Soffrire per non dimenticare - Agency, nostalgia e lutto nella sinistra in Turchia Lorenzo D'ORSI Università di Catania - Agency, nostalgia e ...

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2021 | ANUAC. VOL. 10, N° 1, GIUGNO 2021: 67-91

Soffrire per non dimenticare
Agency, nostalgia e lutto nella sinistra in Turchia
Lorenzo D’ORSI
Università di Catania

Remembering through suffering: Agency, nostalgia and mourning in the Turkish left
ABSTRACT: Based on an ethnography conducted in Istanbul, this article analyses
nostalgia and the perpetuation of mourning among former leftist militants of
revolutionary organizations, who were the main targets of the political repression
following the 1980-1983 coup in Turkey. It shows how these feelings do not isolate
individuals, but are emotional practices with a degree of agency. These emotional
practices are performed not on the basis of their effectiveness in the public arena, but
rather because they able to regenerate the values of Marxist martyrdom, strengthen
generational ties and make community. The analysis of funeral commemorations,
anniversaries and gatherings illustrates how nostalgic attachment and perpetuation of
mourning involve both the level of political tactics and the inner self of former
militants. In this perspective, the concept of agency questions both the ability to act
and the ability to construct subjectivities. It also demonstrates how ethnography in
politically repressive contexts entails an analysis of agency that draws on domination
and unequal power relations as well as symbolic grammars of everyday experience.

KEYWORDS: NOSTALGIA; MOURNING; LEFTIST MOVEMENTS; AGENCY, TURKEY.

This work is licensed under the Creative Commons © Lorenzo D’Orsi
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   L’attaccamento nostalgico per gli anni della lotta giovanile, il disprezzo
del mondo contemporaneo e il lutto per i compagni assassinati sono le tona-
lità emotive che contraddistinguono l’esperienza di molti degli ex-militanti
dei movimenti studenteschi e rivoluzionari che in Turchia sono stati vittime
della repressione del colpo di stato del 1980-19831. Colloquialmente chiama-
to 12 settembre (in turco 12 Eylül), dal giorno in cui le forze armate sono en-
trate in azione, l’intervento militare del 1980 ha messo fine alla sanguinosa
polarizzazione tra gruppi di destra e di sinistra e, attraverso torture, impri-
gionamenti ed esecuzioni, ha portato al declino dei movimenti rivoluzionari,
i cui militanti sono stati etichettati a lungo come nemici interni e terroristi
(Bozarslan 2013). Se per gran parte della popolazione il 12 settembre è oggi
un accadimento remoto, per gli ex-militanti, e più in generale per i circoli
della sinistra turca2, esso rappresenta l’evento fondativo attorno cui è co-
struita una “comunità ricordante” (Cappelletto 2003). Malgrado i mutamenti
politici accorsi negli ultimi quarant’anni, infatti, questo spartiacque costitui-
sce a sinistra una tragedia mai conclusa, rispetto alla quale associazioni e
partiti sono tuttora impegnati a denunciare le violenze subite e a sfidare le
narrazioni egemoniche che rappresentano il golpe come un’azione necessa-
ria a riportare la pace nel paese.

1. Il mio ringraziamento va prima di tutto a coloro che, condividendo con me emozioni, de-
sideri e pensieri, hanno reso possibile questo lavoro. Ringrazio anche i due revisori anonimi
di Anuac per i ricchi e puntuali commenti che mi hanno aiutato a rendere più chiara la mia
argomentazione e Aurora Massa per i preziosi suggerimenti.
2. Il campo della sinistra è in Turchia frammentato e contradditorio. In questo testo con “si-
nistra” indico le formazioni politiche extraparlamentari (organizzazioni studentesche, par-
titi e associazioni sindacali, quali Dev-Yol, Dev-Sol, THKO, THKP/C, DİSK, ecc.) che dagli
anni Sessanta hanno abbracciato l’ideale rivoluzionario e il marxismo come orizzonte di
senso politico, dando vita a una molteplicità di gruppi, rivalità e scissioni secondo i diversi
orientamenti (marxismo-leninismo, stalinismo, maoismo, ecc.). Da questa tradizione di-
scendono oggi piccole formazioni che si trovano ai margini della vita pubblica nazionale,
che hanno abbandonato la lotta armata (salvo rare eccezioni) e che esprimono posizioni
marxiste e socialiste talvolta intrecciate con istanze nazionaliste, filo-alevite o filo-curde
(Ersan 2013). Non includo invece il Partito repubblicano del popolo (CHP), fondato da Ata-
türk nel 1923 e oggi maggiore partito di opposizione al fronte filo-islamico al governo. Se
negli anni Settanta il CHP incarnava un riformismo di sinistra, dopo il golpe del 1980 ha as-
sunto posizioni nazionaliste e di secolarismo oltranzista.

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   Sulla base di un’etnografia svolta a Istanbul3, questo articolo prende in
esame lo struggimento nostalgico e la perpetuazione di una condizione di
lutto diffusi tra gli ex-combattenti rivoluzionari, intendendo questi senti-
menti come “pratiche emozionali” (Scheer 2012), ossia come un modo più o
meno interiorizzato attraverso cui le persone avanzano rivendicazioni e vi-
sioni del mondo. Come mostrerò nel corso del testo, questi sentimenti trova-
no concretizzazione in discorsi individuali e rappresentazioni di gruppo, an-
niversari di massacri e commemorazioni funebri. Queste pratiche di memo-
ria sono intese come strumenti di lotta da contrapporre al potere repressivo
dello stato e risultano difficilmente separabili dalle rivendicazioni politiche
più attuali. Esse sono parte di una “costellazione” di azioni, retoriche e valo-
ri che designa una specifica cultura politica che include la martirizzazione
dei militanti assassinati, forme ritualizzate di dissenso come gli scontri con
la polizia durante la ricorrenza del primo maggio (Fırat 2016; D’Orsi 2018),
musealizzazioni amatoriali (Karacan 2016; D’Orsi 2019) e, in alcuni casi,
proteste radicali come il digiuno sino alla morte (Bargu 2014).
   Queste pratiche di protesta e di memoria sono rappresentate da militanti
ed ex-militanti come reattive, ossia come re-azioni inevitabili rispetto a ciò
contro cui combattono (un sistema ingiusto, la storiografia ufficiale, l’indif-
ferenza degli “altri” verso la loro sofferenza). Senza negare la presenza di un
contesto contraddistinto da forti asimmetrie di potere, possiamo tuttavia
chiederci se struggimento nostalgico e perpetuazione del lutto siano inelut-
tabilmente le uniche forme di azione a disposizione o se invece non siano
messe in atto perché chiamano in gioco qualcos’altro. In questo articolo in-
tendo mostrare come queste pratiche emozionali contengano una compo-
nente agentiva e siano attivamente performate non perché costituiscono il
modo più efficace per affermarsi nella battaglia pubblica della memoria, ma
perché attraverso di esse i protagonisti di queste pagine riaffermano l’ade-
sione alle retoriche politiche del martirio marxista, rivivificano legami gene-
razionali e costruiscono comunità. In altre parole, tali pratiche contribuisco-
no a modellare e sono modellate dalle soggettività dei partecipanti, coinvol-
gendo non solo il piano delle tattiche politiche ma anche quello degli spazi
interiori dei soggetti e dei legami sociali all’interno del gruppo.
   In dialogo con la sezione monografica dedicata al rapporto tra agency,
soggettività e violenza in cui questo saggio è ospitato, l’analisi proposta evi-
denzia, in primo luogo, come il concetto di agency implichi non soltanto la
capacità di agire in un determinato contesto, ma anche la capacità di costrui-

