Testi 1 Che cos'è il lavoro antropologico di M. Kilani

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TESTI ANTOLOGICI

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     Che cos’è il lavoro antropologico di M. Kilani

In che cosa consiste il lavoro dell’antropologo e come lo si può
rappresentare? Possiamo rispondere dicendo che l’antropologo ha in
primo luogo un campo di ricerca che sceglie per ragioni sia
scientifiche sia personali e nel quale soggiorna per un certo numero di
mesi o anni. Sul campo egli fa l’apprendistato di una cultura e di un
modo di pensare, interagisce con delle donne e degli uomini, fa delle
scoperte, sperimenta errori, raccoglie dati, elabora le prime sintesi,
formula delle ipotesi. A conclusione del lavoro sul campo, torna a
casa con diversi “oggetti”, disponibili per essere pensati e trattati
mediante concetti, termini tecnici e modelli teorici, nel quadro di un
testo monografico. Insomma, al tempo del campo segue il tempo della
scrittura. La finalità del lavoro dell’antropologo è, infatti, offrire un
testo elaborato, attraverso il quale comunicare a un lettore potenziale –
generalmente un collega, ma non solo – la propria visione
dell’esperienza dei membri della società presso la quale ha
soggiornato.

Quanto detto rappresenta una schematizzazione del lavoro
dell’antropologo, lavoro che in verità è assai più complesso. Anzitutto
va respinta l’idea che vi sia una realtà – il campo – che esiste
indipendentemente dal lavoro antropologico e che preesiste ad esso. Il
campo non è un’entità già data che attende d’essere scoperta ed
esplorata dal solitario e intrepido antropologo. L’immagine
dell’antropologo che giunge sul posto, armato del suo solo sguardo,
per raccogliere dei dati, suscettibili di essere trattati poi teoricamente,
appartiene a una visione ingenua del lavoro sul campo, che si fonda su
una duplice illusione.
La prima illusione è credere che l’esteriorità dell’oggetto implichi di
per sé l’oggettività. Questa concezione dimentica che la postulata
differenza dell’oggetto dal soggetto che l’osserva non è una qualità
intrinseca dell’oggetto, un’essenza, ma il prodotto di una storia
differenziale che li costituisce entrambi – soggetto e oggetto – come
differenti. La seconda illusione è credere nella simultaneità fra
l’oggetto da vedere e l’atto di vedere, il che equivale ad assimilare la
presenza dell’antropologo sul campo al presente dell’oggetto
etnografico. Tale confusione, che annulla ogni distanza storica, è il
risultato dell’idea oggettivistica secondo la quale l’oggetto
dell’antropologo sarebbe un dato pronto da essere osservato e il

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discorso dell’antropologo sarebbe identificabile con il linguaggio
dell’osservatore neutro.
Ma, se il rapporto con il campo non è un rapporto tecnico neutro,
ancor meno è un rapporto di fusione simpatetica con l’oggetto di
studio: l’antropologo non deve confondersi con l’altro al punto da
diventare egli stesso l’altro. Se procede in tal modo, se parla lo stesso
linguaggio dell’indigeno, non è più in una situazione dialogica, non ha
la possibilità di tradurre nel proprio codice e ancor meno di riferirci la
sua esperienza.
Insomma, la conoscenza antropologica è un lavoro di mediazione con
la distanza e la differenza, lavoro che comincia già sul campo. In altri
termini, il campo si definisce subito ed essenzialmente come un lavoro
simbolico di costruzione di senso, nel quadro di un’interazione
discorsiva, di una negoziazione di punti di vista fra l’antropologo e i
suoi informatori.
            M. Kilani, L’invenzione dell’altro, Dedalo, Bari 1997, 51-52

     Testi 2
     Etnografia e antropologia di C. Geertz

Se volete capire che cosa sia una scienza, non dovete considerare
anzitutto le sue teorie e le sue scoperte (e comunque non quello che ne
dicono i suoi apologeti): dovete guardare cosa fanno quelli che la
praticano, gli specialisti.
Nell’antropologia, o per lo meno nell’antropologia sociale, gli
specialisti fanno dell’etnografia. È solo comprendendo che cosa è
l’etnografia, o più precisamente che cosa sia fare etnografia, che si
può cominciare ad afferrare in che cosa consista l’analisi
antropologica come forma di conoscenza. Occorre dire subito che non
si tratta di una questione di metodo. Dal punto di vista dei manuali
fare etnografia significa intrattenere rapporti, scegliere degli
informatori, trascrivere testi, ricostruire genealogie, definire “campi”,
tenere un diario e così via. Ma non sono queste cose, tecniche e
procedure stabilite, che definiscono l’impresa: ciò che la definisce è

