Serpi e Gigli Michetti e Sargent, un Realismo Decorativo? - UNITRE Torino

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Serpi e Gigli Michetti e Sargent, un Realismo Decorativo? - UNITRE Torino
Serpi e Gigli
                                       Michetti e Sargent, un Realismo Decorativo?

Riflettendo sulle richieste emerse nel corso dell’ultimo viaggio negli Abruzzi, ed in particolare sul
desiderio espresso da molti di comprendere meglio il percorso artistico di Francesco Paolo Michetti,
ed in qualche modo per onorare (con la settimana che si chiude saremmo dovuti partire a pieno
regime con le consuete lezioni accademiche) una recente tradizione che mi vede cercare di
mantenere un filo d’unione tra me e Voi, mi sono ritrovato a confrontare nella mente la tavolozza di
Michetti con la sensibilità istrionica di uno dei più grandi protagonisti della pittura anglosassone a
cavallo tra lo scorcio del XIX secolo e il primo quarto del Novecento e, curiosamente (non ne ero a
conoscenza): non solo vi sono similitudini accanto a scarti marcati, ma ho rintracciato un legame
interessante, tale da consentire una sorta di confronto tra il Nostro italiano e John Singer Sargent.

                                                   Le Serpi 1900 F. P. Michetti, Francavilla al Mare

A Francavilla, a due passi dal Conventino che sarà a lungo la propria dimora, nel museo a lui
dedicato, sono conservate due tra le tele più conosciute di Michetti: Le Serpi e Gli Storpi, entrambe
del 1900. Presentate all’Esposizione Universale di Parigi, non incontrarono il favore del pubblico
come gli era accaduto in passato, rimanendo tra l’altro invendute. Tralasciando il secondo dipinto,
la grande tela appena mostrata mette in scena la annuale festa di San Domenico a Cocullo: tutt’oggi
viva, la processione si caratterizza per il portare la statua del santo lungo le vie accompagnata da
serpenti; la vulgata vuole infatti che il patrono sia, secondo l’usanza medievale, taumaturgo nei
confronti del morso dei rettili. Il culto rivolto a San Domenico Serpaio è al centro di una delle
Novelle della Pescara di d’Annunzio che, nella La Vergine Anna, così ne parla:
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Stuoli di pellegrini volgevano per altre vie, cantando: e i loro canti rimanevano a lungo nell’aria,
monotoni e lenti. Anna li ascoltava; e un desiderio senza fine la traeva a raggiungerli, a vivere così
pellegrinando di santuario in santuario… – Vanno a Cucullo – le disse Fra Mansueto, accennando
col braccio a un paese lontano. E ambedue si misero a parlare di San Domenico che protegge dal
morso dei serpenti gli uomini, e le semenze dai bruchi

Nelle Novelle (1884-1886) Gabriele omaggia la terra d’origine: c’è qualcosa di etnografico in
questa spasmodica ricerca di descrivere l’anima abruzzese; nel contempo però, ci mostra, attraverso
la lente di poveri contadini come di piccoli proprietari, pescatori o emarginati, una carrellata di
nefande bassezze, di inconfessabili pulsioni sessuali, di una follia morbosa: “sotto l’odore
dell’incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica… scintille erotiche scoccavano per
attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si congiungevano”.

Cosa unisce allora la monumentale realizzazione michettiana e la serie di racconti dannunziani? Si
potrebbe forse sottolineare che nel momento esatto in cui il Vate si dedica alla stesura delle novelle,
è ospite di Francesco Paolo, il quale ha appena acquistato l’ex convento di Francavilla, siamo cioè
all’inizio di un sodalizio artistico e di un amicizia che durerà una vita intera; d’altro canto,
considerando anche la più tarda datazione del quadro, non è tanto vitale stabilire un nesso tra questi
due episodi, quanto piuttosto ampliare il discorso ad una sensibilità comune, all’etnografico di cui
accennavo. Seguendo poi, il filone della comune critica, ci troveremmo per tanto di fronte alla
consueta lettura di due uomini che, sulla scia di precedenti esperienze europee, e penso in primis
alla Francia, si trovano entrambi a cimentarsi, meglio ancora ad abbracciare, il Realismo. Ma,
guardando con maggiore attenzione, sia l’ardore di Anna, che l’affresco di Cucullo, si ammantano
di qualcos’altro, di un decorativismo ridondante che è molto lontano dalla volontà descrittiva nel
senso più alto che ne era stato dato da pittori quali Courbet, o insito nelle righe di un Emile Zola.