3. Svolto tra il 2013 e il 2014 il lavoro sul campo ha preso in esame le forme pubbliche e pri-
vate del ricordo tra gli ex-militanti degli anni Settanta, le loro famiglie e i giovani attivisti
della sinistra istanbuliota, attraverso interviste in profondità e l’analisi di raduni collettivi,
proteste, narrative pubbliche, atmosfere famigliari e forme incorporate della memoria.

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re particolari soggettività. In secondo luogo, mette in luce come le forme
agentive non vadano investigate soltanto alla luce dei rapporti di potere in
cui i soggetti sono immersi (come ad esempio la relazione di dominio e resi-
stenza), ma anche delle grammatiche culturali, ossia quell’insieme di regole
implicite, assunti morali, retoriche politiche, simboli, habitus e pratiche che
addomesticano e filtrano l’esperienza e il senso degli eventi, contribuendo a
determinare le possibilità di azione così come i suoi limiti.
   Dopo aver discusso nel primo paragrafo le coordinate teoriche dell’artico-
lo, nel secondo ricostruisco alcuni aspetti del contesto d’indagine, sottoli-
neando i processi repressivi di lunga durata che hanno portato la Turchia a
silenziare le memorie contro-egemoniche legate alla violenza di stato e la
posizione marginale occupata da gruppi della sinistra nel campo politico e
della memoria. Il terzo e quarto paragrafo esplorano l’attaccamento nostal-
gico per “i gloriosi anni Settanta” e la perpetuazione attiva di una condizio-
ne di lutto tra molti ex-combattenti, intendendo questi sentimenti come un
modo per articolare discorsi politici sul presente, incorporare una narrativa
di eroicità passiva ed elaborare una memoria di combattimento. Infine, l’a-
nalisi di alcune voci dissonanti permette di comprendere come queste prati-
che finiscano paradossalmente per “fare sistema” con le forme repressive a
cui vorrebbero contrapporsi, contribuendo, di fatto, all’isolamento morale
della comunità ricordante della sinistra.

Pratiche emozionali e agency
   Il filone di studi etichettato come “antropologia delle emozioni” (Lutz,
White 1986) ha progressivamente smantellato la contrapposizione tra senti-
menti pubblici, formalizzati in riti collettivi, e stati d’animo interiori, a lun-
go considerati emozioni universali e, dunque, lasciati allo studio delle disci-
pline psicologiche. Questa emotional turn del discorso antropologico ha de-
naturalizzato anche i sentimenti più intimi, mostrando questi ultimi come
produzioni storiche che acquistano senso all’interno di specifici contesti cul-
turali e rapporti di potere e che possono agire anche come “discorsi” attra-
verso cui articolare rivendicazioni sul mondo (Abu-Lughod, Lutz 1990; Pus-
setti 2005). In questo vasto corpus di studi, che ha portato a un ripensamen-
to dell’intreccio tra mente, corpo e strutture sociali, mi richiamo alla defini-
zione di “pratiche emozionali” di Monique Scheer (2012). L’antropologa de-
riva quest’espressione dai lavori di Bourdieu (2002, 2003) – sebbene que-
st’ultimo raramente chiami in causa le emozioni, preferendovi termini come
pensiero, comportamento, azione, disposizione – con l’obiettivo di estende-
re la teoria della pratica alle esperienze emozionali. In questa prospettiva, le
emozioni costituiscono non “qualcosa che si ha”, ma “qualcosa che si fa” e

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che veicola una certa intenzionalità al di là della piena consapevolezza dei
soggetti. Nel considerare le emozioni come “goal oriented responses” (Scheer
2012: 203), bisogna però evitare una lettura strumentale, poiché si tratta di
scopi spesso inconsci che si sono formati sulla base di esperienze e memorie
pregresse e incorporate. Nella teorizzazione di Scheer le emozioni non sono
solo un modo interiorizzato attraverso cui le persone elaborano discorsi e
desideri, ma un coinvolgimento pratico con il mondo che plasma anche la
soggettività. Nella teoria della pratica, infatti, il soggetto agente è visto
come il risultato della pratica sociale, mentre i suoi processi interni (il riflet-
tere, il sentire, il ricordare, etc.) esistono attraverso l’esecuzione delle micro-
pratiche quotidiane. Di conseguenza, le emozioni non sono qualcosa che di-
pende da ciò che le persone fanno, ma sono esse stesse pratiche di un sog-
getto che non precede l’agire e che emerge attraverso un “fare emozionale”
(doing of emotions).
   L’idea delle emozioni-come-pratiche chiama in causa non solo la sogget-
tività ma, come nota la stessa Scheer, anche il concetto di agency. Nel vasto
dibattito su agency e struttura, mi richiamo qui ad alcuni aspetti della rifles-
sione di Saba Mahmood (2005, 2006). Nel suo lavoro sulla partecipazione
femminile ai movimenti islamici in Egitto, l’antropologa mette in discussio-
ne quelle letture post-strutturaliste che concepiscono l’azione in termini di
relativa autonomia dalle strutture del potere e identificano l’agency con la
nozione di “resistenza a” e “sovversione da” norme sociali generalmente in-
tese come imposizioni esterne che limitano l’individuo. Secondo Mahmood
una riduzione dell’agency all’autonomia politico-morale e a una resistenza
contro il potere rischia di reintrodurre una rappresentazione universale e
astratta del soggetto agente, rispetto al quale valori e norme costituiscono
una mera “gloss” (2005: 16), ossia una vernice o patina4. Il suo lavoro è piut-
tosto volto a mostrare come norme sociali e strutture di potere non siano
un’imposizione esterna, ma il terreno attraverso cui i soggetti realizzano se
stessi e la loro agency (incluse le loro resistenze).
   I riferimenti di Mahmood sono i lavori di Michel Foucault (1993, 2009; Ra-
binow, Dreyfus 2010) e Judith Butler (1997), autrice che per prima ha preso le
distanze da una letteratura femminista che legge l’individuo in termini di re-
lativa autonomia dal sociale. Come noto, nella concezione foucaultiana il
potere non è una proprietà che gli individui posseggono, ma il funzionamen-
to storico delle relazioni che, in modo pervasivo, modella le soggettività. In
altre parole, non si danno individui al di fuori delle relazioni di potere e que-
ste ultime non lavorano soltanto per dominare, ma anche per creare i sog-

4. Il rischio che la nozione di agency reintroduca una concezione del soggetto a-culturale e
antecedente l’agire sociale è segnalata anche in Dei 2002 e Ortner 2006.

