Storia della musica ebraica

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Storia della musica ebraica
                                         Appunti a cura di E. Fink

                                    1. Un problema di definizione

La prima questione a cui ci troviamo di fronte, ovviamente, è capire che cosa si intenda per musica
ebraica. Non è una domanda oziosa – troppi generi musicali diversi rientrano sicuramente nella
categoria “musica ebraica”, musica tradizionale, composizioni originali, rielaborazioni e semplici modi
di suonare, stili. Dal canto sinagogale degli ebrei italiani fino al klezmer est europeo, dalle ballate in
giudeo spagnolo alle danze israeliane del '900, dall'avanguardia jazzistica newyorkese al Mosè e Aronne di
Schoenberg, quale caratteristica permette di determinare l'appartenenza o meno di un dato disco in
questo ampio scaffale della discoteca mondiale? La questione ha appassionato per decenni i musicologi,
e interi convegni sono stati dedicati al tema. Nel 1957 a Parigi, all'apertura del primo Convegno
Internazionale di Studi sulla musica ebraica, l'etnomusicologo Curt Sachs propose la definizione che per
certi versi è in vigore ancora oggi: la musica ebraica è musica eseguita da ebrei in quanto ebrei e per un
pubblico ebraico (music which is made by Jews, for Jews, as Jews) . Sachs non parla di composizione, per
mettersi al riparo da questioni spinose intorno all'origine di brani di musica popolare – le tradizioni
orali, compresa quella ebraica, sono colme di incroci ed assimilazioni: anzi, la questione del rapporto fra
mondo ebraico e musica proveniente dall' “esterno” sarà uno dei temi che ci troveremo spesso ad
affrontare. La sua definizione, con l'accento posto anche su una “funzione” della musica – suonare “in
quanto ebrei”, è senz'altro molto stringente. Può sembrare anche troppo stringente – se Moni Ovadia
fa un concerto di fronte a un pubblico italiano non ebraico non è più musica ebraica quella che suona?
O se Don Byron suona la musica di Mickey Katz, come in un disco di qualche decennio fa che ha fatto
scuola, e ha lanciato probabilmente tutto ciò che poi si è sviluppato come Radical Jewish Culture, la
musica non è più ebraica perché Don Byron è un musicista di origine afroamericana? D'altra parte,
potrebbe sembrare anche troppo poco stringente. Frank London, trombettista newyorkese emerso con
la band Klezmatics, e figura di spicco e di riferimento fra gli amanti della musica ebraica in tutto il
mondo, usa sempre questo esempio: se un gruppo di klezmer a Brooklyn durante un matrimonio
ebraico suona Celebration degli Earth Wind & Fire, rispettando tutte e tre le condizioni di Sachs, quella
è musica ebraica? E, nota bene, abbiamo detto un brano degli Earth Wind & Fire – ma avremmo anche
potuto dire un classico del rock come “Downtown Girl” dell'ebreo Billy Joel e il ragionamento sarebbe
identico.

1.1 Il “filo rosso”
Ovviamente, possiamo decidere di lasciare questa complessa questione a chi di fare classificazioni ha
urgente bisogno, e dedicarci un po' più umilmente a indagare i modi con cui ci si è espressi con la
musica nel mondo ebraico, il complesso e multiforme rapporto fra mondo ebraico e musica. La parola
chiave qui è multiforme – è del tutto evidente che un'analisi anche superficiale delle varie forme della
musica ebraica porta a confrontarsi con un'immensa quantità di musiche diverse, data la vastità storica e
geografica – la varietà – del mondo ebraico. Una “storia della musica ebraica” è quindi destinata ad
essere una descrizione compilativa, un inventario di generi stili ed autori? Forse no: anzi, la ricerca di un
“filo rosso”, di un trait d'union che qualifichi e distingua la musica ebraica è stato per lungo tempo il
chiodo fisso non solo di ricercatori e musicologi, ma di tanti ebrei appassionati alle proprie tradizioni
musicali. Ancora oggi nel mondo della chazanut, il canto sinagogale, ashkenazita, un insieme di antiche
melodie è noto col termine di “misinai” - ovvero melodie date al popolo ebraico sul Sinai insieme alla
Legge, melodie ritenute parte integrante della Torah Orale: e aldilà di questo specifico esempio, il primo
“filo rosso” che si è cercato di trovare è stata una radice comune alle tante tradizioni musicali della
diaspora: una radice che si identificherebbe con la musica di Israele prima della distruzione del Tempio.
Forse con la stessa musica del Tempio: è questa l'affascinante idea che ha sedotto ricercatori ebrei e
non ebrei. Se riuscissimo ad isolare una comune radice fra le musiche degli ebrei polacchi, italiani,
turchi, yemeniti forse ci troveremmo di fronte alla musica ebraica originale, quella che i Leviti eseguivano
nel Grande Tempio di Gerusalemme. Il più celebre musicologo ad essersi occupato di musica ebraica, il
“padre” stesso dello studio delle tradizioni musicali ebraiche, Abraham Zvi Idelsohn, ha del resto
dedicato proprio a questa ricerca gran parte del suo lavoro e della sua vita, gettando le basi di tutta la
musicologia ebraica moderna e costruendo un'enorme impalcatura di studi e analisi che – a prescindere
dal fatto che sia o meno riuscito nel suo intento e abbia o meno dimostrato una comune discendenza
delle musiche da lui ascoltate e trascritte in tante parti diverse del mondo – resta la base per chiunque si
avvicini a questo mondo.