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TESTI ANTOLOGICI

l’attività intellettuale in cui consiste: un elaborato avventurarsi, per
usare il termine di Gilbert Ryle, in una “thick description”1.
Le considerazioni di Ryle sulla Thick description sono contenute nei
suoi due saggi (ristampati nel secondo volume dei Collected Papers)
che vertono sulla questione generale di quello che, come dice lui, sta
facendo Le Penseur: Pensare e riflettere e Il pensare pensieri.
Considerate, dice, due ragazzi che contraggono rapidamente la
palpebra dell’occhio destro. Per uno, questo è un tic involontario; per
l’altro, un segnale di intesa a un amico. I due movimenti sono identici
come tali: un’osservazione di tipo meramente “fotografico”,
“fenomenico”, non è sufficiente per distinguere un tic da un
ammiccamento, e neanche per valutare se entrambi o uno dei due
siano tic o ammiccamenti. Tuttavia la differenza tra un tic e un
ammiccamento, per quanto non fotografabile, è grande, come sa
chiunque è abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro.
Chi ammicca sta comunicando, e in un modo molto preciso e
particolare: a) deliberatamente, b) con qualcuno in particolare, c) per
trasmettere un particolare messaggio, d) secondo un codice
socialmente stabilito ed e) senza che il resto dei presenti lo sappia.
Come fa notare Ryle, non è che chi ammicca ha fatto due cose,
contratto le palpebre e ammiccato, mentre chi ha un tic ne ha fatto
solo una, ha contratto le palpebre. Contrarre le palpebre apposta
quando esiste un codice pubblico in cui farlo equivale a un segnale di
intesa, è ammiccare. Vi è tutto questo: un briciolo di comportamento,
un granello di cultura e – voilà – un gesto.
Questo tuttavia è solo il principio. Supponete, continua, che ci sia un
terzo ragazzo che “per divertire maliziosamente i suoi amici” faccia la
parodia della strizzata d’occhio del primo ragazzo perché
dilettantesca, goffa, banale e così via. Naturalmente lo fa nell’identico
modo in cui il secondo ragazzo ha ammiccato e il primo ha avuto un
tic involontario, contraendo cioè la palpebra destra: soltanto che
questo ragazzo non sta né ammiccando né strizzando l’occhio
involontariamente; sta parodiando il tentativo di qualcun altro,
ridicolo a parer suo, di ammiccare. Anche qui esiste un codice
stabilito socialmente (“ammiccherà” in modo laborioso, fin troppo
apertamente, forse aggiungendo una smorfia: i soliti artifici del clown)
ed esiste anche un messaggio. Solo che in questo caso non si tratta di
intesa, ma di ridicolo. Se gli altri credono che stia effettivamente
ammiccando, tutto il suo progetto fallisce completamente, benché con

1
 Espressione che non ha un esatto equivalente in italiano. Thick significa “denso”, “spesso”, ma anche, nella particolare
accezione di Geertz, “complesso”, “stratificato”.

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risultati un po’ diversi, come se pensassero che ha uno spasmo
involontario. Si può andare oltre: incerto sulle sue abilità mimiche,
l’aspirante comico può far pratica a casa davanti allo specchio, nel
qual caso non ha un tic, non ammicca, non prende in giro, ma fa le
prove; benché, per quello che registrerebbe una macchina fotografia,
un comportamentista radicale o uno che crede nelle proposizioni
protocollari2, stia solo contraendo rapidamente la palpebra destra
come tutti gli altri. Dal punto di vista logico, se non pratico, sono
possibili complicazioni senza fine.
[…] Ma l’importante è che tra quella che Ryle chiama thin description
di ciò che il personaggio (parodista, ammiccatore, ragazzo con il
tic…) sta facendo (“contrarre rapidamente la palpebra destra”) e la
thick description (“sta facendo la parodia di un amico che finge un
ammiccamento per ingannare un innocente e fargli credere che ci sia
un complotto”) risiede l’oggetto dell’etnografia: una gerarchia
stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti,
percepiti e interpretati tic, ammiccamenti, falsi ammiccamenti,
parodie, prove di parodie e senza le quali di fatto non esisterebbero
(neppure tic nudi e crudi che come categoria culturale sono tanto non-
ammiccamenti quanto gli ammiccamenti sono non-tic).
                                           C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, 41-44