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getti, inscrivendosi in corpi, desideri e discorsi. In questa prospettiva, l’a-
gency non si configura più come l’azione di un “undominated self” (Mahmood
2005: 17) – la cui esistenza precede strutture e norme sociali – ma come la
capacità di agire che specifiche relazioni di potere rendono possibili.
   Quest’argomentazione spinge Mahmood a sottolineare due aspetti a mio
avviso pregnanti. In primo luogo, ogni discorso sull’agency dovrebbe inco-
minciare con un’analisi dei processi storici di costruzione della soggettività,
poiché vi è una stretta circolarità tra le modalità di azione e la costruzione
dell’interiorità degli individui. In secondo luogo, facendo propria la conce-
zione pastorale del potere di Foucault, Mahmood (2006) suggerisce di pensa-
re il potere in termini di ethos morale e domesticazione e, di conseguenza, di
individuare nell’agency anche un processo di formazione etica. L’antropolo-
ga insiste a più riprese sul fatto che la capacità di agire implichi un apprendi-
mento di valori e pratiche e che il suo significato debba essere esplorato den-
tro la grammatica di concetti nella quale risiede, o meglio “dentro le reti se-
mantiche e istituzionali che definiscono e rendono possibile i modi partico-
lari di relazionarsi con le persone, con le cose e con se stessi” (Asad 2003: 78
in Mahmood 2005: 34). L’idea di legare la capacità di azione allo sviluppo
dell’interiorità dei soggetti e di vedere l’agency non come una liberazione,
ma come un apprendimento di valori sono aspetti importanti nell’analisi che
propongo. Quello che Mahmood non esplicita a sufficienza, e che a mio avvi-
so è invece centrale, è che se parliamo di reti semantiche stiamo di fatto so-
stenendo che “il significato che gli agenti attribuiscono alle loro pratiche è
costitutivo di quelle pratiche stesse in quanto fatti sociali” (Dei 2016: 103).
Per comprendere gli spazi di azione è allora opportuno prendere in conside-
razione non soltanto le relazioni di potere (per quanto intese in termini pla-
smanti), ma anche le grammatiche culturali attraverso cui gli individui signi-
ficano la propria esperienza del mondo. Come cercherò di mostrare nelle pa-
gine successive, infatti, le pratiche emozionali di lutto e nostalgia degli ex-
militanti e il rapporto tra agency e soggettività che a esse è sotteso possono
essere pienamente comprese facendo riferimento alla loro concezione di
martirio e al loro senso di sacrificio, ai simboli mobilitati e al lessico politico
di riferimento.

Lutto, memoria e martirio in Turchia
   In Turchia la diffusione della sinistra rivoluzionaria si può far risalire agli
anni Sessanta, con la diffusione di partiti marxisti e gruppi studenteschi
espressione della borghesia urbanizzata. Nel decennio successivo, queste or-
ganizzazioni coinvolsero anche giovani turchi, alevi e curdi provenienti dalla
classe lavoratrice e dalla provincia anatolica, dando vita a proteste in tutto il

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paese (Ersan 2013). Per questa “gioventù ribelle” (Neyzi 2001), l’ideale rivo-
luzionario costituiva uno stile di vita totalizzante che implicava la clandesti-
nità, l’allontanamento dalla famiglia e la rinuncia agli svaghi. I diversi mili-
tanti erano accomunati da un ideale marxista che agiva come bussola morale
contro le ingiustizie del capitalismo e l’oppressione dello stato e che orienta-
va anche i desideri più intimi, subordinando il presente a un futuro utopico
collettivamente prefigurato. In questo engagement onnicomprensivo, la lotta
armata si era progressivamente trasformata da risposta difensiva dagli attac-
chi della polizia e dei gruppi ultra-nazionalisti, in uno strumento necessario
per rivelare alle masse l’inganno del potere (Bozarslan 2008). I militanti vi-
vevano così in un clima crescente di violenza politica che, nel 1980, era arri-
vata a causare una media di venti omicidi al giorno (Sayari 2010).
   In questa escalation, il 12 settembre 1980 l’esercito mise in atto un colpo
di stato (il terzo, dopo quello del 1960 e del 1971) con l’obiettivo di sradicare
le organizzazioni rivoluzionarie, ribadire il kemalismo (l’ideologia secolari-
sta che trae il nome da Mustafa Kemal Atatürk) e introdurre il liberismo eco-
nomico. La repressione si rivolse verso chiunque esprimesse posizioni rifor-
miste, rendendo la tortura pratica ordinaria e attuando l’arresto di seicento-
cinquantamila persone e la proclamazione di cinquecento sentenze di morte
(sebbene in gran parte non eseguite). Nonostante il ritorno alla democrazia
nel 1983, la Turchia è rimasta nel corso degli anni Ottanta e Novanta un con-
testo politico in cui le forze armate rappresentavano la premessa delle istitu-
zioni democratiche e ne stabilivano i limiti (Bozarzlan 2013). Sotto la loro
egida indiretta, i movimenti di sinistra sono stati relegati a piccoli gruppi
senza rappresentanza parlamentare, si è affermata una società dei consumi
(Kandiyoti, Saktamber 2002; Navaro-Yashin 2002) ed è stata favorita una de-
politicizzazione delle nuove generazioni (Lüküslü 2009). Gli ex-militanti
sono così finiti ai margini del campo politico e della memoria.
   Nell’esperienza degli ex-combattenti, allo spartiacque del 1980 è seguito
quello del crollo del muro di Berlino nel 1989 che, come sottolinea Traverso
(2016), ha privato generazioni di militanti della convinzione di avere la sto-
ria dalla propria parte. Il tracollo delle grandi utopie trasformatrici, lo sman-
tellamento delle organizzazioni politiche di riferimento e l’ascesa di un regi-
me liberista hanno provocato una differenziazione delle traiettorie biografi-
che dei protagonisti di queste pagine: alcuni si definiscono ancora combat-
tenti-rivoluzionari e proseguono l’attività politica (pur avendo abbandonato
la lotta armata), altri hanno riconfigurato il proprio impegno nella cosiddet-
ta società civile, altri ancora hanno proiettato l’etica rivoluzionaria in ambiti
diversi dell’esistenza, altri infine hanno operato una cesura netta col passa-
to. Di fronte alla frantumazione dei quadri collettivi, per gran parte di essi la