Eppure, già a una prima vista questo tentativo di ricondurre ad unum musiche così diverse appare
difficile. Lasciando da parte le melodie misinai, che vedremo avere in realtà un'origine ben definita nel
tempo e decisamente posteriore al momento del Matan Torah, il percorso di Idelsohn – che pure
studieremo in dettaglio, più avanti – si scontra da subito con una difficoltà per così dire filosofica: la
musica della diaspora è essenzialmente antitetica alla musica del Tempio: ne è per così dire il memento
dell'assenza, in quanto nasce – stiamo parlando, è ovvio, di musica della sinagoga – proprio per colmare
il vuoto lasciato dalla distruzione del Tempio stesso.

1.2 ebraismo e tempo

Facciamo allora un passo indietro, restando su un piano puramente speculativo: e chiediamoci che
posto occupi la musica nel pensiero ebraico.
Sappiamo che la musica è una delle arti preferite dagli ebrei nel corso della storia, anche solo a giudicare
dalla quantità di musicisti ebrei che abbiano raggiunto una notorietà anche all'esterno del mondo
ebraico. E non ci stupisce certo: la motivazione più semplice ed immediata può essere che la musica è
una delle arti permesse nel mondo ebraico, dato il divieto verso gran parte dell'espressione artistica
figurativa. Ma cerchiamo di andare più in profondità.

In generale, la direzione percorsa nello studiare la funzione della musica nel pensiero ebraico è quella di
identificare la musica come arte del tempo, e l'ebraismo come religione del tempo. La musica è arte del
tempo in quanto declina il tempo, lo scandisce, lo definisce: vive essenzialmente nel tempo e non nello
spazio. In più, è immune (almeno quanto la memoria degli uomini) all'erosione del tempo, a differenza
di ogni forma d'arte legata alla figura, all'oggetto, allo spazio. E che l'ebraismo sia una religione del
tempo più che dello spazio è un'osservazione che incontriamo spesso, per esempio a partire dagli scritti
di rav A. J. Heschel – non è questo il luogo per approfondire questo tema, ma basterà ricordare la
famosa definizione hescheliana dello Shabbat come “cattedrale nel tempo” (Il Sabato: Il suo significato per
l’uomo moderno, Garzanti, Milano 1999), e quindi più in generale delle mitzvot come scansione,
determinazione, definizione del tempo.
Più in generale, si è spesso osservato come la stessa scoperta del monoteismo sia connessa a una
capacità di cogliere l'interiorità dell'uomo: la percezione dell'assoluto sia anche un rifiuto della
superficie, un preferire il verticale all'orizzontale. E' imprescindibile a questo proposito un saggio di ambito
non rabbinico, il celebre Mimesis di Erich Auerbach (Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino,
Einaudi, 1956). Auerbach affronta, in una serie di saggi, i diversi modi della rappresentazione della
realtà in letteratura: il saggio che apre l'intera opera si intitola “La cicatrice di Ulisse”, e vi si
contrappongono due episodi “letterari”, uno omerico – il momento nel canto XIX dell'Odissea,
quando Euriclea riconosce Ulisse lavandogli i piedi e notando la cicatrice che risaliva a una antica
battuta di caccia; l'altro biblico, ovvero la legatura di Isacco. Anche qui, com'è ovvio, non entriamo nei
dettagli che sono fuori dal nostro ambito: ma le conclusioni di Auerbach ci interessano molto.
Auerbach riconosce nel linguaggio della Bibbia e in quello di Omero due archetipi fondamentali della
rappresentazione della realtà: una forma verticale nella Bibbia, orizzontale in Omero. Là dove l'Odissea si
concentra sulla descrizione della scena narrata, dandone un'immagine perfetta ma di superficie – anche
laddove, come nel caso in esame, sia presente un vero e proprio flashback, un salto temporale – la
narrazione Biblica non concede alcunché alla descrizione, al particolare a meno che esso non sia
essenziale per lo svolgimento del racconto. Conosciamo forse l'aspetto di Abramo? Di Isacco? La
narrazione è scarna ma potentissima. D-o chiama, Abramo risponde “hinneni”, eccomi, e in questo
“hinneni” è implicito tutto il dramma esistenziale dell'uomo di fronte al divino. In sostanza la tecnica
narrativa della Bibbia è un rifiuto della seduzione del visuale – una ricerca dell'Assoluto, che non può
perdersi nella minuta descrizione del dettaglio, del particolare, quasi che esso fosse una
rappresentazione metaforica dell'idolatria rispetto alla purezza monoteistica del messaggio.

