SACERDOTI - Diocesi di Cremona
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SACERDOTI Nomine e provvedimenti vescovili: 3 gennaio 2019: don Bandirali amministratore parrocchiale di San Pietro al Po in Cremona 11 febbraio 2019: don Maurizio Ghilardi incaricato regionale per la Pastorale missionaria 18 febbraio 2019: mons. Ruggero Zucchelli nuovo presidente del Capitolo della Cattedrale 10 marzo 2919: don Martelli collaboratore parrocchiale in città, don Nava addetto in Cancelleria 22 marzo 2019: don Pier Luigi Codazzi sarà il nuovo direttore della Caritas diocesana 18 aprile 2019: don Davide Ferretti sarà “fidei donum” a Salvador de Bahia, in Brasile 4 maggio 2019: don Bandirali parroco anche di S. Pietro al Po; don Felizietti collaboratore di Cattedrale-S. Imerio-S. Pietro al Po 25 maggio 2019: il cremonese don Pierangelo Pedretti nominato prelato segretario generale del Vicariato di Roma 26 maggio 2019: nuovi incarichi per 32 sacerdoti diocesani 28 luglio 2019: mons. Quirighetti segretario di Nunziatura in Australia 18 agosto 2019: nuovi incarichi per don Duranti, don Notarangelo, don Mainardi e don Battaini Il resoconto completo degli ingressi dei nuovi parroci Presbiterio celeste 7 gennaio 2019: decesso di padre Adriano Bolzoni
12 febbraio 2019: esequie di don Silvio Spoldi 14 febbraio 2019: esequie di don Luciano Manenti 5 giugno 2019: esequie di don Sante Braggiè 9 luglio 2019: esequie don Roberto Ziglioli 13 agosto 2019: esequie di don Giovanni Amigoni 7 novembre 2019: esequie don Angelo Scaglioni 23 novembre 2019: esequie di mons. Angelo Talamazzini 2 dicembre 2019: esequie di don Pierino Macchi Nomine ed eventi relativi all’anno 2018 Nomine ed eventi relativi all’anno 2017 Nomine ed eventi relativi all’anno 2016 Nomine ed eventi relativi all’anno 2015 Quarto anniversario dell’ordinazione episcopale del vescovo Antonio Giovedì 30 gennaio ricorre il quarto anniversario dell’ordinazione episcopale di mons. Antonio Napolioni e del suo ingresso in Diocesi di Cremona. Una ricorrenza preziosa occasione per la Chiesa Cremonese per stringersi attorno al proprio Pastore con l’affetto e la preghiera. Ad multos annos vescovo Antonio!
Rivivi tutti i momenti dall’annuncio della nomina all’ingresso in Diocesi Il Giorno del ricordo nell’Europa dei nuovi muri Ritorna un altro Giorno del ricordo, occasione preziosa per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Una data mai semplice da raccontare perché, a differenza di altre tragedie del secolo scorso, sembra quasi non possedere una memoria collettiva arricchendosi piuttosto di tante storie intime e personali e proprio per questo più difficili da raccontare e condividere. Storie di uomini e donne obbligati da un giorno all’altro a privarsi per sempre di quella parte di sè costituita dal proprio passato per cercare di dare un futuro al proprio presente. In quel futuro non c’era certezza ma nemmeno possibilità di scelta: le quotidiane violenze, le continue intimidazioni, gli efferati assassini indicavano nella partenza l’unica strada percorribile per sfuggire alla pulizia etnica imposta dal regime tirino. L’alternativa era il rischio concreto di seguire la sorte di coloro che erano già stati gettati nelle foibe, le cavità naturali che come ferite profonde lacerano le rocce del Carso.