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denuncia della violenza subita e la critica del “nuovo” mondo sono divenuti
elementi distintivi di un’appartenenza generazionale che è oggi rivendicata
soprattutto in contrapposizione alla cosiddetta “gioventù post-1980” (Neyzi
2001). Rappresentate come apolitiche, individualiste e vittime della società
dei consumi, le nuove generazioni sono infatti ritenute a sinistra il simbolo
di un processo di deculturazione di massa che ha reso accettabile l’oppres-
sione.
   La marginalità vissuta dagli ex-militanti rivoluzionari deve essere com-
presa tenendo in considerazione anche le forme storicamente strutturate di
stigmatizzazione e persecuzione di chi si discosta dal discorso egemonico
dello stato-nazione. Sin dalla nascita della Repubblica nel 1923, infatti, la
storia celebrata nelle ricorrenze pubbliche e raccontata nei libri di scuola, i
discorsi politici e il sistema giudiziario hanno contribuito a rimuovere gli
episodi controversi del passato, silenziando e rendendo accettabili i massacri
e le persecuzioni perpetrati contro minoranze etniche, religiose e politiche
(Neyzi 2002). Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni Novanta, si è assistito
al fiorire di memorie contro-egemoniche che ha reso quello del ricordo un
“campo di battaglia” (Özyürek 2007), in cui i gruppi secolaristi, quelli filo-i-
slamici, i militanti di sinistra, i combattenti curdi e le altre minoranze etni-
che e religiose utilizzano l’evocazione della morte e la sacralizzazione del
passato doloroso come strumenti di rivendicazione identitaria.
   Al pari del resto del Medio Oriente (Mayeur-Jaouen 2002; Hatina 2014),
anche in Turchia l’intreccio tra discorso politico ed esternazione del lutto si
articola soprattutto attraverso il culto del martire, la cui figura supera l’am-
bito propriamente religioso. Quello del martirio costituisce infatti in primis il
linguaggio mnestico delle retoriche militariste di stato, utilizzato per i solda-
ti che hanno perso la vita in combattimento (Kaya, Copeaux 2013). Al con-
tempo, il culto dei martiri è al centro delle contro-narrative dei gruppi vitti-
me di violenza di stato, dal fronte indipendentista curdo sino alle organizza-
zioni della sinistra rivoluzionaria. Al di là delle asimmetrie di potere, dun-
que, attorno al registro commemorativo del martire si consolidano memorie
e rivendicazioni contrapposte nei loro contenuti e che, tuttavia, sono specu-
lari per le forme con cui prendono corpo. Queste memorializzazioni agoni-
stiche chiamano alla vendetta, rivendicano il monopolio della sofferenza su-
bita e, parallelamente, delegittimano quella degli altri (Bozarslan 2008).
   Il nesso tra lutto, rivendicazione identitaria e martirio è penetrato nella
sinistra rivoluzionaria durante gli anni Settanta con la martirizzazione dei
militanti assassinati. La figura del devrim şehit (martire rivoluzionario) trae
origine non tanto dall’intreccio tra islam e marxismo quanto dalla trasfor-

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mazione di quest’ultimo in un misticismo politico, ossia in una teologia poli-
tica secolarizzata che eleva la causa rivoluzionaria a fede (Bargu 2014). Il re-
gistro dello şehit struttura un ordine morale condiviso, in cui la fede non
consiste nella certezza della rivoluzione ma nella giustezza della sua causa.
Esso crea le metafore attraverso cui dare senso alla morte dei compagni e,
senza implicare l’autoimmolazione, impone l’abnegazione per l’ideale rivo-
luzionario (un sacrificio che molti ex-militanti sintetizzano con l’espressio-
ne bedel ödemek, “pagare il prezzo”).
   Le pratiche mnestiche della sinistra devono inoltre essere pensate in rela-
zione ai cambiamenti che hanno seguito la vittoria elettorale nel 2002 del
fronte filo-islamico guidato da Recep Tayyip Erdoğan, leader dell’AKP (il
partito della giustizia e dello sviluppo). L’affermazione dell’AKP ha rappre-
sentato l’emersione di un blocco di potere per la prima volta alternativo a
quello secolarista e kemalista e ha diffuso speranze di democratizzazione. In
un primo momento, l’AKP si è impegnato per il riconoscimento del plurali-
smo interno e si è fatto promotore di politiche della storia meno escludenti,
ad esempio, portando a processo i capi della giunta militare del 19805. In
quegli stessi anni, nel campo della memoria si è assistito alla promozione, da
parte di intellettuali e attivisti della società civile, di narrative globali del ri-
cordo incentrate sulla giustizia transizionale con l’obiettivo di indebolire le
polarizzazioni identitarie. Queste cornici si differenziano dai linguaggi locali
della memoria, altamente politicizzati e incentrati sulla figura del martire,
promuovendo un’economia della riconciliazione in cui il passato nazionale è
raffigurato come un’epoca del trauma e il presente come un tempo dove cu-
rare collettivamente le ferite (Gül Kaya 2015).
   Tuttavia, la politica di pluralismo del governo dell’AKP ha gradualmente
lasciato il posto a un potere personalizzato in cui Erdoğan intende regola-
mentare la condotta morale dei suoi cittadini. Questi aspetti si sono concre-
tizzati nella repressione della protesta di Gezi Park nel 2013, nelle incarcera-
zioni di massa a partire dal 2014, nelle modifiche costituzionali del 2017 e
nell’uso sistematico dell’etichetta di terrorista per delegittimare gli opposi-
tori politici. L’autoritarismo dell’AKP si fonda anche su precise politiche del-
la memoria, quali il revival del passato ottomano e l’evocazione vittimistica
dell’occidentalizzazione coatta dei primi del Novecento. Il tentativo fallito di

5. Il processo ha portato alla condanna di due generali, un risultato considerato insufficiente
dagli ex-militanti incontrati. Più in generale, esso è stato interpretato da questi ultimi come
uno strumento del governo filo-islamico per ottenere il controllo delle leve dello stato e di-
sarticolare le forze armate, espressione dei valori secolaristi. La scarsa attenzione riservata
alle storie delle vittime rispetto alla violenza militare può, effettivamente, essere letta in
questa luce.

