La storia della Mafia-Prima parte Scritto da Leonardo Sciascia

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La storia della Mafia-
                                          Prima parte
                                   Scritto da Leonardo Sciascia
sabato 09 settembre 2006
                        Riprendo da un vecchio numero di Storia illustrata questo bell’articolo
                        firmato da Leonardo Sciascia. L’articolo è preceduto da una sommarietto
                        che così recita: “Uno scrittore siciliano che dalla "Onorata Societa' » ha
                        tratto spunto per libri e racconti, ricostruisce le origini di questa antica
                        organizzazione criminale.” L’articolo è stato pubblicato nel 1972 ma,
                        come tutte le cose di Sciascia del resto, nulla di ciò che vi è scritto
                        appare datato o inattuale.

                        II primo vocabolario del dialetto siciliano che registra la parola mafia è
                        quello del Traina, pubblicato nel 1868: e la dà come nuova, importata in
                        Sicilia dai piemontesi, cioè dai funzionari e soldati venuti in Sicilia dopo
                        Garibaldi, ma proveniente forse dalla Toscana, dove maffia (due effe)
                        vuol dire miseria e smàferi vuol dire sgherri. Il Traina trova che queste
due parole, questi due significati, convergono nel tipo umano che in Sicilia è detto mafioso. Il
mafioso ha baldanza e prepotenza da sgherro ma è anche un miserabile, poiché « miseria vera
è credersi grand'uomo per la sola forza bruta, ciò che mostra invece gran brutalità, cioè
l'essere gran bestia ». Mafia è dunque « apparente ardire, sicurtà d'animo ». E nient'altro. Così
pensava anche il più grande studioso di tradizioni popolari siciliane, il palermitano Giuseppe
Pitrè:

« La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un
ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è
stata applicata al ladro, ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha
avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s'è curato di sapere che nel modo di
sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non
porta mosca sul naso, nel qual senso l'essere mafioso è necessario, anzi indispensabile.

La mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della forza individuale, unica e
sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d'interessi e d'idee; donde la insofferenza della
superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettata e rispetta
quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente
ragione da sé; e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui ».

Il Pitrè anzi, rispetto a1 Traina, toglie al mafioso brutalità e prepotenza e le attribuisce agli
altri, a quelli contro cui il mafioso si ribella; sicché la mafia altro non sarebbe che un senti-
mento di libertà, un atteggiamento di fierezza, contro le angherie dei potenti e la inettitudine
della legge e dei pubblici poteri. In conclusione: il Traina come il Pitrè, come tanti altri studiosi
e giudici e uomini politici siciliani, tendono a negare la mafia in quanto associazione e ad
ammetterla in quanto « ipertrofia dell'io » (definizione del giurista siciliano Giuseppe
Maggiore), dell'io dei singoli siciliani.

L'invenzione della mafia come associazione per delinquere ha anzi, secondo un magistrato
siciliano, un responsabile: quel Giuseppe Rizzotto che nel 1862 scrisse la commedia I mafiusi
di la Vicaria (la Vicaria era una prigione palermitana). L'artista esagerando con la sua arte
tragica, a base di speculazione, i pretesi costumi dei galeotti nelle prigioni di Palermo, riuscì
fatalmente ad accreditare e diffondere la stolta credenza » che la mafia fosse un'associazione
di delinquenti, scrive il magistrato. E conclude: « Dio perdoni al Rizzotto, che da molti anni è
scomparso dalla scena della vita, il danno enorme arrecato alla nostra Sicilia. E le conseguenze

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tristissime di questo danno io provai quando, nel corso della mia carriera, ebbi la fortuna della
destinazione alla Procura Generale di Torino ».

E si può essere d'accordo che la sua destinazione alla Procura Generale di Torino, invece che a
quella di Palermo, sia stata una fortuna anche per la Sicilia, dove all'incirca in quegli anni c'è
stato un procuratore le cui requisitorie nei processi contro la mafia, acute e implacabili, si
possono leggere come uno dei più seri contributi allo studio del fenomeno: l'agrigentino Ales-
sandro Mirabile.

Il procuratore generale Mirabile pensava esattamente il contrario del Pitrè: cioè che la mafia
fosse setta, associazione; e con precisa costituzione (ovviamente non scritta), con regole
rigorose, con segni di riconoscimento tra gli affiliati. Oltre che sulla propria esperienza, fondava
questa affermazione su un memoriale (che bisognerebbe ricercare negli archivi giudiziari) scrit-
to da Bernardino Verro, che nella prima giovinezza pare fosse entrato a far parte della mafia: e
diventato poi socialista - una delle più belle figure del socialismo siciliano, in quel movimento
detto dei « fasci » che fu duramente represso dal governo del siciliano Crispi - fu della mafia
strenuo avversario fino alla morte. Nato a Corleone (paese anche oggi ben noto per fatti di
mafia), a quarantotto anni, in pieno giorno, fu ucciso, in una strada del paese di cui era
diventato sindaco, il 3 novembre 1915.