In quegli abissi la luce dell’umanità sembrava sconfitta senza possibilità di appello dalle tenebre del Venerdì Santo: in quel buio di un dolore senza fondo si ritrovavano fratelli nell’eternità migliaia di uomini e donne. Parlavano lingue diverse, erano italiani, slavi, tedeschi…: forse in superficie erano anche stati “nemici” ma li erano uniti dal comune destino di morte. Qualcuno, nel nome dell’ideologia, ha cercato di trovare una motivazione per quello che avvenne ricordando quello che c’era stato prima. Ma niente e nessuno potrà mai giustificare colui che pur si ritiene vittima nel momento in cui si fa carnefice dei propri simili. Nell’Europa dei nuovi muri dove ritornano a galla razzismi che speravamo sepolti per sempre, il Giorno del ricordo assume un duplice, fondamentale significato. Il 10 febbraio di ogni anno, il nostro Paese, innanzitutto, cerca di pagare parte del debito inestinguibile contratto con questi connazionali per non essere stato capace di accoglierli come meritavano nelle ore dell’Esodo (quasi che quel “venire via” li rendesse colpevoli di chissà quale crimini) e per averli poi ignorati per lunghi decenni. Un debito che impone anche l’impegno della ricerca delle foibe ancora sconosciute e dei documenti sul destino di coloro che scomparvero senza lasciare traccia. Non per antistoriche voglie di vendetta ma perché un gesto concreto di pietà possa accompagnare per sempre la memoria dei propri cari. Ma quelle vicende, apparentemente lontane nel tempo, interpellano oggi ogni uomo ed in primo luogo i credenti: ad esse si possono tranquillamente applicare le parole che Papa Francesco ha voluto affidare alla Chiesa nella prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Nessuno è una comparsa nella scena del mondo e la storia di ognuno è aperta
a un possibile cambiamento. Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio”. Dove c’era il buio del Venerdì Santo penetrò la luce della Risurrezione. Musei Vaticani, l’anno di Raffaello inizia col capolavoro del suo maestro Perugino Rientra nei Musei Vaticani, con la sua cornice e la sua “cimasa” dalle quali era stata separata nel 1797 per le requisizioni napoleoniche, la “Pala dei Decemviri” di Pietro Perugino, e l’occasione è l’apertura delle celebrazioni dei 500 anni dalla morte del suo allievo, il grande Raffaello Sanzio da Urbino. Dopo essere stata ammirata a Perugia nella sua ritrovata unità e bellezza originariada ottobre 2019 a fine gennaio 2020, la Pala sarà esposta nella Pinacoteca vaticana dall’8 febbraio al 30 aprile. Tornano insieme Madonna con Bambino e Cristo in pietà Un’occasione imperdibile, nata dalla collaborazione tra i Musei del Papa e la Galleria Nazionale dell’Umbria, per ammirare anche nella Pinacoteca Vaticana la ricomposizione della celebre Pala del maestro umbro: la tavola con la Madonna in trono con Bambino e Santi dei Musei Vaticani reinserita nella sua splendida cornice originale e riunita alla cimasa raffigurante il Cristo in pietà del museo perugino.
Separati dal 1797, quando Napoleone portò a Parigi la tavola I due dipinti, realizzati nel 1495 per la Cappella del Palazzo dei Priori di Perugia, furono separati nel 1797, in seguito alle requisizioni francesi che portarono a Parigi la sola grande tavola. Cornice e cimasa furono invece lasciate nel Palazzo. Dopo la caduta di Napoleone, la tavola non fu restituita a Perugia ma, per disposizione di Pio VII, entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana. Jatta: un’opera che fa parte della storia dei Musei Vaticani Ricordata dal Vasari e dalle successive fonti storico- artistiche per la sua bellezza, la Pala è firmata sulla pedana del trono dal suo autore. Così ci presenta l’opera e la mostra, inaugurata la sera del 7 febbraio, il direttore dei Musei Vaticani Barbara Jatta. Ascolta l’intervista a Barbara Jatta http://https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2020/02/07/ 18/135472042_F135472042.mp3 «Questa del Perugino è una delle opere identitarie delle nostre collezioni. Quando Luca Beltrami insieme a Pio XI concepisce questa nuova pinacoteca la pone nella stanza precedente al grande salone dedicato a Raffaello. Esporre Perugino in questa occasione è un modo di fare tornare un po’ indietro anche la storia di questi Musei. l’opera arriva grazie al soggiorno che ha a Parigi per le asportazioni napoleoniche, ma arriva grazie a Canova quando decide di riportare le opere, dopo la caduta di Napoleone, non nei luoghi d’origine ma in Vaticano per una maggiore condivisione. Tante nostre opere identitarie fanno parte di quella riacquisizione: pensiamo a Caravaggio, pensiamo alla Madonna di Foligno di Raffaello, pensiamo al Domenichino, grazie all’intuizione di Canova di avere delle opere d’arte
