THE EFFECTS OF PHYSICAL DISTANCING AND LOCKDOWN TO RESTRAIN SARS-COV-2 OUTBREAK IN THE ITALIAN MUNICIPALITY OF COGNE

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THE EFFECTS OF PHYSICAL DISTANCING AND LOCKDOWN TO RESTRAIN SARS-COV-2 OUTBREAK IN THE ITALIAN MUNICIPALITY OF COGNE
The   effects  of   physical
distancing and lockdown to
restrain SARS-CoV-2 outbreak
in the Italian Municipality
of Cogne
written by Fabio Truc e Gianpiero Gervino | 1 Aprile 2021
ABSTRACT

The outbreak of SARS-CoV-2 started in Wuhan, China, and is now
a pandemic. An understanding of the prevalence and
contagiousness of the disease, and of whether the strategies
used to contain it to date have been successful, is important
for understanding future containment strategies. One strategy
for controlling the spread of SARS-CoV-2 is to adopt strong
social distancing policies. The Municipality of Cogne (I),
adopted strict lockdown rules from March 4, 2020 up to May 18,
2020. This first wave of the pandemic impressed by the
extremely low impact of the SARS-CoV-2 on the locals, compared
to the number accused on all the Italian territory. Starting
from October 2020 up to the end of December, when the second
wave hit Italy and Cogne territory, heavier effects were
observed. In order to cast light on the effectiveness of the
adopted strategy 74,5% of the local population underwent to a
blood screening to detect IgM and IgG antibodies and after six
months all the people tested positive were again investigated
to establish the longitudinal changes in antibodies level.
Moreover, within the context of this survey a rare and
interesting case of secondary infection has been identified
and here presented.

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Riaprire le scuole?
written by Luca Ricolfi | 1 Aprile 2021
Da qualche tempo si riparla di aprire le scuole, o perlomeno
le scuole materne ed elementari. Il tema della riapertura
delle attività culturali sta particolarmente caro alla
sinistra, come quello della riapertura delle attività
commerciali alla destra. E’ dunque probabile che, nelle
prossime settimane, assisteremo a esperimenti di riapertura su
entrambi i fronti.

Ma che cosa ci dicono i dati dell’epidemia?

I dati dell’epidemia parlano purtroppo piuttosto chiaro. Fra
le società avanzate, l’Italia continua a primeggiare sia in
termini di nuovi casi sia in termini di decessi. Quel che è
più grave, però, è il trend: in Italia, come in molti altri
paesi avanzati, dopo un periodo di rallentamento dell’epidemia
(gennaio-febbraio), è partita una nuova ondata: la terza, dopo
quelle di marzo-aprile e ottobre-novembre dell’anno scorso.

Perché, ancora una volta, siamo stati colti di sorpresa?
Perché non riusciamo a contenere la circolazione del virus?
Perché gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo al
collasso?

La spiegazione prevalente, su cui convergono mass media,
autorità sanitarie e politici di ogni schieramento, punta il
dito sui ritardi della campagna vaccinale. Questa spiegazione
trova (apparente) sostegno nel fatto che nei tre paesi che
sono più avanti nella campagna vaccinale, e cioè Israele,
Regno Unito, Stati Uniti l’epidemia è in ritirata. Ma è una
spiegazione fasulla, per almeno due motivi. Primo, perché la
inversione delle loro curve epidemiche è avvenuta a gennaio,
ben prima del decollo delle campagne vaccinali. Secondo,
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perché ci sono almeno quattro paesi importanti (Portogallo,
Irlanda, Canada, Sud Africa) in cui la campagna vaccinale
arranca almeno quanto in Italia ma l’epidemia è in ritirata
spettacolare fin da gennaio. In tutti e sette i paesi che
abbiamo ricordato l’epidemia è stata riportata sotto controllo
nel giro di poche settimane.

