THE EFFECTS OF PHYSICAL DISTANCING AND LOCKDOWN TO RESTRAIN SARS-COV-2 OUTBREAK IN THE ITALIAN MUNICIPALITY OF COGNE
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
The effects of physical distancing and lockdown to restrain SARS-CoV-2 outbreak in the Italian Municipality of Cogne written by Fabio Truc e Gianpiero Gervino | 1 Aprile 2021 ABSTRACT The outbreak of SARS-CoV-2 started in Wuhan, China, and is now a pandemic. An understanding of the prevalence and contagiousness of the disease, and of whether the strategies used to contain it to date have been successful, is important for understanding future containment strategies. One strategy for controlling the spread of SARS-CoV-2 is to adopt strong social distancing policies. The Municipality of Cogne (I), adopted strict lockdown rules from March 4, 2020 up to May 18, 2020. This first wave of the pandemic impressed by the extremely low impact of the SARS-CoV-2 on the locals, compared to the number accused on all the Italian territory. Starting from October 2020 up to the end of December, when the second wave hit Italy and Cogne territory, heavier effects were observed. In order to cast light on the effectiveness of the adopted strategy 74,5% of the local population underwent to a blood screening to detect IgM and IgG antibodies and after six months all the people tested positive were again investigated to establish the longitudinal changes in antibodies level. Moreover, within the context of this survey a rare and interesting case of secondary infection has been identified and here presented. Continua a leggere l’articolo.
Riaprire le scuole? written by Luca Ricolfi | 1 Aprile 2021 Da qualche tempo si riparla di aprire le scuole, o perlomeno le scuole materne ed elementari. Il tema della riapertura delle attività culturali sta particolarmente caro alla sinistra, come quello della riapertura delle attività commerciali alla destra. E’ dunque probabile che, nelle prossime settimane, assisteremo a esperimenti di riapertura su entrambi i fronti. Ma che cosa ci dicono i dati dell’epidemia? I dati dell’epidemia parlano purtroppo piuttosto chiaro. Fra le società avanzate, l’Italia continua a primeggiare sia in termini di nuovi casi sia in termini di decessi. Quel che è più grave, però, è il trend: in Italia, come in molti altri paesi avanzati, dopo un periodo di rallentamento dell’epidemia (gennaio-febbraio), è partita una nuova ondata: la terza, dopo quelle di marzo-aprile e ottobre-novembre dell’anno scorso. Perché, ancora una volta, siamo stati colti di sorpresa? Perché non riusciamo a contenere la circolazione del virus? Perché gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo al collasso? La spiegazione prevalente, su cui convergono mass media, autorità sanitarie e politici di ogni schieramento, punta il dito sui ritardi della campagna vaccinale. Questa spiegazione trova (apparente) sostegno nel fatto che nei tre paesi che sono più avanti nella campagna vaccinale, e cioè Israele, Regno Unito, Stati Uniti l’epidemia è in ritirata. Ma è una spiegazione fasulla, per almeno due motivi. Primo, perché la inversione delle loro curve epidemiche è avvenuta a gennaio, ben prima del decollo delle campagne vaccinali. Secondo,
perché ci sono almeno quattro paesi importanti (Portogallo, Irlanda, Canada, Sud Africa) in cui la campagna vaccinale arranca almeno quanto in Italia ma l’epidemia è in ritirata spettacolare fin da gennaio. In tutti e sette i paesi che abbiamo ricordato l’epidemia è stata riportata sotto controllo nel giro di poche settimane. C’è anche una spiegazione di riserva, però. Secondo molti la colpa delle difficoltà dell’Italia e di altri paesi starebbe nella diffusione delle varianti, e in particolare di quella cosiddetta inglese. La loro crescente trasmissibilità e letalità sarebbe all’origine della terza ondata, e spiegherebbe l’aumento