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         Il concetto di cultura di C. Geertz

La nascita di un concetto scientifico di cultura corrispose, o almeno fu
collegata, al rovesciamento della concezione della natura umana
dominante nell’illuminismo – una concezione che con i suoi pregi e
difetti era chiara e semplice – e alla sostituzione di una concezione
non solo più complicata, ma molto meno chiara. Il tentativo di
chiarirla, di ricostruire una descrizione comprensibile di che cosa è
l’uomo, è stato da allora il fondamento del pensiero scientifico sulla
cultura. Dopo aver cercato la complessità, e dopo averla trovata su una
scala più vasta di quanto avessero mai immaginato, gli antropologi
restarono irretiti in un tortuoso sforzo per darle un ordine. E non se ne
intravede ancora la fine. La concezione illuministica della cultura
sosteneva del resto che egli era tutt’uno con la natura e ne
condivideva un’uniformità generale di composizione, scoperta dalla
scienza naturale sotto l’impulso di Bacone e la guida di Newton. Si
2
    Cioè un positivista logico (N.d.C.).

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TESTI ANTOLOGICI

tratta, in breve, di una natura umana regolarmente organizzata,
completamente immutabile e meravigliosamente semplice come
l’universo di Newton. Forse alcune sue leggi sono diverse ma esistono
delle leggi; forse qualcosa della sua immutabilità è oscurata dalle
complicazioni della moda locale, ma è immutabile.
[…]

Lo scenario (in tempi e luoghi diversi) è alterato, gli attori cambiano
le vesti e l’aspetto, ma i loro moti interiori sorgono dagli stessi
desideri e passioni umane, e producono i loro effetti nelle
vicissitudini dei regni e dei popoli3.
Questa opinione non si può certo disprezzare, né si può dire che sia
scomparsa dal pensiero antropologico contemporaneo, nonostante i
miei facili riferimenti a un “rovesciamento” di un momento fa. L’idea
che gli uomini siano uomini, qualunque sia il loro aspetto e il loro
ambiente, non è stata sostituita da “altri costumi altri animali”.
[…]
Il guaio con questo tipo di concezione […] è che l’immagine di una
natura umana costante, indipendente da tempo, luogo e
circostanze, dagli studi e dalle professioni, dalle mode passeggere
e dalle opinioni temporanee, è forse un’illusione, e che ciò che
l’uomo è può intrecciarsi talmente con il luogo in cui si trova, con
la sua identità locale e con le sue credenze da diventare
inseparabile. È proprio la considerazione di una tale possibilità che
portò alla nascita del concetto di cultura e al declino della concezione
uniforme. L’antropologia moderna, indipendentemente da quali altre
cose affermi – e pare che abbia affermato quasi tutto in diverse
occasioni – è salda nella convinzione che uomini non modificati
dalle usanze di luoghi particolari non esistono, non sono mai esistiti
e, cosa assai importante, non potrebbero esistere per la natura stessa
del caso. Non esiste, né può esistere un retroscena dove si possa
andare a gettare un’occhiata agli attori di Mascou come “persone
vere”, che si aggirano con i loro abiti di strada, estraniati dalla loro
professione, mentre esibiscono con franchezza priva di artifici i loro
spontanei desideri e le loro sincere passioni. Possono cambiare la
parte, lo stile di recitazione, anche il dramma in cui recitano, ma –
come osservò Shakespeare stesso – stanno sempre recitando.
[…]
Consideriamo la trance balinese. I Balinesi cadono in stati di estrema
dissociazione in cui compiono tutti i generi di attività spettacolari –