C’è anche una spiegazione di riserva, però. Secondo molti la
colpa delle difficoltà dell’Italia e di altri paesi starebbe
nella diffusione delle varianti, e in particolare di quella
cosiddetta inglese. La loro crescente trasmissibilità e
letalità sarebbe all’origine della terza ondata, e
spiegherebbe l’aumento dei casi e dei morti che stiamo
osservando in Italia. Ma, di nuovo, è una spiegazione
incompatibile con i dati. La variante inglese si è diffusa
innanzitutto nel Regno Unito e in Irlanda, e ciò nonostante
entrambi i paesi sono riusciti a far retrocedere rapidamente
l’epidemia. Quanto alla variante sudafricana, non ha impedito
al Sud Africa di invertire la curva fin dal 12 gennaio, senza
alcun aiuto da parte delle vaccinazioni, che sono tuttora
abbondantemente sotto l’1% (noi siamo vicini al 15%). Del
resto un’analisi statistica più generale, che correla
diffusione delle varianti e andamento dell’epidemia, rivela
che le differenze nella capacità dei vari paesi di contrastare
l’epidemia non dipendono in modo apprezzabile né dalla
diffusione delle varianti, né dallo stato di avanzamento della
campagna vaccinale.

Spiace doverlo ammettere, ma è inevitabile concludere che quel
che ci differenza dai paesi che stanno efficacemente
contrastando l’epidemia non è né il ritardo della campagna
vaccinale né la diffusione delle varianti, ma sono le nostre
politiche e i nostri comportamenti.

In che senso?

In due sensi. Primo, non abbiamo fatto e continuiamo a non
fare le molte cose che potrebbero servire a contrastare il
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virus senza lockdown, dalla messa in sicurezza di scuole e
traporti pubblici alle politiche di sorveglianza attiva.
Secondo, il nostro lockdown – reso inevitabile dall’inerzia
del governo Conte – non è un vero lockdown. Se, usando i dati
di mobilità resi pubblici da Google, proviamo a misurare il
grado di confinamento effettivamente messo in atto nei vari
paesi, scopriamo che nei mesi critici di gennaio e febbraio
siamo rimasti a casa circa la metà del tempo dell’Irlanda. Non
solo, ma se facciamo una graduatoria dei paesi in base al
grado di rispetto del lockdown troviamo ai primi posti
precisamente i paesi che più hanno avuto successo nel
contrastare l’epidemia: Irlanda, Portogallo, Regno Unito,
Sudafrica, Canada, Israele. In questa graduatoria l’Italia è
solo 21-esima (su 36 paesi). Detto altrimenti, l’andamento
dell’epidemia nelle società avanzate è strettamente connesso
al rispetto delle misure di confinamento, specie nei mesi
critici   di  dicembre-gennaio-febbraio     (figura   1).

Né le cose vanno in modo sostanzialmente diverso se, anziché
guardare ai comportamenti della popolazione, ci rivolgiamo ai
provvedimenti adottati dalle autorità politico-sanitarie. Una
comparazione sistematica fra paesi mostra che la misura più
efficace nel contenere l’epidemia è stata la chiusura più o
meno totale delle scuole, seguita dalla limitazione degli
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spostamenti sui trasporti pubblici: la capacità di
contenimento dell’epidemia migliora man mano che le chiusure
delle scuole diventano più sistematiche e generalizzate
(figura 2).

Questo, purtroppo, dicono i dati se li si analizza senza
pregiudizi (cosa sempre più difficile, stante la spinta
bipartisan alle riaperture). Dobbiamo concludere che il
lockdown è l’unica strada?

No, il lockdown non solo non è l’unica strada, ma è la strada
sbagliata. Il lockdown è semplicemente l’arma dei governi
inerti, che a un certo punto se lo ritrovano come unica arma
disponibile perché – prima – non hanno fatto nulla o quasi
nulla di quel che avrebbero dovuto fare. E’ quel che è
successo a noi in autunno (ai tempi della seconda ondata), ed
è risuccesso quest’anno, quando – non avendo di nuovo fatto
nulla – ci siamo esposti alla terza.

E ora?

Ora è tardi, perché nel governo la linea del lockdown breve ma
durissimo, invano caldeggiata da Walter Ricciardi (consulente
di Speranza) fin da ottobre scorso, è stata definitivamente
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sconfitta, a favore di una linea del tipo “apriamo appena
possibile”, che tradotto in pratica significa: apriamo appena
c’è abbastanza posto negli ospedali e nelle terapie intensive
per accogliere i nuovi malati. E’ possibile che questa linea,
che già ci è costata almeno 40 mila morti non necessari da
dicembre a febbraio, ce ne costi ancora “solo” alcune migliaia
in più nei prossimi mesi, perché un miracolo farà
improvvisamente decollare la campagna vaccinale, abbassando
drasticamente il numero di morti quotidiano, e perché nessuna
nuova variante riuscirà ad eludere i vaccini.