Questi nomi: Verro, Mirabile e, su tutti, quello di Napoleone Colajanni, studioso di problemi
sociali e deputato del partito repubblicano, dicono che non tutti i siciliani negavano l'esistenza
della mafia come associazione criminale né ritenevano fosse offesa per la Sicilia il parlarne.
Pubblicamente anzi la denunciavano e la combattevano, considerando sciocco e dannoso il
principio che il male di cui una popolazione è afflitta bisogna nasconderlo o minimizzarlo. I mali
sociali sono, infatti, proprio come le malattie individuali: nasconderli, negarli, minimizzarli
vuole dire soprattutto non volerli curare, non volere liberarsene.

Quei siciliani che come Pitrè, come Luigi Capuana, ancor oggi ritengono che la mafia sia
soltanto atteggiamento di spavalderia individuale, amor proprio, senso dell'onore, sete di giu-
stizia e modo di farsi giustizia in un paese afflitto da una secolare carenza dell'amministrazione
statale, naturalmente affermano che tutti i fatti di delinquenza associata in Sicilia non sono
diversi da quelli che avvengono in altre regioni d'Italia e in altri paesi europei, né più gravi, né
più numerosi. Per loro, la parola mafia non va applicata ai fatti delinquenziali.

Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola alla cosa - la parola mafia, o
l'espressione, venuta in uso in questi ultimi anni, di « Cosa nostra » - si tenda a creare una
distinzione razzistica, un pregiudizio, nei riguardi di tutta la popolazione siciliana, da cui
discendono la denigrazione, la diffidenza, l'irrisione anche verso il singolo siciliano che si trova
a vivere fuori della propria terra.

E' ingiusto, dicono costoro, che una banda di rapinatori sia considerata una semplice banda di
rapinatori a Milano o a Marsiglia o a Londra e una « cosca mafiosa » (« cosca » è la corona di
foglie del carciofo) a Palermo; che a Milano o a Marsiglia o a Londra siano indicati come
colpevoli di un fatto delittuoso soltanto coloro che l'hanno effettivamente preparato ed e-
seguito, mentre un identico fatto, se accade a Palermo, si ritiene adombri una concatenazione
di responsabilità e complicità più vasta, sfuggente, indefinibile - come se tutta la popolazione
della città e dell'isola avesse oscuramente partecipato al fatto e ne proteggesse i colpevoli.
Bisogna dunque, dicono questi difensori del buon nome della Sicilia, togliere la parola alla cosa,
guardare alla cosa per come si presenta nei limiti dell'esecuzione, al fatto criminale in sé.

Ma la parola mafia (che in origine avrà avuto il significato che le attribuisce il Pitrè; e il più
antico documento in cui la troviamo, del 1658, la dà come soprannome di una « magàra »,
cioè di una donna dedita a pratiche di magia), la parola è stata applicata alla cosa, o la cosa ha
preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa che i fatti criminali assumono in Sicilia
rispetto a quelli di altre regioni, di altri paesi. Non tutti, si capisce; e non in tutta la Sicilia.

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Questa distinzione già vien fuori nel 1838, quando ancora non esisteva la parola nel senso oggi
in uso, da una relazione di don Pietro Ulloa (quello stesso che scrisse poi opere storiche sul
regno dei Borboni, cui fu fedelissimo), allora procuratore generale a Trapani: «Non c'è
impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a
trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi
oltremodo strani e pericolosi. Ci sono in molti paesi delle fra specie di sette che diconsi partiti,
senza riunione, senz'altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un
possidente, là un arciprete Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un fun-
zionario, ora di conquistarlo, ora di proteggerlo, ora d'incolpare un innocente. Il popolo è
venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori a offrire transazioni
per il recupero degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste fratellanza di una
protezione impenetrabile, come lo Scarlata, giudice della Gran Corte Civile di Palermo, come il
Siracusa alto magistrato... Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade;
né di trovare testimoni per i reati commessi in pieno giorno. A1 centro di tale stato di dis-
soluzione c'è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX, città
nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio
dei grandi. In questo ombelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la
giustizia, si fomenta l'ignoranza... »

(Leonardo Sciascia - Fonte: Storia Illustrata – anno XVI – n. 173 – aprile 1972 – A. Mondadori
Editore)

Nota bene
La pubblicazione di questo articolo di Leonardo Sciascia vuole essere un omaggio a questo
straordinario scrittore. Insieme, si è cercato di riproporre all'attenzione dei lettori di oggi, o
almeno di quelli che frequentano questo sito, un articolo pubblicato nel 1972 su una rivista,
Storia Illustrata, che ormai, purtroppo, non si fa più. Il reportage di Sciascia si distingue per
esattezza e lucidità, oltre che, ma è quasi superfluo dirlo, per una scrittura diretta e
coinvolgente.