3
    A. O. Lovejoy, L’albero della conoscenza. Saggi di storia delle idee, Il Mulino, Bologna 1982.

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staccare la testa a polli vivi con un morso, colpirsi con pugnali,
contorcersi selvaggiamente, parlare lingue strane, compiere prodigi di
equilibrismo, mimare il rapporto sessuale, mangiare gli escrementi e
così via – più facilmente e più in fretta di quanto la maggior parte di
noi non si addormenti. Gli stati di trance sono una parte fondamentale
di ogni persona. A volte vi possono cadere 50 o 60 persone, una dopo
l’altra (“come una fila di petardi che scoppiano”, a detta di un
osservatore) venendone fuori dopo cinque minuti o magari parecchie
ore, totalmente inconsapevoli di quello che hanno fatto e convinti,
nonostante l’amnesia, di aver avuto l’esperienza più straordinaria e
profondamente soddisfacente che un uomo possa avere. Che si impara
sulla natura umana da questo genere di cose e da mille altre
ugualmente particolari che gli antropologi descrivono? Che i Balinesi
sono creature di tipo speciale? Marziani dei mari del Sud? Che sono
proprio come noi alla base, ma con delle usanze particolari, ancorché
incidentali, che noi per caso non abbiamo assimilato? Che sono dotati
per nascita o spinti per istinto in certe direzioni piuttosto che in altre?
O che la natura umana non esiste e gli uomini sono puramente e
semplicemente come li fa la cultura?
                                         C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, 75Testi 4

     Testi 4
     La cultura come rete di significati di U. Hannerz

L’homo sapiens è la creatura che produce senso. Lo fa attraverso
l’esperienza, l’interpretazione, la contemplazione e l’immaginazione,
e non può vivere senza queste attività. L’importanza della produzione
di senso per la vita umana è riflessa in un campo concettuale affollato:
idee, significato, informazione, saggezza, capacità di comprendere,
intelligenza, consapevolezza, capacità di apprendere, fantasia,
opinione, conoscenza, credenze, mito, tradizione...
A questo gruppo di parole ne appartiene ancora un’altra, cara agli
antropologi: cultura. In passato il termine è stato inteso in
un’accezione più vasta, ma recentemente è inteso soprattutto come
una questione di significato. Studiare la cultura significa studiare le
idee, le esperienze e i sentimenti, e insieme le forme esteriori che
questi aspetti interiori assumono quando diventano pubblici, a portata
dei sensi e dunque realmente sociali. Per cultura gli antropologi
intendono dunque i significati che le persone creano, e che a loro volta

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TESTI ANTOLOGICI

creano le persone come membri di una società. La cultura è in questo
senso collettiva. Dal mio punto di vista la cultura ha due tipi di loci, e
il processo culturale avviene grazie alle loro continue interrelazioni.
Da un lato, essa risiede in una serie di forme significanti pubbliche
che solitamente possono essere viste o ascoltate, o meno
frequentemente conosciute attraverso il tatto, l’olfatto o il gusto, o
attraverso una combinazione di sensi. D’altro canto, queste forme
esplicite (overt forms) assumono significato solo in quanto le menti
umane contengono gli strumenti per interpretarle. Il flusso culturale
consiste dunque nelle esternazioni di significati che gli individui
producono attraverso adattamenti di forme generali, e nelle
interpretazioni che gli individui forniscono di tali manifestazioni.
Forse l’immagine del flusso è un po’ ingannevole, perché suggerisce
un semplice trasferimento, piuttosto che gli infiniti e problematici
processi di trasformazione che intervengono tra loci interni ed esterni.
Nonostante ciò trovo utile la metafora del flusso – se non altro perché
coglie uno dei paradossi della cultura. Quando osserviamo un fiume
da lontano questo appare come una linea blu che attraversa il
paesaggio; qualcosa che possiede una suggestiva immobilità. Ma allo
stesso tempo, “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, perché
questo scorre in continuazione, e soltanto in tal modo mantiene la sua
continuità nel tempo. Così accade per la cultura: anche quando se ne
percepisce la struttura, questa è interamente dipendente da un processo
continuo.
       U. Hannerz, La complessità culturale, Il Mulino, Bologna 1998,
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     Testi 5
     L’etnocentrismo di I. Signorini

L’altro
Nel corso del mio primo soggiorno tra i Nahua della Sierra de Puebla
in Messico, venni a conoscenza, con imbarazzo e anche con qualche
preoccupazione per le eventuali conseguenze che il fatto avrebbe
potuto produrre, di avere polarizzato sulla mia persona un timore
collettivo, dando forma alla fantasia orrifica che lo accompagnava. Si
era infatti sparsa la voce, fortunatamente non da tutti raccolta e
spentasi poi nel tempo, che io fossi quel sinistro personaggio

