SINDROME DI AICARDI-GOUTIÈRES: IMMUNOFENOTIPIZZAZIONE IN RELAZIONE ALL'INTERFERONE ALFA

Pagina creata da Rebecca Ferrari
 
CONTINUA A LEGGERE
SINDROME DI AICARDI-GOUTIÈRES:
                      IMMUNOFENOTIPIZZAZIONE
        IN RELAZIONE ALL’INTERFERONE ALFA

Taco W. Kuijpers
Amsterdam - The Netherlands

Introduzione
          Desidero ringraziare il dottor Barth che ha fatto nascere in me la passione per questa patologia. Mi
sento ancora molto ignorante, perché mi occupo della Sindrome di Aicardi-Goutières da solo sei mesi. I
risultati ottenuti hanno suscitato in me molta curiosità e desidero illustrarvi brevemente ciò che abbiamo fatto
fino ad ora.
          In molti articoli precedenti si è già parlato della definizione della Sindrome di Aicardi-Goutières e
dei criteri diagnostici che la riguardano. In veste di immunologo, mi ha interessato soprattutto l’aspetto
legato alla linfocitosi cronica del liquido cerebrospinale; in particolare, ho cercato di chiedermi che cosa
potrebbe rappresentare questo fenomeno. Sapevo che si trattava di uno stato non infettivo per natura –
almeno in base alle informazioni disponibili all’epoca – e che si presentava con un innalzamento misurabile
del livello di interferone alfa sia nel siero che nel liquido cerebrospinale, soprattutto nella fase iniziale della
malattia. Che cosa poteva significare tutto questo e c’era forse una relazione tra l’innalzamento
dell’interferone alfa e la linfocitosi o le manifestazioni cliniche della malattia?
          Per prima cosa, bisogna chiedersi qual è il ruolo svolto dall’interferone alfa in termini di immunità.
Per rispondere a questa domanda, desidero presentarvi alcuni concetti e dati di base sugli interferoni; parlerò
poi brevemente del sistema immunitario e degli elementi che interagiscono nel nostro sistema di difesa.
          Sapete già che esistono due tipi di interferoni, quelli di tipo 1 e quelli di tipo 2. Naturalmente, faccio
riferimento soprattutto al ruolo dell’interferone alfa nell’immunità umana. Come già detto, il gene
dell’interferone alfa e il gene dell’interferone beta sono localizzati sul braccio corto del cromosoma umano 9,
in particolare su 9p21. Si è già accennato alla regolazione della trascrizione dei geni dell’interferone alfa.
Gran parte dei virus a RNA a doppia elica e dei virus a DNA possono indurre la produzione di interferone
alfa e beta in qualunque cellula essi colpiscano. Questo non significa che l’interferone alfa sia un interferone
leucocitario tipico, ma che, probabilmente, può essere prodotto da gran parte delle cellule tissutali infettate
da virus o sottoposte a stress.
          L’induzione degli interferoni di tipo 1 avviene molto rapidamente. Nel giro di poche ore si raggiunge
una produzione massima od ottimale dell’interferone alfa, la cui induzione ha carattere transitorio. È
importante sottolineare che la sua induzione non richiede necessariamente la sintesi proteica, perché tutti i
fattori di trascrizione necessari per la sintesi dell’interferone alfa sono già disponibili ed esistono già nel
citoplasma o nei nuclei. La trascrizione dei geni dell’interferone alfa e beta viene regolata dal legame di un
complesso di fattori di trascrizione e di transattivazione che si legano e modulano la regione promotrice del
gene dell’interferone. La composizione del complesso di avvio del legame per la trascrizione del gene
determina in grande misura l’efficienza e la qualità del processo.
          Per esempio, l’elemento di risposta virale (VRE) umano per il gene dell’interferone alfa presenta
alcuni siti di localizzazione per i fattori di regolazione dell’interferone (IRF) che sono certamente domini
positivi di regolazione (fig. 1A). Stiamo solo cominciando a capire quali fattori siano coinvolti in modo
predominante nella trascrizione dell’interferone alfa o beta ed è importante migliorare le nostre conoscenze
di questo aspetto per riuscire a capire se un’eventuale sregolazione della produzione di interferone alfa sia
responsabile della Sindrome di Aicardi-Goutières.