Ma è anche possibile che le cose non vadano così, e che una
campagna vaccinale zoppicante combinata con un’altra estate
incauta ci espongano, a settembre-ottobre, all’arrivo di una
quarta ondata, ancora una volta amplificata dal ritorno a
scuola. Possiamo, almeno questa volta, sperare che si faccia
finalmente qualcosa, e che lo si faccia in tempo?

Ad alcune misure si sta già per fortuna pensando, ad esempio a
tamponi e test periodici a studenti e professori. Poco si sta
facendo, invece, sulle due misure chiave: garantire il
distanziamento sui mezzi pubblici e mettere in sicurezza le
aule. Eppure, se si vuole davvero riaprire definitivamente le
scuole, sarebbero due mosse cruciali. Perché le misure di
sicurezza dentro le scuole non sono sufficienti se il contagio
avviene fuori, nel tragitto casa-scuola e ritorno. E, quanto
alle misure interne, quella cruciale è garantire la qualità
dell’aria, o mediante filtri che la depurano, o mediante
impianti di ricambio con l’esterno (il costo sarebbe inferiore
a quello sostenuto per i banchi a rotelle).

Speriamo tutti che, quest’autunno, l’epidemia sia
sostanzialmente sotto controllo. Ma sarebbe imperdonabile che
la prossima stagione fredda, per sua natura favorevole al
virus, dovesse trovarci ancora una volta spiazzati, traditi
dalla nostra attitudine ad auto-illuderci.

                 Pubblicato su Il Messaggero del 27 marzo 2021
THE EFFECTS OF PHYSICAL DISTANCING AND LOCKDOWN TO RESTRAIN SARS-COV-2 OUTBREAK IN THE ITALIAN MUNICIPALITY OF COGNE
Il tempo delle varianti, o il
re-framing    dell’emergenza
infinita
written by   Andrea Miconi | 1 Aprile 2021
“Riceviamo   e volentieri pubblichiamo questo interessante testo
del prof.     Miconi, anche se alcune analisi appaiono in
contrasto    con quelle della Fondazione Hume”

Voce del verbo “variare”

Per discutere del mio tema – come i media operano il framing e
re-framing della cronaca – inizierò dalle basi. Variante,
sostantivo femminile derivato dal participio presente del
verbo “variare”, è un termine di per sé neutro: indica, vuole
la Treccani, una “modificazione rispetto a un esemplare o tipo
che si considera fondamentale”; e “ciascuna delle diverse
forme, dei diversi aspetti con cui una cosa si può presentare
rimanendo sostanzialmente identica”[1]. Nella biologia dei
virus, la variazione è un fatto altrettanto ordinario: la loro
diffusione è scritta da una serie continua di errori di
replicazione, che possono cambiarne la morfologia. Perfino
l’Istituto Superiore di Sanità – perché tutto è lì, sotto i
nostri occhi – ci fa sapere che “i virus, in particolare
quelli a RNA come i coronavirus, evolvono costantemente
attraverso mutazioni del loro genoma”[2]. Quanto al virus di
oggi, la cautela è necessaria: perché la situazione non deve
sfuggire di mano, e su questo siamo tutti d’accordo.
Dall’altro lato, il buonsenso scientifico ci ricorda però una
cosa: che di norma, tra le varianti di un virus, quella che si
diffonde più velocemente è quella meno aggressiva, che produce
danni minori all’organismo. E questo per una evidenza della
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teoria dell’evoluzione, spiegata da quel magnifico divulgatore
che è Richard Dawkins: lo scopo del virus, per così dire, è
quello di usare gli organismi cellulari per riprodursi, e
quindi le forme che uccidono l’animale ospite finiscono per
circolare di meno[3] [presumo che sia la ragione della scarsa
diffusione di Ebola, che colpisce come il serpente dei tre
passi]. Tra una necessaria vigilanza e un sano ottimismo, nel
regno di mezzo del buonsenso possiamo concludere che al
momento non c’è ragione di preoccuparsi più di tanto [al
momento: se le cose cambieranno, vedremo]. E allora, perché
parlare così tanto di varianti?