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concepito dalla mitologia nahua moderna, che al volante di un
Volkswagen giallo ruba bambini per tagliar loro la testa. Ahimé, per
quanto arrancante e segnato dal tempo, era proprio questo il tipo di
vettura che possedevo, ma ciò non sarebbe di per sé bastato ad
accusarmi. Era la mia figura diversa, straniera, dalla misteriosa
attività, a consentire l’assimilazione. I Nahua non stavano facendo
altro che dar corpo all’atteggiamento mentale che porta a proiettare
sulla straniero i propri timori, il senso di ansietà che si accompagna a
livello inconscio al processo di costruzione della propria identità
collettiva e al sistema di valori che la sottendono, caricando in
positivo il senso di autostima di cui ogni uomo necessita per reggere
alle tensioni e alle competizioni del vivere sociale.
Ogni ego esiste solo in contrapposizione a un altro che lo sostanzia e
lo giustifica. Indicare nello straniero, nella sua palese incomprensibile
differenza, la fonte di pericolo dell’ordine costituito significa
dichiarare automaticamente buono e salvifico l’ordine proprio, degno
di rispetto e di obbedienza propiziatori di una felice superiore
costruzione individuale.
Non sono evidentemente i Nahua soli ad assumere verso l’“altro” un
atteggiamento di questo tipo. In un suo bel saggio, Pitt-Rivers (1977)
ricorda come Ulisse, da straniero,, abbia avuto bisogno di essere
nascosto da una nube per poter penetrare impune nella reggia del re
dei Feaci e parlare col sovrano; e di come subito, al momento della
riapparizione, si sia messo in salvo abbracciando le ginocchia della
regina e poi sedendosi sulle ceneri del focolare, dichiarando con
questo gesto di porsi nella sfera soggetta della femminilità, annullante
la propria minacciosa estraneità maschile4.
L’etnocentrismo – tale è il termine usato per definire questo tipo di
atteggiamento – è caratteristico di ogni gruppo umano, e non è legato
a una maggiore o minore complessità di una società rispetto a un’altra.
Alcune società ne sono maggiormente contagiate, altre meno.
L’isolamento tende certamente a esasperarlo, ma non necessariamente
deve trattarsi di isolamento geografico: la nostra società occidentale,
moderna, potenzialmente la più aperta e cosmopolita, è riuscita in più
momenti a esasperarlo fino agli abietti limiti del nazismo, per un
isolamento che non è certo quello spaziale (che anzi lo spazio è forse
l’elemento maggiormente dominato dalla sua cultura), ma effetto
invece di un’estraniazione indotta da sazietà materiale e da faustiano
orgoglio delle proprie conquiste intellettuali.
4
 Nel settimo canto dell’Odissea, in cui quell’episodio è narrato, si dice: “Perché gli stranieri non li tollerano molto
costoro, e non accolgono con amicizia chi viene da un altro paese”(32-3); “Introno ai ginocchi di Arete gettò Odisseo le
braccia” (142); “Disse così e si sedette sul focolare, nella cenere, vicino al fuoco” (153-4).

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TESTI ANTOLOGICI

La differenza in quanto tale fa dunque scattare la reazione
etnocentrica: la segnano sospetto, ridicolo, disprezzo, orrore. Come
direbbe Mary Douglas (1973), rappresenta il disordine, cioè ciò che
l’ordine, al fine di costituirsi, ha tagliato fuori, ha eliminato, riposto
nell’impuro, nell’esecrabile. Delle diversità si potrebbe pensare che
venissero colte solo quelle aventi rilevanza nel quadro dei grandi
problemi esistenziali ed etici, e che indifferenza e bonomia fossero
invece la norma quando in questione entrassero aspetti non essenziali
oppure chiaramente marginali e innocenti. Ma non è affatto così; anzi,
è il contrario. I piccoli elementi di contrasto sono spesso i più visibili,
quelli che più direttamente espongono la diversità, toccando la sfera
del gusto e della quotidianità. Ecco che il cibo, per esempio, viene a
risultare uno dei settori privilegiati dell’atteggiamento etnocentrico.
Ogni modo culinario differente, ogni cibo non contemplato dall’ordine
chiuso delle proprie regole alimentari scatena riso o repulsione e
“segna” i suoi fruitori con un marchio che ne suggella l’inferiorità
culturale e, di rimbalzo, l’inferiorità della loro condizione umana.
[…]
Natura imperfetta, cultura imperfetta, dunque, e questo gioco di
passaggi dalla natura alla cultura e viceversa trova ampi e
continuamente rinnovati spazi.
Su questa che potremmo dire un’inclinazione dell’animo
culturalmente forgiata, la riflessione etnologica ha fissato la propria
attenzione, elaborando a difesa la nozione di “relativismo culturale”,
nutrita da una sempre più estesa e al contempo approfondita
conoscenza delle culture altre. Una nozione che si fonda sulla giusta
idea che ogni cultura dovrebbe essere compresa e vagliata assumendo
quali parametri solo quelli in essa vigenti e non i propri. Ma da idea
guida capace di contrarrestare le distorsioni conoscitive provocate
dall’etnocentrismo, di evitare in qualche modo gli effetti di ciò che
Marx indicava comete mistificazioni della mente e della coscienza nei
confronti di se stesse, il relativismo culturale ha finito per divenire, in
certe correnti di pensiero antropologico – nel culturalismo americano
in particolare – e per molti giovani, giustamente ma anche
ingenuamente schierati in difesa dell’alterità, un dogma; e come ogni
dogma, per essere messo in pratica in modo del tutto acritico, nel
rifiuto incondizionato e assoluto di giudizi di valore su culture diverse,
in base al presupposto dell’eguaglianza di tutte le culture e quindi
della validità di qualunque costume, atteggiamento, istituzione da esse
elaborati […].
Non essere etnocentrici non significa ovviamente “diventare” l’Altro:
abbiamo tutto il diritto di seguire il cammino indicatoci dalla cultura