Gradualmente, anche per l’interferone beta si stanno scoprendo gli stessi meccanismi di trascrizione
intricati e complessi (Fig. 1B). Si può prevedere che, per analogia con l’interferone beta, nel prossimo futuro
verranno scoperti ulteriori fattori di trascrizione per il gene dell’interferone alfa, meccanismi che possono
svolgere un ruolo in questa malattia.
         È ormai chiaro che gli interferoni di tipo 1 svolgono funzioni antivirali; si sa inoltre che esistono vari
fattori indotti dall’interferone alfa che riescono a proteggere un sistema cellulare o un tessuto dalla
replicazione e dalla diffusione virale, come è stato già detto prima da De Andrea.
          Le isoforme dell’interferone alfa, di cui se ne conoscono almeno 20, e l’unica isoforma
dell’interferone beta segnalano attraverso un complesso recettoriale analogo; questo complesso è formato
dalle sottounità R1 e R2. Una di esse è la sottounità del recettore di legame e l’altra è necessaria per
trasmettere i segnali nella cellula. Entrambe sono legate alle protein tirosina chinasi (PTK), sono entrambe
omologhe e appartengono quindi alla famiglia Janus PTK.
         Dopo avere provocato la dimerizzazione delle due sottounità, inducono la fosforilazione del
cosiddetto trasduttore di segnale e attivano le proteine di trascrizione STAT. In quale modo questo processo
agisce sull’immunità ?
         Se prendiamo in considerazione i linfociti, il legame dell’interferone alfa con il suo recettore
determina la segnalazione e l’attivazione cellulare.
         Nel caso dei linfociti T, possiamo distinguere varie sottopopolazioni di linfociti T con funzioni
diverse e specifiche all’interno del sistema immunitario. Le funzioni pro-infiammatorie e di aiuto vengono
attribuite ad gruppi specializzati di cellule T CD4+ che intervengono nelle reazioni infiammatorie (come
dimostrato, per esempio, da un test Mantoux positivo dopo un contatto con antigeni micobatterici) o nella
generazione degli anticorpi da parte delle cellule B (per esempio, dopo una vaccinazione o un’infezione).
Questi tipi di cellule specializzate producono un insieme di citochine coinvolte nell’attività funzionale delle
cellule che vengono riconosciute da tali linfociti; in questo caso, si parla rispettivamente di cellule
infiammatorie T helper 1 o di cellule T helper 2 di tipo Absteering o legato ad allergia. In realtà, le cellule T
CD4+ possono essere suddivise ulteriormente in sottogruppi rappresentati da cellule T non polarizzate,
cellule T regolatorie e cellule T follicolari coinvolte nel vero centro germinativo delle cellule B, ma si tratta
di tipi cellulari che esulano dall’oggetto di questa relazione. Infine, la funzione effettrice citotossica nei
confronti delle cellule infettate da virus è attribuita in gran parte, anche se non esclusivamente, alla frazione
cellulare T CD8+.
         Tuttavia, questi programmi funzionali dei linfociti T non sono ancora presenti in ogni linfocita T, ma
dovrebbero essere indotti prima di subire un imprinting irreversibile ad opera delle prime fasi
dell’attivazione dei linfociti T. Il programma e la firma citochinica che una cellula assumerà in via definitiva
dipendono fortemente dallo stimolo antigenico in quanto tale, dalla quantità di antigene, dal modo in cui
l’antigene si presente e dall’ambiente in cui avviene questo primo incontro con lo stimolo antigenico. In
questo processo evolutivo dei linfociti T, l’interferone alfa attiverà e devierà linfociti T CD4+ naïve,
trasformandoli nelle cosiddette cellule T-helper 1-simili, che sono in grado di produrre e di rilasciare
citochine provocando un’infiammazione locale o, se presenti in abbondanza, un’infiammazione sistemica. In
genere, per effetto della loro attività, questo tipo di cellule CD4+ T-helper 1 è responsabile della clearance
dei patogeni intracellulari e delle reazioni infiammatorie di ipersensibilità (per esempio, attraverso il test
cutaneo di Mantoux già citato). Tuttavia, per esempio nel caso in cui riconoscano un autoantigene, sono
anche causa del danneggiamento del tessuto neurale nei casi di sclerosi multipla. Vi sono poi altre patologie
autoimmuni a base d’organo provocate dall’azione dei cosiddetti linfociti CD4+ T-helper 1.