                               La storia della Mafia-
                                        Seconda Parte
                                   Scritto da Leonardo Sciascia
martedì 12 settembre 2006
                        Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia
                        attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come
                        questa di don Pietro Ulloa?

                        Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di
                        delinquenza organizzata, l'Ulloa li aveva individuati e sottoposti
                        all'attenzione dei governo di Napoli (che naturalmente non ne tenne
                        alcun conto, come poi i governi dell'Italia unita non tennero alcun conto
                        delle relazioni Franchetti-Sonnino, di quella parlamentare del 1875-76,
                        dei discorsi di Colajanni alla Cartiera dei Deputati, dei rapporti dei
                        prefetti onesti e dell'Arnia dei carabinieri). Questi elementi si possono
                        riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l'infiltrazione
                        dell'occulto potere di una associazione, che promuove il bene dei propri
                        associati contro il bene dell'intero organismo sociale, nel potere statale.

All'Ulloa non sfugge la causa prima di una tale situazione: che è la condizione sociale ed
economica della Sicilia, ancora feudale in pieno secolo XIX. E appunto la mafia, che nasceva
dalla feudalità e ne assumeva la forma (il capo mafia al posto del signore feudale, ad
esercitare quel privilegio detto del « mero e misto impero » che era dei signore feudale: e cioè
il diritto di vita e di morte sugli abitanti dei paesi e delle campagne, il diritto di imporre tasse

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anche arbitrarie); appunto la mafia doveva operare un movimento che si può assomigliare al
passaggio da una società feudale a una società borghese; quel passaggio che in Francia si
realizzò attraverso la rivoluzione del 1789 e in altri Paesi attraverso quello che fu detto «
l'assolutismo illuminato », cioè quelle trasformazioni che i sovrani (l'imperatore d'Austria, il
granduca di Toscana) seppero apportare nei loro regni decidendo dall'alto e spesso contro la
stessa classe aristocratica che era stata il loro sostegno.

La Sicilia non aveva avuto una rivoluzione né aveva conosciuto « l'assolutismo illuminato »: la
terra passò dai baroni ai « borghesi » (borghesi tra virgolette, ché in Sicilia non si può dire
esista una borghesia vera e propria) attraverso operazioni di tipo mafioso. I contadini promossi
a « campieri » (specie di carabinieri del feudo alle dipendenze del barone) e da « campieri » a
« gabelloti » (cioè ad affittuari delle terre), intimorendo i baroni, facendo loro dei prestiti con
usure ingenti, derubandoli del reddito, riuscirono ad impadronirsi della terra. Ma, servi divenuti
padroni, i loro vizi furono quelli dei loro antichi padroni: volevano soltanto la terra, terra
quanto più estesa possibile; e si contentavano del reddito che la terra aveva sempre dato. Non
volevano trasformarla, bonificarla, migliorarla. Il reddito della terra veniva investito in altra
terra. « Terra quanto vedi e casa quanto stai », dice un proverbio siciliano; e cioè contentati di
una casa anche piccola, ma se puoi compra tutta la terra che vedi. Già un viceré illuminato, il
napoletano Domenico Caracciolo che fu in Sicilia dal 1781 al 1784, aveva notato come questa
fosse l'unica regione d'Europa in cui il denaro guadagnato sulla terra diventava altra terra, non
veniva cioè impiegato per migliorare la terra o per far nascere industrie o incrementare i
commerci. E così è accaduto fin quasi ai giorni nostri.

Della mafia come « forma primitiva di rivolta sociale », come la sola possibile rivoluzione
borghese che potesse avere la Sicilia, ha scritto lo studioso inglese Eric J. Hobsbawm e alla sua
analisi si può trovare riscontro nel romanzo 11 gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e
precisamente nel personaggio di Calogero Sedara. Ad un certo punto del romanzo, il principe
scrittore fa dire al principe protagonista: « Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà
saranno gli sciacalletti le iene ». Queste iene, questi sciacalli, hanno saputo soltanto operare
nella dissoluzione della classe aristocratica, e ne hanno approfittato. E quando si sono trovati al
posto degli aristocratici, cioè a dirigere la cosa pubblica, ad essere classe dirigente. hanno
continuato a comportarsi come sciacalli, come iene: a dilaniare e divorare i beni pubblici così
come avevano fatto coi beni dei loro antichi padroni. Insomma: la classe borghesemafiosa, di
cui è campione Calogero Sedara non sa costruire: sa soltanto divorare.

