TESTIMONI D'IMMIGRAZIONE TOSCANA A SALTA. MEMORIE DI UNA FIGLIA DI TOSCANI

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TESTIMONI D'IMMIGRAZIONE TOSCANA A SALTA. MEMORIE DI UNA FIGLIA DI TOSCANI
Cuadernos del Hipogrifo. Revista de Literatura Hispanoamericana y Comparada
                                                          ISSN 2420-918X (Roma)

TESTIMONI D'IMMIGRAZIONE TOSCANA A SALTA.
          MEMORIE DI UNA FIGLIA DI TOSCANI
                                                                Fulvia Gabriela Lisi
       Sono Fulvia Gabriela Lisi, nata a Salta, Argentina, figlia di immigranti italiani
della Regione Toscana, rispettivamente dalle città di Prato e Firenze. A casa mia
si sono rispettate ambedue le culture: quella italiana, con la sua lingua e i suoi usi
e costumi e quella salteña (di Salta), proveniente dalla terra che accolse i miei
genitori. Sono cresciuta in una famiglia di operai; insomma, una famiglia semplice
– il babbo faceva l’idraulico, la mamma la casalinga – ma in un ambiente dove
l’educazione, la cultura, i valori culturali erano molto importanti. Con questo
racconto delle mie memorie familiari, costitutive dell’identità, intendo
testimoniare i vincoli della mia famiglia di forti tradizioni toscane che si è stabilita
a Salta (Argentina), una bella città di forte impronta coloniale situata a Nord Ovest
del paese, di fianco alle Ande.

Perché emigrare?

      Mio padre (da ora in poi: il babbo) Alberto Lisi 1 arrivò a Salta nell’anno
1913; aveva 17 anni. Io sono sempre stata molto curiosa e glielo domandavo
spesso «Perché sei emigrato qua a Salta?» Mi rispondeva sempre con le stesse
parole: «Là non c’era lavoro. Qui c’era il Castellani» 2. In effetti, lui appartiene alla
prima ondata, cioè al primo gruppo migratorio, che venne sin da fine Ottocento
fino al 1914. La fame, la povertà, la disoccupazione furono i motivi che spinsero
migliaia d’italiani ad abbandonare la loro terra, la loro famiglia alla ricerca di una
migliore qualità di vita, di progresso, crescita e lavoro. Una seconda ondata
migratoria fu nel periodo fra le due guerre, dove molti di loro vennero chiamati
1Nato a Coiano (Prato) il 6/02/1895. Morto a Salta il 23/01/1973.
2Fortunato Castellani nato a Prato, e arrivato in Argentina al porto di Buenos Aires e poi a Salta
nel 1890. La mamma di Castellani era Violante Lisi, parente di Miniato Lisi, mio nonno paterno.

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da qualche parente già stabilito o per altri motivi, in quanto vittime di
persecuzioni politiche o scappando via dal fascismo. Finalmente una terza ondata,
di quelli che arrivarono dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si sono recati
oltreoceano, verso le Americhe: Argentina, Brasile, Uruguay, Stati Uniti e Canada;
verso una nuova e lontana terra che avrebbe avuto molto di più da offrire; cioè, la
speranza di un futuro migliore.
      Alcuni anni fa in un articolo con Catalina Buliubasich e Alicia Tissera, due
colleghe dell’università, avevamo scritto:

    Quei primi immigranti che trionfarono in America, che avevano trovato
    migliori condizioni di lavoro, che si erano fatti una famiglia erano i
    modelli da seguire come un ideale. Alle loro storie bisognava aggiungere
    la valutazione del racconto sul viaggio in America che generalmente ha
    dato origine alle note catene migratorie sulla base dell’esperienza di
    quegli immigranti e della solidarietà. (Lisi, F. G. – Buliubasich, C. –
    Tissera, A. 2006: 253)

       Quindi, nel gruppo migratorio toscano, Fortunato Castellani, da Prato arrivò
a Salta nel 1890; fu «il pioniere», il primo di cui abbiamo informazione, il punto di
riferimento della catena migratoria dei pratesi di Salta e che promosse l’arrivo di
altre famiglie di Prato: Buccianti, Bubbolini, Chiti, Michelini, Bellandi, Lisi.

      Fotografia: Famiglie toscane (pratesi) di fronte alla Società Italiana (Salta, 1918)

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              Fotografia: nomi dei pratesi presenti nella fotografia precedente

       E per i senesi, il primo a immigrare fu Fra’ Bernardino Nardini, frate
francescano che arrivò qua nel 1900 per poi essere seguito dal nipote Italo
Nardini e sua moglie, Teresina Flori 3. Importante fu il contributo della nipote, la
dott.ssa Fernanda Bravo Herrera, ai Progetti di Ricerca diretti dalla sottoscritta e
alle numerose attività culturali e sociali del Centro Toscano Salta. La sua attività
ci ha permesso di completare l’informazione sulla presenza toscana (pratesi e
senesi) nella città di Salta (Lisi, F. G. 2000: 1-37, I–XVI). Esprimo un profondo
ringraziamento alla dott.ssa Susana Martorell de Laconi per la guida e
l'orientamento negli studi di Sociolinguistica e nella Specializzazione in
Linguistica.

Catena migratoria dei Lisi di Coiano

      Alberto Lisi fu il maggiore di 7 figli che ebbero Miniato Lisi e Adelaide
Carlesi (Zenaide)4 che abitavano in Via Bologna 387, Coiano, Prato, Prov. Firenze.
Raccontava il babbo di quando Fortunato Castellani che stava già a Salta, fu a
parlar con il nonno Miniato per proporre di emigrare in Argentina a uno dei figli,
pensarono che doveva venire il secondo figlio, Giuseppe, ma la fidanzata non volle
emigrare. Allora Alberto, che aveva 17 anni, prese la decisione e disse «Ci vo io».
Alberto ebbe il coraggio di affrontare l’esilio affettivo e fu uno in più della catena

3Nati ad Abbadia San Salvatore (Siena). Hanno avuto quattro figli: Elisa, Elio, Josefina e Lidia.
4Gli altri figli furono Giuseppe (Beppe), Bruno, una bambina gemella – di uno di loro, forse di
Bruno? (morta a 7 anni circa, di cui non so il nome, forse Bruna?) – Bruna, Dino e Maria.
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migratoria dei pratesi spinta dal Castellani. Viaggiò nel 1913 accompagnato da
amici che vivevano già a Salta: Giuseppe (Beppe) Buccianti e la moglie, Beppa
Michelini. Alberto di quel viaggio non volle mai parlarne. Quando gli chiedevo del
viaggio, diceva «Ufff!» con una smorfia e senza dir parola, faceva capire che era
stata una brutta esperienza, che non voleva parlarne.

                  Fotografie: Adelaide (Zenaide) Carlesi e Miniato Lisi

                                Fotografia: Alberto Lisi

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       I preparativi prima della partenza lasciarono in Alberto tracce profonde e
ricordi positivi; per completare gli studi ottenne il Certificato della Scuola
Elementare, un foglio sgualcito che io ancora conservo. La conoscenza basica sia
della matematica, come fare i conti, che della lingua, come leggere e scrivere erano
essenziali perché «lui doveva essere in grado di imparare una nuova lingua
straniera per comunicare in modo orale e scritto, trovare un lavoro e affrontare
l’inserimento nella società di accoglienza». Questa fu la spiegazione che ci dette la
sua Maestra Bonetti – che ebbi la fortuna di conoscere – una dignitosa signora
ottantenne che stava presso la Casa di Riposo di Santa Caterina a Prato. Fu una
delle prime visite che Alberto fece al suo ritorno in Italia, nel 1972, in segno di
rispetto, riconoscimento e gratitudine.

