edizione del lombrosiano „Uomo delinquente“
e in cui si ebbe l’avvicendamento tra la Sinistra e la Destra storica al governo) e si era
formato nell’Italia crispina. In secondo luogo, il dibattito antropologico sulla que-
stione meridionale fu motivo di scontro su un problema che rimase cruciale per tutta
l’età del positivismo e anche oltre, ovvero il rapporto tra nature e nurture, di cui per
primo aveva parlato Francis Galton alla metà degli anni Settanta dell’Ottocento nei
suoi studi dedicati al genio e ai gemelli.2 Del resto, il delicato equilibrio tra l’influenza
dell’eredità e quella dell’ambiente costituiva il fondamento di discipline che erano da
poco nate, come appunto l’eugenica galtoniana, e altre che proprio allora si andavano
consolidando, quali l’antropologia fisica e l’antropologia criminale.

Alfredo Niceforo: il primato della „razza“
Nella notte tra il 13 e il 14 novembre 1894, un centinaio di uomini armati penetrò nel
comune di Tortolì, nell’Ogliastra, per depredare l’abitazione di un ricco proprietario
locale, Vittorio Depau, che in quei giorni si trovava per affari a Cagliari.3 Si trattava
di una tipica „bardana“, nome con il quale si indicavano, soprattutto in Barbagia e
Gallura, le razzie compiute da bande di predoni, che accerchiavano un villaggio allo
scopo di saccheggiare le residenze dei possidenti. Nell’assalto di Tortolì morirono tre
persone: uno dei banditi, a cui nella fuga i compagni tagliarono la testa per evitare
che fosse riconosciuto, un brigadiere dei carabinieri e uno dei servitori della villa di
Depau. L’eco dell’avvenimento fu tale che il governo Crispi decise di avviare già nel
dicembre un’inchiesta sulle condizioni economiche e della pubblica sicurezza della

2 Cfr. Francis G alto n, English Men of Science. Their Nature and Nurture, London 1874; i d., The
History of Twins, as a Criterion of the Relative Powers of Nature and Nurture, in: Fraser’s Magazine
12 (1875), pp. 566–576; poi ripubblicato con variazioni in: Journal of the Royal Anthropological In-
stitute of Great Britain and Ireland 5 (1875), pp. 391–406.
3 Cfr. Mario Da P assan o, La criminalità e il banditismo dal Settecento alla prima guerra mondiale,
in: Luigi B er lingu er/Antonello M atto n e (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La
Sardegna, Torino 1998, pp. 493–497; id ., Omicidi, rapine, bardane. Diritto penale e politiche crimi-
nali nella Sardegna moderna (XVII–XIX secolo), Roma 2015, pp. 245–260.

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Sardegna, affidandone l’incarico all’ex garibaldino Francesco Pais Serra, che proprio
in quel periodo era impegnato nella campagna elettorale sull’isola (nel 1895 sarà
eletto deputato nel collegio di Ozieri). La relazione che Pais Serra ricavò dall’inchie-
sta – relazione pubblicata nell’agosto 1896, quando il governo Crispi era già caduto,
a seguito della sconfitta di Adua – conteneva uno studio minuzioso dell’economia
sarda e un’analisi altrettanto dettagliata delle forme della criminalità isolana. Il lavoro
svolto da Pais Serra portò, inoltre, all’elaborazione nel 1897 della prima legislazione
speciale per la Sardegna.4
     Doveva essere ancora vivo nella popolazione sarda il ricordo della bardana di
Tortolì quando, nel 1895, l’allora diciannovenne Alfredo Niceforo si imbarcò per l’isola,
insieme allo scrittore di origine sarda per parte paterna Paolo Orano, più vecchio di lui
di un anno.5 La spedizione era stata commissionata dalla Società romana di antropo-
logia, fondata e diretta da Sergi, e dalla Società geografica italiana. Lo scopo era rac-
cogliere materiale sui pigmei sardi. Dagli studi craniologici compiuti durante la mis-
sione, Niceforo trasse nel dicembre dello stesso anno una nota dal titolo „Le varietà
umane pigmee e microcefaliche della Sardegna“, pubblicata sugli „Atti della Società
romana di antropologia“; nota che gli valse la nomina a socio ordinario della stessa
Società.6 Nell’articolo veniva confermata la tesi di Sergi secondo la quale i pigmei che
popolavano l’isola erano di origine africana e costituivano una varietà umana vera e
propria, e non una degenerazione patologica del tipo umano „normale“ dovuta all’ef-
fetto di condizioni ambientali avverse, come pensava Rudolf Virchow.
     Il viaggio fu anche l’occasione per comporre un libro, „La delinquenza in Sarde-
gna“, appunto, che avrebbe visto la luce nel 1897 (e in cui Niceforo attingeva a piene
mani dai dati raccolti nella relazione di Pais Serra).7 Il tema principale del volume non

4 Sull’inchiesta, cfr. ora l’importante contributo di Antonello M a t to n e, L’inchiesta di Francesco Pais
Serra sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna (1894–96), in: i d./Salvatore
Mur a (a cura di), Le inchieste parlamentari sulla Sardegna (1869–1972), Milano 2021, pp. 185–231.
5 Nel 1896 Grazia Deledda dedicò il suo romanzo „Le vie del male“ a Niceforo e Orano, „che amoro-
samente visitarono la Sardegna“. La dedica fu poi soppressa nell’edizione del 1906. Nella „Delin-
quenza in Sardegna“, Niceforo cita più volte gli studi di Deledda sulle tradizioni popolari sarde. Una
sintetica analisi del rapporto tra Niceforo e Deledda si trova in Peter J. Fu l l e r, Regional Identity in
Sardinian Writing of the Twentieth Century. The Work of Grazia Deledda and Giuseppe Dessì, in: The
Italianist 20,1 (2000), pp. 61–63.
6 Cfr. Alfredo Niceforo, Le varietà umane pigmee e microcefaliche della Sardegna, in: Atti della
Società romana di antropologia 3 (1895–1896), pp. 201–222. Per la nomina di Niceforo a socio ordinario
della Società romana di antropologia, cfr. l’adunanza del 29 dicembre 1895, ibid., p. 178.
7 Id., La delinquenza in Sardegna. Note di sociologia criminale, prefazione di Enrico Fe r r i, Palermo
1897. Cfr. Francesco Ti r agallo, Antropologia e ideologia in „La delinquenza in Sardegna“ di Alfredo
Niceforo, in: Annali della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari 5 (1980), pp. 411–453;
Maria Gabriella Da Re/Francesco Tir agallo, Il criminologo positivista e la patologia del corpo
sociale (1890–1900), in: Calogero Valen ti/Gianfranco Tore (a cura di), Sanità e Società. Sicilia e
Sardegna. Secoli XVI–XX, Udine 1988, pp. 374–391; Girolamo S otgi u , Banditismo e scuola antro-
pologica criminale, in: Études corses 21,40–41 (1993), pp. 281–289.