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golpe del 2016, le cui dinamiche non sono ancora chiare, è divenuto poi il
perno di una nuova narrativa di martirio nazionale che l’AKP diffonde attra-
verso commemorazioni e monumenti alla memoria delle vittime (Öktem,
Akkoyunlu 2016). In parallelo, il governo filo-islamico delegittima il dolore
degli avversari, come emerso in occasione del corteo funebre per un giovane
morto durante gli scontri di Gezi Park, quando Erdoğan ha sostenuto che il
luogo appropriato per esprimere il lutto fosse lo spazio domestico (Akıncı
2018). Come già accaduto in passato nella storia repubblicana, dunque, il go-
verno si fa promotore di politiche della memoria che disconoscono il dolore
degli altri, negano il carico politico di certe morti e sanciscono quali defunti
possono essere pianti pubblicamente. In questo senso è opportuno sottoli-
neare che il materiale etnografico qui presentato si colloca nel momento ini-
ziale della svolta autoritaria, quando le aspettative per una Turchia demo-
cratica fondata sul riconoscimento delle diversità interne erano ancora forti.
Questa specifica piega contestuale ha consentito di far emergere tanto il
ruolo agentivo svolto dagli attori dal basso nella perpetuazione del proprio
dolore quanto i limiti che i diversi codici mnestici pongono alla possibilità di
condividere il passato di sofferenza.

Vivere la nostalgia
   Tra gli ex-militanti delle organizzazioni studentesche e rivoluzionarie de-
gli anni Settanta, la nostalgia può essere considerata la tonalità emotiva pre-
valente per relazionarsi con gli anni della lotta giovanile. Questa postura no-
stalgica emerge soprattutto nel corso di ritrovi collettivi, quali anniversari e
occasioni di convivialità tra ex-yoldaş (compagni). Durante il campo, ho par-
tecipato a diversi raduni grazie al rapporto di intimità che ho saputo costrui-
re con alcuni vecchi combattenti, frequentandoli assiduamente, mettendo in
gioco la mia vicinanza politica (senza cadere nei fazionalismi interni) e rac-
contando la mia storia famigliare (l’attivismo dei miei genitori, loro coeta-
nei).
   Questa confidenza mi ha permesso, ad esempio, di prendere parte alle
cene organizzate da Mehmet6, un sessantenne ex-militante di Dev-Yol (ab-
breviazione di Devrimci Yol, ossia strada rivoluzionaria), una delle più gran-
di organizzazioni rivoluzionarie. Incarcerato e torturato nel corso della dit-
tatura, Mehmet ha in seguito abbandonato l’attivismo politico, riversando il
suo impegno nel lavoro di ingegnere. Il richiamo al passato è emerso spesso
nei nostri dialoghi, in cui l’uomo esaltava la sua gioventù in contrapposizio-

6. Per proteggere l’anonimato dei miei interlocutori, i nomi riportati sono inventati.

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ne alle nuove generazioni, raffigurandole come individualiste e vittime del
consumismo che le renderebbe incapaci di operare una critica della società.
L’evocazione quasi quotidiana del passato si riflette anche nel suo profilo
Facebook, nel quale l’uomo celebra anniversari, pubblica fotografie di sé e
dei suoi compagni di lotta in visita sulle tombe dei leader rivoluzionari as-
sassinati e diffonde slogan degli anni Settanta assieme a post di denuncia
dell’attualità politica. Nel tempo trascorso assieme questo collegamento di-
retto tra passato e presente si è manifestato nel frequente riferimento alle
proteste di Gezi Park, caratterizzatesi, tra le altre cose, per la massiccia par-
tecipazione della cosiddetta gioventù apolitica. Malgrado Mehmet, come gli
altri ex-militanti incontrati, supportasse il movimento, al contempo non
mancava di sottolineare lo scarto morale tra la sua generazione, fondata sul
sacrificio personale, e i giovani in piazza che, a suo dire, restavano “indivi-
dualisti”, poiché protestavano solo quando minacciati nella loro sfera priva-
ta. Tra le cause della protesta vi sono state le accuse di immoralità rivolte dal
governo ai giovani per il consumo di alcol o per le effusioni in pubblico (Da-
vid, Toktamiş 2015).
   Le cene organizzate da Mehmet a cui ho preso parte si svolgevano di soli-
to nelle meyhane – locande dove si pasteggia a base di meze, antipasti tipici
della cucina turca – considerate di sinistra. I partecipanti erano ex-militanti
che non necessariamente appartenevano alla stessa organizzazione e che
spesso si erano conosciuti in tempi recenti. Le persone che prendono parte a
questi raduni sono infatti soggetti con traiettorie biografiche eterogenee, al-
cuni dei quali ancora politicamente attivi, altri impegnati nella società civile
e altri ancora distaccati da ogni forma di attivismo. Malgrado alcuni di essi
abbiano avuto successo professionale nel contesto post-1980, è la fedeltà ai
valori morali giovanili a determinare il senso di appartenenza al gruppo che
prende vita durante queste ricorrenze. In questi incontri, a farla da padrona
sono l’esaltazione malinconica della gioventù, raffigurata come un tempo in
cui si avevano ideali, e la condanna delle nuove generazioni apolitiche. Il
passato è evocato soprattutto attraverso fotografie della giovinezza, canzoni
rivoluzionarie e aneddoti che esaltano l’eroicità del passato, i pericoli corsi e
la solidarietà reciproca.
   Soprattutto all’inizio, in quanto soggetto giovane ed esterno, sono stato il
destinatario di questi racconti che assumevano spesso una funzione didatti-
ca e si caratterizzavano per una narrazione corale in cui i diversi oratori con-
cordavano assieme gli episodi da evocare. Quello che prende vita in queste
ricorrenze è dunque un gruppo che si fonda sul legame nostalgico con un’e-
sperienza passata – i “gloriosi anni Settanta”, durante i quali la rivoluzione