importanti condivise all’interno del Vaticano». Cosa ci può anticipare dell’evento molto atteso del ritorno degli arazzi di Raffaello in Cappella Sistina? «Sarà un’operazione unica, probabilmente irripetibile, non è mai fatto in questo modo. Sarà veramente un modo di apprezzare quel luogo, che è una catechesi visiva, nel massimo del suo splendore, ma soprattutto in quella concezione era stata voluta da Papa Leone X a completamento del forte messaggio religioso che la Cappella Magna dei Palazzi pontifici voleva dare». Cosa significa Raffaello per i Musei Vaticani e come cercherete di omaggiarlo a 500 anni dalla morte? «Dopo questa mostra e l’esposizione degli arazzi in Cappella Sistina, dal 17 al 23 febbraio, a fine aprile avremo un convegno internazionale di studi che farà punto su 37 anni di grandi ricerche, di restauri e anche di scoperte archivistiche avvenute tra la celebrazione dei 500 anni della nascita, nel 1983, e questo anniversario della morte. Avremo poi una mostra fotografica molto interessante, sempre qui nella sala 17 della Pinacoteca, della fototeca storica sulle opere di Raffaello. E in autunno una mostra che in qualche modo terminerà le celebrazioni. Sarà un omaggio di Papa Francesco che si priverà, dal suo appartamento privato, di due opere importanti che raffigurano i santi patroni di Roma, san Pietro e san Paolo, realizzate da fra’ Bartolomeo, ma il san Pietro finito da Raffaello, come sappiamo dalle fonti ed è evidente anche guardando l’opera. Verranno restaurati e ricollocati in questa sala temporaneamente, per poi ritornare a Palazzo. Infine un progetto di riallestimento: la risistemazione della sala ottava della Pinacoteca, quella dedicata a Raffaello, con una nuova illuminazione, molto sofisticata sia degli arazzi che delle pale».
Cornini: dalla bottega del Perugino, il classicismo di Raffaello Abbiamo chiesto a Guido Cornini, responsabile scientifico del Dipartimento delle Arti dei Musei Vaticani, di parlarci dell’opera di Pietro Perugino e dell’esposizione in Pinacoteca: Ascolta l’intervista a Guido Cornini http://https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2020/02/07/ 18/135472054_F135472054.mp3 «Questa esposizione a un doppio valore: da una parte un’operazione di alta filologia, perché, per la prima volta in quasi 250 anni, permette il ricongiungimento qui, e poco prima a Perugia, di una pala d’altara preziosissima dipinta da Pietro Perugino intorno al 1496 , con una propria cimasa ovvero l’elemento sommitale sopra la cornice con la cornice stessa, che varie traversie storiche avevano separato. Questo è potuto avvenire grazie alla disponibilità di uno scambio reciproco tra i Musei Vaticani e la Galleria nazionale dell’Umbria. Era successo che i francesi avevano fatto delle requisizioni a Perugia come nel resto dello Stato della Chiesa e a Roma in particolare, portandosi via le opere d’arte destinate al Museo di Napoleone. Caduto Napoleone dopo la sconfitta di Waterloo, i francesi dovettero restituire agli antichi proprietari le opere d’arte. Ma questa di Perugia, in particolare, restò da Roma perché era stato nei desideri delle potenze che avevano appoggiato la richiesta di restituzione del Papa, attraverso buoni uffici di Antonio Canova, di mantenere, come già a Parigi, le opere d’arte ad una visione pubblica, per “l’istruzione dell’estera gioventù studiosa” come riportano in modo colorito i documenti dell’epoca. Quindi non sono tornate nel chiuso dei palazzi e delle chiese ma sono state allineate in un disegno storico artistico moderno. La cornice che è un’opera di intaglio sopraffino che era rimasta vuota per tutti questi anni».