Il messaggio, dunque, la voce di D-o. Possiamo forse andare oltre nella nostra investigazione. Il
rapporto fra ebraismo e musica è senz'altro spiegabile alla luce del ruolo del tempo nel pensiero ebraico:
ma esiste anche una corrente di pensiero, per noi forse più interessante ancora, che pone l'ebraismo
come religione del suono, della voce.

1.3 ebraismo e suono

Vale la pena di cominciare citando un celebre storico ottocentesco dell'ebraismo, Heinrich Graetz, che
nel suo Geschichte der Juden, “Storia degli ebrei” (11 volumi scritti fra il 1853 e il 1875) scriveva, a
proposito del passaggio da paganesimo a monoteismo rappresentato dalla figura di Abramo:

               L'uomo pagano percepisce il divino nella natura che lo circonda attraverso
               l'occhio : ne è cosciente come qualcosa da osservare. Invece, l'ebreo concepisce il
               divino come qualcosa di esterno alla natura, di precedente la natura stessa. Il
               divino si manifesta con la volontà e viene percepito attraverso l'orecchio. Il pagano
               osserva la divinità: l'ebreo la ascolta.

Rav Jonathan Sachs, rabbino capo del Commonwealth britannico e acutissimo scrittore, lo esprime
così: ci sono due culture contrapposte. Una è quella che ci circonda, la cultura occidentale figlia del
mondo greco (continuiamo a tener presente Auerbach!), in cui l'atto centrale dell'intelletto è il vedere. Lo
stesso nostro lessico lo dimostra: la parola greca “teoria”, la parola “idea” da “video” latino – sono tutti
termini che significano originariamente visione, e per noi corrispondono al pensiero. Nell'ebraismo,
invece, l'atto fondamentale non è il vedere – è l'ascoltare. Non a caso, in una religione che fa
dell'obbedienza ai precetti il fondamento assoluto dell'identità, non esiste un verbo a sé che significhi
obbedire: si usa lishmoa, ascoltare. E, ancora meno a caso, spesso in italiano traduciamo lishmoa con...
osservare i precetti!