         C’è un aspetto importante da tenere presente: l’effetto dell’interferone alfa sul sistema umano è
chiaramente diverso da quello osservato nel sistema murino; ciò è molto importante nel momento in cui si
sviluppa un sistema di test murino per la Sindrome di Aicardi-Goutières, come è stato fatto per il modello
transgenico dell’interferone alfa con espressione specifica limitata al sistema nervoso centrale. Per quanto
riguarda la reattività dell’interferone alfa, il topo è però molto diverso dall’uomo, come è stato dimostrato in
modo eloquente per le cellule immunitarie.
         Il recettore dell’interferone alfa è composto da due sottounità. Queste si legano a particolari tirosina
chinasi (JAK1 e Tyk2). Quando il ligando si lega al recettore, queste sottounità permettono alle tirosina
chinasi citoplasmatiche di attivarsi a vicenda e di attivare vari residui tirosinici di una delle code
citoplasmatiche della sottounità R1 del recettore dell’interferone alfa. Questo cambiamento improvviso delle
code citoplasmatiche crea un sito di localizzazione per la proteina citoplasmatica denominata Signal-
Transduction-and-Activator-of-Transcription (STAT) o, più precisamente, per la proteina STAT2. Esistono
sette proteine STAT, ma questa è in particolare quella che si lega facilmente al recettore dell’interferone alfa,
insediandosi in uno (Y466) dei vari residui fosforilati di tirosina della sottounità R1. Dopo la fase di
localizzazione, la proteina STAT2 subisce la fosforilazione anche per azione della chinasi JAK1. Si ottiene
così una configurazione alterata nella quale la STAT2 può interagire con un’altra proteina citoplasmatica, la
STAT4. Le proteine STAT4 e STAT2 possono legarsi soltanto nell’uomo; infatti, questo fenomeno non
esiste nel sistema murino e di questo si deve tenere conto negli studi sull’interferone alfa nel topo, in quanto
per l’uomo si ha un esito del tutto diverso. Una volta che è avvenuto il legame tra STAT4 e STAT2, il
dimero STAT fosforilato, che è un eterodimero, può spostarsi nel nucleo in cui agisce ai fini dell’attivazione
della trascrizione e in cui, nel caso dei linfociti, induce una risposta delle citochine denominata ‘risposta
delle citochine T-helper 1’ di cui parlerò ancora più avanti (Fig. 2B).

        Fino ad ora abbiamo discusso soltanto degli eterodimeri STAT2 e STAT4, ma c’è altro da
aggiungere. La STAT2 può anche legarsi ed essere riconosciuta secondariamente dalla proteina STAT1. In
questo caso, si forma un eterodimero diverso che comporta un’ulteriore attivazione trascrizionale e provoca
la sovraregolazione di altri geni. Un’altra proteina STAT può insediarsi in un sito diverso della sottounità R1
del recettore, provocando la dimerizzazione di STAT3 verso STAT2 o verso se stessa, con la conseguente
formazione di omodimeri che, specialmente nelle cellule dei tessuti, inducono una grande varietà di attività
regolatorie e trascrizionali sui geni.
