Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie - Diatomea.net

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Tacciano le madri, ascoltiamo
le figlie
Questa recensione esce in simultanea su La Bottega del
Barbieri «perchè – spiega Barbara – con le amiche e gli amici
di Diatomea e della Bottega del Barbieri siamo per la
condivisione e il fare rete, e allora anche le riflessioni su
libri, femminismi e cultura possono essere pubblicate in
entrambi i luoghi senza aver bisogno di copyright».

Cominciare dalla fine, senza svelare la trama, per andare a
leggere “la loro storia”: cinque donne, qualche uomo, un’isola
su cui si ritrovano tutte, una voce narrante che infine recita
“lei sa di cosa ho bisogno. Sa che per esistere, per avere la
giusta consapevolezza di te, devi possedere una storia che ti
precede (e che ti continua, ha detto una volta), perciò non ho
mai dovuta pregarla. È stata lei a spiegarmi da dove vengo e
perché e a raccontarmi della repubblica delle madri”.

È qui, nella storia che ognuna di noi ricostruisce, che
risiede, almeno così mi è parso, il senso profondo dell’ultimo
romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri
[Mondadori, 2020].

Una scrittura fantastica, come preferisce definirla
Cutrufelli, non di fantascienza, perché non c’è nulla nel
racconto che non accada già nel nostro presente.

Il pianeta terra estremamente sofferente per l’inquinamento,
per lo sfruttamento delle risorse naturali e un
turbocapitalismo che ha sfregiato i luoghi della cultura e
quelli del vivere comune, alimentando disuguaglianze,
riducendo diritti e reprimendo possibili ribellioni. Un
intreccio di vite che si snoda in paesi mai nominati ma
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facilmente riconoscibili, fra l’Est Europa e il Mediterraneo,
con un ritorno anche metaforico alle isole fondative della
civiltà occidentale, a quelle mitologie che avevano tracciato
un destino umano che sembrava irreversibile e che mai come
oggi appare invece in continuo mutamento.

Uno scenario che, involontariamente, sfiora l’attualità della
quarantena e della pandemia, ma qui la malattia è un’altra, è
la sterilità umana considerata la ‘malattia del vuoto’ intesa
“come qualcosa che si è prodotto nelle nostre cellule”, spiega
Cutrufelli, andando a minare del tutto la riproduzione della
specie.

Un fatto reale portato alle estreme conseguenze, così tanto
che a volte nello scorrere delle pagine manca l’aria e ci si
sente un po’ con le spalle al muro, quasi che la diminuzione
delle nuove nascite sia da leggere solo come un enorme
cataclisma e non, anche, come scelta di altre vite possibili.

Che fare dunque dinanzi al rischio del vuoto totale? Fra chi –
anche nel romanzo – pensa che non sia così necessario
riprodursi perché il mondo è pieno e chi ripete che è solo Dio
a dare la vita, le personagge di questa storia propongono, se
lo si vuole, di ricorrere alle biotecnologie e alla scienza.
Una soluzione che spesso nella lettura appare come l’unica
possibile, quasi non fosse invece auspicabile un cambiamento
negli stili di vita che tanto influenzano anche la capacità,
per chi lo volesse, di riprodursi.

Non è un tema casuale, per chi come Cutrufelli è impegnata in
prima persona nei movimenti femministi e che ha scelto la
narrativa come terza via – fra politica e dogma – per offrire
alla discussione comune spunti di riflessione.

Sulla maternità, sulla gestazione per altre e altri, sulla
difficoltà di definire oggi ‘la madre’ quando, afferma la
scrittrice, è già in essere una scissione in tre figure: la
madre donatrice, la madre gestante, la madre legale. Dovremmo
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forse dire donna, al posto di madre: donna che dona l’ovulo,
donna che lo fa crescere nel suo corpo, donna che si prende
cura del nuovo essere e lo fa diventare una persona, senza che
il corpo sia minimamente chiamato in causa.

Un ripensamento complessivo dei ruoli e il riconoscimento che,
non solo nella comunità umana, la differenza è nella relazione
che si instaura. Relazione d’amore e di responsabilità, di
rispetto e curiosità, di ascolto reciproco.

Ecco perché allora è arrivato il tempo di uscire da una
discussione che nel mondo reale è solo fra madri, a fatica
sono ammesse le non madri, per ascoltare la voce delle figlie
e dei figli nati fuori dal tradizionale incontro fra uomo e
donna, per dare parola a chi una condizione del tutto diversa
la vive già e vuole raccontare la sua storia, a modo suo.

Chissà allora, suggerisce Cutrufelli, che non servano parole
nuove, visto che quelle note non riescono a significare la
realtà. Lei ne inventa alcune nel suo romanzo prendendo
ispirazione dal linguaggio che si sta diffondendo fra chi
nasce grazie alle biotecnologie, laddove gli intrecci
familiari invitano a preferire il termine ‘zia’ per la donna
gestante o cugina/o per le sorelle/fratelli non di sangue.
Peccato, ma su questo con Cutrufelli ci confrontiamo da tempo,
che la riflessione sul linguaggio non contempli del tutto
anche il lessico sessuato e mi faccia sobbalzare nel leggere
che “lei è un medico” o “caporeparto” riferito ad alcune
protagoniste della storia. Cutrufelli ritiene che alcune
parole sessuate siano ancora un inciampo per la lettura e che
la scrittura romanzata abbia bisogno di tempi più lunghi per
tenerne conto.