Per chi si occupa di ricerca sui media, come me, questo è un
caso di scuola di propaganda su grande scala: improvvisamente,
da un giorno all’altro, tutti gli organi di informazione
iniziano a parlare di varianti – anche se il virus è sempre
stato soggetto a mutazioni, e lo era quindi anche l’anno
scorso. In più, la martellante campagna di opinione parla di
allarme relativo alle varianti, anche se al momento – ripeto:
al momento – non si vedono troppe ragioni per farlo. E
d’incanto, con la soluzione più banale che ci sia – parlare
solo e sempre di varianti, associandole in modo esplicito o
surrettizio alla morte – manipolazione è fatta: il problema
sono le varianti, di per sé; e nessun punto di vista
alternativo è ammissibile. Per l’ennesima volta, grazie alla
consonanza più che sospetta delle diverse fonti, la spirale
del silenzio si è chiusa[4]. Tutto questo, per essere chiari,
non implica alcuna valutazione sullo stato dell’epidemia, che
non sono in grado di giudicare, né sulla pericolosità delle
varianti, su cui non so nulla. Quello che sto discutendo,
viceversa, è il clima di terrore sostenuto dai media, che a
forza di allarmi – ogni variante è quella più letale; le due
settimane a venire sono sempre quelle peggiori – finiscono per
generare un rigetto inevitabile, e rendere la vita difficile a
chi ha qualcosa di serio da divulgare. La sconcertante
campagna di stampa sugli effetti del vaccino Astra Zeneca ne è
la conferma più ovvia, e, quello che più conta, ha prodotto
danni incalcolabili per la campagna di immunizzazione.

L’altro ramo della domanda riguarda il perché proprio ad un
certo momento, visto che le mutazioni del virus esistevano
anche prima – salvo che chi le evocava veniva bollato come
negazionista, proprio perché alludeva logicamente ad una
plausibile riduzione della letalità, e non sia mai [già, ve lo
ricordavate?]. E dunque, è un caso che proprio ora si sia
sprigionato il racconto delle varianti, quando le persone
hanno smesso di essere spaventate dal virus, e hanno capito
come conviverci, con prudenza ma appunto con l’intenzione di
vivere? Che tutta la stampa, all’unisono, inizi a raccontare
la stessa versione, come se – ma ovviamente è un esempio
paradossale, non prendetelo alla lettera – qualcuno dall’alto
istruisse i direttori delle testate su cosa fare? Che tanti
personaggi si prestino ad alimentare questo clima, da medici
che parlano di emergenze smentite dal loro stesso ospedale, a
scienziati che vagheggiano di numeri inesistenti?

Lo dice la scienza?

Ora, le previsioni sugli effetti delle varianti le conosciamo
a memoria, perché la stampa ha lanciato la solita gara al
rialzo tra esperti più o meno improvvisati: Massimo Galli,
Giorgio Gilestro, Nino Cartabellotta, Walter Ricciardi, Ilaria
Capua, Giorgio Parisi, Andrea Crisanti, perfino uno studente
di economia di nome Lorenzo Ruffino [nessuno dei quali, guarda
caso, specializzato in epidemiologia]. Al di là delle
sfumature, il messaggio era univoco: a marzo la variante farà
danni maggiori del virus madre, ucciderà anche i giovani, e in
due settimane – le solite, eterne due settimane a venire –
avremo 50.000 contagi e 1500 morti al giorno. Parrebbe,
insomma, che gli esperti siano selezionati in funzione della
loro adesione alla dottrina del lockdown, più che delle loro
competenze. La prova, fin troppo facile, è che nessuno spazio
è concesso a epidemiologi di profilo internazionale, che da
tempo denunciano le chiusure come una follia: Sunetra Gupta e
Lisa White di Oxford; John Ioannidis e Jay Battacharia di
Stanford; Didier Raoult di Aix-Marseille; Martin Kulldorff di
Harvard [come potete notare, tutti atenei di poco conto, a cui
è normale non dare risalto]. Al punto che la Dichiarazione di
Great Barrington – il manifesto contro il lockdown
dell’ottobre scorso, firmato da 13700 scienziati – non è stata
mai citata, come risulta dalla ricerca che stiamo svolgendo
con l’Osservatorio di Pavia, dai telegiornali italiani. Voglio
ripeterlo: in cinque mesi, tra tutti i telegiornali mainstream
– che non parlano altro che di Covid – nessuno ha mai citato,
nemmeno una volta, la posizione in materia di alcuni dei più
accreditati epidemiologi del pianeta. E anche nei nostri
quotidiani, di Covid-19 può parlare chiunque assecondi
l’allarme, che siano igienisti, fisici, romanzieri,
matematici, veterinari, gastroenterologi, statistici, e
perfino studenti di economia; ma gli epidemiologi di Oxford e
di Harvard no, loro non hanno titolo per intervenire. I nostri
esperti, invece, più sbagliano e più sono chiamati a
pontificare in TV: a condizione, va da sé, che continuino a
sbagliare per eccesso e che nel dubbio diano la colpa ai
cittadini, e mai ad un sistema sanitario incapace sia di
curare i malati che di vaccinare gli anziani. Un’interminabile
danza macabra, una litania medievale imbevuta di moralismo e
morbosità, ben descritta da Andrea Venanzoni come una
“religione pandemista”, professata da sacerdoti autoritari che
si sono impossessati “manu militari” dei mezzi di
informazione[5] – che su questo, aggiungo io, hanno una
responsabilità colossale.