Il processo di segnalazione del recettore dell’interferone alfa è complicato, ma volevo solo
sottolineare ancora una volta che, a questo riguardo, uomo e topo non sono identici. Ciò è fondamentale nel
momento in cui si considera un modello sperimentale animale per l’interpretazione della sindrome di nostro
interesse o per la valutazione dell’efficacia di eventuali farmaci per curarla. Ho detto che il complesso
recettoriale dell’interferone alfa induce la trascrizione attraverso i complessi STAT e che, nei linfociti umani,
si ottiene un complesso diverso che determina effetti diversi che, ad oggi, non abbiamo ancora riconosciuto e
valutato con esattezza.
         Parlando dell’immunità e degli interferoni di tipo 1 (alfa o beta), possiamo concludere che
l’interferone alfa è utile per il trattamento dell’epatite. Anche se non sempre è efficace in monoterapia,
cerchiamo comunque di capire come funziona e se il suo utilizzo provoca effetti collaterali conosciuti.
L’utilizzo in vivo dell’interferone alfa comporta l’attivazione del cosiddetto sistema immunitario innato. Il
sistema immunitario innato è un sistema di difesa primitivo che non dipende dalle regole rigorose del
riconoscimento specifico di antigeni e dall’induzione di un programma di differenziazione da cellula naïve a
cellula effettrice come avviene per i linfociti T. Tuttavia, l’immunità innata contribuisce, per esempio, ad
individuare e ad eliminare le cellule infettate da virus e danneggiate o le cellule maligne, nel caso in cui vi
siano pochi antigeni HLA e venga esposta correttamente. Queste risposte del sistema immunitario innato
sono dovute essenzialmente all’attività delle cellule natural killer (NK). Vi sono vari fattori che possono
attivare queste cellule NK a produrre citochine che provocano un’infiammazione o almeno un ambiente che
rende vulnerabili le cellule infettate da virus o danneggiate nei confronti di ulteriori attacchi immunitari e di
una eliminazione definitiva.
         Si possono usare vari markers di superficie sulla cellula per rilevare se, nel sangue (o nei tessuti), sia
presente il numero giusto di cellule NK e anche per isolare o arricchire queste cellule NK e verificarne la
funzione. Questi marker sono chiamati antigeni CD16 e CD56. Naturalmente, la superficie delle cellule NK
contiene una miriade di proteine diverse. Quando queste cellule hanno trovato la giusta cellula bersaglio
attraverso molecole di superficie che agiscono come recettori o come molecole di adesione per il contatto
intercellulare, possono riuscire a provocare l’uccisione di una cellula infettata da virus o danneggiata, oppure
di una cellula maligna o difettosa. Le cellule NK subiscono una regolazione positiva ad opera di queste
molecole di superficie, per esempio ad opera della CD16, ma subiscono anche una regolazione negativa. Il
meccanismo di controllo vero e proprio non è ancora del tutto chiaro, ma è certo che si tratta di una
condizione sine qua non perché, in caso di regolazione insufficiente, nell’ospite potrebbe verificarsi
un’inutile distruzione di tessuto o una malattia autoimmune. Le cellule NK possono secernere moltissime
proteasi, creando un ambiente proteolitico. Queste, insieme alle citochine – per esempio, il fattore di necrosi
tumorale (TNF) e l’interferone gamma (IFN-γ) – o insieme a molecole di superficie che inducono la morte –
per esempio il ligando Fas (CD95L) – riusciranno infine ad uccidere le cellule danneggiate.
         Come già ricordato, l’interferone alfa attiva anche il sistema immunitario adattativo che riconosce
soltanto i determinanti di antigeni specifici (nel contesto del sistema HLA). Abbiamo visto che questa cellula
T CD4+ può essere indotta nell’uomo dall’uso dell’interferone alfa o beta, attraverso l’azione degli
eterodimeri STAT2-4 e STAT2-1.