Senza dubbio la narrativa le ha permesso di tradurre
interrogativi complessi in una storia che solletica pian piano
chi legge e con accuratezza scandaglia l’anima delle
protagoniste alle prese con “un sorriso che sembra affiorare
da complicate negazioni interne”. È invece benevolo lo sguardo
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che la scrittrice posa sul ruolo del padre, che, come spesso
nella vita reale, appare spettatore balbuziente, quasi
giustificato se “è solo dentro i suoi pensieri che un padre
(biologico o putativo che sia) può fare il nido per suo
figlio, non è così?”. Del resto, per il momento, ricorda
Cutrufelli, senza il loro seme ancora non c’è nascita
possibile. Ma tutto il resto sì, considerato il prezzo pagato
dalle donne prima, durante e dopo la nascita, in ogni epoca e
ad ogni latitudine, chiamate poi a riparare anche i danni
prodotti da quella metà del cielo che avvelena i pozzi e i
fiumi.

Ed è proprio l’eco di un racconto sui pesci mutanti che
nuotavano nelle acque avvelenate del fiume – racconta
l’autrice in una breve nota finale – ad averla spinta a
scrivere questo romanzo, non l’attualità ma piuttosto un lento
lavorìo interiore suscitato dalle storie che le raccontava il
padre scienziato a lei bambina sugli effetti dei cambiamenti
climatici, dell’inquinamento, delle modificazioni genetiche
dei cibi e l’uso di pesticidi.

Una storia di decenni fa che – a volerla ascoltare – lasciava
già intravedere il futuro che stiamo vivendo ora.

La violenza                    al      tempo           del
virus
Lei esce sul balcone e si mette a suonare il flauto, quello
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che si usa alle scuole medie    per iniziare ad avvicinarsi alla
musica, lui inizia a urlarle   contro da dentro casa, poi le si
avvicina violento e inizia a   strattonarla. Non sappiamo se lui
sia il marito, il compagno,    un anziano di casa. La sostanza
non cambia.

Il video ha girato per giorni – con un titolo che pressappoco
recitava “lei suona e lui la corca” – ed è rimbalzato ovunque,
in questo impeto social che tutti ci ha travolti con il
Covid-19. Arrivano di continuo: foto, remake di canzoni
famose, cartoline, video satirici ma anche di pessimo gusto,
spie di qualcosa d’altro che non c’entra nulla con l’epidemia
in corso. Quel video, ad esempio, ci dice molto sulla continua
e reiterata violenza maschile sulle donne, ma anche
dell’irrilevanza che il fenomeno ha su gran parte della
società perché nei commenti a quel video si ride, così come si
ride degli striscioni messi sui balconi da mariti che dicono
che prima o poi faranno qualcosa alle mogli che devono
‘sopportare’ nella quarantena. Battute che sono prese ancora
troppo alla leggera, solleticano i peggiori umori, quelli che
una cultura maschilista persistente ancora alimenta ed educa.
La stessa cultura che, detto per inciso, non ha molta cura
della salute pubblica, che per anni ha privatizzato i servizi
e che non prende in seria considerazione i nessi fra salute
ambientale e umana.

A peggiorare la situazione è comparso il Covid-19, perché per
molte, troppe donne restare a casa è più pericoloso del
possibile contagio.

A dirlo subito, appena scattate le restrizioni, sono state le
femministe della rete Non Una Di Meno che hanno rilanciato sui
social un messaggio chiaro: “Per molte persone, soprattutto
molte donne #stareacasa non è un invito rassicurante. Il
numero nazionale dei centri antiviolenza 1522 è attivo”.

E suona bizzarro, e ipocrita, che a rilanciare la campagna sia
stata la stessa sindaca Raggi, il cui governo non fa nulla per
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proteggere luoghi importanti per le donne a Roma, da Lucha Y
Siesta alla Casa internazionale delle donne.

Le operatrici di Trama di Terre ad Imola scrivono “La nostra
piccola campagna territoriale #icentriantiviolenzasonoaperti
nasce perché sappiamo come agisce la violenza familiare
maschile all’interno delle mura domestiche. Le donne, in
emergenza Covid-19, vivono segregate con uomini maltrattanti
che hanno in questa situazione il pieno controllo sui
movimenti e sulle azioni delle donne e dei figli/e. Diventa
dunque difficile per una donna cercare aiuto e sostegno in
questa situazione. Non solo, in un regime di isolamento
dettato dall’emergenza sanitaria, le madri faticano
doppiamente a chieder aiuto. Infatti, è probabile che
ritengano giustamente pericoloso esporrei/le figli/e se stesse
al rischio di contagio scappando dalla propria abitazione, non
avendo la certezza di sapere con chi andranno a vivere e
dove”.

Non solo, “per ridurre al minimo l’esposizione al pericolo
delle donne vittime di violenza che trovano il coraggio di
denunciare il maltrattante – aggiungono da Trama –
sollecitiamo un accordo tra le varie istituzioni e le forze
dell’ordine affinché siano gli uomini ad essere allontanati
(come l’applicazione della legge sul femminicidio consente
nella parte in cui attribuisce alle forze dell’ordine il
potere di procedere con il fermo, l’arresto o l’allontanamento
urgente dall’abitazione familiare tutte le volte che si renda
necessario). In questo modo sono le donne e i/le loro figli/e
a rimanere nelle loro abitazioni al sicuro. Dopo questa
emergenza, ci auguriamo che le istituzioni si rendano
finalmente conto che in questo sistema di protezione sono le
donne a pagare il prezzo maggiore della violenza, prima e dopo
una denuncia per violenze. Di fatto allontanare una donna,
unitamente ai suoi figli, dalla propria casa vuole dire
punirla per aver chiesto aiuto”.

