Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie - Diatomea.net
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Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie Questa recensione esce in simultanea su La Bottega del Barbieri «perchè – spiega Barbara – con le amiche e gli amici di Diatomea e della Bottega del Barbieri siamo per la condivisione e il fare rete, e allora anche le riflessioni su libri, femminismi e cultura possono essere pubblicate in entrambi i luoghi senza aver bisogno di copyright». Cominciare dalla fine, senza svelare la trama, per andare a leggere “la loro storia”: cinque donne, qualche uomo, un’isola su cui si ritrovano tutte, una voce narrante che infine recita “lei sa di cosa ho bisogno. Sa che per esistere, per avere la giusta consapevolezza di te, devi possedere una storia che ti precede (e che ti continua, ha detto una volta), perciò non ho mai dovuta pregarla. È stata lei a spiegarmi da dove vengo e perché e a raccontarmi della repubblica delle madri”. È qui, nella storia che ognuna di noi ricostruisce, che risiede, almeno così mi è parso, il senso profondo dell’ultimo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri [Mondadori, 2020]. Una scrittura fantastica, come preferisce definirla Cutrufelli, non di fantascienza, perché non c’è nulla nel racconto che non accada già nel nostro presente. Il pianeta terra estremamente sofferente per l’inquinamento, per lo sfruttamento delle risorse naturali e un turbocapitalismo che ha sfregiato i luoghi della cultura e quelli del vivere comune, alimentando disuguaglianze, riducendo diritti e reprimendo possibili ribellioni. Un intreccio di vite che si snoda in paesi mai nominati ma
facilmente riconoscibili, fra l’Est Europa e il Mediterraneo, con un ritorno anche metaforico alle isole fondative della civiltà occidentale, a quelle mitologie che avevano tracciato un destino umano che sembrava irreversibile e che mai come oggi appare invece in continuo mutamento. Uno scenario che, involontariamente, sfiora l’attualità della quarantena e della pandemia, ma qui la malattia è un’altra, è la sterilità umana considerata la ‘malattia del vuoto’ intesa “come qualcosa che si è prodotto nelle nostre cellule”, spiega Cutrufelli, andando a minare del tutto la riproduzione della specie. Un fatto reale portato alle estreme conseguenze, così tanto che a volte nello scorrere delle pagine manca l’aria e ci si sente un po’ con le spalle al muro, quasi che la diminuzione delle nuove nascite sia da leggere solo come un enorme cataclisma e non, anche, come scelta di altre vite possibili. Che fare dunque dinanzi al rischio del vuoto totale? Fra chi – anche nel romanzo – pensa che non sia così necessario riprodursi perché il mondo è pieno e chi ripete che è solo Dio a dare la vita, le personagge di questa storia propongono, se lo si vuole, di ricorrere alle biotecnologie e alla scienza. Una soluzione che spesso nella lettura appare come l’unica possibile, quasi non fosse invece auspicabile un cambiamento negli stili di vita che tanto influenzano anche la capacità, per chi lo volesse, di riprodursi. Non è un tema casuale, per chi come Cutrufelli è impegnata in prima persona nei movimenti femministi e che ha scelto la narrativa come terza via – fra politica e dogma – per offrire alla discussione comune spunti di riflessione. Sulla maternità, sulla gestazione per altre e altri, sulla difficoltà di definire oggi ‘la madre’ quando, afferma la scrittrice, è già in essere una scissione in tre figure: la madre donatrice, la madre gestante, la madre legale. Dovremmo
forse dire donna, al posto di madre: donna che dona l’ovulo, donna che lo fa crescere nel suo corpo, donna che si prende cura del nuovo essere e lo fa diventare una persona, senza che il corpo sia minimamente chiamato in causa. Un ripensamento complessivo dei ruoli e il riconoscimento che, non solo nella comunità umana, la differenza è nella relazione che si instaura. Relazione d’amore e di responsabilità, di rispetto e curiosità, di ascolto reciproco. Ecco perché allora è arrivato il tempo di uscire da una discussione che nel mondo reale è solo fra madri, a fatica sono ammesse le non madri, per ascoltare la voce delle figlie e dei figli nati fuori dal tradizionale incontro fra uomo e donna, per dare parola a chi una condizione del tutto diversa la vive già e vuole raccontare la sua storia, a modo suo. Chissà allora, suggerisce Cutrufelli, che non servano parole nuove, visto che quelle note non riescono a significare la realtà. Lei ne inventa alcune nel suo romanzo prendendo ispirazione dal linguaggio che si sta diffondendo fra chi nasce grazie alle biotecnologie, laddove gli intrecci familiari invitano a preferire il termine ‘zia’ per la donna gestante o cugina/o per le sorelle/fratelli non di sangue. Peccato, ma su questo con Cutrufelli ci confrontiamo da tempo, che la riflessione sul linguaggio non contempli del tutto anche il lessico sessuato e mi faccia sobbalzare nel leggere che “lei è un medico” o “caporeparto” riferito ad alcune protagoniste della storia. Cutrufelli ritiene che alcune parole sessuate siano ancora un inciampo per la lettura e che la scrittura romanzata abbia bisogno di tempi più lunghi per tenerne conto. Senza dubbio la narrativa le ha permesso di tradurre interrogativi complessi in una storia che solletica pian piano chi legge e con accuratezza scandaglia l’anima delle protagoniste alle prese con “un sorriso che sembra affiorare da complicate negazioni interne”. È invece benevolo lo sguardo