La terza ondata è stata meno forte del previsto, ha commentato
infine Andrea Crisanti[6] – sembrava quasi con una punta di
delusione, laddove di solito se la ride, mentre si parla di
privare i cittadini dei propri diritti. Di certo, dal lato dei
media studies osserviamo come il tentativo di framing della
variante come nuova epidemia abbia funzionato a sua volta meno
del previsto: un po’ per l’evidenza delle cose; un po’ per la
stanchezza generale; e un po’ per le solite esagerazioni dei
nostri giornalisti, capaci di rendersi ridicoli anche nel
momento del tragico. Infatti, dopo le minacce brasiliane ed
inglesi, è arrivata quella sudafricana; poi quella newyorkese
isolata nelle Marche[7]; quella nigeriana rintracciata in
Valle d’Aosta; e infine, al culmine del crescendo sabbatico,
le “quattro varianti sconosciute” a Palermo[8], la “super-
variante italiana” a Novara[9], e la “doppia variante”
proveniente dall’India[10] [dove milletrecento milioni di
persone, per inciso, hanno convissuto con il Covid con danni
risibili]. E ora, vista a rischio l’operazione varianti, i
media stanno cercando di operare l’ennesimo re-framing per
giustificare delle restrizioni che nessun parametro noto
sembra giustificare: fateci caso, ma siamo tornati
letteralmente al clima dell’anno scorso, con le fotografie
delle persone intubate, le puerili interviste in corsia ai
negazionisti pentiti [palesemente inventate, lo so], e tutto
il campionario di indecenze a cui i nostri media ci hanno
abituato.

Chi segue il dibattito internazionale sa che, ormai in tutto
il mondo, la stagione dei lockdown è finita; e molti iniziano
a considerarlo come il più grande errore politico del
Dopoguerra [quello che io, nel mio piccolo, ho sempre
pensato]. Dove si è tornati alla vita normale, dalla Russia al
Texas, la ritrovata socialità non ha spostato di un millimetro
la curva epidemica. Negli Stati Uniti, come notato dallo
stesso Kulldorff, è partita la gara a negare di aver mai
appoggiato le chiusure. I dati ufficiali Eurostat indicano che
la famigerata Svezia – il paese franco, che ha scelto la via
delle libertà e delle responsabilità individuali – è tra le
nazioni europee con minore mortalità in eccesso nel 2020[11]
[e no, non lo troverete nei nostri media, se ve lo state
chiedendo]. Solo pochi paesi, tra cui l’Italia, rimangono
ancora posseduti dal culto sacrificale del lockdown, malgrado
decine di studi ne mettano in discussione l’utilità, e
malgrado i terrificanti danni sanitari, psichici, relazionali
ed economici che ne derivano – in breve, la distruzione della
nostra società e della democrazia liberale.
La libertà è una cosa semplice

Credo da tempo che, in parallelo alla vicenda epidemiologica –
che non giudico, essendo incompetente – corra un’altra storia,
quella di spietati gruppi di interesse e di potere che la
stanno usando per altri motivi[12]; e che in questa seconda
storia il controllo della popolazione non sia un mezzo, ma lo
scopo in sé. Introducete questo cambio di variabile, e
improvvisamente avrete la spiegazione di tante incongruenze
altrimenti oscure: il ribasso continuo dei parametri, la
secretazione dei dati, il protagonismo sadico dei virologi, la
corsa a chiudere contro le stesse indicazioni governative, la
modifica continua delle regole – e non da ultima cosa,
l’imposizione di un odioso ed illiberale coprifuoco che non ha
la minima motivazione scientifica, eppure è lì da cinque mesi,
e nessuno parla.