dei casi e dei morti che stiamo osservando in Italia. Ma, di nuovo, è una spiegazione incompatibile con i dati. La variante inglese si è diffusa innanzitutto nel Regno Unito e in Irlanda, e ciò nonostante entrambi i paesi sono riusciti a far retrocedere rapidamente l’epidemia. Quanto alla variante sudafricana, non ha impedito al Sud Africa di invertire la curva fin dal 12 gennaio, senza alcun aiuto da parte delle vaccinazioni, che sono tuttora abbondantemente sotto l’1% (noi siamo vicini al 15%). Del resto un’analisi statistica più generale, che correla diffusione delle varianti e andamento dell’epidemia, rivela che le differenze nella capacità dei vari paesi di contrastare l’epidemia non dipendono in modo apprezzabile né dalla diffusione delle varianti, né dallo stato di avanzamento della campagna vaccinale. Spiace doverlo ammettere, ma è inevitabile concludere che quel che ci differenza dai paesi che stanno efficacemente contrastando l’epidemia non è né il ritardo della campagna vaccinale né la diffusione delle varianti, ma sono le nostre politiche e i nostri comportamenti. In che senso? In due sensi. Primo, non abbiamo fatto e continuiamo a non fare le molte cose che potrebbero servire a contrastare il
virus senza lockdown, dalla messa in sicurezza di scuole e traporti pubblici alle politiche di sorveglianza attiva. Secondo, il nostro lockdown – reso inevitabile dall’inerzia del governo Conte – non è un vero lockdown. Se, usando i dati di mobilità resi pubblici da Google, proviamo a misurare il grado di confinamento effettivamente messo in atto nei vari paesi, scopriamo che nei mesi critici di gennaio e febbraio siamo rimasti a casa circa la metà del tempo dell’Irlanda. Non solo, ma se facciamo una graduatoria dei paesi in base al grado di rispetto del lockdown troviamo ai primi posti precisamente i paesi che più hanno avuto successo nel contrastare l’epidemia: Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Sudafrica, Canada, Israele. In questa graduatoria l’Italia è solo 21-esima (su 36 paesi). Detto altrimenti, l’andamento dell’epidemia nelle società avanzate è strettamente connesso al rispetto delle misure di confinamento, specie nei mesi critici di dicembre-gennaio-febbraio (figura 1). Né le cose vanno in modo sostanzialmente diverso se, anziché guardare ai comportamenti della popolazione, ci rivolgiamo ai provvedimenti adottati dalle autorità politico-sanitarie. Una comparazione sistematica fra paesi mostra che la misura più efficace nel contenere l’epidemia è stata la chiusura più o meno totale delle scuole, seguita dalla limitazione degli
spostamenti sui trasporti pubblici: la capacità di contenimento dell’epidemia migliora man mano che le chiusure delle scuole diventano più sistematiche e generalizzate (figura 2). Questo, purtroppo, dicono i dati se li si analizza senza pregiudizi (cosa sempre più difficile, stante la spinta bipartisan alle riaperture). Dobbiamo concludere che il lockdown è l’unica strada? No, il lockdown non solo non è l’unica strada, ma è la strada sbagliata. Il lockdown è semplicemente l’arma dei governi inerti, che a un certo punto se lo ritrovano come unica arma disponibile perché – prima – non hanno fatto nulla o quasi nulla di quel che avrebbero dovuto fare. E’ quel che è successo a noi in autunno (ai tempi della seconda ondata), ed è risuccesso quest’anno, quando – non avendo di nuovo fatto nulla – ci siamo esposti alla terza. E ora? Ora è tardi, perché nel governo la linea del lockdown breve ma durissimo, invano caldeggiata da Walter Ricciardi (consulente di Speranza) fin da ottobre scorso, è stata definitivamente