                 Fotografia: Alberto Lisi e la Maestra Bonetti (Prato, 1972)

      Al secondo figlio, Giuseppe Lisi (zio Beppe), purtroppo, toccò di fare la
Grande Guerra (1914-1918) e morì sul fronte nel 1916. Un ricordo molto triste
del quale si parlava e che colpì molto la famiglia. Ho trovato le lettere che il nonno
mandava allo zio in Albania insieme alle cartoline di saluti che la sorella Maria e i
nonni mandavano al babbo. Come mai sono qua quelle lettere? Gliele avrà date il
nonno Miniato al figlio maggiore Alberto quando tornò a visitarli nel 1930? In
queste lettere il nonno racconta allo zio Beppe – che era al fronte – che gli
mandava dei calzini, della roba per coprirsi dal freddo e soldi che suo fratello
Alberto aveva mandato dall’Argentina. Mi considero fortunata nel custodire
queste lettere come una testimonianza storica: le tengo come un tesoro insieme
ad altre cartoline raffiguranti gli strazianti tormenti della guerra a cui erano
sottoposte donne e bambini.

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                           Fotografia: Giuseppe Lisi

             Fotografia: cartoline della Grande Guerra (1914-1918)

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              Fotografie: Cartoline Grande Guerra (1914-1918). Verificato per censura

Alberto Lisi. Lavoro

       La solidarietà era alla base dell’accoglienza dei nuovi immigranti. A
differenza di altre famiglie pratesi, Alberto venne a Salta scapolo e visse 10 anni
presso il suo parente Fortunato Castellani, che aveva una ditta di riparazione e
vendita di impianti sanitari e idraulici, vetri, ottone, e dal quale sicuramente
imparò il mestiere d’idraulico. Poi visse 8 anni presso la famiglia dell’amico Beppe
Buccianti.
       Nonostante il suo lavoro d’idraulico5, il babbo aveva visione del futuro, del
progresso. Con onestà, lavorò sodo per risparmiare, ottenne la tessera di
Constructor en Obras Sanitarias e divenne un imprenditore ben rinomato,
costruttore di impianti idraulici di molte case in costruzione. Migliorò così la sua
posizione economica: ottenne molti terreni come pagamento di lavori fatti.
       Nel 1928 comprò una casa in un punto strategico in centro città sul Corso,
in Via Caseros 713, distante 100 metri dalla Piazza principale «9 de Julio». In quella
casa antica, coloniale, datata 1790 circa, stabilí la sua propria abitazione al primo
piano e la ditta «Casa Lisi» al pianterreno; dette lavoro a molti operai e aveva
anche la vendita di artefatti e materiali sanitari. Attualmente, questa casa
conosciuta oggi come Casa de Moldes, è stata dichiarata patrimonio culturale ed è
proprietà del Comune della Città di Salta.

5   Al babbo piaceva usare a volte il termine arcaico «trombaio» con tono ironico.
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       Innovò il settore con le sue idee, vere novità nelle case di Salta a quei tempi:
fare il bagno in mezzo alle due stanze da letto e mettere l’impianto dell’acqua
calda. Si legge in uno scritto dell’architetto Antonio M. Pellegrini, «Visión histórica
de la arquitectura en Salta» (1982: 162), che a Alberto Lisi corrisponde la richiesta
N°1 per ottenere il permesso per fare le fognature in una casa su Via Catamarca
«1ª cuadra». Un dato curioso è che lui andava in bicicletta. Non ebbe mai una
macchina. I miei fratelli Miniato e Giulio e mio cugino Giuliano studiarono e
lavorarono sia nell’amministrazione pubblica che nel privato sempre nell’ambito
dei lavori idraulici.

              Fotografia: Facciata della casa in Via Caseros n. 713 – Anno 1928

                     Fotografia: facciata modificata casa Caseros 713.
                 Fulvia G. Lisi e i nipotini Flavio, Enzo e Mónica Lisi – 1965

Bruno Lisi. Lavoro
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       La catena migratoria di Alberto continuò con l’arrivo di suo fratello Bruno.
Lo zio Bruno Lisi sposò Gioconda Fontani nel 1922 6. Raccontano che un giorno lo
zio andò a cercare la fidanzata all’uscita dal lavoro nella fabbrica di stoffe e tessuti
più importante di Prato, il «Fabbricone» e gli disse: «Vieni, che ci si sposa e si va
in America» (Argentina). Si sposarono e partirono subito; a dicembre, appena
arrivati a Salta nacque il loro primo figlio, José. Lo zio, che a Prato aveva lavorato
con i tessuti, qua cambiò mestiere, iniziò a fare l’idraulico mentre la zia fece la
casalinga.
       I primi anni i fratelli lavorarono in società finché Bruno e la sua famiglia si
trasferirono in una casa in Via Santiago del Estero al 900 e aprì la sua propria ditta
in uno stanzone a pochi metri dall’abitazione.
       La sera, appena chiusa l’officina, tutti i giorni andava presso la Società
Italiana a giocare a bocce: ne era un appassionato. Alberto, invece era più
casalingo; finito il lavoro dell’officina, saliva le scale e rimaneva in casa con la
famiglia.
       Mi ricordo che tutti e due i fratelli avevano i capelli tagliati all’Umberto 1°,
di moda a quei tempi e i baffi e che c’era una data speciale in cui lo zio Bruno
veniva da solo a cena da noi: tutti i Venerdì Santo di Quaresima a mangiare il
baccalà che la mamma aveva preparato per quell’occasione.

          Fotografia: nozze d’argento di Bruno Lisi e Gioconda Fontani (21 marzo 1947)

Iginia Carlesi e Giuseppe Comandi

6 I loro figli furono: José Lisi sposò Audelina Morales, figli: Alicia, Bruno e Alfredo, anche María
Julia Lisi; Rina Lisi sposò Sig. Sona, figli: Rubén e Norma Sona; Alfredo Lisi sposò Carmen Rosa
Rivero, figli: Graciela, Alfredo, Héctor Ricardo, Daniel, Gloria, Leonardo Lisi; Lidia (morta a 7
anni) e Tosca Lisi sposò Angel Corona, figli: Miguel Angel, Osvaldo e María Rosa Corona.
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       La nostra catena migratoria continuò nel 1932 con l’arrivo di una zia del
babbo e di Bruno, la zia Iginia Carlesi – sorella della nonna Zenaide – che venne
con suo marito, Giuseppe (Beppe) Comandi, nato ad Arezzo; non ebbero figli. Lui
aveva combattuto nella Grande Guerra, io conservo ancora le sue medaglie.
Vivevano in un terreno di proprietà del babbo, erano molto umili, sempre aiutati
dai nipoti. Loro allevavano polli e galline, vendevano le uova, la zia Iginia faceva
la casalinga, mi ricordo che quando dava da mangiare ai pulcini li chiamava
«piccirullitti» come se fossero bambini, «piccirulli». Era bravissima a recitare con
scioltezza uno scioglilingua lungo e difficile che non ho mai potuto imparare. Era
tradizione che le due famiglie dei nipoti andassero a cena da loro dopo la
processione della Madonna del Perpetuo Soccorso.
       Gli altri tre zii Lisi: Bruna, Maria e Dino restarono a Firenze e Prato7 e con le
loro famiglie abbiamo sempre mantenuto un legame di comunicazione per posta.
Nelle lettere si raccontavano brevemente situazioni comuni di vita, non c’era un
approfondimento di vita, sentimenti. Le lettere o le cartoline, sebbene
accorciavano la distanza, mettevano un mese ad arrivare portando le notizie belle
o brutte; ad esempio, ricordo la tristezza quando arrivò la notizia della mancanza
dello zio Dino. In genere il telegramma portava le cattive notizie e di rado per fare
gli auguri a uno sposalizio. Per fortuna oggi, grazie alla comunicazione virtuale
tutto è cambiato e siamo più vicini e aggiornati con le novità.
       Conoscevamo la fisonomia dei miei cugini per le fotografie della 1ª
Comunione, la Cresima, il matrimonio. Quando ci siamo incontrati per prima volta
con i parenti italiani ho avuto la sensazione che ci conoscessimo da sempre, li
sento molto vicini, siamo legati da un’amicizia e da un grande affetto che dura
finora.
       Comunque, c’è qualche differenza nella necessità di conoscere la terra
altrui. Penso che per noi, nati in Argentina, andare in Italia abbia un valore
attrattivo più forte e forse sia più facile per noi inserirci perché siamo cresciuti
con lo sguardo rivolto alle nostre origini, con il desiderio di conoscere la terra dei
nostri antenati, la lingua italiana veniva parlata nel seno delle famiglie, molte
tradizioni si mantenevano. Contrariamente, ho avuto la sensazione che,
diversamente, loro, nati in Italia, non avevano avuto il bisogno di venire a trovarci,
a conoscere la terra dove siamo nati e cresciuti noi. Per loro «l’Argentina è troppo

