Social Wallet, la finanza collettiva contro gli unicorni
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Social Wallet, la finanza collettiva contro gli unicorni In una variante del concetto di tecno-capitalismo, Nick Srnicek (2017) ha coniato la nozione di “platform capitalism” per descrivere l’attuale sistema economico, in cui segmenti vulnerabili della società vengono esclusi e penalizzati anche a causa dell’estensivo uso di piattaforme digitali. Ci sono forze fondamentali in gioco che causano disuguaglianze crescenti, accaparramento di terre, crack finanziari e disastri naturali. Nel suo ultimo libro, Espulsioni, Saskia Sassen (2014) descrive la brutalità e la complessità dell’economia globale che provoca ciò che lei chiama ‘espulsioni’, ovvero l’esclusione dal mercato del lavoro attraverso la perdita di accesso a diritti e possibilità. Questo processo non interessa solo la sfera professionale, ma raggiunge anche quella affettiva, sociale ed emotiva, trasformando così anche le condizioni somatiche dell’esistenza. Si pensi ai dipendenti nei supermercati aperti 24/7 o i corrieri di Foodora che devono lavorare durante il fine settimana e accettare turni sempre più pressanti per qualche dollaro in più. Le piattaforme note della gig economy reclutano i lavoratori con la falsa promessa di contratti da freelance. In realtà, le condizioni lavorative assomigliano a un contratto da dipendente nella fabbrica fordista. Solo dopo aver iniziato, questi lavoratori capiscono che, alla fine, sono spesso costretti a lavorare durante il fine settimana e competere spudoratamente con gli altri corrieri. Queste dinamiche di sfruttamento potrebbero a prima vista sembrare semplicemente vino vecchio in botti nuove; dopotutto l’introduzione del sistema di turni e della divisione del lavoro nelle fabbriche fordiste fu un periodo di cambiamento caratterizzato da simili processi di esclusione e violenze
strutturali per la classe operaia. Ci sono sempre state brutalità riservate a una parte specifica della società: la classe operaia, i proletari, i meno privilegiati. Nel periodo postbellico dello stato sociale, o durante lo slancio storico del compromesso di classe, l’impegno fu di migliorare e nobilitare le condizioni di vita degli individui attraverso il lavoro. Dati gli sconvolgimenti tecnologici che modellano il nostro XXI secolo, le condizioni di lavoro potrebbero invece ulteriormente ridursi. Mentre al giorno d’oggi il mondo occidentale si svuota delle fabbriche, nuovi modi di produzione e consumo culturale emergono dalla fase avanzata del postfordismo per ristrutturare una nuova divisione del lavoro su scala globale – lungo le fissure generate dall’imperialismo capitalista e le sue varianti post-coloniali. I regimi di proprietà e di accumulazione sono ambigui in termini di distribuzione delle risorse e di modalità di produzione delle merci. In tale ristrutturazione globale l’identità di classe è rinegoziata costantemente. Anche chi pensa di non essere vulnerabile potrebbe presto ‘esaurire’ le sue risorse non solo economiche ma anche somatiche. Consideriamo coloro che lavorano nel mondo accademico, con il suo motto “pubblica o muori”, che incarna la pressione per pubblicare articoli su riviste specializzate. Dottorandi e ricercatori non appartengono, di default, alla classe operaia; sono considerati lavoratori altamente qualificati che solitamente vivono all’estero in una bolla di espatriati. Emigrano dai loro paesi verso ‘l’eldorado cognitivo nordico’, il mitico ‘nord globale prospero e meritocratico’. Qual è il costo sociale per questi operai dell’economia cognitiva? Mark Fisher lo ha descritto nel libro Realismo Capitalista e vissuto sulla sua pelle quando si è tolto la vita all’età di 48 anni, il 13 gennaio 2017. Ci torna in mente la testimonianza di Richard Kadison, capo dell’unità di salute mentale dell’Università di Harvard, secondo cui lo studente medio del 2000 aveva lo stesso livello di ansia del paziente psichiatrico medio nel 1950. Nel mondo affluente occidentale queste dinamiche si concretizzano in ciò che potrebbe essere considerata una precarizzazione di massa. I plotoni di liberi professionisti, lavoratori della conoscenza, artigiani, artisti e programmatori, che sono stati elogiati per il loro talento, l’innovazione tecnologica, la tolleranza e l’inclusività sono già stati riarruolati nel tardo sistema capitalista di dispossessione e accumulazione sfrontata. Nel suo ultimo libro The New Urban Crisis, Richard Florida (2017) recita il suo mea culpa perché le città in cui si concentra questa cosiddetta classe creativa che lui stesso promuoveva sono ora tra quelle più polarizzate e sfruttate, come San Francisco e Londra. Non è una coincidenza che proprio in queste aree metropolitane l’ideologia dell’economia di condivisione – la sharing economy – sia così pronunciata. Se immaginiamo queste trasformazioni semplicemente come una ripetizione delle dinamiche del capitalismo fordista, rischiamo di perdere di vista alcune importanti novità sul piano globale, e soprattutto di forzare un particolare immaginario di classe su condizioni di vita profondamente nuove. Questa mossa rischia di compromettere la spinta radicale della nostra critica, e di lasciare questi nuovi territori