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era percepita come una prospettiva di vita e un ideale politico concreto –
che, benché possa essere stata vissuta separatamente, è oggi riconosciuta
come comune. In questo senso, lo struggimento nostalgico costituisce una
pratica emozionale attraverso cui gli ex-combattenti sentono e, al contem-
po, dimostrano di aderire a un gruppo e a un modello morale di riferimento.
   Nelle scienze sociali, per lungo tempo, la nostalgia è stata intesa in termi-
ni sostanzialmente regressivi, come un improduttivo dolersi del mondo per-
duto che restringe il campo d’azione e determina un isolamento dei soggetti
ai limiti della follia. È, infatti, in ambito medico che il termine fa la sua appa-
rizione, in quanto estraniamento vissuto per il distacco da una persona cara,
un luogo o un evento (Beneduce 2007). Tuttavia, questo approccio patologiz-
zante è stato in parte ripensato, mostrando come l’esperienza nostalgica non
si riduca a un sentimento individuale, di cui osservare esclusivamente le im-
plicazioni intrapsichiche, ma abbia una componente sociale (Williams 1973).
In questa prospettiva, la nostalgia non costituisce un universale, ma un’e-
sperienza polisemica che acquista di senso in relazione ai contesti storico-
culturali di riferimento (Beneduce 1998). Alcuni lavori (tra gli altri, Boym
2001; Özyürek 2006; Angé, Berliner 2014) hanno sottolineato come la proie-
zione nostalgica del soggetto nei tempi desiderati del passato non sia neces-
sariamente una reazione passiva al cambiamento. Al contrario, essa può ave-
re implicazioni morali e politiche che la rendono un modo per abitare il pre-
sente e dare concretezza alle intenzioni rivolte al futuro.
   In questa prospettiva analitica, l’esperienza nostalgica vissuta da Mehmet
e da molti altri ex-militanti rivoluzionari incontrati non deve essere conside-
rata una condizione individuale, ma un sentimento di gruppo, “messo in sce-
na” per ribadire l’adesione a determinati valori. La riconnessione con un
passato oramai perduto è vissuta infatti come una forma di resistenza ai mu-
tamenti successivi alla cesura del 1980 e come un modo per opporsi alla
frantumazione dei quadri politici e culturali di riferimento e al processo di
individualizzazione dei destini che ne sono conseguiti. Questa riconnessione
sentimentale con il passato consente, inoltre, di articolare discorsi politici su
un presente indesiderato. È però opportuno chiarire che tale critica non ha
un’applicazione diretta nell’arena politica, ma è più che altro un discorso
identitario di gruppo che permette di non singolarizzare il disagio e di rinsal-
dare i legami di generazione. In questa luce, lo struggimento nostalgico non
costituisce un malinconico congelamento, ma un’esperienza, in parte incor-
porata e in parte consapevole, che plasma nel profondo le soggettività degli
ex-militanti, offrendo loro un certo grado di agentività attraverso cui fron-
teggiare le insicurezze del presente e costruire reti relazionali.

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   Il carattere collettivamente strutturato di questa esperienza è evidenziato
anche dalla sua riproposizione nelle seconde generazioni. Come ho mostrato
più approfonditamente altrove (D’Orsi 2018), la nostalgia per gli anni in cui
“la sinistra era forte” costituisce un elemento distintivo dell’immaginario dei
giovani attivisti che a Istanbul animano organizzazioni studentesche e pic-
coli partiti legati all’eredità politica della tradizione rivoluzionaria. Questo
attaccamento per un passato non vissuto in prima persona può essere inter-
pretato, nel solco del lavoro di Herzfeld (2003), come una “nostalgia struttu-
rale”, un legame sentimentale che si tramanda da una generazione all’altra e
che permette di strutturare un senso di intimità e una poetica dell’alterità.
Assieme alla stigmatizzazione della cosiddetta gioventù “apolitica”, la no-
stalgia per le lotte del passato rappresenta per questi giovani militanti un
modo per intessere amicizie e condividere visioni del mondo. I discorsi no-
stalgici possono, in altre parole, essere intesi come l’espressione di una pra-
tica bourdesiana di distinzione che consolida una subcultura giovanile.

“I nostri morti ci tengono svegli”
    Le pratiche di memoria elaborate attorno alla repressione del 12 settem-
bre sono soprattutto gli anniversari di massacri e le commemorazioni fune-
bri7. Se i primi presentano un profilo convegnistico, includendo documenta-
ri, testimonianze e analisi politiche, le seconde cercano di tenere vivo il ri-
cordo dei rivoluzionari morti e hanno luogo davanti alle tombe dei caduti o
in spazi appositamente affittati, come i centri culturali. Sebbene queste ri-
correnze siano vissute dagli ex-militanti come manifestazioni pubbliche del
lutto volte a denunciare le violenze subite e mostrare la propria resistenza,
di fatto sono conosciute – e dunque accessibili – solo da chi è interno al net-
work della sinistra. Durante le commemorazioni a cui partecipano i famiglia-
ri e i compagni più stretti del defunto, il passato è evocato dalla prospettiva
del singolo gruppo. Al contrario, anniversari di massacri e commemorazioni
di martiri “emblematici” costituiscono momenti in cui si crea una memoria
più estesa, capace di superare il fazionalismo interno. Colte nel loro insieme,
queste ricorrenze sono occasioni di convivialità dal tono intimo e famigliare,
in cui molti ex-militanti portano con sé i propri figli e tutti si salutano calo-
rosamente.
    Malgrado la pluralità di organizzazioni, durante la ricerca mi sono presto
reso conto che queste ricorrenze hanno una grammatica simbolica simile,
volta a celebrare la violenza subita e il sacrificio politico. Lo stile iconografi-

7. Nella costellazione delle pratiche mnestiche della sinistra è importante segnalare anche
l’esposizione amatoriale 12 Eylül utanç müzesi, museo della vergogna del 12 settembre
(D’Orsi 2019), e le Cumartesi anneleri, le madri del sabato, che – sulla falsariga delle madri
argentine di Plaza de Mayo – si sono riunite fino al 2018 a Istanbul per denunciare la scom-
parsa dei militanti in stato di arresto nelle aree del paese a maggioranza curda (Göker 2011).

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co è volutamente umile con l’obiettivo di simboleggiare l’austerità morale
dei combattenti ed è composto da elementi ricorrenti, quali la disposizione
in terra di garofani rossi, l’esposizione della bandiera del gruppo di riferi-
mento e l’assenza della data di morte dalla lapide o dalla fotografia del de-
funto per ribadirne l’immortalità. Nelle commemorazioni al chiuso sono ap-
pesi alle pareti anche ritratti dei martiri emblematici e slogan, scritti in gial-
lo su sfondo rosso, come devrim şehit ölümsüzdür (il martire della rivoluzione
è immortale) oppure seni unutmayacağız (non ti dimenticheremo). Di solito
sono presenti dei tavolini dove è allestito un rinfresco e dove si possono ac-
quistare libri e documentari sui partiti rivoluzionari. Anche il paesaggio so-
noro è formalizzato in momenti codificati, come il minuto iniziale di silen-
zio, la recitazione di poesie, la lettura dei messaggi dei leader assassinati,
l’intonazione con il pugno chiuso di canzoni che spronano a costruire un fu-
turo socialista e i discorsi di famigliari e compagni.
   Questi ultimi costituiscono il nucleo principale delle commemorazioni e si
contraddistinguono per il vocabolario militaresco, per l’intreccio del passato
con la diagnosi politica attuale e per la contrapposizione tra lo stato (consi-
derato un attore trans-storico al di là dei singoli governi) e una comunità di
rivoluzionari raffigurata ancora sotto assedio. In queste orazioni viene rico-
struita anche la biografia del defunto che, tuttavia, raramente fornisce ele-
menti sulle situazioni concretamente vissute. Essa segue piuttosto temi co-
dificati come il coraggio nel resistere alla tortura, il non aver tradito i com-
pagni, il sacrificio della giovinezza, e, nel caso di un morto recente, l’essere
rimasto fedele alla causa anche nel mondo post-1980. Queste evocazioni co-
stituiscono modelli morali e sono volte a inserire la storia del militante
scomparso all’interno di una mitologia rivoluzionaria. L’intreccio tra ricordo
del singolo e discorso politico di gruppo stabilisce inoltre una sorta di inter-
scambiabilità tra la biografia del defunto e quella dei compagni che lo com-
memorano che trasforma questi ultimi da superstiti in testimoni, come mo-
strano frasi ricorrenti quali “noi siamo stati solo più fortunati di lui” oppure
“la nostra generazione deve tenere in vita il suo ricordo”. Riprendendo la du-
plice origine semantica del termine testimone messa in luce da Benveniste
(2001), gli ex-militanti che partecipano alle commemorazioni possono essere
intesi come superstes della propria esperienza che si fanno testis dei compa-
gni assassinati8.