Forse, invece, è tempo di iniziare a parlare, e a voce alta. E
mi riferisco qui al mondo sociale nel suo insieme, o se volete
alle persone ordinarie, per così dire: perché i grandi nomi la
loro occasione l’hanno già persa. Penso, ad esempio, a
Giuseppe Tornatore, un premio Oscar che si è prestato ad un
cortometraggio di propaganda inquietante, per come prova a
normalizzare la mostruosità della nuda vita umana profanata
dai sudari di plastica[13]. Ad Antonio Scurati, premio Strega,
che sul Corriere della Sera ha raccontato l’epidemia come una
punizione divina che ci saremmo meritati per qualche oscura
ragione – come colto, più in generale, da Bernard Henry-
Lévy[14] – salvo poi riscoprire una vena di ribellione contro
il divieto di fumo all’aperto[15] [sul coprifuoco da Gestapo
no, invece; quello pare vada bene]. A Piero Angela, un mite
signore che con poca mitezza ha invocato l’esercito contro la
“movida” dei giovani[16], che non corrono nessun rischio, per
poi contestare ogni proposta di contenimento degli anziani
come lui[17] – che almeno sarebbe stato il modo meno doloroso
di uscire da questo disastro. Penso a Stefano Boeri, un
architetto di fama mondiale, che ha contribuito a rendere così
bello il nostro stare a Milano, ma non ha avuto la forza di
chiamarsi fuori da un’operazione spaventosamente idiota e
dispendiosa – santa pazienza – come la progettazione dei
padiglioni di Arcuri, sotto il precedente governo.

No, non sto parlando degli intellettuali; non sto parlando
degli accademici; non sto parlando dei sociologi; non sto
parlando delle donne e degli uomini della cultura di sinistra,
in tutti i campi e a tutti i livelli. Per loro è già tardi, e
la colpa del loro silenzio non sarà mai perdonata.

[1]                          Da                          qui:
https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/variante/.

[2] Dalla pagina web https://www.iss.it/varianti-del-virus
[corsivo aggiunto].

[3] R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni
essere vivente [1976], Milano, Mondadori, 1992. Il tema è in
certo modo implicito, va detto, nel modello dell’evoluzione di
Darwin.

[4] E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio. Una teoria
dell’opinione pubblica [1980], Roma, Meltemi, 2001.

[5] A. Venanzoni, La religione pandemista: nel nome della
“scienza” travolti diritti e garanzie della democrazia
liberale, “Atlantico Quotidiano”, 18 marzo 2021.

[6] Covid, Crisanti: terza ondata meno peggio del previsto,
lancio Adnkronos, 25 marzo 2021.

[7] L. Luminati, Variante Covid New York: identificati nelle
Marche i primi due casi italiani, “Il Resto del Carlino”, 24
marzo 2021.

[8] Coronavirus, scoperte a Palermo quattro varianti
sconosciute in Italia, “TGR Sicilia”, 23 marzo 2021.
[9] Covid, che cos’è la super-variante italiana e perché
preoccupa, “Qui Finanza”, 17 marzo 2021.

[10] In India una nuova variante Covid, “Corriere della Sera”,
25 marzo 2021.

[11] I dati Eurostat sono qui. Come si vede, l’eccesso di
mortalità in Svezia è inferiore a quello di paesi come Italia,
Francia, Germania e Spagna, che hanno scelto la strada suicida
dei lockdown. Per un primo commento, naturalmente non della
stampa italiana, G. Alander, Sweden saw lower 2020 death spike
than much of Europe – data, “Reuters”, 24 marzo 2021.

[12] Su questo, ho scritto un primo modesto contributo già
nell’aprile del 2020: Epidemie e controllo sociale, Roma,
manifestolibri, 2020.

[13] Penso ovviamente a Homo Sacer. Il potere sovrano e la
nuda vita, Torino, Einaudi, 1995. Rileggere oggi le pagine di
Agamben sulla nuda vita è, va detto, una epifania dolorosa,
tanto illuminante quanto terrificante.

[14] B. Henry-Lévy, Il virus che rende folli, Milano, La nave
di Teseo, 2020.

[15] A. Scurati, Un divieto ipocrita, fumerò all’aperto,
“Corriere della sera”, 21 gennaio 2021.