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riguardava affatto la questione dell’origine e della natura dei pigmei, ma il rapporto
tra appartenenza a un dato gruppo etnico e predisposizione alla criminalità: vi erano
„razze“ umane più propense al crimine di altre? Le riflessioni proposte da Niceforo su
questo argomento avrebbero suscitato dibattiti e controversie non solo nella comunità
scientifica, ma anche nella pubblicistica. La tesi di Niceforo era semplice e ardita a un
tempo: la maggior parte dei crimini commessi in Sardegna – tra questi, l’omicidio, il
furto, la grassazione, la violenza, l’usurpazione, il danneggiamento e l’incendio – si
concentravano in un territorio ben determinato, compreso tra il Nuorese, l’alta Oglia-
stra e Villacidro, da lui ribattezzato „Zona delinquente“.8 Le cause di tale spiccata
criminalità erano di due tipi: cause „individuali“, dovute cioè alla particolare costitu-
zione antropologica, fisiologica e psicologica dei suoi abitanti; e cause „d’ambiente“,
vale a dire legate a specifiche condizioni esterne.
     Per quanto riguardava l’analisi delle cause individuali, Niceforo operava anzi-
tutto un’originale, e poco lineare, combinazione tra gli studi di Lombroso e le ricer-
che di Sergi.9 Da un lato, si richiamava alla nozione lombrosiana di atavismo, inteso
come la ricomparsa improvvisa negli esseri umani di caratteri fisici (ma che avevano
una diretta implicazione psichica) presenti nei progenitori o negli animali e in loro
considerati non patologici.10 Uno dei casi di atavismo più importanti, e soprattutto
più gravidi di conseguenze per il futuro, fu quello che nel dicembre del 1870 Lom-
broso – allora primario del reparto di malattie nervose dell’ospedale Sant’Eufemia di
Pavia – riferì di aver individuato nel cranio del brigante calabrese Giuseppe Villella:
l’autopsia rivelò che tra i due emisferi cerebrali, al posto di una cresta occipitale, si
trovava una fossetta.11 La presenza di questo particolare anatomico, tipico dei lemuri,
delle scimmie platirrine e dei roditori, ma assente in tutte le scimmie superiori e in
molte di quelle inferiori, denotava un arresto di sviluppo allo stadio fetale, data la
corrispondenza ammessa da Lombroso tra la conformazione cranica e l’evoluzione del
cervello. Ciò permise di stabilire un nesso tra delinquenza e atavismo e di affermare

8 Su Orano, che aveva ricavato dal viaggio un libro sulla „Psicologia della Sardegna“ (1896), si veda
p. 395.
9 Già l’antropologo sardo Efisio Ardu Onnis aveva notato in Niceforo la compresenza di tesi sergiane
e lombrosiane e aveva invitato l’autore della „Delinquenza in Sardegna“ a decidersi tra l’uno o l’altro
indirizzo: cfr. Efisio A rdu O n n is, Le anomalie fisiche e la degenerazione nell’„Italia barbara con-
temporanea“, in: Archivio per l’antropologia e la etnologia 33 (1903), pp. 528 sg.
10 Nel 1868 Darwin aveva parlato di atavismo nel capitolo 13 di „The Variation of Animals and Plants
Under Domestication“ e il termine circolava nella comunità scientifica italiana fin dagli anni Settanta
dell’Ottocento. Sul concetto, cfr. la voce di Patrick Tor t , Atavisme (Théorie darwinienne de l’), in:
id. (a cura di), Dictionnaire du darwinisme et de l’évolution, vol. 1: A–E, Paris 1996, pp. 147–157. Cfr.
anche Stefania Nicasi , Atavismo. Patologia di un ritorno, in: Filippo Maria Fe r ro et al. (a cura di),
Passioni della mente e della storia. Protagonisti, teorie e vicende della psichiatria italiana tra ’800 e
’900, Milano 1989, pp. 363–371.
11 Cfr. Cesare Lo m b ro so, Esistenza di una fossa occipitale mediana nel cranio di un delinquente,
in: Regio Istituto lombardo di scienze e lettere. Rendiconti 4 (1871), pp. 37–43.

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che nei criminali riapparivano caratteri primitivi e animaleschi: era l’atto di nascita
dell’antropologia criminale in Italia. Secondo il resoconto dello stesso Lombroso e la
ricostruzione successiva della figlia Gina, fu una vera e propria „rivelazione“.12 Oggi,
sulla base delle contraddizioni che caratterizzano i diversi resoconti lombrosiani, gli
studiosi negano che il racconto abbia un carattere di veridicità e ritengono che si sia
trattato di un discorso costruito a posteriori per fornire una legittimazione „scien-
tifica“ alla nuova „disciplina“.13 Richiamandosi proprio a queste idee lombrosiane,
Niceforo sosteneva che gli abitanti della „Zona delinquente“ erano affetti da una
forma di atavismo insieme fisico, psichico, morale e sociale: in loro si ripresentavano
i tratti fisici delle popolazioni nomadi premoderne, così come i loro comportamenti
aggressivi, bellicosi e vendicativi. Le bardane non ricordavano forse le antiche razzie?
     Dall’altro lato, Niceforo faceva riferimento alle ricerche antropologiche che Sergi
conduceva a partire dalla prima metà degli anni Ottanta dell’Ottocento e che, dopo
l’introduzione del metodo di individuazione dei gruppi etnici sulla base della forma
del cranio, avevano conosciuto un notevole avanzamento.14 Nel momento in cui
il volume di Niceforo si dava alle stampe, Sergi aveva già posto le basi della teoria
della stirpe mediterranea, illustrandone le linee fondamentali nello studio intitolato