Ascoltare, ovviamente, la voce di D-o. Ed ecco che nella narrazione biblica troviamo una ulteriore
definizione del grande passo concettuale rappresentato dall'ebraismo. La “voce di D-o” appare al
popolo ebraico dapprima come una voce potente, altisonante: la voce della rivelazione raccontata in
parashat Yithro, e descritta dal salmo 29: kol haShem bakoach, kol haShem behadar – una voce
possente e maestosa, che risuona sulle acque, sradica gli alberi, una voce di fuoco. Ma più avanti nella
storia ebraica qualcosa è cambiato: una volta che il popolo d'Israele ha conosciuto haShem e la sua
legge, questa voce si trasforma. 500 anni dopo sullo stesso monte su cui Moshe Rabbeinu ha ricevuto la
Torah, sta Eliyahu, in fuga dopo il suo scontro vittorioso con i sacerdoti di Baal. Ancora una volta, la
voce di D-o parla all'uomo: ma come si presenta? Il testo di Re 1 (19:11-12) è assolutamente esplicito:
un grande vento spaccò la montagna e spezzò i macigni, ma “lo varuach haShem”, non nel vento era il
Signore; e dopo il vento ci fu un terremoto, ma “lo varaash haShem”, non nel terremoto era il Signore;
e dopo il terremoto ci fu un grande fuoco, ma “lo vaesh haShem”, non nel fuoco era il Signore. Come
si manifesta haShem? Con una “kol demama dakka”, un'espressione tradotta abitualmente come un
sussurro, una voce sottile – a volte con “una voce silenziosa”, una “voce del silenzio” (e a proposito di
che cosa sia la musica ebraica... “The Sound of Silence” degli ebrei Simon e Garfunkel che cos'è?). La
traduzione che ne dà , ancora, rav Sachs, è la seguente: una voce che si sente solo se la si vuole
ascoltare. Dunque ormai, dopo 500 anni di storia ebraica, la legge di haShem non si impone più con la
forza, sospendendo il monte Sinai/Horev, come dice un celebre midrash, sulle teste degli ebrei. La voce
di D-o, d'ora in poi, bisogna cercarla, ascoltarla, volerla. E non a caso questo episodio avviene dopo la
disputa con i sacerdoti di Baal, che Eliyahu ha sconfitto nel fuoco dopo una sorta di gara, di scontro fra
maghi. E' una sorta di critica al suo operato: l'epoca del paganesimo è finita, dice haShem, l'epoca della
divinità che si esprime col fuoco. Non ho più bisogno di mostrare la mia potenza con prodigi. Il
passaggio è da una religiosità immanente, visibile – come rilevava Graetz – a una interiore, invisibile.
Una religiosità dell'ascolto.

E infatti, alla purezza e profondità del suono non si contrappone solo la superficialità della visione: tutti
i sensi sono fallaci, rispetto all'udito. E' esemplare l'episodio dell'inganno operato da Ya'akov nei
confronti di Itzhak: il padre passa in rassegna tutti i sensi , e da tutti viene ingannato. Prima tasta
Ya'akov, e il pelo finto gli fa credere che sia Essav; poi assaggia la carne che Ya'akov ha preparato, e
anche il gusto lo inganna; infine chiede al figlio di avvicinarsi, e baciandolo dice “Ecco l'odore di mio
figlio, come l'odore di un campo benedetto dal Signore”. Qual'è l'unico senso che non ha tradito
Itzhak? L'udito. “hakol kol Ya'akov”, “la voce è la voce di Ya'akov”.

Dunque è evidente che possiamo considerare l'ebraismo come una religione del suono, contrapposta
alla cultura della visione e degli altri sensi che domina nel mondo occidentale dalla Grecia in poi. E
dove una cultura dell'occhio e dei sensi produce arti figurative, una cultura del suono produce arte
dell'ascolto: musica, ovviamente, e letteratura. In sostanza, il divieto della figurazione che avevamo visto
come possibile motivo della preferenza ebraica per la musica appare più come una conseguenza. L'amore
per la musica è un aspetto profondo del pensiero ebraico.
1.4 quale musica?
Tutto ciò che sin qui abbiamo detto ci giustifica, quindi, nel vedere la musica come l'arte ebraica per
eccellenza. Ma, e torniamo alla domanda che ci siamo posti all'inizio, quale musica? O meglio, alla luce
dei ragionamenti svolti, a quale aspetto del rapporto ebraico con la musica dobbiamo rivolgerci per
trovarvi esemplificato il legame profondo fra pensiero ebraico e musica?

       Bibliografia e approfondimenti

   Ho tratto molti dei ragionamenti su ebraismo e suono dalla lezione (che in realtà è centrata su altro)
   “Revelation - Torah from heaven” del 26 marzo 2001 del Rabbino Jonathan Sachs, reperibile online (in
   inglese) sul sito www.chiefrabbi.org
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