socio-tecnologici al pionierismo capitalista. Consapevoli di questi rischi, vogliamo qui suggerire un’analisi più dettagliata, che prenda sul serio queste trasformazioni nella speranza di poterne estrarre alternative che possano permetterci di creare nuove resistenze e nuove lotte di classe. Per questo in quanto rimane di tale articolo volgiamo lo sguardo proprio ai ambienti metropolitani in cui la condivisione sta riemergendo all’interno di questi ambigui processi neo-capitalisti, ma anche – potenzialmente – innovativi. In particolare, consideriamo alcune iniziative che stanno emergendo ad Amsterdam e Milano, le quali rappresentano possibili modi per resistere all’espulsione e progettare soluzioni collettive. Da welfare a CommonFare: il progetto Social Wallet CommonFare è una piattaforma bottom-up, che adotta un approccio cooperativo per un tipo di welfare complementare a quello tradizionale. La sua missione è la diffusione di una forma partecipativa di assistenza sociale basata su un network collaborativo, atto a sviluppare nuovi modi
per rispondere collettivamente ai problemi quotidiani. Un esempio delle pratiche adottate da CommonFare potrebbe essere il concetto di commoncoin. Questa forma di moneta collettiva è più un mezzo di scambio per creare circuiti economici alternativi, che un deposito di valore come la criptovaluta ordinaria. Simile a commoncoin, è il fenomeno dei broodfonds Olandesi, un collettivo che consente ad imprenditori indipendenti di fornirsi reciprocamente un congedo per malattia temporaneo. Il minimo raccomandato è di 25 persone; la dimensione massima è di 50 persone. Da questa prospettiva, CommonFare può essere visto come una versione bottom-up auto-organizzata dello stato sociale. Un’altra iniziativa è il social wallet. Tale progetto illustra le potenzialità implicite di una rete come CommonFare enunciate pocanzi. La domanda che sta alla base di questo tipo di iniziative è: come ripensare l’estrema individualizzazione del soggetto in una forma sociale di finanza o reddito? Questa è anche la domanda che Andrea Fumagalli ha posto nel suo ultimo libro, Economia politica del comune. Per capire come il social wallet può rispondere a questa domanda, e quali alternative presenta, consideriamo questo dispositivo più da vicino. Come un portafoglio tradizionale, da cui prende il nome, un social wallet offre un posto sicuro in cui conservare denaro o altre forme di valuta. Tuttavia, a differenza di un portafoglio tradizionale, il social wallet non solo permette di archiviare e conservare valore per usarlo nel momento del bisogno, ma anche di condividerlo e renderlo accessibile a un gruppo più ampio di persone – come un collettivo o una comunità che ha interessi in comune o che lavora su uno stesso progetto – creando nuove possibilità comunitarie e in un certo qual modo pubbliche, ma ritenendo comunque alcune caratteristiche del privato cui s’ispira. Utilizzando infrastrutture digitali a questo scopo, il social wallet rende la condivisione più facile e permette di immagazzinare valore in forme più varie e con una capacità potenzialmente illimitata. La fase sperimentale del social wallet è iniziata nel 2013 come parte di un progetto dell’Unione Europea chiamato D-CENT. Il progetto in sé puntava alla creazione di uno strumento di policy- making collaborativo, per migliorare la progettazione partecipativa e i dispositivi digitali per consentire ai cittadini di esprimere le loro opinioni, come strumenti decentralizzati per coinvolgere le persone nella partecipazione pubblica. In questo senso il progetto era volto a costruire strumenti per la privacy, per la democrazia diretta e per l’empowerment economico. Uno di questi strumenti era un portafoglio digitale, inizialmente chiamato freecoin. Originariamente, questo dispositivo avrebbe dovuto funzionare principalmente come un incentivo per i privati a partecipare a processi decisionali pubblici. Mentre questa visione iniziale del dispositivo era strutturata come parte di un’applicazione più massiccia e monolitica – vale a dire un progetto software che includeva un sistema per l’autenticazione e l’autorizzazione, col passare del tempo il sistema è stato progressivamente suddiviso in più moduli, rendendolo più agile e adattabile. Al momento in cui scriviamo, nel luglio 2018, il social wallet è ancora in una fase pilota. Il nucleo dello strumento è completamente funzionale, ma gli sviluppatori continuano a migliorare e ad aggiungere funzionalità in modo dinamico, come mi ha spiegato Aspasia Beneti, capo sviluppatore dello strumento di Dyne.org in un’intervista: “Uno dei piloti è Macao, a Milano. È un collettivo di artisti. Si organizzano in modo molto progressivo, ad esempio con la distribuzione di un reddito base ogni mese. Stanno provando cose diverse. Prima c’era una persona che compilava Excel-file e teneva le note manualmente. Ora, usano un social wallet interno per essere più efficienti. Hanno un portafoglio completo in funzione, che parte da un codice di base specialmente adattato alle loro esigenze. Lo usano per distribuire il reddito base, ma anche per scambiare monete quando organizzano eventi, e possono anche guadagnare più monete, ad esempio occupandosi di spazi pubblici o contribuendo ai beni comuni urbani.”