                                                        Capri Girl on a Rooftop 1878, J. S. Sargent
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Sospendiamo per un secondo il giudizio relativo a Michetti e D’Annunzio, complicando la visuale
con un conosciutissimo lavoro giovanile di Sargent. Che cosa vediamo nel quadro dell’americano?
Due fanciulle su un tetto (probabilmente il terrazzo dell’hotel dove era ospite il pittore), che si
lasciano andare alla piacevolezza del ballo, in particolare la ragazza sulla destra. E se volessimo
stabilire un contatto visivo tra la prima opera mostrata e questa? Eh bè, salta immediatamente agli
occhi che nella processione di San Domenico va in scena una tecnica maggiormente tradizionale
(rimando oltre una più puntuale visione dei dettagli), forte cioè di un contornare le figure che è
legata ancora al credo accademico; nella danza al tramonto si evince invece la chiara influenza degli
Impressionisti, vale a dire un dar corpo alle figure e agli oggetti con una semplice pennellata.
L’immediatezza delle sensazioni ricevute non riesce però a risolvere una complessità ben più acuta:
se da un lato infatti l’abruzzese sposerà spesso gli ideali luministici dei cugini francesi, per contro
l’artista statunitense è ben lungi dal compiuto ideale del en plein air perché, come sappiamo, i suoi
lavori nascevano da uno studio accuratissimo, ed erano realizzati per lo più in studio.

La ragione profonda di un tale prossima alterità segue appunto due vie che riassumono l’antitesi
appena enunciata. In primo luogo dobbiamo tornare indietro, riavvolgere cioè la nostra pellicola, e
riandare agli esordi di Sargent e Michetti. In seconda battuta la diversità che li allontana è da
ricercarsi nel soggetto più che nella tecnica: per questo aspetto vi sono sicuramente delle radici
diciamo così… regionali, ovvero il primo è uomo cosmopolita, mentre il secondo risente del milieu
di un’Italia attardata in confronto al panorama europeo; ciò nonostante è insita una differente
capacità di approcciarsi al vero che non si spiega unicamente con quello che li circonda, ma è cifra
stilistica di due differenti modi di essere, accresciuti forse, della parabola biografica di entrambi.

                            Il Voto, 1883, F. P. Michetti Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
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Il Voto, esposto alla Mostra di Belle Arti di Roma del 1883 consacra Francesco Paolo, allora poco
più che trentenne, nell’olimpo degli artisti più in voga d’Italia. Non soltanto la tela verrà acquistata
dallo Stato e subito esposta dove si trova ancora oggi ma, allor quando gli verrà offerta la docenza a
Tokio, sarà il sovrano in persona, il medesimo Re Umberto che gli aveva commissionato un proprio
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ritratto insieme a quello della consorte Margherita, a convincerlo di non partire. L’opera mostra la
processione in onore di San Pantaleone a Miglianico in cui i fedeli dovevano raggiungere le reliquie
del santo leccando il pavimento durante il percorso. Il bacile e i candelabri se da un lato rimandano
al virtuosismo di un Bernardo Strozzi, dall’altro ci mostrano colpi di pennello rapidi, non racchiusi
in contorni precisi, andando dunque a fortificare l’influenza impressionista.