7 Bruna Lisi sposò Pergentino Cipriani, (Firenze) i figli: Amelia Cipriani (nata 1924, + 2020)
sposò Umberto Lelli, figli: Kitti e Paolo Lelli; Osvaldo Cipriani sposò Cesarina (Coca)(Milano),
figlie: Gabriela ed Emanuela e Pierluigi Cipriani sposò Enrica, figlie: Maria Pia e Daniela Cipriani.
Dino Lisi (Prato) sposò Ida, i figli: Marisa e Franco Lisi (non ebbero figli). Maria Lisi (Prato)
sposò Quintilio Moscardi, i figli: Brunella sposò Corrado Lotti, figlio: Riccardo Lotti, Fiorella
sposò Montalbo Gori, figli: Silvia e Leonardo Gori e Carlo Moscardi sposò Cristina Bartolozzi,
figli Simone e Damiano Moscardi. Di tutti i cugini italiani e argentini il maggiore: José Lisi, nato
nel 1922 e la minore Fulvia Gabriela Lisi, nata nel 1947.
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lontana» mi dicevano, allora io pensavo «ma è la stessa distanza». Capisco che per
loro fosse più difficile capirci: avevano sofferto guerre e forse pensavano, «Chi è
partito se ne è andato via, era come un abbandono». Nessun parente venne a
trovarci per tanti anni; soltanto due cugini delle generazioni più giovani vennero
molto volentieri a farci visita 8. Questo è un tema da analizzare più a lungo, molti
letterati vi hanno fatto riferimento soprattutto negli ultimi decenni.

Alberto e Tosca

      Alberto tornò in Italia per la prima volta nel 1930 per visitare la famiglia e
anche con l’idea di trovare una moglie. A luglio di quell’anno conobbe la mamma,
Tosca Settesoldi9 una bella e brava ragazza dagli occhi grigi celesti, che lavorava
come commessa presso il Biscottificio «Antonio Mattei» (Mattonella), proprietà
del Sig. Ernesto Pandolfini, poi del figlio Paolo, che divenne un grande amico. In
questa rinomata bottega i pratesi comprano le migliori specialità toscane: i
Biscotti di Prato (Cantucci) da inzuppare nel Vin Santo Barone Ricasoli, i Bruttiboni,
la Torta Mantovana. Oggi i 4 figli di Paolo: Francesco, Marcella, Elisabetta e Letizia
Pandolfini, che ho conosciuto da bambini, portano avanti il biscottificio; per me è
impossibile non entrare in bottega a salutarli ogni volta che passo per il centro di
Prato. Sono molto affezionata anche ai commessi.

                                     Fotografia: Tosca Settesoldi

      Fra Alberto e Tosca ci fu un colpo di fulmine. Alberto le propose subito il
matrimonio e con tutta chiarezza le spiegò del suo lavoro sporco d’idraulico, che
l’avrebbe visto tutti i giorni indossare una tuta. Le amiche di Tosca, diffidenti,

8   Nel 1999: Carlo Moscardi e la moglie Cristina Bartolozzi; nel 2003 Silvia Gori con l’amica Ilaria.
9   Tosca Settesoldi, n. 19/09/1906 (Prato) +5/06/1975 (Salta).
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temevano che – come si sentiva di tanti altri casi – Alberto avesse un’altra moglie,
figli, insomma, un’altra famiglia in Argentina. Ma la Tosca – innamorata cotta – era
fiduciosa e decise di affrontare questa sfida del cambio radicale di vita. Ma come
non innamorarsi di Alberto? A dire il vero, era un bell’uomo: alto, robusto, aveva
uno sguardo profondo, sincero, serio, era di poche parole, ma quelle giuste.
Alberto e Tosca, dopo tre mesi di fidanzamento, si sposarono il 18 ottobre 1930.
Per il viaggio di nozze andarono a Pisa.

           Fotografia: sposalizio di Tosca Settesoldi e Alberto Lisi (18 ottobre 1930)

      Partirono per l’Argentina nel bastimento Conte Rosso, arrivarono a Salta a
febbraio del 1931, la mamma già incinta di mia sorella Zenaide. Noi, i suoi figli,
siamo nati a Salta nella storica casa di Via Caseros.
      Zenaide Lisi (n. 6/08/1931 +3/12/2002), insegnante di Musica in scuole
medie e presso la Escuela Superior de Música de la Provincia, concertista di
pianoforte (di lei parlerò più avanti). Sposò Benito Crivelli, nato a Bergamo,
padrone della Cartoleria «El Colegio», molto impegnato con la diffusione dell’arte:
in una piccola stanza del negozio creò nel 1962 circa la «Galleria d’Arte Crivelli»,
la prima Galleria d’Arte privata a Salta – dove io non mancavo mai alle
inaugurazioni – si fecero anche opere di teatro con pubblico molto ridotto (20
persone) come permetteva lo spazio e fu uno dei creatori di Pro Cultura Salta con
diverse cariche Presidente, Segretario. Figli: Claudio Crivelli, ingegnere chimico 10,
Dante Crivelli, geologo11.

10 Claudio Crivelli sposò Daliinda Aguilar; 4 figli: Mauricio, Veronica, Leonardo e Augusto
Crivelli.
11 Dante Crivelli sposò Daniela Cornejo, 3 figli: Martín, Luciano e Fabricio Crivelli.