12 Cfr. id., Come nacque e come crebbe l’antropologia criminale, in: Ricerche di psichiatria e nevro-
logia, antropologia e filosofia, dedicate al prof. Enrico Morselli nel 25o anno del suo insegnamento
universitario, Milano 1907, pp. 501–510; id., Discours d’ouverture, in: Comptes-rendus du VI congrès
international d’anthropologie criminelle (Turin, 28 avril – 3 mai 1906), Torino 1908, pp. XXXI–XXXVI,
in particolare p. XXXII; Gina Lo m b ro so, Come mio padre venne all’Antropologia Criminale, in: Ar-
chivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale 41 (1921), pp. 419–437. Sulla „scoperta
lombrosiana“, cfr. Luigi G u arn ieri, L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso, Milano
2000, pp. 9–12; Marc Ren n ev ille , Un cranio che fa luce? Il racconto della scoperta dell’atavismo
criminale, in: Silvano M o n tald o/Paolo Tappero (a cura di), Il Museo di Antropologia criminale
„Cesare Lombroso“, Torino 2009, pp. 107–112 e, nello stesso volume, il contributo di Giacomo G i a-
cobini/Cristina Cilli/Giancarla M alerb a, Tra anatomia e antropologia fisica nelle collezioni del
museo, pp. 113–118; Silvano M o n tald o, Skulls, Science and Positivist Symbolism, in: Maria Teresa
Mi licia (a cura di), The Great Laboratory of Humanity. Collection, Patrimony and Repatriation of
Human Remains, Padova 2020, pp. 69–80.
13 Renzo Villa , Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano
1985, p. 149. Villa sottolinea le numerose discrepanze tra i vari resoconti lombrosiani riguardanti
Villella: a volte, il brigante sembra avere sessantanove anni, altre settanta, altre ancora settantadue.
A volte è descritto come uno „stortillato“, altre come un „ladro agilissimo“ (pp. 148 sg.).
14 Sulla riforma craniologica sergiana, mi permetto di rimandare a Giovanni C e r ro, Giuseppe
Sergi e le riforme craniologiche nell’antropologia italiana di fine Ottocento, in: Medicina & Storia
15,8 (2015), pp. 29–52; id ., Giuseppe Sergi. The Portrait of a Positivist Scientist, in: JASs. Journal of
Anthropological Sciences 95 (2017), pp. 1–28. Su Sergi, cfr. anche Luca Te d e s co, Giuseppe Sergi e
„la morale fondata sulla scienza“. Degenerazione e perfezionamento razziale nel fondatore del Co-
mitato Italiano per gli Studi di Eugenica, Milano 2012; Fedra A. P i z z a to, Per una storia antropologica
della nazione. Mito mediterraneo e costruzione nazionale in Giuseppe Sergi (1880–1919), in: Storia
del pensiero politico 4,1 (2015), pp. 25–51.

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„Origine e diffusione della stirpe mediterranea“ (1895).15 Secondo Sergi, la civiltà in
Europa era stata importata da popoli originari dell’Africa orientale, che dal Neolitico si
erano diffusi nel bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente. La civilizzazione medi-
terranea era stata caratterizzata da tre fasi di sviluppo – minoica e micenea, ellenica
e latina – e aveva raggiunto il suo culmine con l’espansione imperialistica di Roma.
A differenza di quanto sostenevano Theodor Poesche e Karl Penka, gli ariani o indo-
europei non solo non erano identificabili con il tipo germanico dolicocefalo e biondo
(anch’esso per Sergi appartenente alla stirpe mediterranea), ma erano sopraggiunti in
Europa solo a partire dall’età del bronzo, distruggendo i prodotti della fiorente civiltà
mediterranea con la loro barbarie e la loro violenza. Provenienti dall’Asia centrale, le
popolazioni arie (organizzate nei tre gruppi dei protocelti, protogermani e protoslavi)
avevano invaso l’Italia settentrionale e centrale, fino a quando la loro avanzata era
stata fermata dagli etruschi, prima, e dai romani, poi. Questa ricostruzione, secondo
Sergi, trovava conferma nello studio dei reperti preistorici della valle del Po: le varietà
craniche più antiche (di forma ellissoide, ovoide e pentagonoide) attestavano la pre-
senza dei mediterranei dolicocefali, mentre quelle più recenti (di tipo cuneiforme,
sferoide e platicefala) erano tipiche degli ariani brachicefali.16 L’antica sovrapposi-
zione tra mediterranei e arii era ancora visibile nelle differenze fisiche, psicologiche e
comportamentali che esistevano tra gli abitanti del Nord e gli abitanti del Sud dell’Ita-
lia: la popolazione settentrionale, influenzata dalle invasioni indoeuropee, aveva un
profondo senso della comunità e del dovere ed era incline al lavoro (qui agiva eviden-
temente una „libera“ rilettura delle descrizioni delle tribù germaniche presenti nella
„Germania“ di Tacito);17 la popolazione meridionale, invece, di origine mediterranea,
era individualista e apatica ma al contempo creativa e geniale (qui il riferimento impli-
cito era alle immagini dell’Italia del Sud lasciate dai viaggiatori europei del Grand
Tour tra Seicento e Ottocento).
     Niceforo accettava la concezione sergiana delle „due Italie“, abitate da due stirpi
differenti, ampliandone però il campo di applicazione e aggiungendo un ulteriore,
decisivo tassello, ovvero la diversa predisposizione dei due gruppi umani alla crimi-
nalità. Al Nord, dove prevalevano i discendenti della stirpe celtica o aria, sobria nei
costumi e fedele al principio di autorità, i crimini erano meno numerosi che al Sud,

15 Cfr. Giuseppe S erg i , Origine e diffusione della stirpe mediterranea. Induzioni antropologiche,
Roma 1895.
16 Cfr. id., La stirpe ligure nel Bolognese, in: Atti e memorie della Regia Deputazione di Storia patria
per le province di Romagna 1 (1883), pp. 17–36; i d ., Un cranio della necropoli di Villanova presso
Bologna, in: Archivio per l’antropologia e la etnologia 13 (1883), pp. 1–11; i d ., Liguri e Celti nella valle
del Po, in: ibid., pp. 117–175; id ., Antropologia storica del Bolognese. Resoconto dalle antiche necro-
poli felsinee, in: Atti e memorie della Regia Deputazione di Storia patria per le province di Romagna
2 (1884), pp. 1–34.
17 Sulle letture in chiave „razziale“ delle descrizioni tacitiane dei germani, cfr. Luciano C a n for a, La
„Germania“ di Tacito da Engels al nazismo, Napoli 1979, pp. 15–33.