                                               Studi veneziani, J. Singer Sargent, circa 1883-1884
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Colui il quale era nato a Firenze, aveva peregrinato con la famiglia per tutta Europa nel corso
dell’infanzia, e che da adulto dirà di sé che non è altro che un americano nato in Italia, istruito in
Francia, che sembra (o: guarda come) un tedesco, parla come un inglese e dipinge come uno
spagnolo, lo stesso che verrà definito il Van Dick della contemporaneità, nei primi anni ’80
dell’800 si era stabilmente insediato a Parigi, senza sottrarsi a continui viaggi in lungo e in largo
attraverso il continente, con particolare riguardo alla Spagna e all’Italia; in sincronia dunque con il
trionfo michettiano de il Voto, Sargent si abbandona a degli schizzi, dei semplici studi come li
definisce lui stesso, che ritraggono la laguna e i canali di Venezia. Questi sì che sono esempi
lampanti di una prossimità con il movimento di Monet e compagni (che tra l’altro conoscerà
personalmente ed a cui sarà legato da sincera amicizia). Eppure, malgrado i soggetti completamenti
diversi, una scena di genere a confronto dei paesaggi, il primo legame è che nello stesso torno
d’anni sia Francesco Paolo che John, beneficiano dell’elettrizzante fervore culturale della capitale
francese. Qui si apre un discorso che da solo meriterebbe una lezione a parte, basti soltanto
sottolineare come Sargent avesse praticato il proprio alunnato presso uno dei pittori più in voga di
Parigi, ossia quel Carolus Duran che era a sua volta legato all’importante circuito di mercanti d’arte
che promossero e l’uno e l’altro. In particolare se prendiamo l’esempio della ditta fondata da
Adolphe Goupil nel 1829 che, prima di una recente mostra era da sempre considerata uno degli
imbarchi prediletti per la commercializzazione della pittura pompier (per intenderci quella più
smaccatamente accademica), divenne in realtà il fulcro attraverso cui, perfettamente al passo con le
nuove tendenze che mano a mano andavano sviluppandosi, diffondere prima gli artisti di Barbizon,
più tardi gli Impressionisti, ed infine le istanze del periodo successivo, per arrivare al Simbolismo.
Nel medesimo istante in cui Sargent dipingeva la celeberrima Madame X, Michetti veniva assoldato
da Goupil; e non da lui solo (vedasi la figura di Reutlinger). Per esser ancora più chiari, pressoché
in contemporanea, allor quando all’americano si aprivano le porte dei più importanti collezionisti
parigini, e mentre questi iniziava ad esporre regolarmente ai Salons, l’abruzzese entrava nel nutrito
novero di artisti italiani stipendiati da mercanti locali: nomi altisonanti come Giovanni Boldini e
Giuseppe De Nittis, Vittorio Corcos e Alberto Pasini, si affiancano a personalità del calibro di un
Domenico Morelli e Antonio Mancini; tutti debbono la loro grande fortuna proprio a l’entourage
culturale di Goupil. Nel nostro immaginario, specialmente nel caso di Boldini e De Nittis, gli
italiani che conquistarono Parigi, lo fecero con una pittura che predilesse gli scorci cittadini, e ancor
più si materializzò in una sistematica resa dei protagonisti di quella stagione: attraverso il ritratto
(come non pensare alle splendide dame boldiniane come di quelle di Corcos), e per mezzo altresì
della raffigurazione della velocità della vita moderna della capitale francese (De Nittis), quegli
uomini che in Patria non avevano trovato sbocchi sufficienti, divennero osannati eroi. E Michetti e
Sargent? Il secondo godrà per poco dei benefici parigini, decidendo poi di abbandonare l’esaltante,
ed avvelenato, circuito artistico in riva alla Senna, a favore della più quieta Inghilterra. L’italiano,
pur avendo ricevuto commissioni di spicco, penso a quella della società Arti et Amicitiae,
(patrocinata addirittura dalla regina reggente d’Olanda, Emma di Waldeck-Pyrmont), di eseguire le
illustrazioni per la pubblicazione della Bible par les plus grands artistes du monde entier, decise di
fare dell’Abruzzo la sua casa definitiva e, nell’accogliere nel Convento di Francavilla personaggi
quali Scarfoglio e Matilde Serao, il giovane Aristide Sartorio (l’ideatore del fregio dell’aula di
Montecitorio), o ancora lo scultore Costantino Barbella e il musicista Francesco Paolo Tosti, andava
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ricreando un salotto di intellettuali; quello che verrà poi detto il cenacolo michettiano, che se da un
lato cercava di riprendere il frizzante clima della capitale francese, sul versante opposto si faceva
regionalistico, ossia soprattutto pensando a Tosti, diveniva la fucina nella quale descrivere,
immortalare il Loro Abruzzo. Ospite fisso per anni, tanto che qui vi scrisse praticamente per intero
Il Piacere, D’Annunzio diverrà l’emblema di una élite volta a eternare le tradizioni locali e, ancora
in tarda età Gabriele parlerà del suo ospite come mei dimidium animi (metà dell’anima mia).