Il   7   marzo   scorso,   il   giorno   prima   della   giornata
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internazionale delle donne, alla vigilia del decreto che ha
iniziato a fermare tutto il paese, proprio a Imola una donna è
morta in circostanze ancora poco chiare. Se, come dicono molti
esperti quella con il Covid-19 è “una guerra con nemico
invisibile”, in questo caso conosciamo perfettamente il nostro
nemico e come ripetono da tempo le femministe, l’assassino ha
le chiavi di casa e in questa emergenza Covid-19 potrebbe
chiudere ben stretta la serratura.
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© Francesco Cocco

Care amiche e cari amici

come molt@ di voi sanno due anni fa abbiamo realizzato con il
Network Italiano Salute Globale una mostra fotografica con il
materiale raccolto in Burkina Faso da Francesco Cocco,
fotografo dell’Agenzia Contrasto, che per noi ha visitato
centri antiviolenza e ambulatori medici sostenuti dalla
cooperazione sanitaria italiana.

Un emozionante racconto in bianco e nero che ha girato un po’
l’Italia, dopo l’inaugurazione a Roma, la mostra è stata
esposta a Conversano di Bari, Brescia e Napoli.

Siete tutt@ invitati al Finissage che conclude questa
iniziativa per brindare insieme a noi e nel corso della serata
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sarà anche possibile, con un contributo libero, acquistare le
immagini della mostra.

Vi aspettiamo!

Barbara

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Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state
prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo
divulgativo, tutte    le   altre   sono   soggette   a   copyright
©Francesco Cocco

Vancouver.
Vancouver città dei murales, opere d’arte a cielo aperto,
insieme a cavi elettrici confusi e pendenti, ti chiedi se
fanno male alla salute mentre sotto ci passeggi.

Vancouver così grigia e colorata assieme, un concentrato di
grattacieli che svettano – come Boston, Londra, Tapei – e
piccole aiuole di fiori e piante officinali quando meno te lo
aspetti, come le piccole arnie nella terrazza di un hotel, a
pochi metri dagli ospiti che impavidi si tuffano in piscina.

Vancouver rilassata sul porticciolo che è mare ma non te ne
accorgi, nell’insenatura che prima o poi sfocia nel Pacifico,
così lontano e ad un tratto così vicino, come i mitili che
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giri lo sguardo e sono lì ad asserragliare i pali della
banchina.

Vancouver, sullo sfondo le montagne innevate, in metropolitana
un ragazzo in canottiera con gli sci sottobraccio, l’eco
dell’esploratore nel nome e la scritta sul marciapiede a
ricordarci che “colonialism does not spark joy/il colonialismo
non provoca gioia”.

Vancouver, ritrovo per senza fissa dimora da tutto il Canada:
il clima è mite e, forse, la città accogliente o semplicemente
indifferente. Del resto l’Economist sostiene che sia la città
più vivibile al mondo. Di sicuro scivola via leggera, come i
suoi ciclisti nel sali scendi delle sue colline.
Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove
specificato, sono state prese dai link segnalati e/o dal web
per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a
copyright © Barbara Bonomi Romagnoli

Felicemente senza figli. E
allora?
Pubblicato l’08/03/2019 su La27esima ora    – Corriere della
Sera

La mia città natale si chiama Willows, nel Wisconsin ma non vi
venga in mente di andare a visitare la mia casa natale perché
Willows è una città che non esiste. Tutta finzione e frutto
dell’immaginazione di quei matti di casa Mattel. Io Barbara,
parlo 50 lingue, ho fatto un centinaio di mestieri ma non sono
laureata e neanche sposata. Ken, il mio compagno da una vita
avrebbe voluto sposarmi e avere qualche figlio da me ma io mi
sono sempre negata.

Non ci crederete, ma ci sono donne, non solo bambole, che non
hanno voluto figlie e figli, non per questo vogliono essere
considerate femmine di serie B. Alcune son state famose,
geniali, coraggiose; altre hanno animato la mitologia e le
religioni di un mondo scritto e pensato a immagine e
somiglianza degli uomini. Arrivano da epoche diverse o epiche
lontane e sono le protagoniste di Monologhi impossibili. Le
esclusive rivelazioni di 35 mitiche lunàdigas, libro a cura di
Carlo A. Borghi, che fa parte del progetto molto più ampio dal
curioso titolo Lunàdigas , ideato da Marilisa Piga e Nicoletta
Nesler per dare voce alle donne che scelgono di non avere
figli. La parola lunàdigas viene dalla lingua sarda ed è usata
dai pastori per definire le pecore che in certe stagioni non
si riproducono: le autrici e registe l’hanno scelta come
titolo del loro lavoro in mancanza di un termine altrettanto
incisivo nella lingua italiana. Dopo il webdoc del 2015 e il
film del 2016, Piga e Nesler hanno pensato ad un testo scritto
in forma di brevi racconti ma anche ad un “archivio vivo”
online in continuo aggiornamento.

Dalla mitica Lillith a Gertrude Stein; da Hélène Kuraghina a
Giovanna D’arco, passando per Ava Gardner e Ipazia di
Alessandria; da Frida Kahlo, Vittoria Colonna a Rosa Luxemburg
e la Monaca di Monza ideata da Manzoni: tutte raccontano la
loro storia in prima persona, con lingue puntute e senza giri
di parole, in monologhi immaginari e forse anche utopistici.