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UNITÀ 1 LA SCOPERTA DELLA CULTURA

in cui siamo nati (come d’altra parte anche di distanziarcene se ci
garba), e anche di non amare certi modelli diversi; ma ciò che di essi
non ci è consentito, è l’ignoranza, madre intellettuale e morale della
stupidità, della prevaricazione, del razzismo […].
                                            I. Signorini, I modi della cultura, La Nuova Italia, Roma 1992,11-13

     Testi 6
     La diffusione della cultura di R. Linton

[Il cittadino americano medio] si sveglia la mattina in un letto
costruito secondo un modello che ebbe origine nel Vicino Oriente ma
che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato
in America. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di
cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del
Vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente
addomesticato nel Vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in
Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo
procedimenti inventati nel Vicino Oriente. Si infila i mocassini,
inventati dagli Indiani delle boscose contrade dell’est, e va nel bagno,
i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, di
data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava
con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la
barba, rito masochistico che sembra derivato dai Sumeri o dagli
antichi Egizi. Prima di andare a fare colazione, guarda fuori dalla
finestra, fatta con il vetro inventato in Egitto e, se piove, si mette le
soprascarpe fatte di gomma scoperta dagli Indiani dell’America
centrale e prende un ombrello, inventato nell’Asia sud-orientale.
Andando a fare colazione si ferma a comperare un giornale, pagando
con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al
ristorante viene a contatto con tutta una serie di elementi presi da altre
culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il
suo coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del
Sud; la sua forchetta ha origini medievali italiane; il cucchiaio è
derivato dall’originale romano.
Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera
della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli Indiani d’America.

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TESTI ANTOLOGICI

Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere
inventato dagli antichi Semiti, su di un materiale inventato in Cina e
secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i
resoconti dei problemi che s’aggirano all’estero, se è un buon
cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà
una divinità ebraica, di averlo fatto al cento per cento americano.
                                            R. Linton, Lo studio dell'uomo, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 359-60

     Testi 7
     La diversità culturale di C. Geertz
Il sorgere entro il corpo di una società, all’interno dei confini di un
“noi”, di dolorose questioni morali, centrate sulla diversità culturale,
ovvero “il futuro dell’etnocentrismo”, può forse essere reso più vivido
con un esempio: non un artificioso esempio fantascientifico sull’acqua
negli antimondi o sulle persone le cui memorie si scambiano tra loro
mentre esse sono addormentate, esempi di cui i filosofi a mio parere si
sono recentemente fin troppo innamorati, ma piuttosto un esempio
reale, o quantomeno un esempio presentatomi come reale
dall’antropologo che me lo raccontò: il caso dell’indiano alcolizzato e
della macchina del rene artificiale.
Il caso è semplice, per quanto sia aggrovigliata la sua soluzione.
Alcuni anni fa, negli Stati Uniti sudoccidentali, l’estrema scarsità di
attrezzature per la dialisi, dovuta al loro alto costo, portò abbastanza
naturalmente alla creazione di una lista di attesa per la fruizione di tale
trattamento da parte di pazienti bisognosi di dialisi nell’ambito di un
programma medico governativo diretto, anche qui abbastanza
naturalmente, da giovani medici idealisti provenienti da importanti
scuole mediche, in larga parte nordorientali. Perché il trattamento sia
efficace, almeno nell’arco di un lungo periodo di tempo, è necessario
che i pazienti osservino una rigida disciplina riguardo alla dieta e ad
altre cose. Trattandosi di un pubblico servizio, governato da codici
contro la discriminazione e comunque, come ho detto, moralmente
motivato, la lista di attesa non privilegiava la possibilità di pagare dei
pazienti, ma semplicemente la gravità del loro bisogno e l’ordine di
presentazione delle domande, una politica, questa, che portò, secondo