                                    “…Siam tornati insieme alla dolce patria, alla tua ”vasta casa„
             Non gli arazzi medicei pendono alle pareti, nè convengono dame ai nostri decameroni,
                             nè i coppieri e i levrieri di Paolo Veronese girano intorno alle mense…
                             Il nostro desiderio è men superbo: e il nostro vivere è più primitivo…”
                                                                     Il Piacere, dedica. di d’Annunzio

                          La figlia di Jorio, 1894-95, F. P. Michetti, Collezione Cari-Chieti, Chieti
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Il Giudizio Finale e Atlante con le Esperidi, J. S. Sargent, Boston Library

Sempre a proposito di alterità, nel frattempo che Michetti si dedicava all’opera La Figlia di Iorio,
Sargent ormai trasferitosi negli Stati Uniti, riceveva la commissione (a cui avrebbe lavorato fino
alla metà degli anni ’20) per il decoro dell’aula della grande biblioteca pubblica di Boston.
L’italiano pare riscoprire le tinte terrose di Courbet e Millet, senza averne però il raccoglimento
pieno di discrezione, l’altro, sperimentale per sua natura, è passato attraverso i Preraffaelliti (con cui
aveva avuto un rapporto per nulla di empatia durante gli anni inglesi), pare aver strizzato l’occhio al
Simbolismo, ed infine è approdato una maniera assai vicina alle istanze Deco.

                                                        La raccolta delle zucche, F. P. Michetti, 1873
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Rosina Ferrara, J. S. Sargent, circa 1878

Aggiungendo al calderone le ultime due immagini, notiamo come Francesco Paolo non si discosti
mai da un, se pur raffinato, compendio tra la sensibilità del Realismo e la scena di genere
settecentesca: c’è qualcosa di frivolo, quasi di aristocratica superiorità, nel mostrare la scena della
raccolta delle zucche ad una certa distanza, in modo corale, e senza minimamente attardarsi a
studiare in particolare un volto, un’espressione. Nel secondo dipinto veniamo invece trasportati
nell’intimità, avvicinati a quella giovane fanciulla che sarà spesso musa di molteplici artisti nella
sua nativa Capri, facciamo cioè la conoscenza di Rosina Ferrara. Bellezza fuori dai canoni estetici
dell’epoca (per i colori olivastri), dotata di riserbo e al contempo spigliatezza, Rosina, che poi
sposerà un collega ed amico di Sargent e si trasferirà a New York, è la medesima ragazza del tetto
in apertura ed è, se mi permettete, da un lato paradigma delle macroscopiche divergenze stilistiche
tra i due, d’altro canto rappresenta quella prossimità a cui non abbiamo ancora dato voce. Per farlo
dobbiamo recuperare un nome qui sopra, ossia quello di Domenico Morelli.