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 Fotografia: in casa di Alberto Lisi, Caseros 713 (Salta). Giorno del battesimo di Zenaide (1931).
                    Pratesi: Lisi, Buccianti, Bubbolini, Chiti, Rondono, Bellandi

      Miniato Lisi (n. 3/09/1933 +18/09/2015), Técnico Constructor de Obras
Sanitarias (Universidad Nacional de Córdoba). Sposò Ana María Gracia Sacchi
(Annina), casalinga nata a Salta e figlia di un milanese e una ligure. Lavorò come
impiegato civile nella Compañía de Ingenieros de Montaña dell’Esercito e
collaborò con il babbo nei lavori come idraulico. Figli: Mónica Lisi, insegnante di
Matematica 12 , Flavio Lisi (n. 30/12/1962 +26/01/2000 nell’Aconcagua)
ingegnere e andinista, Enzo Lisi e Aldo Lisi, commerciante, ha una cartoleria.
      Giulio Lisi (n. 8/08/1937 +18/02/2014), studiò nella Scuola Tecnica,
orientamento idraulico, lavorò in uffici pubblici e privati. Sposò Maria Marinaro,
casalinga, nata a Salta, figlia di siciliani di Pettineo. Figli: Dina Lisi, maestra di
Asilo13, Gabriela Lisi14 casalinga e Gustavo Lisi, guida di montagna.
      La minore e chi scrive queste memorie, ovvero Fulvia Gabriela Lisi (n.
30/07/1947), insegnante d’Inglese, responsabile della Cattedra d’Italiano e
Direttrice di Progetti di Ricerca (CIUNSa) presso l’Universidad Nacional de Salta,
Specialista in Linguistica. Sposata con Jorge Hugo Román, nato a Buenos Aires, da
genitori spagnoli 15 , noto artista, pittore, scultore. Figlia: Florencia Emanuela

12 Mónica Lisi sposò Claudio Zanek; figli: Franco, Pablo e Martina Zanek.
13 Dina Lisi sposata e divorziata; figlie: Agustina e Rocío Teyssier.
14 Gabriela Lisi, sposò Rosario Marinaro, figli: Carolina, Florencia e Ignacio Marinaro. Nipoti:

Rosario e Victorio.
15 Jorge Hugo Román: noto artista nato a Buenos Aires (3/04/1925, morto a Salta 30/07/2004)

e poi si stabilì a Salta: pittore, scultore, fece disegni, incisioni, acquerelle. Vinse «Gran Premio
de Honor Presidente de la Nación Argentina» nel 1° Salón Nacional de Dibujo y Grabado con il
disegno «El Juez de Paz». 1° Premio e Gran Premio de Honor nel Salón Provincial (Salta) e altri
numerosi premi nazionali e provinciali e ottenne il riconoscimento Dr. Honoris Causa de la
Universidad Nacional de Salta (2004). Alcune sue opere sono nei musei nazionali e raccolte
private in Argentina, Italia, Spagna.
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Román (n. 19/12/1980), insegnante e Laureata in Biologia che sposò Mariano
Hernán Peralta, i figli, i miei carissimi nipotini, Valentina (7) e Bruno (3) Peralta
Román, che frequentano la Scuola Bilingue Italo-Argentina «Dante Alighieri» e,
seguendo la tradizione, parlano italiano in casa, specialmente con la nonna e la
loro mamma.

I Brunori-Settesoldi

        Con i parenti di Tosca Settesoldi, mia madre continuò la catena migratoria:
la nonna Fiorlinda (Linda) Brunori, era vedova, il nonno Giulio Settesoldi, faceva
il muratore, morí quando la mamma aveva 3 anni. La nonna Linda, la zia Renata
Settesoldi e suo figlio Giuliano Mannori 16 , arrivarono dopo la Seconda Guerra
Mondiale, nel 1947; io avevo tre mesi. La zia Renata fu la mia madrina di
battesimo. Anche lei, a Prato, aveva lavorato presso il Fabbricone. Era sposata con
Pietro Mannori, che venne a trovarci a Salta circa nel 1937 prima di andare a
Buenos Aires, dove doveva montare dei macchinari in una fabbrica di tessuti, ma
lui poco tempo dopo morì a Buenos Aires a causa di un infarto. La nonna, la zia e
mio cugino vissero in casa nostra per molti anni. Ho avuto la fortuna di un’infanzia
con la presenza e il ricordo della nonna Linda: era bella, alta, eretta, dai capelli
bianchi raccolti e occhi celesti, era una signora distinta.
        La mamma parlava molto della famiglia della nonna Linda Brunori a Fiesole,
a Firenze. Sicuramente aveva molto affetto per il nonno Gabriello Brunori, perché
lo ricordava sempre come un uomo molto buono, pio che frequentava molto la
chiesa, apparteneva ai 12 Apostoli e aveva avuto 12 figli. Mi divertivo a sentire
quando la mamma ci raccontava gli aneddoti degli zii Brunori, per esempio,
quando i fratelli maggiori, furbi, facevano ripetere ai più piccoli una dottrina tutta
diversa, che i piccoli ripetevano con ingenuità. I fratelli maggiori insegnavano con
furbizia ai più piccoli a rispondere nella Dottrina. Domanda: «Chi ti ha fatto?».
Risposta: «Il babbo e la mamma sotto le lenzuola», anziché «Il Dio». Domanda:
«Dove sta il Dio?» Risposta: «In Via Faentina N° 43», anziché: «In cielo». Il prete
gli riferiva le risposte dei bambini al nonno Gabriello, lui si prendeva il capo con
le mani e non sapeva cosa spiegare dalla vergogna, quando tornava a casa
chiedeva ai figli, «Ma cosa gli avete insegnato a dire ai più piccoli?». La mamma
parlava sempre della zia Bianca, la Zia Giovannina e lo Zio Eugenio, che era un bel
ragazzo, purtroppo morto abbastanza giovane. Lei stette con le zie e il nonno a

16La madre Fiorlinda (Linda) Brunori, nata a Fiesole (Firenze), la sorella Renata Settesoldi, nata
a Prato, mia zia e madrina di battesimo e suo figlio Giuliano Mannori (nato a Prato 30/12/1932
+ 2/12/1918 a Salta), sposò Haydée Ocaña il 9/07/1955, ebbero due figli: Pedro Joaquín,di
professione ingegnere e Roberto Mannori, commercialista (contador).

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Fiesole perché si era ammalata ai 5 anni circa con quel morbillo infettivo che in
quegli anni fece molte vittime; per fortuna a lei attaccò solo all’osso della gamba,
le fecero un intervento ed era stata ricoverata all’Ospedale di Santa Maria Nuova
a Firenze. Una volta guarita dovette stare a Fiesole perché le zie si prendevano
cura di lei per portarla a farle le guarigioni in ospedale. Alla mamma piaceva tanto
il gelato e quando sentiva passare il gelataio che gridava «Gelato!», diceva con
quella vocina ingenua: «Zia, oggi il gelato No, eh?» E la zia che non poteva dirle di
no: «Ma vai, vai… il modo che tu me lo chiedi...per oggi te lo compro». Sicuramente,
questo spiega anche quella parlata, quell’accento fiorentino che non perse mai
più.
       Dopo la guerra venne anche il Fontani Mario, fratello della zia Gioconda, e
sua moglie: erano infermieri, i figli Ernesta e Giacomo nacquero in Tunisia quando
i genitori lavoravano nella «Legione Straniera».

  Fotografia: Famiglie Lisi (Alberto e Bruno), Carlesi – Comandi, Brunori – Mannori, Fontani

La vita quotidiana

      Uno sguardo veloce sulla vita quotidiana di questa famiglia di immigranti
toscani ci mostra che l’attaccamento alle tradizioni si manifestava attraverso la
lingua, i piatti tipici, le faccende, i lavori a maglia, il ricamo, il canto, i giochi, il
giardino, l’orto, insomma nella vita di ogni giorno.
      La mattina quasi all’alba il babbo andava in bicicletta al mercato a far la
spesa. Era lui che provvedeva a tutto per la casa. Poi si dedicava al suo lavoro e
dopo pranzo faceva un pisolino di una mezz’oretta seduto su una poltrona in
salotto e dopo continuava il lavoro.