         In genere, i linfociti naïve provengono dal timo, dove queste cellule si sviluppano attraversando le
fasi complesse di una rigida selezione positiva-negativa. Questo processo di selezione interviene per evitare
che so sviluppino i linfociti T autoreattivi, con il conseguente rischio di autoimmunità. Analogamente,
vengono generati linfociti T selezionati positivamente di tipo CD4+ helper o CD8+ citotossico, permettendo
all’ospite di reagire ad un’ampia gamma di diversi determinanti antigenici. Quando nasciamo, le nostre
cellule sono (quasi) tutte naïve e, nel corso della vita, incontriamo antigeni di tutti i tipi. Dopo un primo
incontro e la crescita, il sistema immunitario crea un sistema di reattività sensibilizzata, noto con il nome di
memoria immunologica. Quando l’ospite contrae lo stesso virus o un virus simile, il sistema immunitario
scatena una risposta più rapida e vigorosa e può riuscire ad uccidere o a sopprimere il virus invasore prima
che questo provochi la malattia. Per esempio, in genere contraiamo una sola volta la varicella o il virus di
Epstein-Barr, perché un sistema immunitario e una memoria immunologica che funzionano bene agiscono
attaccando le cellule infettate da quel virus per la seconda volta, impedendo al virus di scatenare nuovamente
la malattia.
         Le cellule T-helper 1 creano un ambiente proinfiammatorio in cui la risposta citochinica è dominata
da TNF, interleuchina 12, interferone gamma (come interferone di tipo 2), con un processo di eliminazione
mediante infiammazione. L’infiammazione può essere utile, ma può anche provocare una malattia, in quanto
può manifestarsi in certe patologie autoimmuni.
         Non va poi dimenticato che l’interferone alfa ha anche determinati effetti sull’attivazione e il
potenziale di eliminazione dei linfociti T citotossici CD8+ antigene-specifici. Nei confronti delle cellule
infettate da virus, questi linfociti utilizzano processi analoghi a quelli delle cellule NK non specifiche
nell’ambito del riconoscimento ad alta avidità, da parte di cellule selezionate in modo specifico, del ramo
adattativo del sistema immunitario. Siamo ormai certi dell’effetto attivatore dell’interferone alfa sulle
funzioni effettrici dei linfociti T citotossici, mentre non è ancora chiaro se l’interferone alfa influisca sulla
loro differenziazione rispetto alle cellule T CD8+ naïve, come avviene invece nel caso del passaggio da
cellule CD4+ naïve a cellule T helper-1 CD4+ infiammatorie.
         I linfociti T riconoscono inoltre un piccolo frammento peptidico dell’antigene mediante il loro
recettore. Sia le CD4 che le CD8 fungono da corecettori per il riconoscimento del complesso HLA
(conosciuto anche con il nome di molecole del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC)) in cui
questo peptide antigenico viene presentato nel solco della molecola HLA rispettivamente di classe II o di
classe I. Le molecole HLA di classe I sono presenti praticamente su tutte le cellule dotate di un nucleo; le
molecole di classe II hanno una forte espressione sulle cellule presentanti antigene come, per esempio, le
cellule dendritiche. Queste sono presenti in basso numero in tutti i tessuti e campionano continuamente
l’ambiente trasportando questi campioni di antigene verso il tessuto linfoide circostante (linfonodi, tessuto
linfoide mucosale o milza) che viene sottoposto ad una specie di ‘scansione’ da parte delle cellule immuni. È
il caso dei fagociti che si trovano nei tessuti e che fagocitano le cellule danneggiate o i patogeni invasori e
delle cellule B attivate presenti nel tessuto linfoide stesso. Al momento dell’attivazione da parte delle
citochine proinfiammatorie – rappresentate soprattutto da interferone gamma – le cellule dei tessuti possono
anche essere indotte ad esprimere molecole HLA di classe II per attivare cellule T CD4+ sensibilizzate da
un’infezione virale o in altro modo.