Una cosa di sicuro non ho fatto nel corso della mia vita: i
figli. Ecco, sì… figli niente proprio niente e non c’è mai
stato neanche un momento in cui ho pensato all’eventualità
della maternità. Voi, vi chiederete perché. Molti diranno che
è andata così per il fatto che ero un tipo algido e glaciale,
come un igloo o un iceberg. I figli, non li ho voluti perché i
miei fianchi mi sono sempre sembrati troppo stretti per
accogliere tutta quella storia uterina e poi spingerla fuori.
Fianchi stretti come un fiordo. [Greta Garbo]

Chissà tutte loro cosa avrebbero detto oggi, in questo 8 marzo
2019, quando accanto alla tradizionale retorica sulla donna
con la D maiuscola assistiamo a un nuovo e potente ritorno del
modello della maternità come destino indicato per il genere
femminile. La ministra Grillo ha pensato bene di organizzare
un convegno dal titolo “La scelta di essere mamma” e di
invitare solo quattro donne a parlare d’infertilità e
dintorni, a ribadire che il corpo è quello delle donne ma ne
discutono i maschi. Il ministro Fontana, alla vigilia del
congresso mondiale delle famiglie di stampo conservatore e
confessionale che si terrà a Verona a fine marzo, parte per
New York per partecipare alla Commissione delle Nazioni Unite
sullo status delle donne . Non crediamo (viste le sue
precedenti affermazioni) per sostenere la libera scelta delle
donne. E non c’è dubbio che l’autodeterminazione passa anche
per una presa di parola delle tante, sempre di più donne, che
non vogliono essere madri o che non si disperano per la loro
mancata maternità. Rivendicano il loro essere zie felici e
progetti come Lunàdigas restituiscono la complessità e la
ricchezza delle vite che accompagnano ogni singola scelta.

(articolo Pubblicato su La27ora/Corriere della Sera)
Le donne hanno un posto per
tutto
Mi sono avvicinata alla lettura di questo volume con prudenza
e un po’ di sospetto, lo ammetto. Il tema della maternità è
scivoloso e anche un po’ di moda, in un paese in cui si chiede
alla maggioranza delle donne di essere buone madri e buone
mogli e dove le aspettative sociali rispondono a modelli
precostituiti che riducono la scelta [o l’impossibilità] di
non riprodurre la specie a velleitari egoismi o commiserevoli
imperfezioni. Con in sottofondo il solito paradossale
leitmotiv: da una parte la santa mamma italiana che tutto vede
e provvede, dall’altro politiche che negano diritti e
possibilità alle eventuali future madri.

Da questa premessa e per di più essendo una ‘senza figli’, la
lettura di Madri comunque di Serena Marchi si è rivelata
invece una piacevolissima sorpresa, per lo stile asciutto mai
enfatico, perché la carrellata di ritratti è davvero
rappresentativa delle differenze e perché, come afferma Pedro
Almódovar in epigrafe: “le donne sanno nascondere un cadavere
e affettare i peperoni: hanno un posto per tutto”.
Hai scritto un libro senza filtro, parlano le protagoniste,
almeno così sembra a chi legge. Mi racconti meglio come hai
raccolto queste storie?

«Le storie le ho raccolte in 4 anni, partendo prima da quelle
più “facili” da trovare come la mamma adottiva e la mamma di
figli in affido per poi andare, via via, a cercare le
maternità meno comuni, quelle più in ombra, quelle che la
società lascia in disparte perché sono scomode. Vedi la mamma
lesbica, la figlicida (sono entrata nel carcere giudiziario di
Castiglione delle Stiviere, dopo un anno di attesa del
permesso) ma ancora di più la donna che affitta l’utero e la
coppia che ricorre alla surrogazione. Per questo, ho preso il
volo e sono andata a Kiev, lo scorso ottobre, dove son rimasta
tre giorni e ho parlato sia con la portatrice sia con la
coppia. La scelta della prima persona è per dare voce al
massimo solo alla protagonista. E questo crea più intimità tra
chi racconta e chi legge».

In che modo hai condotto le interviste? Hai mai pensato ad
aggiungere un commento, a entrare nelle altre storie e dire la
tua?

«Il novanta per cento delle mie interviste è stata fatta di
persona. Ho incontrato di persona tutte le protagoniste e ho
iniziato con il farmi raccontare chi sono, la loro vita, le
loro storie e poi la loro maternità. Sempre una lunga
chiacchierata dove le domande mi venivano via via che si
parlava. No, non mi è mai venuto in mente di entrare nelle
storie e di dire la mia. Ho scritto questo libro per cercare
il più possibile di far capire al lettore che le scelte non
vanno giudicate, sia di maternità sia di non maternità.
Entrare e commentare sarebbe stato tradire l’intento del mio
libro. Credo che nessuno possa mai giudicare le scelte di una
persona, figuriamoci se io mi sarei permessa. Non condivido e
non sono d’accordo con tutte le mie protagoniste, ma credo sia
giusto che abbiano voce. Mia è solo l’introduzione. Poi presto
la mia penna e lascio la parole alle trenta storie».

“Madri comunque”, anche chi per chi non è madre: non pensi che
questo non faccia che rinforzare stereotipi e modelli che
vogliono le donne sempre e solo come madri? Non si può essere
donne e basta?