Raffaello ragazzino e allievo di Perugino può aver visto il maestro realizzare quest’opera? «Quest’opera fu realizzata dal Perugino come un forte atto di espressione civica per la sia città d’adozione Perugia, che gli da’ il nome, anche se era nato a Città della Pieve. Raffaello dopo essere stato istruito dal padre, pittore della cerchia di Federico da Montefeltro, di Urbino, viene messo dal padre a bottega dal Perugino, nel capoluogo umbro. Quindi è certo che Raffaello abbia assistito alla realizzazione delle opere in gestazione nella bottega fra le quali questa. Raffaelo aveva più o meno 13 anni, e sicuramente ha fatto tesoro di quello che vedeva in quelle occasioni, le architetture, gli sfondi, il modo di disegnare le figure di quel grande maestro. Proprio qui nei palazzi Vaticani i dipinti del suo maestro il Perugino, nella Stanza dell’incendio, saranno gli unici ad essere rispettati da Raffaello e non essere distrutti». Quali le particolarità di quest’opera? «Raffigura una sacra conversazione, che era il nome convenzionale che si dava all’epoca, ad una situazione di gruppo in cui una Madonna col bambino direttamente seduta trono ma poteva essere anche in piedi, era circondata da santi che variavano a seconda della devozione della chiesa alla quale la pala era destinata. Questa invenzione stilistica si situa intorno agli anni cinquanta del Quattrocento a Firenze in particolare nell’ambito del Beato Angelico. 30-40 anni dopo, all’epoca del Perugino, si è evoluta allo stadio che vediamo. I santi riuniti con la Madonna sono san Lorenzo, san Ludovico da Tolosa, sant’Ercolano, e san Costanzo, i patroni della città di Perugia e quindi appropriati per la Cappella del Palazzo Dei Priori, sede della magistratura cittadina e del governo della città. E’ il momento più alto della produzione stilistica del Perugino, manifesto degli stilemi della pittura umbra di fine Quattrocento, che vediamo trasmigrare puntualmente nel primo Raffaello come ossatura di
fondo, prima di arrivare al Raffaello classicista delle Stanze, delle Logge e di Villa Madama». Dottrina della Fede: presto pronto il documento sul fine vita “Sono stati giorni intensi per esaminare ciò che fino ad ora si è fatto e per programmare quello che si dovrà fare in futuro”. A conclusione dell’assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, il segretario, monsignor Giacomo Morandi, racconta come si sono svolti i lavori dell’organismo della curia romana: “Abbiamo stilato un resoconto sul lavoro svolto in campo dottrinale, disciplinare e matrimoniale e, da quest’anno, abbiamo inserito anche i risultati dell’azione svolta dalla IV Sezione che si occupa dei rapporti con la Fraternità San Pio X e con gli Istituti che erano sotto la competenza della Pontificia Commissione Ecclesia Dei”. Ascolta l’intervista a mons. Morandi http://https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2020/01/31/ 09/135460263_F135460263.mp3 Il lavoro svolto è stato presentato a Papa Francesco? «Certamente. Al Santo Padre abbiamo portato anche i documenti che sono in via di attuazione e questa mattina abbiamo presentato le conclusioni e le proposte che sono emerse dall’incontro con i padri della Congregazione». Papa Francesco, ieri, nel suo discorso rivolto ai membri della
vostra Congregazione che partecipavano all’Assemblea Plenaria, è tornato a parlare del “valore intangibile della vita umana”…. «Il nostro documento sul fine vita, in fase finale di elaborazione, obbedisce alle sollecitazioni del Papa su questi temi. È in linea col suo costante magistero in difesa dei deboli e delle situazioni di precarietà che si riscontrano nella nostra società. La Congregazione per la Dottrina della Fede, con questo documento, darà delle indicazioni operative per aiutare le persone a vivere il momento finale della propria vita in modo umano e cristiano». Il Papa sostiene anche che una società può definirsi civile se combatte la cultura dello scarto. È un aspetto che verrà preso in considerazione nel vostro prossimo documento sul fine vita? «Il magistero dei papi, negli ultimi decenni, si è concentrato spesso su due momenti di fragilità della vita umana: l’inizio e la fine. Un’attenzione che ci è stata richiesta