Da ciò deriva che all'interno di tale classe c'è un continuo conflitto, un continuo processo di
sostituzione. Fondandosi sulla violenza e sulla frode, il potere di un gruppo mafioso è facil-
mente vulnerabile nel momento in cui sta per assestarsi, per votarsi all'ordine costituito: basta
una nuova ondata di violenza, di frode. I delitti della mafia sono perciò, di solito, « interni »:
conflitti tra una nuova generazione e la vecchia, tra gruppi che sono già arrivati al potere, alla
ricchezza, al decoro, e gruppi che vogliono arrivare. L'arrivo, dunque, spesso coincide con
l'annientamento (anche fisico), con la fine.

La più completa ed essenziale definizione che si può dare della mafia crediamo sia questa: la
mafia è una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati,
che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la
proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato. Nata indub-
biamente nel feudo, nella campagna, come mediazione tra il padrone e il contadino, cioè
svolgendo funzione poliziesca e vessatoria sul contadino per conto del padrone, e al tempo
stesso derubando il padrone, abbiamo visto come già nel 1838 il fenomeno fosse diventato
cittadino: di città come Palermo, come Trapani.

Per avere un'idea di che cosa fosse in origine la mafia, basta pensare alle considerazioni che il
Manzoni, nei Promessi sposi svolge sul fenomeno della « braveria ». Sgherri del tipo dei bravi,
al servizio degli interessi e dei capricci dei nobili, in Sicilia furono i prototipi dei mafiosi. In
Lombardia, caduto il dominio spagnolo e subentrato quello austriaco, attraverso riforme sociali
e trasformazioni economiche, e soprattutto grazie alla correttezza dei funzionari statali e quindi

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di tutto l'apparato amministrativo dello Stato, la « braveria » fu naturalmente eliminata dal
corpo sociale.

In Sicilia, perdurando le condizioni del dominio spagnolo anche quando gli spagnoli non ci
furono più, resistendo le strutture sociali della feudalità (e, per di più, di una feudalità piena di
puntigli, avida di privilegi, rissosa, anarchica), quella che in origine era « braveria » diventò nel
tempo quella che oggi conosciamo come mafia. Tramontato il « mero e misto impero » dei
signori feudali, l'amministrazione statale che veniva a sostituirlo si rivelava debole, inefficiente,
corruttibile - fatta com'era di funzionari incapaci e mal pagati, che dovevano il loro impiego a
qualcuno (cui restavano, come dice l'Ulloa, « prostrati ») o che l'avevano addirittura acquistato
e perciò si ritenevano, ed erano, autorizzati a rivalersi sulla parte più debole, meno temibile,
dei loro amministrati.

Uno Stato quale che sia, quali che siano i principi o la classe che effettualmente rappresenta,
sempre funziona (o non funziona) attraverso i suoi funzionari. In Sicilia un funzionario che si
mostrasse sagace e onesto, resistente alla corruzione o alla pressione dei potenti, veniva o
isolato o espulso come corpo estraneo. Il « trasferimento » è stata, e forse è ancora, l'arnia del
potere mafioso contro il funzionario che non stava al gioco.

Una storia della mafia altro non sarebbe, dunque, che una storia della complicità dello Stato,
dai Borboni ai Savoia alla Repubblica, nella formazione e affermazione di una classe di potere
improduttiva, parassitaria. Questa classe, che già nella prima metà dell'Ottocento l'Ulloa
definisce e denuncia, nella seconda metà del secolo trova terreno di più rigoglioso sviluppo
nell'unità d'Italia e nel sistema democratico.

(Leonardo Sciascia - Fonte: Storia Illustrata – anno XVI – n. 173 – aprile 1972 – A. Mondadori
Editore)

Nota                                                                                        bene
La pubblicazione di questo articolo di Leonardo Sciascia vuole essere un omaggio a questo
straordinario scrittore. Insieme, si è cercato di riproporre all'attenzione dei lettori di oggi, o
almeno di quelli che frequentano questo sito, un articolo pubblicato nel 1972 su una rivista,
Storia Illustrata, che ormai, purtroppo, non si fa più. Il reportage di Sciascia si distingue per
esattezza e lucidità, oltre che, ma è quasi superfluo dirlo, per una scrittura diretta e
coinvolgente.

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