«No, al contrario, credo che serva per far capire ai
benpensanti, a chi ragiona per stereotipi, a chi sa sempre ciò
che è giusto e ciò che non lo è, che una donna non deve essere
per forza madre. La negazione della maternità non deve essere
tabù. Prima che madri, siamo donne, persone, tanto quanto gli
uomini. Purtroppo la società questo non lo valuta. Credo che
si possa essere donne e basta e non credo che la maternità ti
faccia più donna, più completa. Ci sono donne complete anche
senza essere madri. Ma questa è solo la mia opinione…»

Sei stata coraggiosa, hai affrontato un tema scomodo da
qualunque punto di vista lo si prenda. Quali le critiche
maggiori che hai ricevuto?

«Le critiche maggiori mi sono arrivate per la scelta di
parlare solo delle madri, solo delle protagoniste, senza aver
mai preso in considerazione i figli e le ricadute delle scelte
di queste madri sui figli. Ho fatto una scelta ben precisa:
dedicarmi solo ed esclusivamente alle donne. Dei figli, in
questo libro, non mi importa. Viviamo in una società
‘figliocentrica’, in cui tutto ruota principalmente attorno ai
figli. Sui figli ci sono milioni di libri, sulle madri
pochissimi. Per una volta, volevo che il focus, la luce,
l’attenzione fosse solo loro».

già pubblicato su LM – Letterate Magazine

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state
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a copyright.
Lavorare    con il  corpo:
dialoghi tra femministe e
prostitute.
Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera

Sì, senza
punto interrogativo: Sex work is work. E come tale va accolto.
Non
significa far propria quella scelta ma riconoscerne la dignità
al pari di
altre, accettando almeno di fermarsi ad ascoltare cosa hanno
da dire le dirette
e diretti interessati. E senza dover ogni volta ricordare che
la tratta e lo
sfruttamento sono altro e che le/i sexworker sono in prima
fila nel combattere
illegalità, soprusi e violenze. Sì, è vero che il lavoro
sessuale scelto senza
costrizione riguarda una minoranza di persone, ma sfuggire al
confronto perché
riguarda poche persone è come dire: non ci occupiamo più delle
minoranze
etniche o delle femministe perché non sono la maggioranza
della popolazione.

È indubbio che Carla Lonzi abbia dichiarato, a suo tempo, che
«il femminismo mi si è presentato come lo sbocco tra le
alternative simboliche della condizione femminile, la
prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere
il proprio corpo e senza rinunciarvi», ma non penso, come
sostengono, fra le altre, Monica Ricci Sargentini e Alessandra
Bocchetti , che sia stato paradossale, financo disdicevole,
aver ospitato alla Casa internazionale delle donne di Roma, lo
scorso 21 gennaio, un incontro pubblico sul sexwork proprio
nella sala dedicata a Lonzi, la femminista che, nel Manifesto
di Rivolta Femminile del 1970 redatto con Carla Accardi ed
Elvira Banotti, affermava: «accogliamo la libera sessualità in
tutte le sue forme». Anzi, credo che Lonzi avrebbe ascoltato
con cura e attenzione – così come hanno fatto le circa
duecento persone presenti – le testimonianze emozionanti e le
relazioni che si sono susseguite, aprendo il dibattito a
interrogativi e contraddizioni non certo risolti, ma segnando
un primo passo importante per iniziare a ragionare, in maniera
dialogante, su una questione scottante e forse, per molte,
irritante.

Scottante al
punto da far saltare i livelli minimi del rispetto reciproco,
ne sono prova gli
attacchi violenti subìti dalle organizzatrici sui social
network o le ingerenze
inopportune di alcune voci del femminismo italiano per
impedire che l’incontro
si svolgesse nella “casa di tutte”; irritante perché parlare
di “sexwork”
significa dibattere non solo con chi ha deciso senza
costrizione di lavorare
con la propria sessualità e con il proprio corpo, ma anche
fare i conti con le
titubanze e le paure, i desideri, i turbamenti e le rimozioni
che il parlare di
“sesso” comporta.

«Da tempo sono testimone, nel mondo femminista, di reazioni
emotive incontrollate contrapposte ad un approccio che
riconosce le prostitute come interlocutrici alla pari perché
intende la prostituzione come fatto politico», ha ricordato
Maria Rosa Cutrufelli, scrittrice, autrice nel 1981 de Il
cliente. Inchiesta sulla domanda di prostituzione, la prima
indagine a puntare l’occhio sul protagonista maschile della
vicenda. «Oggi si parla di sexwork, parola recente nata
proprio dalla lotta delle prostitute e dopo discussioni negli
spazi femministi – ha proseguito Cutrufelli – e sebbene non
posso più dire, come negli anni Ottanta, che la prostituzione
sia l’istituzione nera e scura contrapposta all’istituzione
bianca e chiara del matrimonio, certamente – riprendendo anche
Kate Millett e il suo scritto del 1975 Prostituzione:
quartetto per voci femminili– si può affermare che non è
cambiata complessivamente la resistenza negli ambienti
femministi a riconoscere pari dignità alle donne che scelgono
volontariamente di vendere il loro corpo: ecco, a me piace
parlare di scelta volontaria più che di libera scelta».