Nella seconda metà dell’Ottocento si era andata facendo sempre più abituale la frequentazione di
Capri da parte di una ristretta cerchia di turisti, in particolare stranieri ed artisti: gli echi di un
passato recente, di quel Grand Tour che sul finire del XVIII secolo non poteva non toccare Napoli,
gli scavi archeologici, o ancora la Sicilia di Goethe, si erano andati trasformando, secondo le
idealità romantiche, in un soggiorno che alle meraviglie dell’antichità sapesse fondere l’incanto del
paesaggio naturale; a tutto ciò si aggiunga, che proprio intorno agli anni ’50, decollava nel sapere
internazionale la coscienza della Scuola di Posillipo, vale a dire quella cerchia di pittori che con
delicata perizia andavano immortalando le bellezze della costa campana e delle sue isole. Qualche
anno più tardi, all’incirca alla metà del decennio 1870-1880, Domenico Morelli è abituale ospite a
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Capri, ed anzi vi si sistema in pianta stabile in un antico convento, e qui invita amici e conoscenti:
Sargent sarà suo ospite a più riprese, e da questa frequentazione nascerà un’amicizia destinata a
durare nel tempo; anche Michetti venne chiamato a far visita al collega, e sappiamo che se non vi fu
un legame simile a quello con Morelli, l’abruzzese e l’americano si conobbero per certo. Il
riferimento alla colonia di artisti di Posillipo ci apre ad una ulteriore riflessione, o meglio consente
di fissare un altro punto a proposito della vicinanza tra i nostri due pittori: il colore. La vividezza
della tavolozza di Morelli, la morbida luce ricca degli afflati romantici di un Giacinto Gigante,
lasciano un segno importante in entrambi ma, mentre Francesco Paolo, come si è almeno in parte
accennato, sceglierà la via delle tele monumentali, e nel farlo cercherà sostegno nella grande
tradizione di uno Strozzi, molto spesso cedendo alla frivolezza della scenetta di genere (per esempio
di un Fragonard, vedi la scena delle zucche), perseguendo un ritratto dal vero che tra l’altro avrà
vasto seguito in Italia, basti pensare a Mosè Bianchi (guarda caso molto apprezzato da Umberto e
Margherita di Savoia), John non dimenticherà mai la lezione paesaggistica, ed anzi al culmine della
fama di ritrattista, acclamato e ricercato, affermerà che è stanco di dipingere musi. Vero che nella
palette cromatica dell’abruzzese vi sono debiti con la possente tradizione di Courbet, ossia con un
realismo scevro dall’autocompiacimento, ma è pur vero che Michetti tende a scivolare non di rado
nella magniloquenza (non è poi un caso il sodalizio con D’Annunzio in fin dei conti); per contro
l’artista americano predilige anche in tarda età il genere del paesaggio, il bozzetto rapido, minimo.

                                                      Impressione sull’Adriatico, 1880, F. P. Michetti

In Impressione sull’Adriatico troviamo uno dei rari casi in cui l’artista abruzzese si diletta a fermare
un momento di vita quotidiana senza utilizzare un linguaggio eccessivamente alto né, soprattutto,
leggere il folklore locale, le tradizioni della propria terra, attraverso la lente del mito. A tutta prima
però. Perché la donna in piedi accanto allo scoglio, che ricorda quasi una vestale greca, come le vele
delle piccole imbarcazioni, tendono a trasportarci continuamente in direzione del leggendario, del
non contingente. Volgendo lo sguardo ai bagnanti del pittore statunitense approdiamo piuttosto ad
una visione rubata, e nel contempo intima e silenziosa: due mondi opposti anche qui, eppure…
Facendo ritorno a Capri, pensando all’uso massiccio che Michetti farà della recente tecnica
fotografica al servizio della sua arte (o altrettanto spesso ritraendo se stesso e i suoi familiari), e in
special modo riflettendo sul fatto che egli fu mentore di Von Gloeden, troviamo un nuovo punto di
contatto tra i due: The Bathers, per non dire delle decine di schizzi di giovani senza veli (che terrà
per la maggior parte nascosti fino alla morte), avvicinano John all’arte fotografica dell’aristocratico
tedesco, cioè di quello che diverrà uno dei più famosi fotografi di nudo maschile e se, sempre per
sottolineare il comune sentire, Gloeden immergerà i suoi modelli in una cornice arcaica, mitica
(Michetti), nel medesimo istante ne farà esempio di seduzione estrema, di personale attrazione in
grado di scoprirne la sessualità; in Sargent il tutto appare velato, ma non per questo meno vivido.

                                                                      The Bathers, 1917, J. S. Sargent

Giunti fino a qui, sospetto fortemente, vi starete chiedendo il motivo di un titolo che finora si è in
qualche modo palesato soltanto attraverso la tela michettiana ma, prendendo a prestito da un ampio
repertorio figurativo ed immaginifico (in particolare cattolico), e conscio del fatto che le sagome
virili di Sargent qui sopra posano essere lette come le serpi, ossia come La tentazione, e altrettanto
sicuro che l’evocare un giglio non faccia che trasportarci sui lidi della purezza, proviamo a mettere
accanto il celebre lavoro dell’abruzzese con uno dei più grandi capolavori di John; non prima di
esser tornati per un momento sul quadro di Michetti.