che la scrittrice posa sul ruolo del padre, che, come spesso nella vita reale, appare spettatore balbuziente, quasi giustificato se “è solo dentro i suoi pensieri che un padre (biologico o putativo che sia) può fare il nido per suo figlio, non è così?”. Del resto, per il momento, ricorda Cutrufelli, senza il loro seme ancora non c’è nascita possibile. Ma tutto il resto sì, considerato il prezzo pagato dalle donne prima, durante e dopo la nascita, in ogni epoca e ad ogni latitudine, chiamate poi a riparare anche i danni prodotti da quella metà del cielo che avvelena i pozzi e i fiumi. Ed è proprio l’eco di un racconto sui pesci mutanti che nuotavano nelle acque avvelenate del fiume – racconta l’autrice in una breve nota finale – ad averla spinta a scrivere questo romanzo, non l’attualità ma piuttosto un lento lavorìo interiore suscitato dalle storie che le raccontava il padre scienziato a lei bambina sugli effetti dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, delle modificazioni genetiche dei cibi e l’uso di pesticidi. Una storia di decenni fa che – a volerla ascoltare – lasciava già intravedere il futuro che stiamo vivendo ora. La violenza al tempo del virus Lei esce sul balcone e si mette a suonare il flauto, quello
che si usa alle scuole medie per iniziare ad avvicinarsi alla musica, lui inizia a urlarle contro da dentro casa, poi le si avvicina violento e inizia a strattonarla. Non sappiamo se lui sia il marito, il compagno, un anziano di casa. La sostanza non cambia. Il video ha girato per giorni – con un titolo che pressappoco recitava “lei suona e lui la corca” – ed è rimbalzato ovunque, in questo impeto social che tutti ci ha travolti con il Covid-19. Arrivano di continuo: foto, remake di canzoni famose, cartoline, video satirici ma anche di pessimo gusto, spie di qualcosa d’altro che non c’entra nulla con l’epidemia in corso. Quel video, ad esempio, ci dice molto sulla continua e reiterata violenza maschile sulle donne, ma anche dell’irrilevanza che il fenomeno ha su gran parte della società perché nei commenti a quel video si ride, così come si ride degli striscioni messi sui balconi da mariti che dicono che prima o poi faranno qualcosa alle mogli che devono ‘sopportare’ nella quarantena. Battute che sono prese ancora troppo alla leggera, solleticano i peggiori umori, quelli che una cultura maschilista persistente ancora alimenta ed educa. La stessa cultura che, detto per inciso, non ha molta cura della salute pubblica, che per anni ha privatizzato i servizi e che non prende in seria considerazione i nessi fra salute ambientale e umana. A peggiorare la situazione è comparso il Covid-19, perché per molte, troppe donne restare a casa è più pericoloso del possibile contagio. A dirlo subito, appena scattate le restrizioni, sono state le femministe della rete Non Una Di Meno che hanno rilanciato sui social un messaggio chiaro: “Per molte persone, soprattutto molte donne #stareacasa non è un invito rassicurante. Il numero nazionale dei centri antiviolenza 1522 è attivo”. E suona bizzarro, e ipocrita, che a rilanciare la campagna sia stata la stessa sindaca Raggi, il cui governo non fa nulla per
proteggere luoghi importanti per le donne a Roma, da Lucha Y Siesta alla Casa internazionale delle donne. Le operatrici di Trama di Terre ad Imola scrivono “La nostra piccola campagna territoriale #icentriantiviolenzasonoaperti nasce perché sappiamo come agisce la violenza familiare maschile all’interno delle mura domestiche. Le donne, in emergenza Covid-19, vivono segregate con uomini maltrattanti che hanno in questa situazione il pieno controllo sui movimenti e sulle azioni delle donne e dei figli/e. Diventa dunque difficile per una donna cercare aiuto e sostegno in questa situazione. Non solo, in un regime di isolamento dettato dall’emergenza sanitaria, le madri faticano doppiamente a chieder aiuto. Infatti, è probabile che ritengano giustamente pericoloso esporrei/le figli/e se stesse al rischio di contagio scappando dalla propria abitazione, non avendo la certezza di sapere con chi andranno a vivere e dove”. Non solo, “per ridurre al minimo l’esposizione al pericolo delle donne vittime di violenza che trovano il coraggio di denunciare il maltrattante – aggiungono da Trama – sollecitiamo un accordo tra le varie istituzioni e le forze dell’ordine affinché siano gli uomini ad essere allontanati (come l’applicazione della legge sul femminicidio consente nella parte in cui attribuisce alle forze dell’ordine il potere di procedere con il fermo, l’arresto o l’allontanamento urgente dall’abitazione familiare tutte le volte che si renda necessario). In questo modo sono le donne e i/le loro figli/e a rimanere nelle loro abitazioni al sicuro. Dopo questa emergenza, ci auguriamo che le istituzioni si rendano finalmente conto che in questo sistema di protezione sono le donne a pagare il prezzo maggiore della violenza, prima e dopo una denuncia per violenze. Di fatto allontanare una donna, unitamente ai suoi figli, dalla propria casa vuole dire punirla per aver chiesto aiuto”. Il 7 marzo scorso, il giorno prima della giornata
internazionale delle donne, alla vigilia del decreto che ha iniziato a fermare tutto il paese, proprio a Imola una donna è morta in circostanze ancora poco chiare. Se, come dicono molti esperti quella con il Covid-19 è “una guerra con nemico invisibile”, in questo caso conosciamo perfettamente il nostro nemico e come ripetono da tempo le femministe, l’assassino ha le chiavi di casa e in questa emergenza Covid-19 potrebbe chiudere ben stretta la serratura.