Non è dello stesso avviso Pia Covre, fondatrice con Carla
Corso del Comitato per i diritti civili delle prostitute, da
anni attiva anche nelle reti internazionali e arrivata da
Pordenone per raccontare la sua personale esperienza:
«Personalmente preferisco l’espressione “libera scelta” perché
così l’ho vissuta quando ad un certo punto della mia vita ho
deciso che volevo essere pagata per uno scambio sessuo-
economico che comunque veniva dato per scontato nelle
relazioni. Mi bastò fare due conti per capire che avrei
guadagnato di più così che facendo la cameriera».
«Fino al 1982, quando siamo nate come Comitato, ho fatto
politica in vari modi, anche con i Radicali per il diritto
all’aborto – ha raccontato Covre – ma non avevo mai
partecipato ad assemblee femministe. Andare ad incontrarle e
trovarsi dinanzi un muro è stato molto deludente, ma questo
non mi impedisce di sentirmi femminista. Ho passato la vita a
battermi per la mia (e nostra) autodeterminazione e libertà,
perché altrimenti saremo sempre schiacciate fra le spinte
abolizioniste e quelle regolamentatrici che, in entrambi casi,
non si curano delle condizioni materiali di vita, anche
igienico-sanitarie, di chi fa questo lavoro, spesso anche per
sfuggire alla povertà».

Se quindi, da un lato, non viene eluso il nodo delle
condizioni materiali di partenza che possono divenire delle
costrizioni, dall’altro, ripetono le protagoniste, si sceglie
il lavoro sessuale avendo ben presente il restante mondo del
lavoro e quel che comporta. Eppure lo stigma è su alcuni
lavori e non su tutti: «Se lavorassi per una multinazionale o
per una società dai vertici di potere maschili, come quasi
tutte d’altronde, qualcuna allo stesso modo direbbe di me che
sono una serva del capitalismo patriarcale? Se mangiassi
cadaveri di animali torturati, mammiferi come me, o di altre
specie, qualcuna direbbe: quella è un’assassina, una specista
infame, con la stessa gravità di ‘quella fa la prostituta, o
la spogliarellista o la mistress?».

Sono domande rivolte soprattutto a quelle femministe che
pensano che di certi lavori ci si debba forse vergognare, fino
al punto di negarli, senza tener conto di tutte le variabili
in gioco. Anche per questo, molte reti di sexworker
intrecciano le loro battaglie per i diritti civili con quelle
delle/i migranti e chiedono contestualmente alla
depenelizzazione del sexwork anche una normativa non
repressiva sul tema delle migrazioni: a ribadire che il
sexwork non è necessariamente un lavoro a tempo indeterminato
e le condizioni di vita possono cambiare se vengono tutelati i
diritti civili e sociali. Il collettivo femminista Ombre Rosse
si muove dentro questo contesto e ha partecipato all’incontro
portando testimonianze dirette per capire chi sono e cosa
vogliono i/le sexworker. Per tutelare le proprie attiviste/i
il collettivo ha scelto di intervenire anonimamente e con il
sostegno di Silvia Gallerano, attrice e interprete del
monologo La Merda con cui ha già ricevuto molti riconoscimenti
internazionali. «Lavorare con il corpo significa tantissime
cose tra cui condividere qualcosa di intimo. Questo è vero per
il lavoro sessuale, come per altri lavori che mettono in gioco
corpo, sensazioni e relazioni. Molti lavori di cura prevedono
intimità corporee e non solo, molti lavori performativi
prevedono espressione corporea e interpretazioni che hanno
radici nella sfera dell’intimo » – così la sexworker
interpretata da Gallerano, che aggiunge «ho scelto di fare
questo lavoro da adulta, dopo un percorso femminista che mi ha
dato la possibilità di ragionare sul mio stare al mondo, un
ragionamento che non si è concluso perché continuare a stare
al mondo significa anche rimettersi continuamente in
discussione, almeno per me».

Eppure c’è chi ha certezze inossidabili e ha deciso che
chiunque faccia questa scelta sia schiava del patriarcato:
«Vendere il proprio corpo è una frase che odio e ho sempre
odiato. Come se non ci fosse la mia mente, la mia
intelligenza, come se il mio corpo fosse smembrabile. O forse
il problema è fare sesso per soldi? Fare sesso senza amore? O
il problema è proprio il sesso?» – è andata dritta al punto
l’altra voce del collettivo – «Vorrei poter lavorare in
cooperative gestite da colleghe e colleghi, protetta da abusi,
sfruttamenti e violenze anche da parte delle forze
dell’ordine».

Ma è violenza «anche parlare e decidere al posto mio,
giudicarmi, inferiorizzarmi, vittimizzarmi e stigmatizzarmi,
voler fare leggi contro la mia libertà di scelta: pensavo
questo lo facessero i preti, gli obiettori, i maschilisti, non
donne che si dichiarano femministe come me – ha concluso Ombra
Rossa – Vorrei che il pensiero femminista accogliesse e
rispettasse le soggettività non conformi, le minoranze
oppresse, le esperienze e identità altre, vorrei che il
femminismo rompesse definitivamente lo schema patriarcale
santa-puttana che dice di criticare e invece ripropone».

Anche perché, come ben ha ricordato Giorgia Serughetti –
ricercatrice dell’università Milano Bicocca e autrice nel 2013
di Uomini che pagano le donne– non si può continuare a puntare
il dito solo sull’offerta ma «è necessario tener conto anche
della complessità della domanda, quel variegato mondo composto
in larga maggioranza da uomini, ma non più solo da uomini, che
chiede e cerca anche su internet sesso a pagamento, sempre in
un contesto in cui i rapporti di potere sono dentro la cornice
economica del sistema capitalistico. Basti pensare – aggiunge
Serughetti – al caso che ha visto le donne chiedere a
richiedenti asilo prestazioni sessuali dietro compenso. Non
solo si ripete lo schema di potere di un soggetto privilegiato
su uno svantaggiato (uomo/donna, donna bianca/migrante)
mettendo ben in evidenza anche la questione delle
diseguaglianze, ma si sgretola anche un altro luogo comune che
vuole il cliente come soggetto deviato».