Macao è una piccola comunità che utilizza il proprio portafoglio sociale per scopi interni. Ciò significa che non hanno bisogno di un intero sistema blockchain per organizzare le loro attività. Il collettivo ha scelto di concentrarsi sulla trasparenza interna. Uno dei pilastri del social wallet, infatti, è mantenere il sistema semplice da usare e riconfigurare per i vari utenti. In questo senso anche il progetto di Macao dipende dall’API del social wallet, il componente principale, a partire da cui chiunque può creare la propria interfaccia in modo generico e configurabile. Partendo da questa descrizione, il social wallet potrebbe apparire come un prodotto di nicchia per un collettivo di artisti. Ma questa interpretazione sarebbe limitata, dal momento che questo dispositivo ha ben più interessanti possibilità, e infatti produce già una riappropriazione critica di spazi e alternative tecno-socio-economiche. Per cogliere meglio queste possibilità, vogliamo considerare un altro esempio, il Santarcangelo Festival, uno spin-off di Macao. Fondato nel 1975, Santarcangelo è uno dei festival teatrali più noti in Italia. Per l’edizione 2018 si attendono circa 10.000 visitatori. Mentre anche questo caso si sforza di coinvolgere i cittadini nella sperimentazione tecno-sociale del social wallet, la differenza principale con il caso di Macao è il tentativo di essere più interattivi con visitatori e rivenditori. Ad esempio, Santarcangelo ha un’app per la realtà augmentata che consente di leggere il programma del festival e la Santa Coin che si basa sull’API del social wallet. Uno degli aspetti più interessanti è l’adattamento per le persone che non hanno uno smartphone. Oltre alla versione digitale, Santarcangelo offre un QR code, che può essere stampato su carta. All’ingresso, i visitatori possono scambiare euro per Santa Coin. La moneta può essere utilizzata nei bar e nei negozi, dal parrucchiere a caffè e altri punti vendita che hanno aderito. Dal punto di vista degli organizzatori, questo è il modo più semplice per verificare quanto il festival fattura e in quale misura l’iniziativa ha un impatto sull’economia locale. In questo senso, ci si potrebbe chiedere: Qual è la differenza tra un social wallet e un token? Beneti spiega: “Ci sono molte somiglianze tra i due. Una delle principali differenze è che il social wallet è digitalizzato, quindi non hai la plastica, come nel caso dei token o delle monete-gettone che si usano ai festival e altri eventi. È più sostenibile dal punto di vista ambientale. Potrebbe essere qualsiasi cosa, un codice QR stampato su un pezzo di carta. È riutilizzabile, quindi puoi usarlo come portafoglio. Come portafoglio elettronico, è un’estensione del token perché puoi usarlo di nuovo e mettere più soldi su di esso. Puoi controllare le tue transazioni e puoi scannerizzarle. Penso che questo sia noto come top-up in Inghilterra. È più trasparente per gli utenti e il festival.” Ora, pensiamo a quanto sia pervasivo uno smartphone e immaginiamo una società senza contante. Tale scenario, di una società cashless, sta già diventando realtà in alcune aree metropolitane. Una città come Amsterdam vuole incoraggiare gli individui ad usare sempre meno denaro cash. Ad esempio, sui tram olandesi puoi pagare solo con carta di credito o bancomat ora. Puoi anche farti consegnare cibo e bevande a casa, pagare Uber, trasferire denaro ai tuoi amici dopo una cena insieme, tutto grazie all’app della tua banca. Va sottolineato che nell’Europa meridionale, dove il divario digitale è ancora molto elevato, non è così comune trasferire denaro ai propri amici tramite un’app e il contante ha ancora la forma principale con cui pagare, in particolare per piccole somme di denaro in Italia non è possibile pagare con carte. Eppure, un effetto collaterale dell’utilizzo di app bancarie potrebbe essere una dipendenza aggiuntiva per il tuo smartphone, come il controllo compulsivo di quanti soldi ci sono sul tuo conto bancario. È un disturbo finanziario ossessivo- compulsivo individuale. Chiamiamo questo il ‘sé finanziario’. È un sé che controlla costantemente la propria liquidità. Se in passato questo tipo di ossessione fosse una prerogativa esclusiva ai banchieri e agli intermediari finanziari, oggi questa prassi del ‘sé finanziario’ è stata democratizzata. Ora puoi finalmente comportarti come un banchiere che scorre il feed di Instagram in un momento e l’app