© Francesco Cocco Care amiche e cari amici come molt@ di voi sanno due anni fa abbiamo realizzato con il Network Italiano Salute Globale una mostra fotografica con il materiale raccolto in Burkina Faso da Francesco Cocco, fotografo dell’Agenzia Contrasto, che per noi ha visitato centri antiviolenza e ambulatori medici sostenuti dalla cooperazione sanitaria italiana. Un emozionante racconto in bianco e nero che ha girato un po’ l’Italia, dopo l’inaugurazione a Roma, la mostra è stata esposta a Conversano di Bari, Brescia e Napoli. Siete tutt@ invitati al Finissage che conclude questa iniziativa per brindare insieme a noi e nel corso della serata
sarà anche possibile, con un contributo libero, acquistare le immagini della mostra. Vi aspettiamo! Barbara CS_finissage_defDownload Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright ©Francesco Cocco Vancouver. Vancouver città dei murales, opere d’arte a cielo aperto, insieme a cavi elettrici confusi e pendenti, ti chiedi se fanno male alla salute mentre sotto ci passeggi. Vancouver così grigia e colorata assieme, un concentrato di grattacieli che svettano – come Boston, Londra, Tapei – e piccole aiuole di fiori e piante officinali quando meno te lo aspetti, come le piccole arnie nella terrazza di un hotel, a pochi metri dagli ospiti che impavidi si tuffano in piscina. Vancouver rilassata sul porticciolo che è mare ma non te ne accorgi, nell’insenatura che prima o poi sfocia nel Pacifico, così lontano e ad un tratto così vicino, come i mitili che
giri lo sguardo e sono lì ad asserragliare i pali della banchina. Vancouver, sullo sfondo le montagne innevate, in metropolitana un ragazzo in canottiera con gli sci sottobraccio, l’eco dell’esploratore nel nome e la scritta sul marciapiede a ricordarci che “colonialism does not spark joy/il colonialismo non provoca gioia”. Vancouver, ritrovo per senza fissa dimora da tutto il Canada: il clima è mite e, forse, la città accogliente o semplicemente indifferente. Del resto l’Economist sostiene che sia la città più vivibile al mondo. Di sicuro scivola via leggera, come i suoi ciclisti nel sali scendi delle sue colline.
Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove specificato, sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Barbara Bonomi Romagnoli Felicemente senza figli. E allora? Pubblicato l’08/03/2019 su La27esima ora – Corriere della Sera La mia città natale si chiama Willows, nel Wisconsin ma non vi venga in mente di andare a visitare la mia casa natale perché Willows è una città che non esiste. Tutta finzione e frutto dell’immaginazione di quei matti di casa Mattel. Io Barbara,
parlo 50 lingue, ho fatto un centinaio di mestieri ma non sono laureata e neanche sposata. Ken, il mio compagno da una vita avrebbe voluto sposarmi e avere qualche figlio da me ma io mi sono sempre negata. Non ci crederete, ma ci sono donne, non solo bambole, che non hanno voluto figlie e figli, non per questo vogliono essere considerate femmine di serie B. Alcune son state famose, geniali, coraggiose; altre hanno animato la mitologia e le religioni di un mondo scritto e pensato a immagine e somiglianza degli uomini. Arrivano da epoche diverse o epiche lontane e sono le protagoniste di Monologhi impossibili. Le esclusive rivelazioni di 35 mitiche lunàdigas, libro a cura di Carlo A. Borghi, che fa parte del progetto molto più ampio dal curioso titolo Lunàdigas , ideato da Marilisa Piga e Nicoletta Nesler per dare voce alle donne che scelgono di non avere figli. La parola lunàdigas viene dalla lingua sarda ed è usata dai pastori per definire le pecore che in certe stagioni non si riproducono: le autrici e registe l’hanno scelta come titolo del loro lavoro in mancanza di un termine altrettanto incisivo nella lingua italiana. Dopo il webdoc del 2015 e il film del 2016, Piga e Nesler hanno pensato ad un testo scritto in forma di brevi racconti ma anche ad un “archivio vivo” online in continuo aggiornamento. Dalla mitica Lillith a Gertrude Stein; da Hélène Kuraghina a Giovanna D’arco, passando per Ava Gardner e Ipazia di Alessandria; da Frida Kahlo, Vittoria Colonna a Rosa Luxemburg e la Monaca di Monza ideata da Manzoni: tutte raccontano la loro storia in prima persona, con lingue puntute e senza giri di parole, in monologhi immaginari e forse anche utopistici. Una cosa di sicuro non ho fatto nel corso della mia vita: i figli. Ecco, sì… figli niente proprio niente e non c’è mai stato neanche un momento in cui ho pensato all’eventualità della maternità. Voi, vi chiederete perché. Molti diranno che è andata così per il fatto che ero un tipo algido e glaciale, come un igloo o un iceberg. I figli, non li ho voluti perché i