anche durante molti incontri con gli episcopati mondiali nelle visite ad limina perché, ad esempio, ci sono molte legislazioni civili che consentono l’eutanasia o stanno andando verso quell’obiettivo. Con il nostro documento, invece, andiamo nella direzione della difesa della vita». Il Pontefice ha invitato la Congregazione per la dottrina della Fede anche a continuare con fermezza gli studi per la revisione delle norme sui delicta graviora contenute nel Motu proprio di San Giovanni Paolo II, e intitolato ‘Sacramentorum sanctitatis tutela’. Un modo per difendere ancor meglio i minori e le persone vulnerabili? «Esattamente. La revisione, dopo circa vent’anni di attuazione nei quali si è sperimentata la validità del Motu proprio, si profila come necessaria. In base all’esperienza che noi abbiamo fatto sul campo, posso dire che serve un aggiornamento in linea anche con i diversi Motu proprio emanati su questo
tema. La revisione mira a rafforzare sempre di più la lotta contro gli abusi e rappresenta un cammino per la purificazione, che nella Chiesa è sempre più necessaria». Giornata del malato, Cuamm sul campo da 70 anni a servizio di chi ha più bisogno L’11 febbraio, ricorre la 28esima Giornata mondiale del malato: Medici con l’Africa Cuamm si unisce all’appello di Papa Francesco per garantire a tutti l’accesso alle cure, anche e soprattutto in Africa. Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale del Malato, Papa Francesco porta l’attenzione proprio sui più poveri: «Penso ai tanti fratelli e sorelle che, nel mondo intero, non hanno la possibilità di accedere alle cure, perché vivono in povertà. Mi rivolgo, pertanto, alle istituzioni sanitarie e ai Governi di tutti i Paesi del mondo, affinché, per considerare l’aspetto economico, non trascurino la giustizia sociale. Auspico che, coniugando i principi di solidarietà e sussidiarietà, si cooperi perché tutti abbiano accesso a cure adeguate per la salvaguardia e il recupero della salute. Ringrazio di cuore i volontari che si pongono al servizio dei malati, andando in non pochi casi a supplire a carenze strutturali e riflettendo, con gesti di tenerezza e di vicinanza, l’immagine di Cristo Buon Samaritano». Dalla Repubblica Centrafricana, dove Medici con l’Africa Cuamm è presente dal 2018, lavorando nel Complesso Pediatrico di
Bangui, sostenuto in una prima fase proprio da Papa Francesco attraverso l’ospedale Bambino Gesù, arriva la testimonianza di Mariangela, infermiera. Nell’ultimo anno il complesso ha garantito 69.176 visite ambulatoriali, 18.424 ricoveri di cui 1.456 interventi chirurgici: «Tutto l’ospedale offre un variegato spaccato di vita africana: la vita delle famiglie che arrivano qui è segnata dalla povertà estrema, dovuta anche a tensioni e scontri che impediscono lo sviluppo di Bangui e di tutto il Paese. In ospedale c’è tanta confusione, gente che va e che viene, infermieri al lavoro, medici che visitano, bambini che piangono. Molti piccoli pazienti rimangono nei loro letti in attesa, con uno sguardo quasi spento, rassegnato. I più vispi e curiosi si aggirano tra i letti delle stanze, ignari del significato del loro stare in ospedale. I piccolissimi stanno pacifici in braccio ai genitori, le mamme sedute accanto ai loro bambini: chi allatta, chi chiacchiera con la vicina di letto, chi mangia, chi sistema i propri oggetti portati da casa. Non manca il pianto quando un bimbo non ce l’ha fatta, ma si va avanti: ogni giorno, un nuovo giorno. È proprio il sorriso ignaro dei piccoli pazienti che porta gioia in queste giornate e penso che per tutti noi sia una grande ricarica, il motivo dell’essere qui e del continuare a camminare, insieme». «Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale del Malato – afferma don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm – Papa Francesco, accanto all’appello per la giustizia sociale, ricorda proprio la figura dei volontari, che sono anche l’anima e la forza della nostra organizzazione. Il Cuamm da 70 anni ha a cuore il lavoro e la fatica quotidiana per la salute dei più poveri in Africa. È questa la nostra vita, la passione che ci anima e per questo sentiamo forte la responsabilità delle sfide che abbiamo davanti: continuare ad aiutare in Africa le mamme e i bambini, contrastare malnutrizione, Aids, Malaria, Hiv e malattie croniche, formare infermieri, ostetriche e giovani medici di domani. In questi giorni Padova, che è la città da cui è partita la grande