8. Il testis è colui che può testimoniare sulla base dell’osservazione esterna mentre il super-
stes è colui che sopravvive all’evento e ne riferisce a partire dalla propria esperienza. Come
nota Primo Levi a proposito di Auschwitz, il sopravvissuto-testimone si fa carico dell’espe-
rienza di coloro che non ce l’hanno fatta e si trova nella condizione paradossale di testimo-
niare quello che non può essere testimoniato: egli è legittimato a riferire quanto accaduto in
virtù della sua esperienza, ma in quanto sopravvissuto non può testimoniare ciò che non ha
vissuto, ossia la morte (cfr. Agamben 1998, Fassin 2018).

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   Come osserva Karacan (2016), la sacralizzazione costituisce la strategia
dominante di queste performance mnestiche ed è ottenuta attraverso l’in-
treccio di una narrativa di vittimizzazione con una di eroicizzazione. Se al-
l’apparenza le due appaiono antitetiche, la vittimizzazione che celebra la
violenza subita costituisce la premessa del percorso di eroicizzazione che
esalta invece la resistenza fino all’estremo sacrificio. Quella di eroe è, tutta-
via, una condizione attribuita solo post-mortem, indipendentemente dalle
cause di quest’ultima. Ad esempio, sebbene molti dei miei interlocutori ab-
biano sofferto torture sistematiche, i loro racconti sono sempre stati volti a
sottostimare le esperienze vissute in prima persona. Le loro narrazioni per-
sonali sono infatti modellate dall’“economia morale del combattente” (D’Or-
si 2020), in cui l’emersione del sé individuale è considerata un segno di arro-
ganza e individualismo. Se non svolge una esplicita funzione di denuncia,
dunque, la sofferenza del singolo è omessa in favore di un discorso di gruppo
dai connotati generazionali.
   Inoltre, l’intreccio tra vittimizzazione ed eroicizzazione rende la sofferen-
za e il dolore condizioni politicamente desiderate. Come hanno sottolineato
molti dei miei interlocutori assumendo uno sguardo retrospettivamente cri-
tico, la tortura era, ad esempio, compresa nell’ideale rivoluzionario giovanile
e costituiva, almeno in parte, un’esperienza ricercata. Nel corso degli anni,
le commemorazioni degli ex-militanti hanno così dato vita a narrative di
“eroicità passiva” in cui i combattenti sono rappresentati come vittime inno-
centi di una violenza brutale e asimmetrica e sono connotati non tanto per
ciò che hanno fatto, ma per ciò che hanno subito.
   Altro elemento centrale di queste ricorrenze è la dimensione emozionale,
dominata da sentimenti di lutto, rabbia e ammirazione. Tali eventi non per-
seguono il superamento del dolore, ma trasformano quest’ultimo in una for-
ma di solidarietà reciproca, in una vittimizzazione da spendere nell’arena
pubblica e in una forza mobilizzatrice per il futuro. Nella cornice del martirio
marxista, infatti, la rivoluzione costituisce una ricompensa che, grazie al sa-
crificio del defunto, verrà esperita in un futuro mitico da coloro che restano
(Bargu 2014). Quest’aspetto rende le commemorazioni luoghi di comunione
tra i vivi e i morti, in cui i primi rinsaldano la memoria dei secondi prolun-
gando il proprio dolore, mentre il ricordo dei secondi spinge i primi a una
precisa condotta morale nel presente. In questa prospettiva, sofferenza e lut-
to sono intesi dagli ex-militanti non come sentimenti privati, ma come que-
stioni pubbliche la cui responsabilità ricade sullo stato e il cui superamento
significherebbe il tradimento dei morti e la resa. Questo punto è esemplifica-
to dagli slogan cantati durante gli anniversari, ossia “i nostri morti ci tengo-
no svegli” e “chi dimentica è complice”, che rivelano una memoria di com-
battimento che invita ancora oggi a proseguire la lotta rivoluzionaria in
nome dei defunti.

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    La persistenza di una condizione luttuosa deve essere intesa come una
pratica emozionale che struttura una temporalità incentrata sull’attualità
del 12 settembre e che è capace di inglobare anche gli accadimenti presenti e
futuri. In alcune delle commemorazioni cui ho preso parte, ad esempio, sono
stati evocati i morti della protesta di Gezi Park. Se quest’ultima si è contrad-
distinta per la novità dei codici pubblici di azione e l’eterogeneità dei suoi
partecipanti9, nelle commemorazioni degli ex-militanti il suo senso di novità
era annullato: la protesta non costituiva un capitolo nuovo della storia, ma
confermava l’oppressione vissuta. In altre parole, la continuità del lutto fini-
sce per strutturare una circolarità tra lo “spazio dell’esperienza” e “l’oriz-
zonte delle aspettative” (Koselleck 2007) in cui gli accadimenti futuri non
possono che rafforzare l’ethos dei combattenti e la loro visione fatalista della
storia.
    Il ruolo agentivo che i rivoluzionari degli anni Settanta svolgono nella
perpetuazione del loro dolore è chiarito da İpek, un’ex-militante di una or-
ganizzazione fautrice della lotta armata. Ritornando assieme da una comme-
morazione, la donna mi ha detto: “Sono più di trent’anni che conviviamo
con questo dolore e continuare a soffrire è il modo per continuare a lottare.
Asciugare la nostra ferita significherebbe dimenticare”. Queste parole mo-
strano in modo eloquente come “continuare a soffrire” costituisca per İpek il
modo di resistere al processo nazionale di oblio che contraddistingue la Tur-
chia. Chi prende parte a queste performance mnestiche intende infatti mo-
strare a se stesso e allo sguardo dello stato (un attore sempre evocato nei
loro discorsi) che la lotta continua e che i morti non saranno mai dimentica-
ti. A causare la “morte” dei militanti assassinati non sarebbe infatti la vio-
lenza subita, che li eleva piuttosto a martiri, ma il loro oblio.
    È in questa luce che il registro del martire rivoluzionario vede nella depo-
liticizzazione della sofferenza un tradimento della memoria. Queste pratiche
mnestiche possono così essere lette in termini alternativi non soltanto alle
rappresentazioni egemoniche del passato, ma anche alla diffusione in Tur-
chia di quel discorso umanitario che rende la sofferenza depoliticizzata il
modo più idoneo per reclamare forme di aiuto (Fassin 2018) e che riconduce
la sofferenza all’interno dei principi intra-psichici, oscurandone spesso la
matrice storica e politica (Beneduce 2010). Tuttavia, la perpetuazione del
lutto non può essere ridotta, in termini strumentali, alla sua funzione politi-

9. Alla protesta hanno partecipato persone abituate a pensarsi in termini antitetici per posi-
zionamento politico, orientamento religioso e origine etnica (militanti di sinistra, gruppi
islamici anti-capitalisti, kemalisti, membri di minoranze etniche e religiose e giovani defini-
ti apolitici). Per un approfondimento si veda D’Orsi 2015.