         Quando le cellule immuni sono state stimolate per indurre la proliferazione e l’eventuale
differenziazione in una cellula con determinate funzioni effettrici, queste cellule effettrici possono usare gli
antigeni di superficie (per esempio i CD95L), le citochine o la perforina e le proteasi per esercitare
direttamente un’attività di lisi sulle cellule tissutali che presentano l’antigene, come nel caso delle cellule
infettate da virus. Quindi l’attivazione e la crescita di linfociti T naïve specifici per l’antigene negli organi
linfoidi secondari determinerà la generazione dei segnali corretti affinché una cellula immune venga
autorizzata ad uccidere in modo selettivo, cioè dopo essere migrata nei tessuti in cui è anche presente e
riconosciuto l’antigene. Sia il CD95L che il TNF possono indurre un segnale pro-apoptotico nelle cellule dei
tessuti, provocandone l’eliminazione. Dopo essere stata secreta dalle cellule citotossiche, la perforina liberata
dai granuli secretori formatisi dopo la differenziazione di una cellula immune naïve in una cellula T effettrice
competente forma piccoli pori nel momento in cui riconosce specificamente e si lega ad una cellula
bersaglio. Questi pori creano uno squilibrio osmotico e permettono inoltre alle proteasi di entrare nella
cellula bersaglio per la frammentazione delle proteine intracellulari, evento che conduce inevitabilmente alla
morte cellulare.
         Questi sono gli effetti di un utilizzo a lungo termine dell’interferone alfa nell’uomo. Gli effetti
collaterali comprendono soprattutto febbre, mialgia e, raramente, reazioni anafilattiche o neurite.
Quest’ultima è stata osservata, anche se non tutti gli autori sono concordi, soltanto in soggetti giovanissimi.
         Ci siamo dunque chiesti quale fosse il ruolo eventuale dell’interferone alfa nella Sindrome di
Aicardi-Goutières e come si potessero inibire gli interferoni di tipo 1. Erano queste le domande su cui
abbiamo imperniato uno studio pilota per osservare gli effetti dell’uso di infusioni mensili di
metilprednisolone (MP) come antinfiammatorio ad ampio spettro per bloccare la sintesi dell’interferone alfa,
tra molte altre citochine. È stato scelto l’MP perché si tratta di un farmaco che esplica una potente attività
antinfiammatoria e che è già ampiamente usato in molte affezioni autoinfiammatorie. Abbiamo trattato 3
pazienti; all’inizio delle infusioni di MP, soltanto uno di essi ha presentato un innalzamento del livello di
interferone alfa misurato nel siero e nel liquido cerebrospinale dal professor Lebon.
         Abbiamo misurato il numero totale di linfociti T, di cellule T helper CD4+, di cellule T CD8+
citotossiche, di cellule B, di cellule NK e l’evoluzione del livello dell’interferone alfa durante il periodo di
trattamento con infusioni di MP (Fig. 3). Si è osservata una riduzione molto rapida e sostenuta
dell’interferone alfa. Contemporaneamente, il numero dei linfociti nel circolo periferico è rimasto
praticamente invariato e la funzione cellulare non ha subito alterazioni drastiche nei test di proliferazione.
Questi effetti dell’MP sono stati valutati a livello di conta dei linfociti nel liquido cerebrospinale di questo
paziente particolare affetto da Sindrome di Aicardi-Goutières. Anche in questo caso, si è osservata una
caduta rapida della concentrazione di interferone alfa, senza grosse variazioni e sicuramente senza una
riduzione del numero di cellule.

                    Fig. 3: Trattamento steroideo in AGS: livelli sanguigni di linfociti e dell’INT

         In base alla nostra interpretazione di questi dati, abbiamo potuto osservare che la conta dei linfociti
nel sangue e nel liquido cerebrospinale è rimasta invariata, mentre i livelli di interferone alfa sono scesi
drasticamente in seguito alle infusioni di MP. Semplicemente, una riduzione dell’interferone non induce
cambiamenti immediati nella conta delle cellule.
         Abbiamo eseguito uno studio più preciso di immunofenotipizzazione dei linfociti, confrontando i
linfociti del sangue e del liquido cerebrospinale su prelievi mensili da vena e lombari, cominciando
immediatamente prima della prima infusione di MP. Come indicato dal cambiamento del rapporto
CD4/CD8, sembra esserci una crescita selettiva o un reclutamento dei linfociti nel liquido cerebrospinale.