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dove invece vivevano i discendenti della stirpe mediterranea, che avevano ereditato
i propri spiccati istinti delinquenziali dalle tribù africane, alle quali erano genealogi-
camente legate. La provenienza africana dei mediterranei, che fino a quel momento
aveva ancora in Sergi un tono neutro, assumeva dunque con Niceforo una connota-
zione decisamente negativa.
     Il quadro delineato da Niceforo era però ancora più complesso di quello appena
descritto. Oltre all’atavismo e all’eredità africana, vi era anche la degenerazione, concetto
che era stato introdotto nel 1857 in campo psichiatrico dall’alienista francese Bénédict-­
Augustin Morel per indicare una „deviazione malata dal tipo normale dell’umanità“18
e che in Italia era stato poi oggetto, nel 1889, di un influente studio proprio di Sergi.19
Mentre l’atavismo indicava un processo non necessariamente patologico, la degenera-
zione identificava un processo di per sé morboso.20 Affermando che i sardi erano affetti
da atavismo, ma anche degenerati, Niceforo confondeva quindi concetti all’origine
molto diversi tra loro. Lo sfondo su cui Niceforo inseriva tali considerazioni era costi-
tuito dall’idea – tipicamente positivistica – secondo la quale le società umane erano
governate dalle stesse leggi dell’evoluzione degli organismi viventi (qui i richiami erano
soprattutto a Herbert Spencer e a Charles Letourneau). Al pari degli animali, infatti,
anche le comunità umane attraversavano diverse fasi di crescita, a ognuna delle quali
corrispondeva un differente livello di sviluppo.21 Non tutte, però, riuscivano a raggiun-
gere il grado più elevato, vale a dire a perfezionarsi in modo compiuto: la „Zona delin-
quente“, ad esempio, si era arrestata lungo questo cammino ed era ora simile a „una
grande scoria che galleggia sulle acque luminose di un grande oceano, scoria ammalata
e vecchia, residuo di un mondo scomparso“.22 L’assenza di mescolanze etniche e la resi-
stenza alle dominazioni esterne, che si erano succedute nel corso del tempo, l’avevano
resa refrattaria a qualsiasi cambiamento. Riprendendo la metafora del corpo sociale

18 Bénédict-Augustin M o rel , Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de
l’espèce humaine et des causes qui produisent ces variétés maladives, Paris 1857, p. 5.
19 Cfr. Giuseppe S erg i , Le degenerazioni umane, Milano 1889. Sul concetto di degenerazione, che
fu usato tra la seconda metà dell’Ottocento e la Grande guerra per descrivere la crisi della modernità
e della civiltà occidentale, cfr. Georges-Paul-Henri G en il- Pe r r i n, Histoire des origines et de l’évo-
lution de l’idée de dégénérescence en médecine mentale, Paris 1913; Robert A. Nye , Crime, Madness
and Politics in Modern France. The Medical Concept of National Decline, Princeton 1984; J. Edward
Cham berlin/Sander L. G ilm an (a cura di), Degeneration. The Dark Side of Progress, New York
1985; Daniel Pick , Volti della degenerazione. Una sindrome europea, 1848–1918, trad. it. di Sergio
Mi n ucci , Firenze 1999; Jean-Christophe Co f f in, La transmission de la folie, 1850–1914, Paris 2003;
Mauro Sim onazzi, Degenerazionismo. Psichiatria, eugenetica e biopolitica, Milano 2013.
20 Cfr. Antonello L a Vergata , Lombroso e la degenerazione, in: Silvano M on t a l d o (a cura di),
Cesare Lombroso. Gli scienziati e la nuova Italia, Bologna 2010, pp. 55–93.
21 Sulla fortuna positivistica della metafora della società umana come organismo vivente, cfr. Pietro
Ross i , La sociologia positivistica e il modello di società organica, in: Antonio S a n t u cc i (a cura di),
Scienza e filosofia nella cultura positivistica, Milano 1982, pp. 15–37.
22 Niceforo, La delinquenza in Sardegna (vedi nota 7), p. 66.

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malato, anch’essa cara ai sociologi e agli antropologi di fine secolo, Niceforo denunciava
il pericolo che dalla „Zona delinquente“ potessero diffondersi „numerosi bacteri pato-
geni a portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage“.23 Erano così poste le basi
di quella che è stata definita la „patologizzazione della questione meridionale“:24 non
soltanto la Sardegna, ma l’intero Sud e i suoi abitanti erano considerati malati bisognosi
di cure non tanto perché si dovesse assicurare il loro risanamento, quanto per impedire
che la loro „malattia“ potesse contagiare le aree sane del Paese.
     Al fattore etnico, su cui ha tanto insistito la letteratura critica,25 Niceforo affian-
cava il fattore ambientale. L’individuo e l’ambiente, egli scriveva, „si comprendono e si
compenetrano l’un l’altro come le due ruote dentate di una macchina“.26 Per Niceforo,
sull’elevato tasso di criminalità sardo incidevano anche il latifondismo, che impediva
qualsiasi progresso in campo agricolo e riproduceva forme di schiavismo; la man-
canza di una rete ferroviaria che consentisse con facilità gli spostamenti e i traffici di
prodotti e merci; le condizioni disastrose delle strade, che ostacolavano la comunica-
zione tra parti diverse dell’isola; la pessima amministrazione della giustizia; la disor-
ganizzazione delle forze dell’ordine; la mancanza di capitali di investimento da parte
di privati; il basso livello dei salari a fronte dell’eccessiva gravosità delle imposte.
Sembrerebbe, dunque, che Niceforo non ignorasse affatto l’apporto dell’ambiente.
Tuttavia, egli riteneva che le condizioni socioeconomiche, per quanto rilevanti, non
potessero considerarsi una causa determinante per l’insorgere della criminalità, in
Sardegna come altrove: „Pur accettando pienamente le dottrine del Marx“, affermava,
„noi non estenderemo il fattore economico a unica causa della patologia criminosa,
noi riteniamo che esso abbia larga ed efficace influenza, ma non unica, sulla dinamica
del delitto“.27 Era soprattutto l’omicidio, secondo Niceforo, che non poteva essere
spiegato senza tener conto della „razza“.
     Che cosa fare, dunque? Non potendo agire direttamente sulla costituzione degli
abitanti, giudicata ormai irriformabile, occorreva intervenire sul piano politico,
abbattendo il centralismo imposto dallo Stato unitario. La classe dirigente liberale
era infatti accusata da Niceforo di governare l’Italia come se le condizioni delle diverse
regioni del paese fossero identiche, quando in realtà, le nazioni, così come gli organi-
smi viventi, erano entità disomogenee, non formate da un’unica grande cellula, ma da
un complesso di cellule tra loro differenti. Riservare a tutte il medesimo trattamento
era una „follia“.28 Non rimaneva che promuovere un modello federalistico su base
regionale.