sconfitta, a favore di una linea del tipo “apriamo appena possibile”, che tradotto in pratica significa: apriamo appena c’è abbastanza posto negli ospedali e nelle terapie intensive per accogliere i nuovi malati. E’ possibile che questa linea, che già ci è costata almeno 40 mila morti non necessari da dicembre a febbraio, ce ne costi ancora “solo” alcune migliaia in più nei prossimi mesi, perché un miracolo farà improvvisamente decollare la campagna vaccinale, abbassando drasticamente il numero di morti quotidiano, e perché nessuna nuova variante riuscirà ad eludere i vaccini. Ma è anche possibile che le cose non vadano così, e che una campagna vaccinale zoppicante combinata con un’altra estate incauta ci espongano, a settembre-ottobre, all’arrivo di una quarta ondata, ancora una volta amplificata dal ritorno a scuola. Possiamo, almeno questa volta, sperare che si faccia finalmente qualcosa, e che lo si faccia in tempo? Ad alcune misure si sta già per fortuna pensando, ad esempio a tamponi e test periodici a studenti e professori. Poco si sta facendo, invece, sulle due misure chiave: garantire il distanziamento sui mezzi pubblici e mettere in sicurezza le aule. Eppure, se si vuole davvero riaprire definitivamente le scuole, sarebbero due mosse cruciali. Perché le misure di sicurezza dentro le scuole non sono sufficienti se il contagio avviene fuori, nel tragitto casa-scuola e ritorno. E, quanto alle misure interne, quella cruciale è garantire la qualità dell’aria, o mediante filtri che la depurano, o mediante impianti di ricambio con l’esterno (il costo sarebbe inferiore a quello sostenuto per i banchi a rotelle). Speriamo tutti che, quest’autunno, l’epidemia sia sostanzialmente sotto controllo. Ma sarebbe imperdonabile che la prossima stagione fredda, per sua natura favorevole al virus, dovesse trovarci ancora una volta spiazzati, traditi dalla nostra attitudine ad auto-illuderci. Pubblicato su Il Messaggero del 27 marzo 2021
Il tempo delle varianti, o il re-framing dell’emergenza infinita written by Andrea Miconi | 1 Aprile 2021 “Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante testo del prof. Miconi, anche se alcune analisi appaiono in contrasto con quelle della Fondazione Hume” Voce del verbo “variare” Per discutere del mio tema – come i media operano il framing e re-framing della cronaca – inizierò dalle basi. Variante, sostantivo femminile derivato dal participio presente del verbo “variare”, è un termine di per sé neutro: indica, vuole la Treccani, una “modificazione rispetto a un esemplare o tipo che si considera fondamentale”; e “ciascuna delle diverse forme, dei diversi aspetti con cui una cosa si può presentare rimanendo sostanzialmente identica”[1]. Nella biologia dei virus, la variazione è un fatto altrettanto ordinario: la loro diffusione è scritta da una serie continua di errori di replicazione, che possono cambiarne la morfologia. Perfino l’Istituto Superiore di Sanità – perché tutto è lì, sotto i nostri occhi – ci fa sapere che “i virus, in particolare quelli a RNA come i coronavirus, evolvono costantemente attraverso mutazioni del loro genoma”[2]. Quanto al virus di oggi, la cautela è necessaria: perché la situazione non deve sfuggire di mano, e su questo siamo tutti d’accordo. Dall’altro lato, il buonsenso scientifico ci ricorda però una cosa: che di norma, tra le varianti di un virus, quella che si diffonde più velocemente è quella meno aggressiva, che produce danni minori all’organismo. E questo per una evidenza della
teoria dell’evoluzione, spiegata da quel magnifico divulgatore che è Richard Dawkins: lo scopo del virus, per così dire, è quello di usare gli organismi cellulari per riprodursi, e quindi le forme che uccidono l’animale ospite finiscono per circolare di meno[3] [presumo che sia la ragione della scarsa diffusione di Ebola, che colpisce come il serpente dei tre passi]. Tra una necessaria vigilanza e un sano ottimismo, nel regno di mezzo del buonsenso possiamo concludere che al momento non c’è ragione di preoccuparsi più di tanto [al momento: se le cose cambieranno, vedremo]. E allora, perché parlare