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      Il sabato pomeriggio si andava con il babbo e i miei fratelli al «terreno
brutto»17, un terreno in città dove aveva piantato ogni varietà di susini, fichi, c’era
un pesco, un giuggiolo18 e tanti fiori, rosai, dalie, un albero di magnolia e il mitico
mulino a vento. Tornavamo a casa caricati di fiori e frutti, a seconda della stagione.
      La mamma non usciva quasi mai, molto di rado andava a far visita alle
amiche o ai parenti. Le donne le ho sempre viste lavorare, la nonna Linda e la
mamma Tosca facevano la maglia, i calzini di cotone con 5 aghi, la zia Renata il
ricamo, che ci hanno insegnato a fare a me e mia sorella. La mamma cantava
sempre le arie delle opere, mentre faceva le faccende o cucinava e per ogni
situazione aveva un detto o un proverbio. Era un «libro aperto». Le preghiere le
dicevano in latino. Ci cantavano la ninna nanna, abbiamo imparato le preghiere (i
miei nipoti la dicono ogni sera quando vanno a letto), le filastrocche, le coccole
sonore, il canto della ninna nanna. Il babbo, prima di dormire, mi raccontava le
storie come quella della «Capra Margulla», la «Storia dell’Orco delle sette leghe»
ma si addormentava sempre a metà e io lo scuotevo, si svegliava di soprassalto e
diceva: «Eh! Eh!... Dove son rimasto?», ma subito dopo si riaddormentava… e la
storiella ricominciava la sera dopo.

       Preghiera
       Angiolin bellin, bellino
       Con quel capo ricciolino,
       Con quegl’occhi pieni d’amore
       Gesù mio vi dono il cuore
       Ve lo dono tutto tutto
       Che non me ne resti punto.
       Me ne resti un briciolino
       Per donarlo a Gesù Bambino

       Ninna Nanna (Coccola sonora)
       Fai la nanna un po’
       Tornerà il papà
       Porterà il coccò
       Fai la nanna un po’.
       Fai la nanna
       Coscina di pollo
       La tua mamma

17 «Terreno brutto»: gli rimase quel nome perché mia sorella Zenaide quando era piccina si
pungeva le dita con le spine delle rose e lo chiamava così.
18 Giuggiolo: Azufaifo (in spagnolo). Rara pianta originaria della Siria, quasi sconosciuta qua. A

mio fratello Miniato e a me piacevano tanto le giuggiole. Io ora a casa mia in giardino ho una
bella pianta di giuggiolo che mi hanno regalato portata da Córdoba.
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      M’ha fatto il gonnello
      Me l’ha fatto col bell’orlo
      Fai la nanna
      Coscina di pollo.

      Nanna oh, nanna oh
      Questo bambino a chi lo do
      Lo darò alla Befana
      Che lo tenga una settimana.
      Nanna oh, nanna oh
      Questo bambino a chi lo do
      Lo darò al Lupo Nero
      Che lo tenga un anno intero.
      Nanna oh, nanna oh
      Questo bambino a chi lo do
      Lo darò al Lupo Bianco
      Che lo tenga tanto tanto.

                         Fotografia: Fulvia Gabriela Lisi (8 mesi)

      Da piccola la nonna Linda mi insegnò una filastrocca che io mi divertivo a
ripetere a voce sempre più alta perché mi ero resa conto che faceva arrossire e
brontolare la mamma, si spaventava e mi faceva star zitta: «A, B, C, D. La gatta la
mi fuggì, la mi fuggì sotto il letto e la rimase a buco aperto». Per la mia ingenuità
non capivo il perché. Con gli anni ho scoperto che tante di queste filastrocche,
ninna nanne, canzoncine trasmesse per tradizione orale che fanno parte della
narrativa popolare, nascondono un messaggio erotico, picaresco:
                                                                                  256
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      L’esecuzione delle canzoni in bocca di madri e nonne tende a istaurare
      un’atmosfera magica nella quale si riproduce il vincolo affettivo madre-
      figlio della quale ha partecipato la generazione precedente,
      rappresentando una specie di rituale nel quale si ripete la litania senza
      soffermarsi sul significato. (Lisi, F. G. – Gutiérrez, R. – Fornasari, E. 1999:
      196)

Il mangiare

       La cucina italiana è piena di tradizione, sostanziosa eppure semplice. Nella
cucina toscana: piatti dai sapori semplici esaltati dall’olio d’uliva, con pochi
condimenti: sale, pepe e qualche odore (erba aromatica) per dargli un tocco
distintivo. Da bere, acqua e vino, il Chianti per eccellenza. A mio avviso, la cucina
toscana è paragonabile all’equilibrio raffinato della cultura del Rinascimento,
«Toscana: una regione dove genuinità e schiettezza è prerogativa di un popolo
geniale che ha donato al mondo momenti culturali ineguagliabili» (Fridi, V. 1997:
82) «Niente di meno, ma niente di più. È la chiave del Rinascimento» (Lilli Latino,
G. et al. s/d: 47).
       L’immigrante ha portato con sé le tradizioni, i profumi, i sapori, i gusti
caratteristici della propria regione. Nelle case di molti immigranti toscani non
mancava la pianta di salvia e di ramerino, gli odori vegetali prelibati. La salvia per
il pollo alla cacciatora, anche per fare il Girarrosto19 con pezzetti di pollo e maiale
alternati con il pane e tanta salvia di mezzo, che cercavano dalla pianta grande che
aveva il Chiti. Questo è un mangiare di antiche origini, capace di creare
un’atmosfera suggestiva: nella preparazione, nella cottura, nella degustazione –
era la specialità di mio fratello Miniato – lo faceva con la macchinetta del
Girarrosto portata dall’Italia. La pianta di ramerino per condire l’Arista, i semi di
finocchio per la bistecca di maiale. Buoni anche la bistecca alla fiorentina
accompagnata da verdure e la trippa alla fiorentina. Il pane casareccio – in Toscana
è sciocco, cioè non salato, invece qua è salato – soltanto il babbo lo tagliava in fette
appoggiandoselo sul petto e che distribuiva ad ognuno di noi.
       Una volta, il babbo, sempre curioso per provare a fare qualche mangiare
tipico toscano, si rinchiuse in cucina da solo – non voleva nessuno vicino – con gli
ingredienti per fare il panforte: i frutti secchi, le spezie, le mandorle, la cioccolata,
anche l’ostia che gliel’avevano data i francescani. Fece un tramenio in cucina,
finalmente gli dette la forma rotonda e mise una pietra sopra per premerlo e