miei fianchi mi sono sempre sembrati troppo stretti per accogliere tutta quella storia uterina e poi spingerla fuori. Fianchi stretti come un fiordo. [Greta Garbo] Chissà tutte loro cosa avrebbero detto oggi, in questo 8 marzo 2019, quando accanto alla tradizionale retorica sulla donna con la D maiuscola assistiamo a un nuovo e potente ritorno del modello della maternità come destino indicato per il genere femminile. La ministra Grillo ha pensato bene di organizzare un convegno dal titolo “La scelta di essere mamma” e di invitare solo quattro donne a parlare d’infertilità e dintorni, a ribadire che il corpo è quello delle donne ma ne discutono i maschi. Il ministro Fontana, alla vigilia del congresso mondiale delle famiglie di stampo conservatore e confessionale che si terrà a Verona a fine marzo, parte per New York per partecipare alla Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne . Non crediamo (viste le sue precedenti affermazioni) per sostenere la libera scelta delle donne. E non c’è dubbio che l’autodeterminazione passa anche per una presa di parola delle tante, sempre di più donne, che non vogliono essere madri o che non si disperano per la loro mancata maternità. Rivendicano il loro essere zie felici e progetti come Lunàdigas restituiscono la complessità e la ricchezza delle vite che accompagnano ogni singola scelta. (articolo Pubblicato su La27ora/Corriere della Sera)
Le donne hanno un posto per tutto Mi sono avvicinata alla lettura di questo volume con prudenza e un po’ di sospetto, lo ammetto. Il tema della maternità è scivoloso e anche un po’ di moda, in un paese in cui si chiede alla maggioranza delle donne di essere buone madri e buone mogli e dove le aspettative sociali rispondono a modelli precostituiti che riducono la scelta [o l’impossibilità] di non riprodurre la specie a velleitari egoismi o commiserevoli imperfezioni. Con in sottofondo il solito paradossale leitmotiv: da una parte la santa mamma italiana che tutto vede e provvede, dall’altro politiche che negano diritti e possibilità alle eventuali future madri. Da questa premessa e per di più essendo una ‘senza figli’, la lettura di Madri comunque di Serena Marchi si è rivelata invece una piacevolissima sorpresa, per lo stile asciutto mai enfatico, perché la carrellata di ritratti è davvero rappresentativa delle differenze e perché, come afferma Pedro Almódovar in epigrafe: “le donne sanno nascondere un cadavere e affettare i peperoni: hanno un posto per tutto”.
Hai scritto un libro senza filtro, parlano le protagoniste, almeno così sembra a chi legge. Mi racconti meglio come hai raccolto queste storie? «Le storie le ho raccolte in 4 anni, partendo prima da quelle più “facili” da trovare come la mamma adottiva e la mamma di figli in affido per poi andare, via via, a cercare le maternità meno comuni, quelle più in ombra, quelle che la società lascia in disparte perché sono scomode. Vedi la mamma lesbica, la figlicida (sono entrata nel carcere giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dopo un anno di attesa del permesso) ma ancora di più la donna che affitta l’utero e la coppia che ricorre alla surrogazione. Per questo, ho preso il volo e sono andata a Kiev, lo scorso ottobre, dove son rimasta tre giorni e ho parlato sia con la portatrice sia con la coppia. La scelta della prima persona è per dare voce al massimo solo alla protagonista. E questo crea più intimità tra
chi racconta e chi legge». In che modo hai condotto le interviste? Hai mai pensato ad aggiungere un commento, a entrare nelle altre storie e dire la tua? «Il novanta per cento delle mie interviste è stata fatta di persona. Ho incontrato di persona tutte le protagoniste e ho iniziato con il farmi raccontare chi sono, la loro vita, le loro storie e poi la loro maternità. Sempre una lunga chiacchierata dove le domande mi venivano via via che si parlava. No, non mi è mai venuto in mente di entrare nelle storie e di dire la mia. Ho scritto questo libro per cercare il più possibile di far capire al lettore che le scelte non vanno giudicate, sia di maternità sia di non maternità. Entrare e commentare sarebbe stato tradire l’intento del mio libro. Credo che nessuno possa mai giudicare le scelte di una persona, figuriamoci se io mi sarei permessa. Non condivido e non sono d’accordo con tutte le mie protagoniste, ma credo sia giusto che abbiano voce. Mia è solo l’introduzione. Poi presto la mia penna e lascio la parole alle trenta storie». “Madri comunque”, anche chi per chi non è madre: non pensi che questo non faccia che rinforzare stereotipi e modelli che vogliono le donne sempre e solo come madri? Non si può essere donne e basta? «No, al contrario, credo che serva per far capire ai benpensanti, a chi ragiona per stereotipi, a chi sa sempre ciò che è giusto e ciò che non lo è, che una donna non deve essere per forza madre. La negazione della maternità non deve essere tabù. Prima che madri, siamo donne, persone, tanto quanto gli uomini. Purtroppo la società questo non lo valuta. Credo che
si possa essere donne e basta e non credo che la maternità ti faccia più donna, più completa. Ci sono donne complete anche senza essere madri. Ma questa è solo la mia opinione…» Sei stata coraggiosa, hai affrontato un tema scomodo da qualunque punto di vista lo si prenda. Quali le critiche maggiori che hai ricevuto? «Le critiche maggiori mi sono arrivate per la scelta di parlare solo delle madri, solo delle protagoniste, senza aver mai preso in considerazione i figli e le ricadute delle scelte di queste madri sui figli. Ho fatto una scelta ben precisa: dedicarmi solo ed esclusivamente alle donne. Dei figli, in questo libro, non mi importa. Viviamo in una società ‘figliocentrica’, in cui tutto ruota principalmente attorno ai figli. Sui figli ci sono milioni di libri, sulle madri pochissimi. Per una volta, volevo che il focus, la luce, l’attenzione fosse solo loro». già pubblicato su LM – Letterate Magazine Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web e possono essere soggette a copyright.