A mescolare, infine, tutte le carte la performance di Rachele
Borghi, professora di geografia alla Sorbonne e componente
della commissione di reclutamento del Cnrs francese. Sulla
scia del progetto collettivo transnazionale Zarra Bonheur,
condiviso con la pornoattivista Slavina, Borghi ha esposto
letteralmente nuda le parole di chi sceglie il sex work e
cerca alleanze politiche con altre sessualità dissidenti e con
chi è disposto ad accogliere le loro vite. Ha infatti
ricordato non solo il suo essere femminista transfemminista in
rete con tante altre ma ha felicemente montato in sequenza uno
spaccato di ragionamenti di donne che si battono per il
riconoscimento del sexwork e le violente argomentazioni di chi
in queste settimane ha irrispettosamente attaccato la
possibilità dell’ascolto fra femminismi diversi.
(articolo Pubblicato su La27ora/Corriere della Sera)

La vera             storia            di      Valerie
Solanas
Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera

Per il grande pubblico Valerie Solanas – scrittrice e
femminista statunitense morta in condizioni di indigenza– è
anzitutto la psicopatica che ha sparato a Andy Warhol nel
1968, e, solo incidentalmente, l’autrice di Manifesto SCUM e
degli altri testi, finora inediti in Italia. Finalmente son
stati pubblicati grazie al lavoro congiunto di due
editori, VandA/Morellini, e alla cura di Stefania Arcara,
docente di Letteratura Inglese e Gender Studies all’Università
di Catania, e Deborah Ardilli, traduttrice e collaboratrice
con il “Laboratorio Anni Settanta” dell’Istituto Storico di
Modena, entrambe studiose femministe.

«In una situazione di normalizzazione diffusa della violenza
etero-patriarcale, di cui è parte integrante la cancellazione
dell’attività intellettuale delle donne, la memoria del
‘grande pubblico’ opera in maniera selettiva e per questo
mette in primo piano il gesto aggressivo di Solanas nei
riguardi di un uomo, per di più ammantato di prestigio sociale
e culturale. In tali condizioni, è fin troppo facile
inquadrare Solanas come la quintessenza del non-pensiero, del
collasso della ragione, e cercare nei suoi scritti nient’altro
che una conferma», spiega Stefania Arcara.

Non è semplice, quindi, leggere la sua opera senza pregiudizi,
perché «la violenza esercitata da una donna risulta sempre
intollerabile e il giudizio negativo ricade sulla sua
scrittura, mentre lo stesso criterio non viene applicato, per
esempio, alle opere di Norman Mailer, che accoltellò la
moglie, o di William Burroughs e del filosofo Louis Althusser,
entrambi    uxoricidi,     perfettamente     integrati     nel
canone» racconta Arcara. «Sebbene sia stata una protagonista
della controcultura statunitense degli anni Sessanta, Solanas
scrittrice è stata a lungo oggetto di una damnatio memoriae,
compresa la rimozione dalla storia del femminismo: negli Stati
Uniti ci sono voluti trentacinque anni, da quando fu composta,
perché la sua commedia Up Your Ass fosse messa in scena per la
prima volta, molti anni dopo la sua morte. C’è voluto mezzo
secolo perché questo testo fosse tradotto in Italia (da
Nicoleugenia Prezzavento) e pubblicato nel nostro volume
insieme alla nuova traduzione del Manifesto SCUM e al racconto
autobiografico del 1966, Prontuario per fanciulle, che narra
la giornata di una giovane lesbica proletaria che vive di
accattonaggio e prostituzione per le strade del Greenwich
Village».

Solanas vendeva per strada il suo Manifesto, 25 cent per le
donne e un dollaro per gli uomini, e la parola Scum è stata a
lungo considerata come un acronimo di Society for Cutting Up
Men (Società per l’eliminazione dell’uomo), ma la sigla in
realtà non compare nel manifesto e l’autrice non era concorde
con questa interpretazione perché, prosegue Arcara, «nei suoi
testi la ‘teoria’, che ha un andamento contraddittorio,
consiste in un’analisi – condotta con gli strumenti retorici
dell’umorismo, del sarcasmo, del gergo di strada, dell’insulto
– del rapporto sociale tra i sessi e della subordinazione
delle donne nel sistema eteropatriarcale, arrivando ad una
provocatoria soluzione politica: auspica l’abolizione del
sistema binario e gerarchico dei generi, attraverso
l’eliminazione di uno dei due, quello dominante che secondo
lei è da considerarsi realmente “inferiore” proprio in quanto
sente il bisogno di dominare».

Stefania Arcara e Deborah Ardilli«Trilogia SCUM di Valerie
Solanas» VandA ePublishing e Morellini Editore
Tradurre è anche un po’ un tradire, quale è stata la vostra
esperienza rispetto a una scrittura come quella di Solanas? Si
è perso qualcosa nella versione italiana?