19Il Girarrosto è un mangiare tipico della Toscana. Si fa cucinare arrosto (cioè allo spiedo)
pezzetti di carne di pollo e di maiale alternati con pane e salvia di mezzo. Si chiama anche
Girarrosto la macchinetta per lo spiedo automatico; ci sono a manovella oppure elettriche.
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dargli la forma finale. Quando finalmente abbiamo mangiato il panforte, era
squisito!!!!! Dalla curiosità gli abbiamo chiesto: «Babbo, come l’hai fatto?» «Eh!
Non lo so. Non me lo ricordo». Noi non potevamo far altro che ridere, anche se con
un po’ di rammarico. Non abbiamo mai più dimenticato com’era buono quel
panforte improvvisato e fatto a memoria!
        Ai fini di organizzare il mangiare per una famiglia numerosa, veniva
destinato per alcuni giorni della settimana un menù fisso: il lunedì il lesso, con
l’ossobuco e carne accompagnato da patate, carote e verdure lesse perché era
giorno di bucato e non c’era molto tempo per dedicare in cucina. Il giovedì e la
domenica si mangiava la pastasciutta con il sugo alla bolognese (ragù) delizioso
che faceva la mamma e più avanti negli anni, seguendo la tradizione argentina, la
domenica facevano l’asado (carne alla griglia) accompagnato da insalate.
        I Crostini di fegatini di pollo sono il vero primo piatto di un pranzo toscano.
Formaggi, «presciutto», funghi di bosco, verdure. Quanti piatti tipicamente
toscani abbiamo mangiato, e poi degustati in Italia, senza differenza di sapori né
odori: la pastasciutta, la minestra di pane, il minestrone, la minestra sui fagioli, o
ceci lessi o rifatti. Il Pollo Fritto, che avevo già mangiato a casa, a Prato la zia Maria
lo faceva con contorno di fiori di zucca fritti, lo accompagnava con funghi porcini
fritti «erano la sua morte»; molti piatti in Toscana sono fritti e, parlando di fritto,
la mamma diceva: «Anche una ciabatta fritta l’è bona!» In primavera i carciofi, al
babbo e a me ci piaceva mangiarli crudi quando erano piccoli, teneri e ridevamo
nel vedere che alla quinta, sesta foglia, la lingua era diventata aspra e nera; li
mangiavamo anche lessi, sempre intingendoli nel pinzimonio, fatto con olio, aceto,
sale, pepe. Quando la mamma non sapeva cosa cucinare per la cena ce lo
domandava e io rispondevo subito: uova con pumodori (pomodori), un piatto
molto semplice: salsettina di pomodori e si cucina dentro un uovo, come se fosse
fritto: un sugo ideale per inzuppare il pane. Quando non c’era pane, con l’impasto
per la pizza che friggendolo faceva le zonzelle oppure lo metteva in forno e sopra
ci distribuiva un po’ d’olio, sale grosso, pepe, aglio e ramerino, faceva la
schiacciata (focaccia). «Tutta roba buona», a tavola insisteva per farci mangiare:
«mangia, che va giù solo» diceva sempre la mamma. Si mangiava tanto volentieri
quei piatti cosi saporiti!
        Per Pasqua dovevamo portare le uova sode con un limone e qualche rametto
di prezzemolo in un piatto rinvoltato in un tovagliolo bianco in Chiesa per farle
benedire e dopo le mangiavamo a pranzo dentro la minestra di riso con piselli
(riso e bisi), Il Piatto Principale era la carne: pollo arrosto o agnellino con contorno
di patate in forno. La parte divertente era quando arrivava il momento di
mangiare le Uova di Cioccolata, ce le facevano rompere a noi bambini con un colpo
di pugno come vuole la tradizione.
        I dolci erano la specialità della mamma che faceva per i compleanni, le Feste,
le riunioni con amici: i Biscottini di Prato (cantucci) che si mangiano inzuppati nel
Vin Santo e la Torta Mantovana. Per Carnevale la mamma faceva i Cenci (frappe a
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Perugia, a Roma; chiacchiere a Siena), le frittelle di riso per San Giuseppe e quando
faceva freddo, una buona merenda con le ciambelle che si mangiavano con una
bella tazza di cioccolata. A volte per merenda la mamma ci dava una fetta di pane
con una stecca di cioccolata, o a mezza mattina ci faceva lo zabaione con uovo
battuto, zucchero e un po’ di vino. Come fanno in campagna, il babbo imbottigliava
il vino, sigillava il tappo con la ceralacca per conservarlo in cantina. D’inverno non
mancava l’uva in guazzo (cioè sotto spirito) che aveva preparato il babbo per
offrire agli amici. Io cerco di mantenere la tradizione di fare l’uva in guazzo e altri
liquori con le ricette che mi ha dato la moglie di Paolo Pandolfini, Laura, nata a
Pozzuoli, Napoli: il nocino, liquore scuro, digestivo, pregiatissimo fra gli amici
oppure il liquore di mandarino.
       Con il tempo, molte famiglie hanno incorporato sempre più i piatti tipici
locali: il mate (dallo zio Bruno), l’asado, le empanadas, le humitas. E all’inversa,
nella decade 1990 nelle manifestazioni culturali del Centro Toscano Salta era
tradizione offrire i Biscottini per inzupparli nel Vin Santo, che la gente di Salta /i
salteños hanno imparato a degustare in quel modo.
       Nei bauli questi immigranti avevano portato anche la batteria da cucina,
pentole, tegami e gli accessori indispensabili: il girarrosto, il paiolo di rame per
fare la polenta che era esclusività del babbo, ci voleva «santa pazienza» per
rigirarla con il mestolo adatto, poi si versava su un legno e veniva tagliata con il
filo, accompagnata dal sugo alla bolognese; il setaccio, il mattarello per stirare la
pasta e l’altro con le forme per i ravioli, la mezzaluna, il passatutto, il macinino del
caffè fra tante altre; conservo tutto come icona, per il loro valore rappresentativo.
       Non ho mai dimenticato quei sapori, quegli odori dei piatti tipici che faceva
la mamma e soprattutto l’effetto, l’impressione quando arrivai in Italia per la
prima volta: non c’era alcuna differenza nei sapori. Era un prolungare dei sapori
di casa mia, subito mi sentii a mio agio. E per i piatti che non conoscevo, mi
adattavo subito, era tutto un ricordare e scoprire gusti nuovi. Oggi, in cucina, io
cerco in parte di mantenere quella tradizione e quando cucino i Crostini, la
Pastasciutta con il sugo alla bolognese, l’Arista, la Torta Mantovana e i Biscottini di
Prato fanno festa in casa, sono piatti molto benvenuti!
Feste e ricorrenze

      Le Feste Natalizie, Capodanno, Pasqua, come i compleanni, erano feste
dedicate alla famiglia, molte le abbiamo passate con parenti o con amici, eravamo
famiglie numerose, quindi tutti i ricordi ci portano allegria, baldoria, musica,
canto.
      La festa più importante per i bambini era quella della Befana e i Re Magi. A
casa mia io aspettavo tutte e due: mettevo le scarpe perché i Re Magi (tradizione
argentina) mi lasciassero i regali. I miei fratelli e mia sorella erano già grandi,
quindi mi aiutavano ad apparecchiare il tavolo, si metteva il Panettone, biscotti,
qualcosa da bere; per terra una catinella con acqua e un po’ d’erba per i cammelli.
                                                                                    259
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Ma io aspettavo con ansia anche l’arrivo della Befana. Quando la mattina dopo mi
svegliavo, il mangiare sul tavolo era quasi finito, rimanevano briciole sparse sulla
tovaglia, sul tavolo c’era disordine, avevano bevuto tutto; l’acqua dei cammelli era
un po’ rovesciata, l’erba rimasta era sparsa intorno. Nelle scarpe i Re Magi mi
avevano lasciato giocattoli. E trovavo sempre la calza appesa alla spalliera del mio
letto che mi aveva lasciato la Befana: piena di dolci, caramelle, noci, biscottini,
cioccolatini e…l’immancabile pezzetto di carbone rinvoltato in un pezzo di
giornale perché qualche volta, birichina io, mi ero portata un po’ male. Ecco le
poesie della Befana che sapevo recitare:

      Le scarpe di cencio
      Le scarpe di lana
      Fuggi, bambino,
      Che c’è la Befana!