[16] Qui il lancio ANSA.

[17] Piero Angela: “se il decreto vieta gli spostamenti agli
over 70 come unica categoria, sono contrario”, “Huffington
Post”, 2 novembre 2020.
“Pillole” anti-COVID: quelle
che non vi hanno mai dato
written by Mario Menichella | 1 Aprile 2021
Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in
questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza –
se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e
quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e
prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo
televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione
rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande
maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in
molti   casi,   si   informano   esclusivamente   attraverso   la
televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti
per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout
court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico-
scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le
principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata
ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere,
delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti.

In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una
trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali
disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che
purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo:
(1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione
della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di
morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei
pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo
è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali
integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura
scientifica? (6) Perché la carica virale è importante
nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori,
pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei
medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso
confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I
vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione
della malattia?

Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno
di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19
possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse
secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come
possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola,
congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di
pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota
anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di
presentazione [1].

Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC)
di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e
malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati
anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di
testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del
contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto
con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro
disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla
pelle, lesioni pruriginose e necrosi.

Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale.
Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di
pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate
o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o
sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per
l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel
gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre
era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo
sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito
(5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3].

Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la
prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a
partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In
approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo
stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro-
infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e
caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che
sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno
nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune
saturimetro.

Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo
sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è
caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una
cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria
sistemica con cui il sistema immunitario combatte i
microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre
citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio
Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i
polmoni non sono in grado di funzionare correttamente.

   Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è
   molto importante agire già sulla prima fase, sia
   attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni
   integratori sia con il supporto di terapie domiciliari
   adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità
   Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è
ancora più determinante con la comparsa di varianti del
   SARS-CoV-2 più virulente.

Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto
Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3
a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che
aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia
va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte
presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È
ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi
sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da
assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali,
specie se presi in concomitanza con altri).

Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi
predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta
a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più
velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per
sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio
di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2
risulta essere più letale rispetto alla variante originale,
con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma
della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella
risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che
potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati.

2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il
COVID-19?

Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che
caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato
che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e
circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza
di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni
presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie
preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete,
obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come
evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].
Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui
condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può
all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che
inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di
conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di
distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori
di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non
complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di
sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie
precoci.

Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che,
sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze
statisticamente significative fra i casi a basso rischio di
morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile
identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica
della malattia che potevano essere usati in modo affidabile
per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad
alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero
soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli
altri.

Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza
dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma,
contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la
maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a
basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o
tre sintomi, il che indica come non potessero essere
identificati come tali sulla base della sola sintomatologia.

Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi
sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere
identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento
farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque
consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di
sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo
preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e
persone    “fragili”    [8]),   piuttosto    che  ricorrere
all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente
COVID.

Il loro approccio è basato su una serie di parametri
misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C
reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione
dell’ossigeno)    comprendenti    essenzialmente     marcatori
infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato
un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce
un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che
considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e
la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico).

Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una
grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in
casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri
contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o
quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce
la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di
bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente)
infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente
aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che
vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a
quelle che vivono da sole.

3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono
fondamentali?

Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci
si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1)
il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la
riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene
questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si
sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui
veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio
medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto,
poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo
sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca
esperienza e iniziativa.

D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei
ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al
contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio
dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che
arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di
COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche
avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica,
supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale
(per il filtraggio del sangue dei reni) [9].

Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la
maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente
evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio,
cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai
farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo
low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo,
peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto
autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio
informato, anche con degli spot, della sua utilità,
soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione
del sangue (ipossemia) [11].

In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per
quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un
protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito
dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i
pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo
bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se
confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con
quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del
9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la
tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e
controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta
e spera…).

Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni,
non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di
COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia
intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia
non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a
lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile
nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto
impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno,
quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per
spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera
a quella precoce domiciliare.

In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono
riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari
COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti
un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia
dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto
un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che
solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha
richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di
una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e
quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo
ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13].

Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato
medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato
inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000
persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da
tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso
precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina,
azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga
riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata
dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile,
Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo
protocolli molto simili.