23 Ibid., p. 31.
24 Wong, Race and the Nation in Liberal Italy (vedi nota 1), p. 45.
25 Cfr., su tutti, S alvad o ri, Il mito del buongoverno (vedi nota 1), in particolare il capitolo VI, L’in-
terpretazione razzistica della inferiorità meridionale, pp. 184–205.
26 Niceforo, La delinquenza in Sardegna (vedi nota 7), p. 107.
27 Ibid., p. 109.
28 Ibid., p. 204.

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     Si può notare, seppur incidentalmente, che un anno prima di Niceforo, anche il
suo compagno di viaggio sull’isola, Paolo Orano, aveva pubblicato un volume sulla
„Psicologia della Sardegna“ (1896),29 in cui individuava le cause dell’arretratezza
sarda tanto nei caratteri di „razza“ quanto nelle cause ambientali, climatiche e sociali:
i mali che affliggevano l’isola erano, da una parte, l’ozio, l’apatia, la predisposizione
al brigantaggio, la religiosità superstiziosa e l’attaccamento alle tradizioni dei suoi
abitanti, dall’altra, l’analfabetismo, la burocrazia eccessiva e la mancanza di colle-
gamenti stradali, ferroviari e postali. Al pari di Niceforo, durante il suo viaggio in
Sardegna, Orano era rimasto colpito dal tasso di delinquenza della zona del Nuorese,
da lui denominata „scuola del delitto“, in cui anche „i buoni diventano cattivi“.30 Per
debellare la criminalità, egli invocava un energico intervento militare da parte del
governo, che avrebbe dovuto inviare in quelle terre un intero reggimento: „Il nuorese
deve essere intimorito. È così che si fa con i selvaggi; bisogna far sentire loro il peso
della forza, per Dio!; opporre alla lama del bandito le mille baionette del reggimento,
le palle del Wetterly.“31
     Tornando a Niceforo, il tema delle „due Italie“, solo accennato nella „Delinquenza
in Sardegna“, era trattato più diffusamente l’anno successivo, nel 1898, nel volume
l’„Italia barbara contemporanea“,32 dove non era più solo la „Zona delinquente“
sarda, ma tutta la parte meridionale della penisola a essere qualificata come un „ana-
cronismo vivente“. Facendo proprie alcune considerazioni lombrosiane, Niceforo
ammetteva che la nazione era unita solo a livello politico, mentre, da tutti gli altri
punti di vista, si presentava come „un vasto mosaico a mille tinte e sfumature“.33 Per
descrivere le differenze tra le „due Italie“, Niceforo si fondava principalmente su dati

29 Paolo Or ano, La psicologia della Sardegna. Impressioni ed appunti, Roma 1896. Il minimo che
si possa dire della vicenda intellettuale e politica di Orano è che fu travagliatissima: transitò dalla
massoneria al repubblicanesimo, dal socialismo al nazionalismo. Dopo la Grande guerra, fu par-
lamentare per il Partito dei combattenti sardi; approdò infine al fascismo, contribuendo con i suoi
scritti (su tutti: Gli ebrei in Italia, Roma 1937) alla campagna antisemita e razzista del regime. Dal
1935 fu addirittura nominato rettore dell’Università di Perugia. Sul legame istituito da Orano, fin dalle
sue prime pubblicazioni, tra l’idea dell’inferiorità delle popolazioni del Sud e quella degli ebrei, cfr.
Francesco G erm inario, Latinità, antimeridionalismo e antisemitismo negli scritti giovanili di Paolo
Orano (1895–1911), in: Bu rg io (a cura di), Nel nome della razza (vedi nota 1), pp. 105–114.
30 Or ano, La psicologia della Sardegna (vedi nota 29), pp. 19 e 17.
31 Ibid., p. 19.
32 Alfredo Niceforo, L’Italia barbara contemporanea. Studi e appunti, Palermo 1898.
33 Ibid., p. 10. Il riferimento era all’articolo di Cesare Lo mb ros o, L’Italia è unita, non unificata,
in: Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale 17 (1887), pp. 144–148 (poi pub-
blicato in id., Troppo presto. Appunti al nuovo progetto di codice penale, Torino 1888, pp. 62–66).
Nell’articolo, Lombroso lamentava l’impossibilità di giungere in Italia a un’uniformità legislativa e
sosteneva che „dalla statistica criminale italiana di 20 anni, se una cosa risulta sicura è che la divi-
sione per regioni e per grandi zone che sussiste per i dialetti, per la stampa, per la fisionomia, pei
costumi, per la razza, insomma, in Italia, vive ancora più evidente quanto alla criminalità. Ricordinsi
le grassazioni a guisa dei clan scozzesi o delle tribù arabe della Sardegna“ (ibid., p. 145).