      Questa è la notte della Befana
      Dalle sue grotte esce, cammina e va per i tetti
      Lasciando paste, chicchi e confetti pei fanciulletti.
      Adagio adagio, pianin pianino
      Mette l’orecchio presso il camino
      Se alcun fa chiasso, se alcun si muove
      Ritorna altrove e pei bambini che non son buoni
      Getta carbone!

      L’attaccamento alle proprie origini ha fatto in modo che questa tradizione
della Befana (la calza) e i Re Magi (le scarpe), come tante altre, nella mia famiglia
si mantenessero lungo le generazioni: io con mia figlia e ora con i miei nipotini.

Lingua e amici toscani

       L’italiano si parlava non solo in famiglia, ma anche con gli amici pratesi e
toscani che frequentavano casa nostra. Quel gruppo di amici, che si frequentavano
molto furono: il Castellani: ebbe un’importante ditta: fece i primi fanali di ottone
che illuminavano le strade della città, lavori di impianti idraulici e fabbrica di
vetro, i Lisi, la mia famiglia imparentata con il Castellani. Tutti gli altri, amici: i
Buccianti: erano falegnami, ebanisti, fecero balconi, mobili, altare di Chiesa la
Merced; il Bubbolini era intagliatore; il Chiti Armando, che vinse il Giro d’Italia in
bicicletta e il Rondoni facevano gli imbianchini e hanno dipinto le pareti che
somigliano il marmo nelle Cattedrali di Salta e di Jujuy; le famiglie Michelini,
Bubbolini, Buccianti, Chiti, Bellandi, Pellegrinetti, erano un po’ imparentate; i Bini
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imparentati con i Rondoni, Targetti; Bini Umberto ebbe un importante
stabilimento di legname e una ditta edile; Ferraresi era idraulico.
       Quasi tutti erano imparentati fra di loro, erano immigrati «a catena». Le
prime generazioni perché erano amici del Castellani, ma dopo li seguirono gli altri
parenti.

                     Fotografia: compleanno di Giuseppe Buccianti

      Le fotografie mostrano diversi momenti che condividevano con gioia:
scampagnate, battesimi, compleanni, sposalizi. Si legge in questa foto testimoniata
da Alberto Lisi: «4 maggio 1934. Dopo la ciena un grupo de Pratesi, Signesi,
Fiorentini, Arretini e figli di pratesi in casa del Sr. Buccianti Giuseppe nel suo
compleanno (sesantesimo) ma Siamo una buona Colonia! Alberto». Lui considerava
questo gruppo una «colonia».

                          Fotografia: epigrafe di Alberto Lisi

      Mi ricordo specialmente di Attilio (Vasco) Buccianti, che veniva spesso a
casa: anche se immigrato da piccolo aveva mantenuto una parlata pratese piena
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di espressioni idiomatiche e parole oramai arcaiche, allora io correvo a cercare il
mio taccuino per prendere nota di ogni parola. Il suo viso s’illuminava con
un’espressione di grande soddisfazione per questa mia curiosità. E mio cugino
Giuliano Mannori in tanti anni di Argentina non aveva mai perso la sua schietta
parlata pratese e contemporaneamente parlava benissimo lo spagnolo.

Amici di altre regioni

       Gli amici che frequentavano i miei genitori, la mia famiglia, non erano
soltanto toscani, molti appartenevano ad altre regioni.
       Sardegna: Beppino Piu, un signore di aspetto piuttosto burbero, occhi neri
con sguardo forte, come i sardi 20 , molto formale; quando dava la mano per
salutare ci faceva impressione perché la stringeva tanto forte che ci faceva male.
Lui vendeva la verdura al mercato e si spostava in una jardinera (un carro tirato
dai cavalli). Sposò una signora «criolla», brava casalinga, ebbero 6 figli, ma non
parlavano l’italiano in famiglia. Veniva spesso a far visita al babbo con chi si
trovava a suo agio, facevano lunghe chiacchierate.
       Lazio (Cisterna, Latina): Don Luigi Zangrilli: il prete di Cerrillos. Arrivò
dall’Italia nel 1938 come francescano Fra Mansueto e poi chiese dispensa per
diventare prete per avere cura dei suoi genitori, Antonio e Floriana. Diventò
parroco della Chiesa San José di Cerrillos, paese a 14 km. Da Salta, poi fu parroco
della Chiesa El Transito nella città di Salta. Fu insegnante nella scuola dei
francescani, Direttore del Coro Polifonico, un prete molto attivo nella vita
culturale, musicale ed inoltre aveva una bella voce da tenore. Lui faceva parte del
tribunale che prendeva gli esami di pianoforte del Conservatorio di musica di mia
sorella Zenaide. Dopo la guerra immigrò uno zio del prete, Colasante con la
famiglia, vissero per 8 anni nella casa di campagna a Cerrillos che li prestò il babbo
(questo è un esempio in più di solidarietà fra gli immigranti); alla fine quasi tutti
ritornarono in Italia.
       Abbruzzo Molise (Campobasso): i Buonarroti, il primo a immigrare fu il
nonno Josuè Brabo fra il 1925 fino al 1928. Lui prima aveva fatto la guerra del
1914 e ottenne delle medaglie. «A lui non piaceva Salta, voleva lavorare, fare i
soldi e tornarsene in Italia», mi raccontò la nipote Cristina. Poi ritornò qua nel
1930 e non ritornò mai più in Italia. Lavorava le pietre, faceva il tagliapietre,
lavorò in molte facciate delle case, restaurò fontane delle piazze, partecipò ai
lavori nella scalinata del Monumento a Güemes inaugurato nel 1931. La sua storia
è molto toccante, perché passarono 18 anni finché, dopo la Seconda Guerra
Mondiale, la famiglia poté venire al suo incontro. Ma i soldi che aveva risparmiato,