4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del
COVID-19?
Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti
con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in
ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi
che possano essere somministrati precocemente a casa durante
il corso dell’infezione per prevenire la progressione della
malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti
precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino
efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di
porre fine a questa pandemia.

Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti
patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti
infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e
gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti
come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che
si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in
Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3
giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare
dei farmaci ha fatto spesso la differenza.

I medici di base del già citato “Comitato per le Cure
Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché
hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non
hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i
farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal
prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha
usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e
l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per
medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del
Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di
scuola.

Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce
che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la
risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata
dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per
combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata
non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i
dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il
momento migliore per intervenire con varie opzioni di
trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e
metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi
successivi [16].

È proprio la fase iniziale      del COVID-19, quella in cui
appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per
trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria
passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In
parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento
con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime
fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.)
potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema
immunitario alla lotta contro il virus [16].

La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della
malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la
replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più
unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che
deve produrre velocemente sempre più anticorpi per
neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro
volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del
virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la
produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque,
facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli
anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).
La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è,
   inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale
   del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi
   neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni
   integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.),
   grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se
   presi quotidianamente come forma di prevenzione della
   progressione della malattia verso stadi più gravi, in
   caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle
   particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del
resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che
stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una
memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una
delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si
lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene
infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario
di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché
“l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è
preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato
(e non immunizzato).

5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la
letteratura?
La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la
soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale
dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da
iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che
causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite
[17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di
valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la
determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede
molto tempo per la loro convalida.

Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali
contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine,
in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di
basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico.
Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di
potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali,
antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina
D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i
probiotici, la quercetina, etc.

Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di
integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il
sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus,
precludere la progressione della malattia allo stadio grave e
sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto
sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come
sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di
ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di
immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che
l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di
abitanti) rispetto all’Italia.

La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati
studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un
fattore di rischio indipendente per le forme gravi di
COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo
(in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina
D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la
lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha
proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie –
ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18,
19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e
viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e
farmacisti.

La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a
causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria.
Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule
immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle
infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina
C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie
respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si
presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune
raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di
coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La
dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno.

Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di
processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore,
molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola
l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e
antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale
trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa
dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali
diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività
dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike)
del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose
raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.

La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino
di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche,
comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche,
antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la
produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed
esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra
cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del
papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana
(HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un
altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del
COVID-19.

6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da
COVID-19?

Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi,
etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando
si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit,
ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il
concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus.
“Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni
lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono
risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore
di chimica e genomica Joshua Rabinovitz.

Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la
concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione
fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a
definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il
valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie)
/ 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è
vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare
nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie
urinarie o di molte altre parti del corpo.

La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica
della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo
(ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus
ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo
nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una
carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri
umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel
caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della
diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.
Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di
prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica,
entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il
coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a
quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve
dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una
corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che
possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire
ad abbattere di molto la dose in questione.

L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle
interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di
riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca
dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani.
Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali
sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con
un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di
esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile
molto interessante.

   Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o
   semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le
probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni.
   L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata
   correttamente, può abbattere quindi di molto la
   probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si
   verificasse, la barriera costituita dalla mascherina
   permette di assorbire una carica virale inferiore.

Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie
infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus
SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di
aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si
dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti.
Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai
luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di
trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a
farla da padrone per l’elevata densità di persone associata.

Una volta capito il concetto di carica virale, si può
comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato
intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono
state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti
ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la
saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti
“COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in
famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri
familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti
infausti.

7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo
sapere?

Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of
Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei
pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei
sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di
trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente
sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo
sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o
paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione,
l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale.

La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche
a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre
all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle
mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus
respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26],
durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della
trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre
grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong
Kong l’influenza di fatto non circolò.

Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo
medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte
a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al
viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano
almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3)
respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99%
delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime,
però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola
non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e
non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2).

Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è
senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma
è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che
forniscano una certificazione rilasciata da un ente del
settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei
siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane
certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando
l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è
garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo
negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di
solito dura di più.

Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in
modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%,
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