avventura di Cuamm, ha aperto il suo anno di Capitale Europea del Volontariato: penso sia bello quindi ricordare anche oggi il legame forte e generativo che lega fede, amore per il prossimo e spinta al volontariato». È possibile sostenere il lavoro di Medici con l’Africa Cuamm con una donazione su c/c postale 17101353 e online su www.mediciconlafrica.org. MEDICI CON L’AFRICA CUAMM Nata nel 1950, Medici con l’Africa Cuamm è la prima Ong in campo sanitario riconosciuta in Italia e la più grande organizzazione italiana per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane. Realizza progetti a lungo termine in un’ottica di sviluppo, intervenendo con questo approccio, anche in situazioni di emergenza, per garantire servizi di qualità accessibili a tutti. Oggi Medici con l’Africa Cuamm è impegnato in 8 paesi dell’Africa sub- Sahariana (Angola, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania, Uganda) con oltre 2.200 operatori sia europei che africani; appoggia 24 ospedali, 64 distretti (per attività di sanità pubblica, assistenza materno-infantile, lotta all’Aids, tubercolosi e malaria, formazione), 3 scuole infermieri e 1 università (in Mozambico). Nella Giornata del Malato il
Papa affida a Maria tutti i sofferenti L’11 febbraio giorno in cui la Chiesa celebra la festa della Beata Vergine Maria, Madonna di Lourdes, e la 28.ma Giornata Mondiale del Malato, Papa Francesco sul suo account twitter @Pontifex, affida “Alla Vergine Maria, Salute dei malati”, “tutte le persone che stanno portando il peso della malattia, insieme ai loro familiari e agli operatori sanitari”. A tutti, “con affetto” il Papa assicura la sua “vicinanza nella preghiera”. Nel Messaggio per questa giornata, pubblicato il 3 gennaio scorso, Francesco si ispira alle parole di Gesù riportate nel Vangelo di Matteo: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11, 28). Parole che rivelano l’atteggiamento misericordioso di Gesù verso l’umanità ferita, il suo sguardo che arriva in profondità, che accoglie e che guarisce con tenerezza. Cura del corpo, ma anche di tutta la persona Nel testo, il Pontefice pone l’accento sull’approccio corretto al malato, che richiede non solo la cura del corpo, ma anche il “prendersi cura” della persona e anche della sua famiglia, fiaccata dalla prova. Per questo invita i medici e gli operatori sanitari ad aprirsi al trascendente davanti al limite della scienza, a “rimanere coerenti” al sì alla vita e alla persona. Nessun cedimento ad eutanasia e suicidio assistito “Il vostro agire – scrive Papa Francesco rivolgendosi al personale sanitario ma anche ai volontari – sia costantemente proteso alla dignità e alla vita della persona, senza alcun cedimento ad atti di natura eutanasica, di suicidio assistito o soppressione della vita, nemmeno quando lo stato della
malattia è irreversibile”. Garantire le cure ai poveri è giustizia sociale Il Papa esorta anche i governi e le istituzioni a garantire le cure ai più deboli e ai più poveri in nome di una giustizia sociale, ringraziando soprattutto i volontari che, ad immagine del Buon Samaritano, suppliscono a carenze strutturali con gesti di vicinanza e tenerezza. Don Angelelli (Cei): “Diventare missionari nei luoghi di fragilità e sofferenza” “Il tema scelto dal Santo Padre per la Giornata mondiale 2020 è un messaggio di speranza, anzitutto per i malati, ma anche per tutti i credenti e per l’umanità intera”. Ne è convinto don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. Il prossimo 11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, ricorre la XXVIII Giornata mondiale del malato, e Papa Francesco, nel suo messaggio, sceglie come tema l’invito di Gesù “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). Don Angelelli, come “leggere” questo invito? Gesù è quell’incontro, quella relazione che ci sostiene nel nostro cammino, e l’invito è a tutti i cristiani a diventare missionari nei luoghi di sofferenza e difficoltà