«Pensiamo alla nostra traduzione come a un modo per rendere
finalmente giustizia alla scrittrice Solanas. La nostra è
la prima traduzione italiana basata sul rarissimo testo
integrale approvato dall’autrice, la quale per tutta la vita
fu ossessionata dall’integrità artistica e dal controllo, che
non ebbe mai, della propria opera. Fino a oggi le traduzioni
italiane di SCUM Manifesto si erano basate sul testo
pubblicato    dall’Olympia     Press   senza   il   consenso
dell’autrice subito dopo l’attentato a Warhol – un testo
mutilato di alcune parti e alterato dall’editore Maurice
Girodias. Edizione che, tra le altre cose, riporta il titolo
come acronimo, “S.C.U.M.”, che rimanderebbe a “Society for
Cutting Up Men”(un’operazione di marketing editoriale
giudicata ‘tasteless’, ‘di cattivo gusto’, da Solanas e finora
sempre riproposta nelle traduzioni italiane, con il
sottotitolo “società per l’eliminazione del maschio”): invece,
nell’Edizione corretta da Valerie Solanas che l’autrice riesce
finalmente a pubblicare in proprio nel 1977, il titolo è SCUM,
cioè “feccia”, in riferimento alla posizione subordinata delle
donne in un mondo egemonizzato dagli uomini ma anche
un’operazione di sovvertimento dell’insulto, poiché sarà
proprio la scum a guidare la rivoluzione contro quel sistema
di potere che l’ha prodotta. Nella sua scrittura Solanas
mescola registri stilistici diversi e lessici eterogenei, dal
linguaggio scurrile allo stile visionario, dall’umorismo
situazionista all’invettiva e all’aforismo, e a volte ricorre
al gergo della controcultura del suo tempo. Per noi è stata
un’esperienza molto bella restituire a Valerie Solanas la sua
voce di scrittrice, così come ha fatto l’altra
traduttrice, Nicoleugenia Prezzavento, che è anche regista
teatrale, con la commedia Up Your Ass (In culo a te) che
presto verrà da lei messa in scena. In accordo con la casa
editrice VandA, abbiamo perciò scelto una copertina che ritrae
l’autrice con la penna in mano, per restituire finalmente
legittimità a Solanas scrittrice».

Ardilli, nella vostra introduzione al volume scrivete “il nome
di Valerie Solanas, ancora oggi, segna il limite di
rispettabilità e ragionevolezza che il femminismo deve
osservare per essere tollerato, e pertanto la lettura delle
sue opere è tuttora un atto eversivo”. Qual è oggi il limite
di rispettabilità e ragionevolezza che i femminismi devono
rispettare per essere tollerati?
«Per qualsiasi gruppo subalterno i limiti da osservare per non
incorrere in sanzioni sono quelli dettati, di volta in volta,
dalla pressione ideologica e materiale esercitata dalla
controparte dominante. Non possiamo stabilire in anticipo, una
volta per tutte, quale sarà l’efficacia di quella pressione,
in quale misura sarà interiorizzata, aggirata o sfidata.
Tuttavia, considerando che i sessi sono gruppi sociali non
naturali e avendo chiara la posizione delle donne nella scala
gerarchica del genere, mi pare ci sia ancora una straordinaria
riluttanza a riconoscere l’esistenza stessa di una controparte
e, di conseguenza, a legittimare un’attitudine conflittuale
nei confronti degli uomini. Alla “folle” Solanas non si
perdona facilmente il fatto di avere individuato, nominato e
aggredito frontalmente quella riluttanza. E le si perdona
ancora meno il ricorso a repertori d’azione violenti».

Arcara, l’umorismo di Solanas secondo voi è ancora vincente? I
femminismi di oggi sono capaci di far ridere?
«Quante volte, di fronte a una battuta “scherzosa”
pesantemente sessista che – in quanto donne – non ci fa
ridere, siamo state accusate di mancanza di senso
dell’umorismo, magari con un paternalistico: “E fattela una
risata…”? Per rispondere, parto da una mia osservazione basata
sull’esperienza delle presentazioni di Trilogia SCUM che
abbiamo tenuto in giro per l’Italia, in contesti molto
diversi. Al momento della lettura, da parte nostra o di
attrici, di qualche brano di Solanas, puntualmente nel
pubblico di fronte a me ho notato uomini che restavano
serissimi, uomini sorridenti, imbarazzati più che divertiti,
pochi (quasi certamente non eterosessuali) che ridevano di
gusto, e donne che immancabilmente scoppiavano a ridere. Anche
l’umorismo è un “terreno di potere” e la sua efficacia dipende
da quale posizione occupa chi fa una battuta scherzosa, a
spese di quale gruppo sociale, e di fronte a quale pubblico.
Solanas fa un’operazione inedita, e molto potente perché
esclude qualsiasi atteggiamento vittimistico, nel momento in
cui usa l’umorismo per denunciare i rapporti sociali di potere
basati sul sesso. Questa operazione la compie da scrittrice
isolata, senza avere alle spalle una tradizione di satira
femminista che oggi invece esiste e, soprattutto fuori
dall’Italia, ha acquistato una certa visibilità. Oggi esiste
un pubblico di donne che finalmente può ridere di battute
femministe, perché cinquant’anni di lotta ci hanno finalmente
legittimate a farlo».

Ardilli, qual è il ruolo della marginalità nella vita di
Solanas rispetto alla sua scrittura?
«Marginalità e scrittura sono dimensioni inscindibili in
Solanas. La sua biografia, firmata da Breanne Fahs, è apparsa
soltanto nel 2014 e chiarisce aspetti importanti di questo
nesso. Quella di Solanas è stata una vita segnata da abusi
precoci in famiglia, due gravidanze in età adolescenziale, da
violenza economica, da reiterati rifiuti ogniqualvolta ha
tentato di proporsi come scrittrice; ma è anche una vita
caratterizzata da una coscienza lucida dell’oppressione
vissuta e da uno slancio molto forte, da un desiderio
lancinante di vita buona che brucia ogni mediazione».

Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera
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