così tanto di varianti? Per chi si occupa di ricerca sui media, come me, questo è un caso di scuola di propaganda su grande scala: improvvisamente, da un giorno all’altro, tutti gli organi di informazione iniziano a parlare di varianti – anche se il virus è sempre stato soggetto a mutazioni, e lo era quindi anche l’anno scorso. In più, la martellante campagna di opinione parla di allarme relativo alle varianti, anche se al momento – ripeto: al momento – non si vedono troppe ragioni per farlo. E d’incanto, con la soluzione più banale che ci sia – parlare solo e sempre di varianti, associandole in modo esplicito o surrettizio alla morte – manipolazione è fatta: il problema sono le varianti, di per sé; e nessun punto di vista alternativo è ammissibile. Per l’ennesima volta, grazie alla consonanza più che sospetta delle diverse fonti, la spirale del silenzio si è chiusa[4]. Tutto questo, per essere chiari, non implica alcuna valutazione sullo stato dell’epidemia, che non sono in grado di giudicare, né sulla pericolosità delle varianti, su cui non so nulla. Quello che sto discutendo, viceversa, è il clima di terrore sostenuto dai media, che a forza di allarmi – ogni variante è quella più letale; le due settimane a venire sono sempre quelle peggiori – finiscono per generare un rigetto inevitabile, e rendere la vita difficile a chi ha qualcosa di serio da divulgare. La sconcertante campagna di stampa sugli effetti del vaccino Astra Zeneca ne è la conferma più ovvia, e, quello che più conta, ha prodotto
danni incalcolabili per la campagna di immunizzazione. L’altro ramo della domanda riguarda il perché proprio ad un certo momento, visto che le mutazioni del virus esistevano anche prima – salvo che chi le evocava veniva bollato come negazionista, proprio perché alludeva logicamente ad una plausibile riduzione della letalità, e non sia mai [già, ve lo ricordavate?]. E dunque, è un caso che proprio ora si sia sprigionato il racconto delle varianti, quando le persone hanno smesso di essere spaventate dal virus, e hanno capito come conviverci, con prudenza ma appunto con l’intenzione di vivere? Che tutta la stampa, all’unisono, inizi a raccontare la stessa versione, come se – ma ovviamente è un esempio paradossale, non prendetelo alla lettera – qualcuno dall’alto istruisse i direttori delle testate su cosa fare? Che tanti personaggi si prestino ad alimentare questo clima, da medici che parlano di emergenze smentite dal loro stesso ospedale, a scienziati che vagheggiano di numeri inesistenti? Lo dice la scienza? Ora, le previsioni sugli effetti delle varianti le conosciamo a memoria, perché la stampa ha lanciato la solita gara al rialzo tra esperti più o meno improvvisati: Massimo Galli, Giorgio Gilestro, Nino Cartabellotta, Walter Ricciardi, Ilaria Capua, Giorgio Parisi, Andrea Crisanti, perfino uno studente di economia di nome Lorenzo Ruffino [nessuno dei quali, guarda caso, specializzato in epidemiologia]. Al di là delle sfumature, il messaggio era univoco: a marzo la variante farà danni maggiori del virus madre, ucciderà anche i giovani, e in due settimane – le solite, eterne due settimane a venire – avremo 50.000 contagi e 1500 morti al giorno. Parrebbe, insomma, che gli esperti siano selezionati in funzione della loro adesione alla dottrina del lockdown, più che delle loro competenze. La prova, fin troppo facile, è che nessuno spazio è concesso a epidemiologi di profilo internazionale, che da tempo denunciano le chiusure come una follia: Sunetra Gupta e Lisa White di Oxford; John Ioannidis e Jay Battacharia di