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ca nella battaglia per la memoria. Ci troviamo di fronte, piuttosto, a una
grammatica simbolica socialmente codificata che modella sia i discorsi e le
azioni pubbliche, sia gli stati d’animo interiori degli ex-militanti. Nella con-
tinuazione del loro lutto possiamo infatti scorgere il punto di saldatura tra il
vissuto personale di sofferenza e la cornice politico-morale di gruppo che fi-
nisce per strutturare anche gli aspetti più intimi della soggettività.
    Se questo lutto infinito permette agli ex-combattenti che ancora oggi ade-
riscono all’economia morale del combattente di fare comunità, avanzare ri-
vendicazioni e pensarsi nel futuro, al contempo, esso offre spazi di agency
fortemente circoscritti. L’immutevolezza delle retoriche politiche di riferi-
mento e la perpetuazione attiva di un sentimento luttuoso contribuiscono
infatti alla condizione di marginalità esperita ancora oggi dai movimenti di
sinistra e sono al centro delle voci critiche analizzate nel prossimo paragra-
fo.

Voci dissonanti
   Per quanto diffusi, i sentimenti di nostalgia e lutto non sono condivisi da
tutti gli ex-militanti intervistati. Tra questi possiamo trovare voci dissonanti
che vedono nello struggimento nostalgico e nella ostentazione del dolore un
“intrappolamento nei ricordi di gioventù”, un “restare bloccati nel lutto di
quello che non si è più” e, più in generale, una “memoria congelata”. Tali
posizioni sono diffuse non solo tra coloro che hanno tagliato i ponti con il
passato, ma anche tra chi riconosce una continuità con la lotta giovanile e ha
riversato il proprio engagement nella società civile. In queste critiche possia-
mo riconoscere indirettamente la nota lettura freudiana (Freud 1978) secon-
do cui il soggetto malinconico non riesce a vincere la tristezza del lutto e, di
conseguenza, a reindirizzare le sue pulsioni libidiche in un’altra direzione,
ma rimane legato all’oggetto amato e perduto, trasformando la sua sofferen-
za in un isolamento interiore.
   Tuttavia, come ho mostrato in precedenza, l’attaccamento malinconico e
la perpetuazione del lutto degli ex-militanti non costituiscono né un distac-
co del soggetto dal contesto di riferimento né una conseguenza diretta della
repressione di stato. Al contrario, essi sono pratiche emozionali che offrono
spazi di azione politicamente orientati e che concretizzano cornici morali
collettive attraverso cui si articola la solidarietà di gruppo e si mantengono
in vita i valori del combattente rivoluzionario. In tal senso, il rifiuto dello
struggimento nostalgico e della perpetuazione del dolore da parte di alcuni
ex-militanti non scaturisce tanto dal rischio di rimanere intrappolati nel
passato, quanto dall’offrire sintassi politiche non più condivise nel presente.

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La capacità di queste pratiche emozionali di aprire o piuttosto di limitare gli
spazi di azione deve dunque essere letta non in termini assoluti, ma in rela-
zione ai gruppi nei quali si iscrivono le biografie dei soggetti e ai riferimenti
politici e morali di questi ultimi.
   Parallelamente alle critiche sulla nostalgia, alcuni dei miei intervistati si
sono chiesti, in forme più o meno esplicite, se continuare a “soffrire” sia l’u-
nico modo a disposizione per non dimenticare. Emblematico in tal senso è il
commento di Mustafa, un professore che non si riconosce più nei valori del
combattente, ma che continua il suo impegno in un piccolo partito di sini-
stra. Mentre gli descrivevo una commemorazione a cui avevo preso parte
giorni addietro, egli mi ha interrotto bruscamente:
      Noi siamo sempre a lutto! Qui la gente ricorda solo ciò che ha subito e dice
      “Abbiamo perso, ma abbiamo perso con onore!”. Possibile che non possiamo ri-
      cordare anche cosa siamo stati capaci di fare? […] La mia generazione sa fare
      solo due cose: trasforma in epica ciò che ha vissuto, ma sono storie di eroismo
      che non hanno più senso per me, oppure getta via tutto ed esalta il neoliberali-
      smo. Ecco, io cerco qualcos’altro.

   Emerge qui una critica all’eroicità passiva precedentemente descritta, in
cui la capacità di agire si fonda sull’ostensione del dolore e dell’oppressione
subita. Mustafa ha poi proseguito sottolineando come questa eroicità passiva
contraddistingua anche le nuove generazioni di militanti: “Gezi Park è stato
così creativo che vorrei ricordare quello che abbiamo fatto e non cosa abbia-
mo sofferto, ma i giovani di sinistra che fanno? I martiri di Gezi Park e ricor-
dano soltanto ciò che hanno subito!”. Il suo racconto si riferiva a una com-
memorazione delle proteste del 2013 a cui aveva partecipato, in cui i giovani
morti erano stati inseriti alla fine di un lungo elenco di martiri rivoluzionari
ed erano ricordati attraverso quel canovaccio commemorativo già analizza-
to: “Ciò che mi ha messo a disagio non è stato ovviamente il pugno alzato –
ha commentato Mustafa – quanto la presenza quasi automatica di parole
d’ordine e modi di sentire, come fossero dei riflessi condizionati. Insomma, è
sempre la stessa storia”. Se, dunque, l’iscrizione di un evento nuovo nel lutto
della sinistra permette a giovani e vecchi militanti di costruire un bagaglio
condiviso di risorse morali e simboliche, al contempo, essa finisce per inca-
nalare tale evento (e il suo senso di novità) in un percorso già tracciato, tra-
sformandolo in un’esperienza confermativa della tragedia infinita della sini-
stra rivoluzionaria.
   Alle parole di Mustafa possiamo associare quelle di Ali, un ex-militante
incarcerato negli anni Ottanta che oggi lavora per un’associazione di diritti
umani che veicola in Turchia i linguaggi globali della giustizia transizionale.

2021 | ANUAC. VOL. 10, N° 1, GIUGNO 2021: 67-91
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