Lavorare con il corpo: dialoghi tra femministe e prostitute. Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera Sì, senza punto interrogativo: Sex work is work. E come tale va accolto. Non significa far propria quella scelta ma riconoscerne la dignità al pari di altre, accettando almeno di fermarsi ad ascoltare cosa hanno da dire le dirette e diretti interessati. E senza dover ogni volta ricordare che la tratta e lo sfruttamento sono altro e che le/i sexworker sono in prima fila nel combattere illegalità, soprusi e violenze. Sì, è vero che il lavoro sessuale scelto senza costrizione riguarda una minoranza di persone, ma sfuggire al confronto perché riguarda poche persone è come dire: non ci occupiamo più delle minoranze etniche o delle femministe perché non sono la maggioranza della popolazione. È indubbio che Carla Lonzi abbia dichiarato, a suo tempo, che «il femminismo mi si è presentato come lo sbocco tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi», ma non penso, come sostengono, fra le altre, Monica Ricci Sargentini e Alessandra
Bocchetti , che sia stato paradossale, financo disdicevole, aver ospitato alla Casa internazionale delle donne di Roma, lo scorso 21 gennaio, un incontro pubblico sul sexwork proprio nella sala dedicata a Lonzi, la femminista che, nel Manifesto di Rivolta Femminile del 1970 redatto con Carla Accardi ed Elvira Banotti, affermava: «accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme». Anzi, credo che Lonzi avrebbe ascoltato con cura e attenzione – così come hanno fatto le circa duecento persone presenti – le testimonianze emozionanti e le relazioni che si sono susseguite, aprendo il dibattito a interrogativi e contraddizioni non certo risolti, ma segnando un primo passo importante per iniziare a ragionare, in maniera dialogante, su una questione scottante e forse, per molte, irritante. Scottante al punto da far saltare i livelli minimi del rispetto reciproco, ne sono prova gli attacchi violenti subìti dalle organizzatrici sui social network o le ingerenze inopportune di alcune voci del femminismo italiano per impedire che l’incontro si svolgesse nella “casa di tutte”; irritante perché parlare di “sexwork” significa dibattere non solo con chi ha deciso senza costrizione di lavorare con la propria sessualità e con il proprio corpo, ma anche fare i conti con le titubanze e le paure, i desideri, i turbamenti e le rimozioni che il parlare di “sesso” comporta. «Da tempo sono testimone, nel mondo femminista, di reazioni emotive incontrollate contrapposte ad un approccio che riconosce le prostitute come interlocutrici alla pari perché
intende la prostituzione come fatto politico», ha ricordato Maria Rosa Cutrufelli, scrittrice, autrice nel 1981 de Il cliente. Inchiesta sulla domanda di prostituzione, la prima indagine a puntare l’occhio sul protagonista maschile della vicenda. «Oggi si parla di sexwork, parola recente nata proprio dalla lotta delle prostitute e dopo discussioni negli spazi femministi – ha proseguito Cutrufelli – e sebbene non posso più dire, come negli anni Ottanta, che la prostituzione sia l’istituzione nera e scura contrapposta all’istituzione bianca e chiara del matrimonio, certamente – riprendendo anche Kate Millett e il suo scritto del 1975 Prostituzione: quartetto per voci femminili– si può affermare che non è cambiata complessivamente la resistenza negli ambienti femministi a riconoscere pari dignità alle donne che scelgono volontariamente di vendere il loro corpo: ecco, a me piace parlare di scelta volontaria più che di libera scelta». Non è dello stesso avviso Pia Covre, fondatrice con Carla Corso del Comitato per i diritti civili delle prostitute, da anni attiva anche nelle reti internazionali e arrivata da Pordenone per raccontare la sua personale esperienza: «Personalmente preferisco l’espressione “libera scelta” perché così l’ho vissuta quando ad un certo punto della mia vita ho deciso che volevo essere pagata per uno scambio sessuo- economico che comunque veniva dato per scontato nelle relazioni. Mi bastò fare due conti per capire che avrei guadagnato di più così che facendo la cameriera». «Fino al 1982, quando siamo nate come Comitato, ho fatto politica in vari modi, anche con i Radicali per il diritto all’aborto – ha raccontato Covre – ma non avevo mai partecipato ad assemblee femministe. Andare ad incontrarle e trovarsi dinanzi un muro è stato molto deludente, ma questo non mi impedisce di sentirmi femminista. Ho passato la vita a battermi per la mia (e nostra) autodeterminazione e libertà, perché altrimenti saremo sempre schiacciate fra le spinte abolizioniste e quelle regolamentatrici che, in entrambi casi,