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UNITÀ 1 LA SCOPERTA DELLA CULTURA

le usuali svolte impreviste della logica pratica, al problema
dell’indiano alcolizzato.
L’indiano, dopo aver ottenuto l’accesso al raro macchinario, si rifiutò,
con grande costernazione dei medici, di smettere di bere o anche solo
di moderare un consumo di alcolici che aveva del prodigioso. La sua
posizione, secondo un principio simile a quello di Flannery O’Connor
che ho prima menzionato, ovvero rimanere se stesso qualunque cosa
gli altri potessero volere fare di lui, era questa: io sono in realtà
proprio un indiano alcolizzato, lo sono stato per un bel po’ di tempo, e
intendo continuare a esserlo per tutto il tempo in cui potete
mantenermi in vita collegandomi a questa vostra dannata macchina. I
medici, i cui valori erano alquanto differenti, ritenevano che l’indiano
impedisse l’accesso alla macchina di altri pazienti in lista di attesa, in
difficoltà non meno disperate, che avrebbero potuto, così come essi
vedevano la cosa, fare migliore uso dei suoi benefici: per esempio, un
tipo di paziente giovane, di classe media, poniamo, alquanto simile a
loro, destinato al college e, chissà, alla scuola medica. Poiché
l’indiano aveva già iniziato la dialisi nel momento in cui il problema si
manifestò, essi non potevano risolversi a interrompere tale trattamento
(né, suppongo, sarebbe stato loro permesso di farlo); nondimeno essi
erano profondamente turbati – almeno tanto turbati quanto l’indiano,
abbastanza disciplinato da arrivare puntuale a tutti i suoi
appuntamenti, era risoluto – e sicuramente avrebbero escogitato
qualche motivo, in apparenza medico, per toglierlo dalla sua posizione
nella lista di attesa se solo si fossero accorti in tempo di ciò che stava
avvenendo. Invece egli continuò la dialisi, ed essi continuarono a
essere turbati per parecchi anni finché, fiero, come me lo immagino, e
grato (anche se non ai medici) di avere avuto una vita piuttosto lunga
in cui poter bere, senza doversi scusare, egli morì.
Lo scopo di questa favoletta in tempo reale non è mostrare quanto
possano essere insensibili i medici (essi non erano insensibili e
avevano le loro ragioni) o quanto gli indiani siano diventati degli
sbandati (egli non era alla deriva, sapendo esattamente dove era); né
suggerire che avrebbero dovuto prevalere o i valori dei medici (cioè,
più o meno, i nostri), quelli degli indiani (cioè, più o meno, non i
nostri), o qualche criterio di giudizio al di sopra delle parti, attinto
dalla filosofia o dall’antropologia ed emesso da uno degli erculei
giudici di Ronald Dworkin. Il caso era davvero difficile e finì male,
ma dal mio punto di vista più etnocentrismo, più relativismo o più
neutralità non avrebbero migliorato le cose (anche se forse una
maggiore immaginazione lo poteva fare). Lo scopo della favola – non
sono sicuro che essa abbia propriamente una morale – è mostrare che