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statistici, mostrando soprattutto come il tasso di analfabetismo e quello di mortalità
fossero più alti nell’Italia meridionale che in quella settentrionale. Soltanto il numero
dei suicidi mostrava un andamento opposto, spiegabile con il fatto che questo era
direttamente proporzionale al grado di civilizzazione raggiunto da una società: più
evoluta era una comunità, più accentuata era la „sensibilità“ dei suoi abitanti e di
conseguenza più elevato il numero di coloro che sceglievano la morte volontaria. Per
quanto riguarda la criminalità, Niceforo riprendeva una distinzione messa a punto
da Guglielmo Ferrero (che sarebbe divenuto genero di Lombroso, avendo sposato nel
1901 la figlia Gina), definendo l’Italia settentrionale una „civiltà a tipo di frode“ e
l’Italia meridionale una „civiltà a tipo di violenza“.34 La delinquenza del Nord era
tipica del mondo moderno: lì la lotta per la vita si combatteva con l’astuzia, con l’in-
ganno e con il ricorso spregiudicato al denaro e alla corruzione, quasi mai con le
armi. Prevaleva dunque una „criminalità evolutiva“,35 di cui era un esempio Tullio
Hermil, il ricco e raffinato intellettuale che nell’„Innocente“ di Gabriele D’Annunzio
si macchia di un infanticidio. Al Sud, invece, aveva attecchito la „criminalità atavica“,
tipica delle società primitive e selvagge e incarnata dalla figura di Jacques Lantier, la
„bestia umana“ protagonista dell’omonimo romanzo di Émile Zola: l’omicidio, il furto
e lo stupro erano i reati più diffusi e il potere e la ricchezza erano conquistati con la
forza, il ricatto e l’intimidazione. Ecco perciò le ragioni per le quali al Sud avevano
trovato terreno fertile camorra, mafia e brigantaggio. In conclusione, Niceforo riba-
diva la necessità di mitigare „l’accentramento di ferro che ci soffoca“36 e di battersi
per una particolare forma di federalismo: agli abitanti dell’Italia del Nord bisognava
concedere libertà e autonomia; al Sud, invece, vi era bisogno di „un’azione energica
e qualche volta dittatoriale“ per strappare dalle tenebre quelle „società ancora bimbe
e primitive“.37

34 Per la distinzione tra „civiltà a tipo di violenza“ e „civiltà a tipo di frode“, cfr. Guglielmo Fe r re ro,
I fatti di Chiusa S. Michele, in: Augusto Guido B i a n ch i/Guglielmo Fe r re ro/Scipio S igh e l e, Il
mondo criminale italiano, vol. 1: 1889–1892, prefazione di Cesare Lo mb ro s o, Milano 1893, pp. 277–
315. Anche secondo Ferrero la Sardegna apparteneva alla „civiltà a tipo di violenza“, insieme alla
Corsica, al Montenegro, a Firenze e alle città italiane del Medioevo (ibid., p. 279). Sulla distinzione
introdotta da Ferrero, cfr. Dino M engoz z i, Il giovane Ferrero e la „società a tipo di violenza“, in:
Lorella Cedro n i (a cura di), Nuovi studi su Guglielmo Ferrero, Roma 1998, pp. 78–93. Sulle premesse
storiche di questa distinzione, cfr. anche Francesco B e n ign o, La mala setta. Alle origini di mafia e
camorra, 1859–1878, Torino 2015.
35 Sulla differenza tra „criminalità evolutiva“ e „criminalità atavica“, cfr. Scipio S igh e l e , La delin-
quenza settaria. Appunti di sociologia, Milano 1897, pp. 16–19.
36 Niceforo, L’Italia barbara contemporanea (vedi nota 32), p. 288.
37 Ibid., p. 289.

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Napoleone Colajanni: la preminenza dell’ambiente
Il volume di Niceforo sulla „Delinquenza in Sardegna“ fu ben accolto dai principali
esponenti della scuola di antropologia criminale. Nella prefazione, Ferri elogiava il
volume come „uno dei saggi più completi di sociologia criminale“ mai scritti e come
un esempio di quella „sociologia socialista“, in cui si esprimeva „l’indirizzo biologico
e sociologico insieme“.38 Malgrado alcuni aspetti avrebbero potuto essere maggior-
mente approfonditi, Ferri riteneva che la trattazione di Niceforo fosse il prodotto „della
fecondità teorica e pratica portata nel campo della criminologia dal metodo sperimen-
tale e di osservazione della scuola positiva“.39 In un articolo apparso sul „Corriere
della Sera“ nell’ottobre del 1897, Lombroso definiva Niceforo „uno dei più giovani, ma
più promettenti pensatori nostri“ e ribadiva l’importanza della „razza“ come causa
di delinquenza, insieme alle condizioni socioeconomiche e al clima.40 Qualche mese
prima, sul „Secolo“, Ferrero aveva consigliato la lettura della „Delinquenza in Sarde-
gna“ a quanti erano interessati a conoscere veramente che cosa era l’Italia, „quella
degli Italiani, non quella degli uomini politici“.41 Nonostante lo sfoggio di erudizione
scientifica e una certa verbosità, che si potevano perdonare a un „giovane d’ingegno“,
il libro aveva il merito di raccogliere un „ricco materiale di osservazioni personali e
di riflessioni interessanti“ e di rivelare che in Italia esistevano popolazioni „la cui
civiltà non supera quella delle tribù dei pastori abissini“ o delle „tribù arabe anteriori
a Maometto“. Ancora nel 1903, Enrico Morselli e Sante De Sanctis, nel volume dedi-
cato al caso del brigante calabrese Giuseppe Musolino, riconosceranno nell’insistenza
di Niceforo sulla correlazione tra „razza“ e criminalità „la più diretta risposta ai socio-
logi esageratamente marxisti, che pretendono ridurre tutti i fatti umani a conseguenze
dirette del fattore socio-economico, e negano ogni azione al fattore antropologico“.42
      Tuttavia, il libro di Niceforo suscitò anche numerose proteste, soprattutto sulla
stampa sarda, come dimostra l’intensa campagna in difesa dell’isola e dei suoi abi-
tanti condotta dal quotidiano sassarese „La Nuova Sardegna“, espressione dello
schieramento repubblicano. A livello nazionale, la discussione fu animata soprat-
tutto da Napoleone Colajanni, che pure era legato a Niceforo da un rapporto di ami-
cizia e di collaborazione intellettuale che resisterà negli anni, al di là delle polemi-
che tra i due.43 Anche Colajanni ammetteva l’esistenza di una disparità di condizioni