non si curano delle condizioni materiali di vita, anche igienico-sanitarie, di chi fa questo lavoro, spesso anche per sfuggire alla povertà». Se quindi, da un lato, non viene eluso il nodo delle condizioni materiali di partenza che possono divenire delle costrizioni, dall’altro, ripetono le protagoniste, si sceglie il lavoro sessuale avendo ben presente il restante mondo del lavoro e quel che comporta. Eppure lo stigma è su alcuni lavori e non su tutti: «Se lavorassi per una multinazionale o per una società dai vertici di potere maschili, come quasi tutte d’altronde, qualcuna allo stesso modo direbbe di me che sono una serva del capitalismo patriarcale? Se mangiassi cadaveri di animali torturati, mammiferi come me, o di altre specie, qualcuna direbbe: quella è un’assassina, una specista infame, con la stessa gravità di ‘quella fa la prostituta, o la spogliarellista o la mistress?». Sono domande rivolte soprattutto a quelle femministe che pensano che di certi lavori ci si debba forse vergognare, fino al punto di negarli, senza tener conto di tutte le variabili in gioco. Anche per questo, molte reti di sexworker intrecciano le loro battaglie per i diritti civili con quelle delle/i migranti e chiedono contestualmente alla depenelizzazione del sexwork anche una normativa non repressiva sul tema delle migrazioni: a ribadire che il sexwork non è necessariamente un lavoro a tempo indeterminato e le condizioni di vita possono cambiare se vengono tutelati i diritti civili e sociali. Il collettivo femminista Ombre Rosse si muove dentro questo contesto e ha partecipato all’incontro portando testimonianze dirette per capire chi sono e cosa vogliono i/le sexworker. Per tutelare le proprie attiviste/i il collettivo ha scelto di intervenire anonimamente e con il sostegno di Silvia Gallerano, attrice e interprete del monologo La Merda con cui ha già ricevuto molti riconoscimenti
internazionali. «Lavorare con il corpo significa tantissime cose tra cui condividere qualcosa di intimo. Questo è vero per il lavoro sessuale, come per altri lavori che mettono in gioco corpo, sensazioni e relazioni. Molti lavori di cura prevedono intimità corporee e non solo, molti lavori performativi prevedono espressione corporea e interpretazioni che hanno radici nella sfera dell’intimo » – così la sexworker interpretata da Gallerano, che aggiunge «ho scelto di fare questo lavoro da adulta, dopo un percorso femminista che mi ha dato la possibilità di ragionare sul mio stare al mondo, un ragionamento che non si è concluso perché continuare a stare al mondo significa anche rimettersi continuamente in discussione, almeno per me». Eppure c’è chi ha certezze inossidabili e ha deciso che chiunque faccia questa scelta sia schiava del patriarcato: «Vendere il proprio corpo è una frase che odio e ho sempre odiato. Come se non ci fosse la mia mente, la mia intelligenza, come se il mio corpo fosse smembrabile. O forse il problema è fare sesso per soldi? Fare sesso senza amore? O il problema è proprio il sesso?» – è andata dritta al punto l’altra voce del collettivo – «Vorrei poter lavorare in cooperative gestite da colleghe e colleghi, protetta da abusi, sfruttamenti e violenze anche da parte delle forze dell’ordine». Ma è violenza «anche parlare e decidere al posto mio, giudicarmi, inferiorizzarmi, vittimizzarmi e stigmatizzarmi, voler fare leggi contro la mia libertà di scelta: pensavo questo lo facessero i preti, gli obiettori, i maschilisti, non donne che si dichiarano femministe come me – ha concluso Ombra Rossa – Vorrei che il pensiero femminista accogliesse e rispettasse le soggettività non conformi, le minoranze oppresse, le esperienze e identità altre, vorrei che il femminismo rompesse definitivamente lo schema patriarcale
santa-puttana che dice di criticare e invece ripropone». Anche perché, come ben ha ricordato Giorgia Serughetti – ricercatrice dell’università Milano Bicocca e autrice nel 2013 di Uomini che pagano le donne– non si può continuare a puntare il dito solo sull’offerta ma «è necessario tener conto anche della complessità della domanda, quel variegato mondo composto in larga maggioranza da uomini, ma non più solo da uomini, che chiede e cerca anche su internet sesso a pagamento, sempre in un contesto in cui i rapporti di potere sono dentro la cornice economica del sistema capitalistico. Basti pensare – aggiunge Serughetti – al caso che ha visto le donne chiedere a richiedenti asilo prestazioni sessuali dietro compenso. Non solo si ripete lo schema di potere di un soggetto privilegiato su uno svantaggiato (uomo/donna, donna bianca/migrante) mettendo ben in evidenza anche la questione delle diseguaglianze, ma si sgretola anche un altro luogo comune che vuole il cliente come soggetto deviato». A mescolare, infine, tutte le carte la performance di Rachele Borghi, professora di geografia alla Sorbonne e componente della commissione di reclutamento del Cnrs francese. Sulla scia del progetto collettivo transnazionale Zarra Bonheur, condiviso con la pornoattivista Slavina, Borghi ha esposto letteralmente nuda le parole di chi sceglie il sex work e cerca alleanze politiche con altre sessualità dissidenti e con chi è disposto ad accogliere le loro vite. Ha infatti ricordato non solo il suo essere femminista transfemminista in rete con tante altre ma ha felicemente montato in sequenza uno spaccato di ragionamenti di donne che si battono per il riconoscimento del sexwork e le violente argomentazioni di chi in queste settimane ha irrispettosamente attaccato la possibilità dell’ascolto fra femminismi diversi.