Ironia, con il pensiero rivolto a Sargent, colui che venne spesso definito il Velazquez dei tempi
nostri, nel particolare de Le Serpi c’è un vitalismo che si confonde con qualcosa di abnorme, in
particolare se ci concentriamo sulla piccola in primo piano, pare di leggervi un riferimento alle
celebri Las Meninas del pittore sivigliano: c’è un che di grottesco nella bambina paffuta e
mascolina che avanza trascinando un giglio, mentre apparentemente orgogliosa si cinge della biscia;
le urla, la confusione, la nudità persino, ci dicono di un’energia primordiale, qualcosa di
completamente altro rispetto allo sguardo dell’autore, al mondo da cui proviene ed a cui appartiene;
vi è in definitiva una diaframma, non dissimile da quello di parecchi colleghi nell’Ottocento, e non
solo in quel secolo certo, che non è altro che il cannocchiale attraverso il quale, a debita distanza,
farsi portatore di un messaggio che solo apparentemente vorrebbe comunicare empatia. L’atmosfera
livida, unita alla sovrabbondanza di monili, non fanno che acuire la sensazione di trovarci di fronte
ad uno spettacolo grottesco che va sì raccontato (qui sta la novità rispetto al passato); per contro la
visuale sopraelevata di Francesco Paolo torna a ribadirne l’estranea superiorità.

In una lettera alla sorella, John descrive il lavoro che lo sta estenuando come soggetto terribilmente
difficile. Impossibili brillanti colori dei fiori e delle lampade e verde più intenso del prato sullo
sfondo. Le vernici non sono abbastanza vivide. E inoltre l'effetto dura soltanto dieci minuti, non di
meno il pittore deciderà di occuparsene tutti i giorni per al massimo cinque minuti, ovvero in quel
breve lasso di tempo nel quale la luce rispecchi il suo sentire. Sargent è appena giunto in Inghilterra
a seguito dello scandalo per il ritratto di Madame X (Virginie Avegno moglie del magnate navale
francese Pierre Gautreau), ed è ospite di un vecchio amico, l’illustratore Fredrick Barnard presso la
dimora di quest’ultimo, Farnham House, nel Worcestershire, e in un angolo del parco ne ritrae le
figlie: Dolly e Polly, rispettivamente a sinistra ed a destra; l’opera, esposta l’anno successivo presso
la Royal Academy avrà un successo enorme, facendo tra l’altro apprezzare lo statunitense che fino a
quel momento non era stato molto ben visto nei circoli culturali londinesi. La resa luministica che
nell’erba e negli steli ci regala una fantasmagoria di verdi che virano dal blu al cobalto, si confonde
con la delicatezza pastosa degli stami dei gigli, con il rossore soffuso dei petali delle rose, e
soprattutto con i visini concentrati dall’accendere le lanterne cinesi di cui è disseminato il giardino.
La visione, essendo Sargent un adulto è, giustamente, appena sopraelevata, ma non vi è la minima
traccia di distanza, più ancora, non vi è il desiderio di entrare nella scena, quanto piuttosto
l’intenzione di esser muto spettatore del gioco delle sorelle; ovvio il soggetto è completamente
diverso dalla processione di Michetti (si tratta pur sempre di qualcuno che appartiene al medesimo
ceto sociale), non di meno vi è qui un germe di pura modernità, per la banale ragione che Polly e
Dolly assurgono a personalità propria, ad entità che, diremmo noi oggi, han diritto ad una privacy
tale, che non ci è consentito disturbarle, al massimo ammirarle; infine, soprattutto, si riconosce del
sentimento, c’è visibilmente affetto, partecipazione pur attraverso il velo della discrezione.