Stanford; Didier Raoult di Aix-Marseille; Martin Kulldorff di Harvard [come potete notare, tutti atenei di poco conto, a cui è normale non dare risalto]. Al punto che la Dichiarazione di Great Barrington – il manifesto contro il lockdown dell’ottobre scorso, firmato da 13700 scienziati – non è stata mai citata, come risulta dalla ricerca che stiamo svolgendo con l’Osservatorio di Pavia, dai telegiornali italiani. Voglio ripeterlo: in cinque mesi, tra tutti i telegiornali mainstream – che non parlano altro che di Covid – nessuno ha mai citato, nemmeno una volta, la posizione in materia di alcuni dei più accreditati epidemiologi del pianeta. E anche nei nostri quotidiani, di Covid-19 può parlare chiunque assecondi l’allarme, che siano igienisti, fisici, romanzieri, matematici, veterinari, gastroenterologi, statistici, e perfino studenti di economia; ma gli epidemiologi di Oxford e di Harvard no, loro non hanno titolo per intervenire. I nostri esperti, invece, più sbagliano e più sono chiamati a pontificare in TV: a condizione, va da sé, che continuino a sbagliare per eccesso e che nel dubbio diano la colpa ai cittadini, e mai ad un sistema sanitario incapace sia di curare i malati che di vaccinare gli anziani. Un’interminabile danza macabra, una litania medievale imbevuta di moralismo e morbosità, ben descritta da Andrea Venanzoni come una “religione pandemista”, professata da sacerdoti autoritari che si sono impossessati “manu militari” dei mezzi di informazione[5] – che su questo, aggiungo io, hanno una responsabilità colossale. La terza ondata è stata meno forte del previsto, ha commentato infine Andrea Crisanti[6] – sembrava quasi con una punta di delusione, laddove di solito se la ride, mentre si parla di privare i cittadini dei propri diritti. Di certo, dal lato dei media studies osserviamo come il tentativo di framing della variante come nuova epidemia abbia funzionato a sua volta meno del previsto: un po’ per l’evidenza delle cose; un po’ per la stanchezza generale; e un po’ per le solite esagerazioni dei nostri giornalisti, capaci di rendersi ridicoli anche nel
momento del tragico. Infatti, dopo le minacce brasiliane ed inglesi, è arrivata quella sudafricana; poi quella newyorkese isolata nelle Marche[7]; quella nigeriana rintracciata in Valle d’Aosta; e infine, al culmine del crescendo sabbatico, le “quattro varianti sconosciute” a Palermo[8], la “super- variante italiana” a Novara[9], e la “doppia variante” proveniente dall’India[10] [dove milletrecento milioni di persone, per inciso, hanno convissuto con il Covid con danni risibili]. E ora, vista a rischio l’operazione varianti, i media stanno cercando di operare l’ennesimo re-framing per giustificare delle restrizioni che nessun parametro noto sembra giustificare: fateci caso, ma siamo tornati letteralmente al clima dell’anno scorso, con le fotografie delle persone intubate, le puerili interviste in corsia ai negazionisti pentiti [palesemente inventate, lo so], e tutto il campionario di indecenze a cui i nostri media ci hanno abituato. Chi segue il dibattito internazionale sa che, ormai in tutto il mondo, la stagione dei lockdown è finita; e molti iniziano a considerarlo come il più grande errore politico del Dopoguerra [quello che io, nel mio piccolo, ho sempre pensato]. Dove si è tornati alla vita normale, dalla Russia al Texas, la ritrovata socialità non ha spostato di un millimetro la curva epidemica. Negli Stati Uniti, come notato dallo stesso Kulldorff, è partita la gara a negare di aver mai appoggiato le chiusure. I dati ufficiali Eurostat indicano che la famigerata Svezia – il paese franco, che ha scelto la via delle libertà e delle responsabilità individuali – è tra le nazioni europee con minore mortalità in eccesso nel 2020[11] [e no, non lo troverete nei nostri media, se ve lo state chiedendo]. Solo pochi paesi, tra cui l’Italia, rimangono ancora posseduti dal culto sacrificale del lockdown, malgrado decine di studi ne mettano in discussione l’utilità, e malgrado i terrificanti danni sanitari, psichici, relazionali ed economici che ne derivano – in breve, la distruzione della nostra società e della democrazia liberale.