(articolo Pubblicato su La27ora/Corriere della Sera) La vera storia di Valerie Solanas Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera Per il grande pubblico Valerie Solanas – scrittrice e femminista statunitense morta in condizioni di indigenza– è anzitutto la psicopatica che ha sparato a Andy Warhol nel 1968, e, solo incidentalmente, l’autrice di Manifesto SCUM e degli altri testi, finora inediti in Italia. Finalmente son
stati pubblicati grazie al lavoro congiunto di due editori, VandA/Morellini, e alla cura di Stefania Arcara, docente di Letteratura Inglese e Gender Studies all’Università di Catania, e Deborah Ardilli, traduttrice e collaboratrice con il “Laboratorio Anni Settanta” dell’Istituto Storico di Modena, entrambe studiose femministe. «In una situazione di normalizzazione diffusa della violenza etero-patriarcale, di cui è parte integrante la cancellazione dell’attività intellettuale delle donne, la memoria del ‘grande pubblico’ opera in maniera selettiva e per questo mette in primo piano il gesto aggressivo di Solanas nei riguardi di un uomo, per di più ammantato di prestigio sociale e culturale. In tali condizioni, è fin troppo facile inquadrare Solanas come la quintessenza del non-pensiero, del collasso della ragione, e cercare nei suoi scritti nient’altro che una conferma», spiega Stefania Arcara. Non è semplice, quindi, leggere la sua opera senza pregiudizi, perché «la violenza esercitata da una donna risulta sempre intollerabile e il giudizio negativo ricade sulla sua scrittura, mentre lo stesso criterio non viene applicato, per esempio, alle opere di Norman Mailer, che accoltellò la moglie, o di William Burroughs e del filosofo Louis Althusser, entrambi uxoricidi, perfettamente integrati nel canone» racconta Arcara. «Sebbene sia stata una protagonista della controcultura statunitense degli anni Sessanta, Solanas scrittrice è stata a lungo oggetto di una damnatio memoriae, compresa la rimozione dalla storia del femminismo: negli Stati Uniti ci sono voluti trentacinque anni, da quando fu composta, perché la sua commedia Up Your Ass fosse messa in scena per la prima volta, molti anni dopo la sua morte. C’è voluto mezzo secolo perché questo testo fosse tradotto in Italia (da Nicoleugenia Prezzavento) e pubblicato nel nostro volume insieme alla nuova traduzione del Manifesto SCUM e al racconto autobiografico del 1966, Prontuario per fanciulle, che narra la giornata di una giovane lesbica proletaria che vive di
accattonaggio e prostituzione per le strade del Greenwich Village». Solanas vendeva per strada il suo Manifesto, 25 cent per le donne e un dollaro per gli uomini, e la parola Scum è stata a lungo considerata come un acronimo di Society for Cutting Up Men (Società per l’eliminazione dell’uomo), ma la sigla in realtà non compare nel manifesto e l’autrice non era concorde con questa interpretazione perché, prosegue Arcara, «nei suoi testi la ‘teoria’, che ha un andamento contraddittorio, consiste in un’analisi – condotta con gli strumenti retorici dell’umorismo, del sarcasmo, del gergo di strada, dell’insulto – del rapporto sociale tra i sessi e della subordinazione delle donne nel sistema eteropatriarcale, arrivando ad una provocatoria soluzione politica: auspica l’abolizione del sistema binario e gerarchico dei generi, attraverso l’eliminazione di uno dei due, quello dominante che secondo lei è da considerarsi realmente “inferiore” proprio in quanto sente il bisogno di dominare». Stefania Arcara e Deborah Ardilli«Trilogia SCUM di Valerie Solanas» VandA ePublishing e Morellini Editore
Tradurre è anche un po’ un tradire, quale è stata la vostra esperienza rispetto a una scrittura come quella di Solanas? Si è perso qualcosa nella versione italiana? «Pensiamo alla nostra traduzione come a un modo per rendere finalmente giustizia alla scrittrice Solanas. La nostra è la prima traduzione italiana basata sul rarissimo testo integrale approvato dall’autrice, la quale per tutta la vita fu ossessionata dall’integrità artistica e dal controllo, che non ebbe mai, della propria opera. Fino a oggi le traduzioni italiane di SCUM Manifesto si erano basate sul testo pubblicato dall’Olympia Press senza il consenso dell’autrice subito dopo l’attentato a Warhol – un testo mutilato di alcune parti e alterato dall’editore Maurice Girodias. Edizione che, tra le altre cose, riporta il titolo come acronimo, “S.C.U.M.”, che rimanderebbe a “Society for Cutting Up Men”(un’operazione di marketing editoriale giudicata ‘tasteless’, ‘di cattivo gusto’, da Solanas e finora sempre riproposta nelle traduzioni italiane, con il sottotitolo “società per l’eliminazione del maschio”): invece, nell’Edizione corretta da Valerie Solanas