Che cosa significa tutto questo? Significa che abbiamo osservato che la maggior parte delle cellule presenti
nel liquido cerebrospinale erano linfociti T. E gran parte di questi linfociti T erano cellule T CD8+
citotossiche che provocavano un rovesciamento del rapporto nel liquido cerebrospinale in tutti i tre pazienti
         Naturalmente, le cose vanno diversamente nella sclerosi multipla. La stessa analisi dei linfociti
spinali in pazienti adulti affetti da sclerosi multipla mostra un aumento selettivo delle cellule T CD4+.
Chiaramente, la Sindrome di Aicardi-Goutières porta al reclutamento di qualche altro tipo di cellule.
Sommando rapidamente le cellule T CD4+ e CD8+, si capisce chiaramente che è presente un’altra cellula T.
C’è quindi una cellula T CD3+ che non esprime CD4 o CD8; si tratta di una popolazione di linfociti T che è
chiaramente presente in questi pazienti. Che cosa rappresentano queste cellule? Probabilmente, non si tratta
di cellule CD4 o CD8 normali, per cui è fondamentale riuscire a caratterizzarle e a capire se esse siano
importanti in questa malattia.
         A seconda del tipo di recettore dei linfociti T, queste cellule molto probabilmente riconoscono
antigeni diversi rispetto a quelli riconosciuti da cellule T CD4+ o CD8+ normali. Esse contribuiscono
all’immunità innata, specialmente nei confronti di infezioni micobatteriche, lieviti e patogeni densamente
capsulati. Come suggerito in talune condizioni autoimmuni, queste cellule T a doppia negatività potrebbero
essere cellule T citotossiche CD8+ esaurite. L’ipotesi è che in precedenza fossero cellule CD8+ e che
abbiano semplicemente negato la loro continua attivazione, risolvendo le loro caratteristiche infiammatorie
attraverso una sottoregolazione delle CD8 per sfuggire alla morte o alla delezione. Inoltre, di recente su
queste cellule, in condizioni normali e specialmente nelle malattie autoimmuni, è stata identificata una
cellula denominata NK / T regolatoria, descritta in numerosi studi.
         Naturalmente abbiamo proceduto a misurare gli antigeni fondamentali per distinguere questi
sottoinsiemi di cellule, anche se il numero di linfociti T ottenuti con un unico prelievo spinale è stato
sufficiente ad effettuare soltanto una o due procedure di colorazione. In termini funzionali, è molto più
importante il fatto che, da questi prelievi di liquido cerebrospinale, siamo riusciti a generare linee cellulari.
Ora che abbiamo a disposizione moltissime cellule per i nostri studi funzionali, possiamo affrontare le
domande che riguardano l’eziologia e la patogenesi.
         Queste cellule producono interferone alfa o sono sensibili ad esso? Sono attive funzionalmente o
sono citotossiche? A quale antigene reagiscono? Reagiscono ai glicolipidi presentati, per esempio, dagli
astrociti o dalle cellule della microglia? Queste sono domande che adesso possiamo porci e a cui,
probabilmente, potremo dare una risposta entro qualche mese o un anno al massimo.
         Abbiamo visto quindi che la terapia steroidea ha determinato una caduta dell’interferone alfa, ma
certamente non un cambiamento in queste due sottopopolazioni. Inoltre, avendo ora a disposizione le linee
cellulari, possiamo capire se esse sono sensibili all’interferone alfa oppure no.
         I nostri programmi futuri sono questi: è in corso la clonazione dei linfociti T, per cui possiamo
procedere a studi di immunofenotipizzazione più estesi e ad un’adeguata caratterizzazione funzionale di
queste cellule. Fatto questo, potremo tornare sul materiale autoptico o sulle biopsie cerebrali per vedere se è
possibile trovare queste cellule, soprattutto intorno alle aree in cui si manifesta, per esempio, la
calcificazione. Si tratta di percorsi di ricerca importantissimi, poiché conosciamo così poco sui dettagli di
questa patologia.
         Spero di essere riuscito a spiegare almeno in parte ciò che abbiamo fatto in questi ultimi mesi.
Puoi anche leggere