La libertà è una cosa semplice Credo da tempo che, in parallelo alla vicenda epidemiologica – che non giudico, essendo incompetente – corra un’altra storia, quella di spietati gruppi di interesse e di potere che la stanno usando per altri motivi[12]; e che in questa seconda storia il controllo della popolazione non sia un mezzo, ma lo scopo in sé. Introducete questo cambio di variabile, e improvvisamente avrete la spiegazione di tante incongruenze altrimenti oscure: il ribasso continuo dei parametri, la secretazione dei dati, il protagonismo sadico dei virologi, la corsa a chiudere contro le stesse indicazioni governative, la modifica continua delle regole – e non da ultima cosa, l’imposizione di un odioso ed illiberale coprifuoco che non ha la minima motivazione scientifica, eppure è lì da cinque mesi, e nessuno parla. Forse, invece, è tempo di iniziare a parlare, e a voce alta. E mi riferisco qui al mondo sociale nel suo insieme, o se volete alle persone ordinarie, per così dire: perché i grandi nomi la loro occasione l’hanno già persa. Penso, ad esempio, a Giuseppe Tornatore, un premio Oscar che si è prestato ad un cortometraggio di propaganda inquietante, per come prova a normalizzare la mostruosità della nuda vita umana profanata dai sudari di plastica[13]. Ad Antonio Scurati, premio Strega, che sul Corriere della Sera ha raccontato l’epidemia come una punizione divina che ci saremmo meritati per qualche oscura ragione – come colto, più in generale, da Bernard Henry- Lévy[14] – salvo poi riscoprire una vena di ribellione contro il divieto di fumo all’aperto[15] [sul coprifuoco da Gestapo no, invece; quello pare vada bene]. A Piero Angela, un mite signore che con poca mitezza ha invocato l’esercito contro la “movida” dei giovani[16], che non corrono nessun rischio, per poi contestare ogni proposta di contenimento degli anziani come lui[17] – che almeno sarebbe stato il modo meno doloroso di uscire da questo disastro. Penso a Stefano Boeri, un architetto di fama mondiale, che ha contribuito a rendere così
bello il nostro stare a Milano, ma non ha avuto la forza di chiamarsi fuori da un’operazione spaventosamente idiota e dispendiosa – santa pazienza – come la progettazione dei padiglioni di Arcuri, sotto il precedente governo. No, non sto parlando degli intellettuali; non sto parlando degli accademici; non sto parlando dei sociologi; non sto parlando delle donne e degli uomini della cultura di sinistra, in tutti i campi e a tutti i livelli. Per loro è già tardi, e la colpa del loro silenzio non sarà mai perdonata. [1] Da qui: https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/variante/. [2] Dalla pagina web https://www.iss.it/varianti-del-virus [corsivo aggiunto]. [3] R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente [1976], Milano, Mondadori, 1992. Il tema è in certo modo implicito, va detto, nel modello dell’evoluzione di Darwin. [4] E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio. Una teoria dell’opinione pubblica [1980], Roma, Meltemi, 2001. [5] A. Venanzoni, La religione pandemista: nel nome della “scienza” travolti diritti e garanzie della democrazia liberale, “Atlantico Quotidiano”, 18 marzo 2021. [6] Covid, Crisanti: terza ondata meno peggio del previsto, lancio Adnkronos, 25 marzo 2021. [7] L. Luminati, Variante Covid New York: identificati nelle Marche i primi due casi italiani, “Il Resto del Carlino”, 24 marzo 2021. [8] Coronavirus, scoperte a Palermo quattro varianti sconosciute in Italia, “TGR Sicilia”, 23 marzo 2021.
[9] Covid, che cos’è la super-variante italiana e perché preoccupa, “Qui Finanza”, 17 marzo 2021. [10] In India una nuova variante Covid, “Corriere della Sera”, 25 marzo 2021. [11] I dati Eurostat sono qui. Come si vede, l’eccesso di mortalità in Svezia è inferiore a quello di paesi come Italia, Francia, Germania e Spagna, che hanno scelto la strada suicida dei lockdown. Per un primo commento, naturalmente non della stampa italiana, G. Alander, Sweden saw lower 2020 death spike than much of Europe – data, “Reuters”, 24 marzo 2021. [12] Su questo, ho scritto un primo modesto contributo già nell’aprile del 2020: Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020. [13] Penso ovviamente a Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995. Rileggere oggi le pagine di Agamben sulla nuda vita è, va detto, una epifania dolorosa, tanto illuminante quanto terrificante. [14] B. Henry-Lévy, Il virus che rende folli, Milano, La nave di Teseo, 2020. [15] A. Scurati, Un divieto ipocrita, fumerò all’aperto, “Corriere della sera”, 21 gennaio 2021. [16] Qui il lancio ANSA. [17] Piero Angela: “se il decreto vieta gli spostamenti agli over 70 come unica categoria, sono contrario”, “Huffington Post”, 2 novembre 2020.
“Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato written by Mario Menichella | 1 Aprile 2021 Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza – se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in molti casi, si informano esclusivamente attraverso la televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico- scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere, delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti. In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo: (1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura scientifica? (6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I
vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo? 1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia? Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19 possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola, congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di presentazione [1]. Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC) di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla pelle, lesioni pruriginose e necrosi. Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale. Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito (5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3]. Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a
partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro- infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune saturimetro. Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria sistemica con cui il sistema immunitario combatte i microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i polmoni non sono in grado di funzionare correttamente. Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è molto importante agire già sulla prima fase, sia attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni integratori sia con il supporto di terapie domiciliari adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è
ancora più determinante con la comparsa di varianti del SARS-CoV-2 più virulente. Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3 a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali, specie se presi in concomitanza con altri). Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2 risulta essere più letale rispetto alla variante originale, con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati. 2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19? Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].
Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie precoci. Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che, sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze statisticamente significative fra i casi a basso rischio di morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica della malattia che potevano essere usati in modo affidabile per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli altri. Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma, contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o tre sintomi, il che indica come non potessero essere identificati come tali sulla base della sola sintomatologia. Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e persone “fragili” [8]), piuttosto che ricorrere
all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente COVID. Il loro approccio è basato su una serie di parametri misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione dell’ossigeno) comprendenti essenzialmente marcatori infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico). Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente) infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a quelle che vivono da sole. 3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali? Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1) il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto, poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca
esperienza e iniziativa. D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica, supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale (per il filtraggio del sangue dei reni) [9]. Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio, cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo, peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio informato, anche con degli spot, della sua utilità, soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione del sangue (ipossemia) [11]. In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del 9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta e spera…). Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni,
non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno, quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera a quella precoce domiciliare. In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13]. Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000 persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina, azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile, Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo protocolli molto simili. 4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19?
Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi che possano essere somministrati precocemente a casa durante il corso dell’infezione per prevenire la progressione della malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di porre fine a questa pandemia. Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3 giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare dei farmaci ha fatto spesso la differenza. I medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di scuola. Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i
dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il momento migliore per intervenire con varie opzioni di trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi successivi [16]. È proprio la fase iniziale del COVID-19, quella in cui appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.) potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema immunitario alla lotta contro il virus [16]. La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che deve produrre velocemente sempre più anticorpi per neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque, facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).
La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie. L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché “l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato (e non immunizzato). 5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura?
La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite [17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede molto tempo per la loro convalida. Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine, in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico. Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali, antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i probiotici, la quercetina, etc. Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus, precludere la progressione della malattia allo stadio grave e sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di abitanti) rispetto all’Italia. La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un fattore di rischio indipendente per le forme gravi di COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo (in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la
lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie – ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18, 19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e farmacisti. La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno. Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore, molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana. La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche, comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del
papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del COVID-19. 6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19? Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus. “Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore di chimica e genomica Joshua Rabinovitz. Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie) / 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie urinarie o di molte altre parti del corpo. La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.
Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica, entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire ad abbattere di molto la dose in questione. L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani. Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile molto interessante. Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le
probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la barriera costituita dalla mascherina permette di assorbire una carica virale inferiore. Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti. Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a farla da padrone per l’elevata densità di persone associata. Una volta capito il concetto di carica virale, si può comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti “COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti infausti. 7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o
paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione, l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale. La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26], durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong Kong l’influenza di fatto non circolò. Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3) respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99% delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime, però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2). Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che forniscano una certificazione rilasciata da un ente del settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di solito dura di più. Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%,
Puoi anche leggere