che l’autrice riesce finalmente a pubblicare in proprio nel 1977, il titolo è SCUM, cioè “feccia”, in riferimento alla posizione subordinata delle donne in un mondo egemonizzato dagli uomini ma anche un’operazione di sovvertimento dell’insulto, poiché sarà proprio la scum a guidare la rivoluzione contro quel sistema di potere che l’ha prodotta. Nella sua scrittura Solanas mescola registri stilistici diversi e lessici eterogenei, dal linguaggio scurrile allo stile visionario, dall’umorismo situazionista all’invettiva e all’aforismo, e a volte ricorre al gergo della controcultura del suo tempo. Per noi è stata un’esperienza molto bella restituire a Valerie Solanas la sua voce di scrittrice, così come ha fatto l’altra traduttrice, Nicoleugenia Prezzavento, che è anche regista teatrale, con la commedia Up Your Ass (In culo a te) che presto verrà da lei messa in scena. In accordo con la casa editrice VandA, abbiamo perciò scelto una copertina che ritrae
l’autrice con la penna in mano, per restituire finalmente legittimità a Solanas scrittrice». Ardilli, nella vostra introduzione al volume scrivete “il nome di Valerie Solanas, ancora oggi, segna il limite di rispettabilità e ragionevolezza che il femminismo deve osservare per essere tollerato, e pertanto la lettura delle sue opere è tuttora un atto eversivo”. Qual è oggi il limite di rispettabilità e ragionevolezza che i femminismi devono rispettare per essere tollerati? «Per qualsiasi gruppo subalterno i limiti da osservare per non incorrere in sanzioni sono quelli dettati, di volta in volta, dalla pressione ideologica e materiale esercitata dalla controparte dominante. Non possiamo stabilire in anticipo, una volta per tutte, quale sarà l’efficacia di quella pressione, in quale misura sarà interiorizzata, aggirata o sfidata. Tuttavia, considerando che i sessi sono gruppi sociali non naturali e avendo chiara la posizione delle donne nella scala gerarchica del genere, mi pare ci sia ancora una straordinaria riluttanza a riconoscere l’esistenza stessa di una controparte e, di conseguenza, a legittimare un’attitudine conflittuale nei confronti degli uomini. Alla “folle” Solanas non si perdona facilmente il fatto di avere individuato, nominato e aggredito frontalmente quella riluttanza. E le si perdona ancora meno il ricorso a repertori d’azione violenti». Arcara, l’umorismo di Solanas secondo voi è ancora vincente? I femminismi di oggi sono capaci di far ridere? «Quante volte, di fronte a una battuta “scherzosa” pesantemente sessista che – in quanto donne – non ci fa ridere, siamo state accusate di mancanza di senso dell’umorismo, magari con un paternalistico: “E fattela una risata…”? Per rispondere, parto da una mia osservazione basata sull’esperienza delle presentazioni di Trilogia SCUM che
abbiamo tenuto in giro per l’Italia, in contesti molto diversi. Al momento della lettura, da parte nostra o di attrici, di qualche brano di Solanas, puntualmente nel pubblico di fronte a me ho notato uomini che restavano serissimi, uomini sorridenti, imbarazzati più che divertiti, pochi (quasi certamente non eterosessuali) che ridevano di gusto, e donne che immancabilmente scoppiavano a ridere. Anche l’umorismo è un “terreno di potere” e la sua efficacia dipende da quale posizione occupa chi fa una battuta scherzosa, a spese di quale gruppo sociale, e di fronte a quale pubblico. Solanas fa un’operazione inedita, e molto potente perché esclude qualsiasi atteggiamento vittimistico, nel momento in cui usa l’umorismo per denunciare i rapporti sociali di potere basati sul sesso. Questa operazione la compie da scrittrice isolata, senza avere alle spalle una tradizione di satira femminista che oggi invece esiste e, soprattutto fuori dall’Italia, ha acquistato una certa visibilità. Oggi esiste un pubblico di donne che finalmente può ridere di battute femministe, perché cinquant’anni di lotta ci hanno finalmente legittimate a farlo». Ardilli, qual è il ruolo della marginalità nella vita di Solanas rispetto alla sua scrittura? «Marginalità e scrittura sono dimensioni inscindibili in Solanas. La sua biografia, firmata da Breanne Fahs, è apparsa soltanto nel 2014 e chiarisce aspetti importanti di questo nesso. Quella di Solanas è stata una vita segnata da abusi precoci in famiglia, due gravidanze in età adolescenziale, da violenza economica, da reiterati rifiuti ogniqualvolta ha tentato di proporsi come scrittrice; ma è anche una vita caratterizzata da una coscienza lucida dell’oppressione vissuta e da uno slancio molto forte, da un desiderio lancinante di vita buona che brucia ogni mediazione». Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera
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