38 Ferri, Prefazione, in: Nicef o ro, La delinquenza in Sardegna (vedi nota 7), p. I.
39 Ibid.
40 Cesare Lom broso, Razza e criminalità, in: Corriere della Sera, 29–30 ottobre 1897.
41 Guglielmo Ferrero, Barbari dell’Italia contemporanea, in: Il Secolo, 20–21 luglio 1897.
42 Enrico M or s elli/Sante De S an ctis, Giuseppe Musolino. Biografia di un bandito, Milano 1903,
p. 196.
43 Sul rapporto tra Niceforo e Colajanni, cfr. Jean-Yves Fré t ign é, Biographie intellectuelle d’un
protagoniste de l’Italie libérale. Napoleone Colajanni (1847–1921). Essai sur la culture politique d’un
sociologe et deputé sicilien à l’âge du positivisme (1860–1903), Roma 2002, pp. 717 sg.

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398          Giovanni Cerro

tra il Nord e il Sud del Paese e riteneva che il primo passo per risolvere il problema
dell’inferiorità del Mezzogiorno consistesse nell’instaurare una repubblica federale
basata sul decentramento e sull’autogoverno regionale. La richiesta del federalismo
è un punto – probabilmente l’unico – che accumuna tanto gli studiosi favorevoli a
Lombroso quanto coloro che lo avversavano.44 L’arretratezza del Sud non era, però,
per Colajanni dovuta a un carattere di „razza“. Del resto, già nel 1885, occupandosi
del problema della delinquenza in Sicilia, la sua regione di origine, Colajanni aveva
sostenuto, con Filippo Turati, che il delitto era „il prodotto delle condizioni sociali ed
economiche“45 dell’isola, tra le quali la diffusione del latifondo, l’assenza di piccole
industrie e di istituti di credito, la scarsa istruzione del popolo, il malgoverno dei
Borbone e l’accentramento dello Stato unitario, e non di una presunta predisposizione
al crimine del popolo siciliano.
     Dopo l’uscita della „Delinquenza in Sardegna“, Colajanni prendeva ancora una
volta le difese degli abitanti dell’Italia meridionale in una serie di articoli apparsi sulla
„Rivista popolare“, da lui fondata e diretta, e poi raccolti in un volumetto dal titolo
eloquente, „Per la razza maledetta“ (1898).46 Prendendo a pretesto il lavoro di Nice-
foro, definito il „lombrosiano ultimo venuto“, Colajanni ne approfittò per muovere un
attacco ai metodi dell’antropologia criminale e alla leggerezza con la quale essa invo-
cava quella „forza misteriosa“47 chiamata „razza“ per spiegare tutti i fenomeni sociali.
La protesta di Colajanni era durissima: se ci fosse limitati ad analizzare il volume di
Niceforo sul piano prettamente scientifico, si sarebbe dovuto ignorarlo, dal momento
che lo studio era privo di attendibilità, e assomigliava piuttosto a una „calunniosa
requisitoria“ per di più condita dalle „solite esagerazioni dei giovani e dei neofiti“.48
Tuttavia, poiché il libro aveva generato un gran clamore nel dibattito pubblico e rias-
sumeva considerazioni che già circolavano tra gli antropologi lombrosiani, era neces-
sario occuparsene. Ed occuparsene significava dimostrare che tutte le affermazioni lì
contenute erano infondate.

44 Cfr. Claudia Petr acco n e , Federalismo e autonomia dall’Unità d’Italia a oggi, Roma-Bari 1995.
45 Napoleone C o laj an n i, La delinquenza in Sicilia e le sue cause, Palermo 1885, p. 30 (corsivo
originale). Il libro raccoglieva alcuni articoli apparsi nell’agosto del 1885 sul „Giornale di Sicilia“. Su
Colajanni e la questione meridionale, cfr. S. Massimo G a n c i, Profilo di Napoleone Colajanni dagli
esordi al movimento dei Fasci dei lavoratori, in: i d ., L’Italia antimoderata. Radicali, repubblicani,
socialisti e autonomisti dall’Unità a oggi, Parma 1968, pp. 166–170; Giovanna A nge l i n i/Arturo
Colombo/V. Paolo G astald i, Poteri e libertà. Autonomie e federalismo nel pensiero democratico
italiano, Milano 2001, pp. 78–97; Elena Gaetana Fa r a c i, „Settentrionali e Meridionali“. Napoleone
Colajanni e il dibattito parlamentare sul Mezzogiorno (dicembre 1901), in: Storia e Politica 10,2 (2018),
pp. 315–330; ead., Napoleone Colajanni. Un intellettuale europeo, la politica e le istituzioni, Soveria
Mannelli 2018.
46 Napoleone Co laj an n i , Per la razza maledetta, Palermo-Roma 1898.
47 Ibid., pp. 3 e 20.
48 Ibid., pp. 4 e 33.