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TESTI ANTOLOGICI

questo genere di fatti, e non la remota tribù ripiegata su se stessa in
una coerente differenza (gli azande o gli ik che affascinano i filosofi
quasi quanto le fantasie della fantascienza, forse perché essi possono
essere trasformati in marziani sublunari e considerati di conseguenza),
meglio rappresenta, anche se melodrammaticamente, la forma
generale che oggi assume il conflitto di valori che sorge dalla diversità
culturale.
Gli antagonisti in questo caso, se tali erano, non rappresentavano
totalità sociali richiuse in se stesse che si incontravano
accidentalmente lungo i margini delle loro credenze. Gli indiani che
tengono a bada il destino con l’alcol fanno parte dell’America
contemporanea quanto i medici che lo correggono con le loro
macchine; volendo vedere come, almeno nel caso degli indiani
(presumo che nel caso dei medici si sappia) si può leggere lo
sconvolgente romanzo di James Welch, Winter in the Blood, dove gli
effetti di contrasto risaltano piuttosto singolarmente. Se vi fu un
fallimento, e, per essere giusti, a distanza è difficile dire precisamente
quanto ve ne fu, fu un fallimento nella disponibilità a capire, da
entrambe le parti, che cosa significava trovarsi dall’altra parte e quindi
che cosa significava essere dalla propria.
                                            C. Geertz, Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna 2001, 97-99

     Citazioni (testi brevi)

     Da: Tristi tropici

     Oggi che Isole Polinesiane, soffocate dal cemento armato,
     sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al
     fondo dei Mari del Sud, che l’intera Asia prende l’aspetto di
     una zona malaticcia e le bidonvilles rodono l’Africa […]
     come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro
     che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza
     storica? […]. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o
     viaggi,       è   la   nostra       sozzura             gettata             sul        volto

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     dell’umanità. Capisco allora la passione, la follia, l’inganno
     dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non
     esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci
     sfuggire alla desolante certezza che 20.000 anni di storia
     sono andati perduti. Non c’è più nulla da fare: la civiltà non
     è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica,
     occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di
     specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro
     rigoglio, ma che permettevano anche di variare e di
     rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella
     monocoltura, si prepara a produrre la civiltà in
     massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà
     ormai più che questa vivanda (Lévi-Strauss, Tristi tropici,
     1960, p. 36).

     Da: I frutti puri impazziscono

     Il «sozzume» che un Occidente espansivo, secondo il
     disilluso viaggiatore di Tristi Tropici, ha gettato in volto alle
     società   del       mondo    appare      come    materia   prima,
     fertilizzante per nuovi ordini di differenza.              (…). E’
     anche sozzume.        I contatti culturali moderni non hanno
     bisogno di essere romanticizzati, cancellando la violenza
     dell’impero     e   delle   pertinenti   forme   di   dominazione
     neocoloniale. La storia caraibica (…) è una storia di
     degradazione, mimetismo, violenza e possibilità bloccate.
     (…) [però] è anche ribelle, sincretica e creativa. Tale

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TESTI ANTOLOGICI

    sorta di ambivalenza mantiene i futuri locali del pianeta
    incerti e aperti.

    In tutto il mondo le popolazioni indigene hanno dovuto fare
    i conti con le forze del «progresso» e dell’unificazione
    «nazionale».     I     risultati   sono   stati    sia      distruttivi,    sia
    inventivi. Molte tradizioni, lingue, cosmologie e valori sono
    andati perduti, in certi casi letteralmente assassinati; molto,
    però, è stato in pari tempo inventato e fatto rivivere in
    contesti complessi, contraddittori.
    (Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri,
    1993)

    Da: Antropologia
    (…)    le   malinconiche      premonizioni        levistraussiane          sulla
    “monocultura”,         […]    sapevano      più        di     romanticismo
    occidentale che di acume etnografico.

    Quando dei turisti americani o tedeschi a Bangkok o a
    Lagos       vedranno     un    film   indiano      e     lo   discuteranno
    esattamente negli stessi termini, o proveranno esattamente
    le stesse reazioni di coloro che hanno intorno, allora la
    monocultura sarà arrivata.

    Ma è probabile che la monocultura affliggerà soltanto quelli
    che sono disposti a scambiare una patina di superficie per la

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     totalità   della   cultura   in   generale:   gli   Archi   d’Oro   di
     McDonald’s piuttosto che le tensioni politiche che essi
     provocano e mascherano; l’universalismo delle politiche
     ambientali piuttosto che le argomentazioni delle vittime
     locali del cosiddetto sviluppo; i “valori della famiglia”
     anziché la disordinata complessità delle vite reali e delle
     loro infinite trasformazioni.

     C’è da sperare che perfino quanti da poco sono arrivati al
     potere possano apprezzare e rispettare queste complessità.
     Ma ascolteranno le intime voci rivelate dagli etnografi, che
     rivelano un mondo di desideri e di speranze?”

     (M. Herzfeld, Antropologia, 2006, Seid)

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