                 Garofano, giglio, giglio, rosa (Carnation, Lily, Lily, Rose), 1885-86, J. S. Sargent

Non vi è bisogno di scomodare la teoria dei colori per capire come tra l’ultimo dipinto preso in
esame e la tela michettiana vi sia un abisso, un fossato in cui da un lato caliamo nella polvere di una
trincea, mentre nel caso di Sargent siamo trasportati tra i ciuffi dell’erba alta che si vanno facendo
umidi per la notte incipiente. Francesco Paolo è da annoverarsi tra qui pittori che nell’Italia post
unitaria seppero dar voce a istanze regionali, raccontare (pur con i limiti accennati) realtà di
campagna, angoli dimenticati del Paese ancora intrisi di tradizioni e credenze per certi versi
ancestrali; John Singer è invece un cittadino del mondo, un girovago che frequenta in particolar
modo i suoi simili, che difficilmente si accosta agli umili ed ai diseredati. La dicotomia tra i due, se
ci fermassimo al livello delle apparenze non potrebbe esser spiegata che con la diversa attenzione
con cui ci si rivolge a soggetti completamente diversi, implicitamente accettando che, se si
trovassero a cimentarsi su un terreno comune, entrambi giungerebbero ai medesimi risultati. Non
sono del tutto certo di questa tesi però, e questo si evince da un qualcosa che scientemente era, per
Michetti come per Sargent, assolutamente palese, ma in che in verità a livello inconscio ne mostra
le fragilità, oppure la grandezza. Sto parlando proprio della tavolozza: attraverso il terroso del
pittore abruzzese veniamo sì trasportati tra i viottoli sassosi della povera gente, senza mai che
questa realtà si ammanti di tinte più tenui, di un calore che sarebbe in grado di scaldare i cuori di
quella folla (caso isolato la scena del funerale sulla scogliera); nel caso dell’americano, molto più
complesso, si vira dalle sfumature soffuse ai toni caldi e salottieri (vedi i ritratti), per spingersi sino
al caso delle due bimbe Barnard. Qui il tepore è lievissimo, prevalgono i toni porcellanati, freddi:
apparentemente potrebbero significare l’allontanamento dal soggetto, in realtà vorrebbero
rappresentare al meglio la luce del crepuscolo, ed attraverso di essa, un non perfetto vedere, che poi
vuol dire concretamente uno scrutare attraverso la propria sensibilità (che deve esser avvertita dallo
spettatore), in ultima analisi non venir meno alla lezione del Romanticismo.

L’intuizione di accostarli pur non essendo a conoscenza del legame con Morelli e del soggiorno
caprese, mi ha portato in ogni caso a rilevare sì i punti di prossimità, ma prevalgono gli scarti che
allontanano i due, alterità che sono riassumibili, per Michetti, nel tentativo di fare un’arte educativa,
ossia una pittura che mescoli folklore a strumento di formazione (e per questo quindi arte pubblica);
nel caso dell’americano è, secondo stilemi a noi più congeniali, una produzione artistica che il più
delle volte ha come fondamento l’intimità, una dimensione in cui noi non siamo parti di un folto
pubblico da istruire, quanto il terzo che assiste all’incontro tra chi ritrae e chi viene ritratto. Non c’è
insomma nulla di decorativo in lui nei casi presi in esame; qualora invece avessimo preso in esame
la vasta produzione del ritratto, vi avremmo trovato un indulgere sul particolare lussuoso, spesso
accompagnato da scarsa introspezione. Saremmo stati di fronte pertanto ad un altro caso di realismo
camuffato, ossia una stagione in cui si avverte fortissima l’influenza del Decadentismo britannico.
La ballata a cui si ispira John fa parte del retaggio culturale inglese, d’altro canto questa non viene
piegata al gusto di una platea, apparendo più un gioco tra Sargent e le due fanciulle. Se me lo
concedete, in un tempo che sta divenendo perennemente sospeso, sono due diversissime modalità di
rapportarsi agli eventi che ci circondano: entrambi sono utili, ed anzi forse quello dell’abruzzese
persegue ideali più alti e nobili, ma senza quel minuscolo coin in cui due persone riescono ad
entrare in sintonia, o magari chissà, a provare qualcosa l’uno per l’altra, non sarà sufficiente
insegnare. Gli antichi lo dicevano benissimo: compassione, sentire con…l’Altro.

Sant’Antonino di Susa, 14 Novembre 2020

                                                                                           Paolo Magrini
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