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     Il discorso di Colajanni – che deve essere letto alla luce dei due volumi della sua
„Sociologia criminale“ (1889)49 – partiva dalla confutazione dei presupposti dell’an-
tropologia criminale lombrosiana. In primo luogo, la correlazione tra fisico e morale,
tra corpo e cervello: se per Lombroso e Niceforo ad alterazioni fisiche visibili dove-
vano corrispondere degenerazioni interne, per Colajanni, le malformazioni esterne
(le cosiddette „stigmate“) non erano necessariamente il sintomo di patologie psichi-
che. L’origine della criminalità, dunque, non era imputabile alla ricomparsa di forme
anatomiche di gruppi etnici considerati inferiori o di specie animali, né un criminale
era riconoscibile dal suo solo aspetto esteriore. Contrariamente a quanto pensava
Lombroso, infatti, la criminalità non dipendeva dagli atavismi fisici, ma da quelli che
Colajanni definiva „atavismi morali“, corrispondenti alla riemersione di costumi e
condotte di vita che caratterizzavano fasi evolutive già superate nella storia dell’u-
manità. Qui tornava di nuovo in gioco Sergi. Per spiegare gli atavismi psichici, infatti,
Colajanni partiva dall’idea sergiana di stratificazione del carattere, in base alla quale
il carattere umano era formato dalla sovrapposizione di due elementi: uno eredita-
rio o „fondamentale“, che era il risultato dal materiale psichico trasmesso di gene-
razione in generazione, e uno acquisito o „avventizio“, che derivava dall’interazione
dell’individuo con l’ambiente.50 Poteva talvolta accadere che, a causa di una deleteria
influenza esterna, gli strati più profondi riemergessero, determinando comportamenti
anacronistici, come la criminalità o la prostituzione. Mentre, però, per Sergi, la riappa-
rizione di questi elementi sotterranei aveva effetti sia sulla psiche sia sul corpo, data
la correlazione tra organo e funzione da lui accettata, per Colajanni le conseguenze
di questa riemersione si limitavano alla sfera morale. Il criminale poteva dirsi simile
ai selvaggi e ai bambini solo dal punto di vista della condotta, non dell’organismo.
     In secondo luogo, Colajanni rifiutava il nesso tra „razza“ e comportamento,
quindi tra „razza“ e delinquenza. Vi erano, secondo lui, popoli che, pur condivi-
dendo alcuni tratti fisici, presentavano in un dato momento storico condizioni morali
e intellettuali differenti; per converso, esistevano popoli che, pur distinti dal punto
di vista meramente fisico, presentavano abitudini e costumi analoghi. Questo perché
i comportamenti umani non erano fissi e stabili, ma subivano cambiamenti – rapidi
o graduali, profondi o superficiali – nel tempo e nello spazio, a causa non dell’ere-
dità, ma dei fattori sociali. Ciò permetteva a Colajanni di respingere la distinzione
tra „razze superiori“ e „razze inferiori“, ovvero tra „razze“ destinate a svolgere una
missione civilizzatrice e „razze“ destinate a scomparire, con l’avanzare dei processi

49 Napoleone Colaja n n i , La sociologia criminale, 2 voll., Catania 1889.
50 La teoria si trova esposta per la prima volta in Giuseppe S e rgi , La stratificazione del carattere e la
delinquenza, in: Rivista di filosofia scientifica 3 (1883), pp. 537–549. Essa ebbe un’influenza decisiva
nel campo della psichiatria (con Eugenio Tanzi e Gaetano Riva, che la usarono per lo studio della pa-
ranoia), della psicologia sperimentale (con Sante De Sanctis), dell’antropologia criminale (con Lom-
broso, prima, e Mariano Luigi Patrizi, poi) e della psicologia delle folle (con Scipio Sighele e Pasquale
Rossi).

QFIAB 102 (2022)
400           Giovanni Cerro

di modernizzazione. La barbarie e la civiltà non erano, infatti, categorie „assolute“,
ma categorie „relative“: i gruppi umani che in una determinata epoca sembravano
aver raggiunto l’apice del proprio sviluppo potevano facilmente regredire; viceversa,
popoli che apparivano fermi a uno stadio elementare di civiltà potevano altrettanto
agevolmente progredire.

      „Le conseguenze del pregiudizio scientifico sulla superiorità o inferiorità della razza sono più
      enormi quando le razze si guardano solo in un dato periodo, senza considerarle attraverso al
      tempo. L’unilaterale osservazione della fenomenologia sociale in un dato momento della storia,
      induce sicuramente in errore in senso ottimista verso una razza e pessimista verso un’altra,
      perché tutte le razze hanno avuto la loro fase progressiva e quella regressiva. L’istantanea presa
      nel periodo ascendente a cui si dia un valore assoluto, farà accordare il primato in tulle le virtù
      ad un dato popolo; e viceversa.“51

L’evoluzione, per Colajanni, non era una linea continua, ma un percorso fatto di avan-
zamenti e regressioni, di accelerazioni e battute di arresto. Evoluzione non era pro-
gresso.
     In terzo luogo, Colajanni sosteneva che non si potesse parlare di persistenza dei
caratteri fisici di un dato popolo, vale a dire che non esistevano „razze pure“. Come
quelli morali e psicologici, anche i caratteri etnici – che li si volesse analizzare per
mezzo dell’indice cefalico, come chiedeva Georges Vacher de Lapouge, o della forma
del cranio, come proponeva Sergi – mutavano nel tempo, in relazione ai differenti
contesti geografici in cui si viveva e agli incroci con altri gruppi umani. Per paradosso,
notava Colajanni, se anche si fosse voluto ricorrere al concetto di „razza“, si sarebbe
dovuto concludere, con Sergi, che i sardi appartenevano alla „razza mediterranea“,
così come tutti i popoli che avevano invaso l’isola fin dall’antichità. Ne discendevano
due conclusioni: da una parte, che la differenza antropologica, ammessa da Nice-
foro, tra la popolazione sarda e il resto degli italiani era soltanto „un mito“; dall’altra,
che chiunque avesse voluto „imprimere il marchio dell’inferiorità“52 alla Sardegna,
lo avrebbe impresso anche a tutti i popoli del Mediterraneo antico e contemporaneo.
Dopo gli scritti di Sergi sulla stirpe mediterranea, concludeva Colajanni, bisognava
essere davvero imprudenti per sostenere l’inferiorità intellettuale e morale del Meri-
dione, dal momento che quelle „razze“ ritenute inferiori avevano dato vita alla civiltà
egizia e alla cartaginese, alla greca e alla romana. Come si poteva denigrarle? Con
il suo tipico stile sarcastico Colajanni notava: „Sono convinto che egli [Niceforo] al
suo studio è stato mosso da criteri obiettivi, assolutamente disinteressati: non può
ignorare che anche lui appartiene alla razza maledetta e della medesima porta inoc-
cultabili alcuni caratteri, tra i quali la bassa statura. Il cranio non gliel’ho misurato.“53

51 Colajan n i, Per la razza maledetta (vedi nota 46), p. 25.
52 Ibid., pp. 19 e 20.
53 Ibid., p. 13.

                                                                                       QFIAB 102 (2022)
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