ING il momento dopo. Perché ci interessa così tanto il progetto del social wallet, e qual è la relazione con il ‘sé finanziario’? L’idea del social wallet è esplosiva perché blocca l’individualizzazione e lo spazio ristretto di “me e i miei 25 euro sulla mia app ING”. Il social wallet è un invito a ripensare la finanza in modo collettivo. La parte decisionale è decentralizzata. Coloro che lavorano per questo progetto sono entità collettive. La mossa collettiva e sociale qui è radicale. Nell’immaginario comune, la finanza è sempre stata per i broker; pensiamo a Gekko, a Wall Street o The Wolf of Wall Street. Finora, la finanza globale è stata nelle mani di un gruppo di ricchi che combattono come squali in un oceano di miseria. Alcuni potrebbero sostenere che è come un bitcoin. Nooooo! Mentre bitcoin è lanciato nell’élite finanziaria come alternativa alle currency dominanti, il social wallet non ha alcuna ambizione di competere con le banconote o di essere giocato in borsa. Non è come un bitcoin, ovvero un’estensione del rapporto finanziario tradizionale in cui il vincitore prende tutto. In tal riguardo, il social wallet è simile a faircoin, ossia appartiene al mondo delle cooperative e dei collettivi, dei gruppi e delle comunità che condividono ciò che producono. Può avere così un effetto ridistributivo nelle economie locali. Come osserva Beneti: “Il social wallet può connettersi a faircoin ma anche a freecoin. È una soluzione generica che può essere adattata di conseguenza. In effetti, per CommonFare usiamo faircoin.” In che modo, dunque, iniziative come il social wallet possono impedire le brutalità e le espulsioni causate dal riconfiguramento dell’economia globale e l’estensivo uso di dispositivi e piattaforme digitali? Il progetto si inserisce in un’ecologia di software più ampia, sebbene venga spesso associato alla blockchain, il social wallet è più accessibile e semplice da configurare. Tuttavia, il social wallet è solo uno dei tanti strumenti nella scatola degli attrezzi. Rappresenta un’alternativa e contribuisce a costruire basi collettive, cooperative ed economiche a diverse forme di comunità e di auto-organizzazione. Come sostiene Primavera De Filippi: “Queste organizzazioni – che non hanno un direttore, un amministratore delegato o una qualsiasi struttura gerarchica – sono amministrate, collettivamente, da tutti gli individui che interagiscono su una blockchain. Pertanto, è importante non confonderli con il modello tradizionale di crowd-sourcing, in cui le persone contribuiscono in diversi modi in una piattaforma ma non traggono vantaggio dal successo di tale piattaforma”. Senza diventare un credente o un promotore della tecnologia, potremmo pensare a soluzioni concrete per combattere l’innalzamento dell’oceano della miseria. Come ci immaginiamo negli anni futuri? Ci immaginiamo come un equipaggio su Le Radeau de la Méduse o parte dell’esercito vittorioso di La Liberté guidant le peuple? Cerchiamo di non portrarre la nostra società come un fallimento, ma piuttosto enfatizziamo la nostra capacità di rispondere e alzarci in piedi. Sostenendo, ad esempio, piccole iniziative che combattano gli unicorni del capitalismo di piattaforme. Traduzione dall’inglese di Filippo Bertoni Immagine di copertina: ph. Christine Roy da Unsplash
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