20Il babbo e gli altri toscani dicevano «sardegnolo», termine arcaico, usato allora, ora ha un
senso offensivo
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che sarebbero bastati per tutti, in quel momento bastavano soltanto per un
biglietto, allora mandarono prima il figlio maggiore, Libero Brabo. Gli altri
membri della famiglia dovettero aspettare, fino il 1948 per poter venire: la moglie
Elisabetta Tosti, la famiglia della figlia Donata, sarta, con il marito Nino
Buonarroti, falegname, e le prime due figlie: Maria Cristina e Giovanna Francesca;
la terza figlia, Elisa nacque a Salta. Libero Brabo diventò titolare di una ditta edile
importante di Jujuy, città dove nella decade del ’60 tutta la famiglia si trasferì.
       La mamma conobbe Donata durante la processione di Sant’Antonio nel
1948. Erano arrivati a Salta da poco. Le figlie erano le mie amiche e ci
frequentavamo molto, soprattutto in vacanza, dato che eravamo ospiti sia io in
casa loro che loro in casa mia, sempre nella stessa città. I nonni erano un po’ anche
i miei nonni, con loro parlavo in italiano, loro con quell’accento
abruzzese/molisano molto caratteristico. Mi piaceva andare da loro perché si
giocava a mascherarci con i vestiti del carnevale bellissimi fatti da Donata. Era
anche bello vedere la preparazione della conserva di pomodoro, che mettevano al
sole per seccare e mangiare piatti tipici molisani e un dolce caratteristico: la
pastiera.
       Puglia (Conversano): Maria Giannuzzi, sposata con Vito Mazzotta, nati a
Buenos Aires, ambedue di famiglie originarie di Conversano, Bari. Erano gli amici
con cui passavamo insieme le Feste di Natale, Capodanno, compleanni. Donna
Maria e la sorella, la zia Palmira parlavano un po’ d’italiano e facevano i cannelloni
più buoni – con salsa di pomodori e con la besciamella – che abbia mai mangiato!
Il dolce che facevano sempre, era una torre di cicerchiata! Quelle riunioni, oltre
che mangiare buono erano piene di vita, allegria, musica e canto. Il marito, Vito
Mazzotta aveva un’importante ditta edile: costruì molte case di famiglia e
importanti stabilimenti: la Scuola Indalecio Gómez che ha la bandiera italiana, la
Scuola Agricola, il canale del Viale Entre Ríos, l’Ospedale San Bernardo, il
Ministerio de Bienestar Social. Anche loro avevano 4 figli, Angelina (architetto),
Eduardo (ingegnere), Ana María (insegnante d’inglese) ed Enrique (giudice)
Mazzotta, con cui siamo cresciuti insieme: sono i «nostri fratelli e sorelle» negli
affetti, che dopo si trasferirono a Córdoba.
       Lombardia (Milano): la nonna Ida Chiericotti merita un capitolo a sé. Le
domeniche ci toccava – prima a mio fratello Giulio, poi a me, quando avevo 10 anni
circa – cercare la Nonna Ida Chiericotti, di 90 anni, dalla Casa di Riposo «Hogar
San Antonio» per accompagnarla a casa nostra per pranzo fino il pomeriggio. La
nonna Ida era nata a Milano nel 1864 e morì a 99 anni. Era bassa, dai capelli
bianchissimi taglio carrè, una carnagione bianca, un occhio di vetro, sempre in una
lunga veste nera fino ai piedi, con lei si parlava in italiano.
       Ma prima di arrivare a casa si andava, piano piano, alla Chiesa La Merced
per la messa delle ore 11. Si arrivava fra le prime. All’ingresso si fermava in fondo
a dire una preghiera in latino che con quella voce potente echeggiava in tutta la
Chiesa, ancora quasi vuota. Dopo ci si avviava verso la prima panca a destra, il suo
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posto prediletto. Arrivate poi a casa, era «la nostra nonna», era come di famiglia,
e lei rimaneva volentieri a pranzo da noi anche se aveva un figlio di nome
Guerriero, sposato con una salteña, con cui ebbe quattro figli, una di loro, Olga
Chiericotti, rinomata come ricercatore e insegnante di Storia. Sempre in italiano
ci raccontava esperienze della sua vita: con la sua potente voce e una lucidissima
memoria. Era stata cantante del Coro della Scala di Milano, aveva viaggiato fino le
Filippine, gli Stati Uniti con il Coro. Era stata discepola del Maestro Mascagni.
Raccontava che nelle prove ridevano sottovoce perché il Maestro era molto
distratto e si metteva ai piedi un calzino di ogni colore, uno marrone e l’altro blu.
Con il pranzo gradiva volentieri un buon bicchiere di vino rosso e qualche volta
un bicchierino di grappa. Dopo pranzo toglieva dalla tasca una scatolina di legno
da dove delicatamente prendeva un pizzico e annusava il rapè e, se gliela
offrivano, fumava volentieri una sigaretta. Noi eravamo molto affezionati a lei:
sempre franca, molto retta e onesta, di un temperamento forte, a volte un po’ dura
nelle sue espressioni quando criticava, certe abitudini dell’Argentina che non
condivideva o a cui non si abituava. Noi capivamo che era una donna di una grande
morale, che aveva conosciuto la realtà della vita e il mondo. Alla mamma che non
usciva quasi mai da casa ed era molto ingenua, gli diceva sempre: «Ma Lei, Donna
Tosca, non capisce niente. È uscita da un sacco e si è messa in un baule», volendo
far capire che «non aveva conosciuto il mondo». Noi avevamo grande
ammirazione e affetto per lei. Questa nonna era un pezzo di storia viva!

       Fotografia: Nozze d'Argento di Tosca Settesoldi e Alberto Lisi (18 ottobre 1955).
Parenti e amici Lisi, Carlesi, Brunori, Mannori, Piu, Mazzotta, Giannuzzi, Rondoni, Bini, Postigo,
                                  Ocaña, Valdecantos, Don Ángel

      Tutto sommato, la mia famiglia era una famiglia del tipo patriarcale, la
figura paterna era molto importante e la figura materna quella che conteneva, che
manteneva la lingua, le tradizioni, gli affetti. Era una famiglia di solide tradizioni,
di valori, ma anche molto ospitale, a tavola c’era sempre un posto più per chi
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veniva a trovarci. Anche se la vita quotidiana si trascorreva maggiormente in
famiglia, avevamo rapporti non solo con toscani, ma con altri italiani e con
immigranti di altri paesi, con nuove amicizie fatte nella nuova terra, creando così
nella diversità un ambiente di rispetto e tolleranza; ad esempio, le mie amiche
vicine con cui giocavo le sere sul marciapiede o sulla soglia o le scale delle case
erano di origine araba, ebrea, spagnola, creola.

Sensibilità, buon gusto

       Alberto in apparenza era burbero ma aveva nascosta grande sensibilità e
buon gusto per pezzi antichi, ha saputo raccogliere e restaurare dei mobili
coloniali che erano stati buttati via: due tavoli di marmo con le gambe di legno
lavorati ad intaglio, la passione per gli orologi da tasca, da parete, (reloj de pie) a
pendolo, a cucù e la strillante sveglia sul comodino che si sentiva sin dalla strada
e svegliava tutti di soprassalto. Si fece anche portare dall’Italia quattro colonne di
marmo verde di Prato (Serpentino): due le donò per il Mausoleo della Società
Italiana che c’è nel camposanto «Santa Cruz» ma che con il tempo sparirono. Le
altre due le conservo io a casa mia con sopra sculture di mio marito artista pittore
e scultore Jorge Hugo Román: una figura in marmo di Carrara (mi rammenta la
combinazione del marmo bianco e il serpentino del Duomo di Prato e altre chiese
del Rinascimento), e sull’altra colonna, una figura in bronzo. Avevamo pochi pezzi
antichi, ma pregiati e ben curati.

Ambiente artistico. La musica

       Diverse circostanze mi avvicinarono all’ambiente artistico. Infatti, la musica
è stata un fattore di grossa influenza per sviluppare la sensibilità, il gusto per
l’arte. La musica a casa mia suonava tutto il giorno nel conservatorio di musica
«Mozart» di mia sorella Zenaide. Suonava un po’ monotona quando le alunne – fra
le quali c’ero anch’io – praticavamo le scale musicali, le prime lezioni per il
pianoforte del Czerny, migliorava l’ascolto quando si suonava un’Invenzione a due
voci di Bach o una Sonatina di Beethoven, due pezzi che suonai in un recitale. Ma
arrivare ai livelli di precisione, di estetica musicale di mia sorella Zenaide mi
pareva irraggiungibile, ci volevano molte ore di pratica, di studio che per me forse
a quell’età adolescente mi sembravano troppo impegnative. Zenaide aveva
raggiunto livelli superiori. Era un’interprete molto brava, espressiva, raffinata,
tutto frutto di un lungo e rigoroso studio e dedizione. Sin da piccola il babbo aveva
scoperto le condizioni per la musica in questa bambina, che con le sue manine
batteva i vetri delle porte e finestre – qualche volta anche ruppe un vetro – e la
portò al Conservatorio Albeniz, delle sorelle Bueno. Manuela Bueno fu la sua
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