per portarvi l’annuncio e la presenza di Gesù e della Chiesa. Questo versetto del Vangelo costituisce una grande opportunità per recuperare la ragione stessa del nostro esistere, segnato dalla fragilità quale condizione antropologica naturale e condivisa. Siamo stati illusi dalla proposta di modelli di superuomini e superdonne in grado di affrontare ogni sfida, in realtà inesistenti perché la fragilità è una condizione esistenziale, e quando essa a causa della malattia si trasforma in vulnerabilità, è arrivato il momento di andare incontro a quella sorgente di sollievo e consolazione che è Gesù. E un’icona relazionale perché invita all’incontro: ad una relazione forte: con Cristo anzitutto, ma anche tra noi perché malattia e sofferenza non devono essere vissute da soli. Solo uscendo da solitudine e isolamento è possibile trovare un senso alle proprie ferite.Qui la comunità cristiana è chiamata a farsi prossimo a chi soffre, a farsi locanda del Buon samaritano. Relazione quale fondamento di quel “prendersi cura” che va oltre il “curare”? Il curare inteso come prassi medica per risolvere la patologia non è sufficiente. Le persone hanno bisogno di umanità, sollecitudine, attenzione. Un nodo cruciale oggi in sanità, ma anche nel vissuto di molti medici e infermieri, è l’impossibilità, a causa della mole e dei ritmi di lavoro, di stabilire una relazione con il paziente. Inoltre, i giovani che si preparano ad essere i futuri professionisti della salute non vengono educati alla relazione; per molti anni è stata anzi rimossa la dimensione empatica, viceversa necessaria alla relazione con il paziente. L’operatore sanitario non si pone di fronte ad un organo o ad una malattia, ma ha di fronte una persona. Per questo l’obiettivo dei sistemi e delle strutture di cura non può più essere la mera soluzione della patologia ma la presa in carico globale della persona.
Quando però lo stato della malattia è irreversibile, inizia a farsi strada nell’opinione pubblica l’idea di una sorta di legittimazione di atti volti a sopprimere la vita in nome del cosiddetto principio di autodeterminazione. Alcune malattie sono purtroppo inguaribili, ma non esistono persone incurabili. Questo principio ricolloca medicina e scienza medica nella giusta prospettiva assicurando agli operatori sanitari quella libertà di coscienza che è il giusto e coerente equilibrio tra l’apparato valoriale del medico e le esigenze del malato. In questo ambito la piena dignità della cura consiste nella piena dignità del malato, che deve essere accompagnato nell’assoluta libertà del medico e dell’infermiere di poter operare in coscienza. Nella consapevolezza che la vita è un bene inviolabile e indisponibile. Il discorso sul fine vita apre il capitolo delle cure palliative, in Italia non garantite di fatto a tutti. A 10 anni dalla sua promulgazione, la legge 38/2010 è una tra le meno applicate nel nostro ordinamento. E’ poco conosciuta, poco promossa e sottofinanziata, ma al di là del finanziamento manca una cultura della palliazione, sia in molti operatori sanitari, sia nella popolazione spesso inconsapevole di questo suo diritto sancito dalla legge. Di qui il nostro impegno di sensibilizzazione culturale anche nei confronti delle Regioni laddove questa dimensione è sottovalutata. In determinate condizioni di malattia è un diritto del cittadino ricevere cure palliative; è un dovere morale per noi assicurarle. Sappiamo infatti che se una persona è accompagnata con competenza nel tratto terminale della sua vita, sollevata dal
dolore e in un contesto amorevole, accogliente e di piena dignità, non chiede di abbreviare la propria esistenza. Vittorio Bachelet. Il figlio Giovanni: “Se fosse vivo, ci inviterebbe a rendere il nostro tempo più libero, più giusto, più umano” Sono passati quarant’anni dal 12 febbraio 1980, quando Vittorio Bachelet fu ucciso all’Università di Roma La Sapienza, dove insegnava Diritto alla Facoltà di Scienze politiche. Bachelet era vice presidente del Consiglio superiore della magistratura ed era stato presidente di Azione Cattolica dal 1964 al 1973. Per ricordarlo abbiamo intervistato il figlio Giovanni. Che ricordo ha di suo padre? Me lo ricordo come un papà molto paziente e molto capace di ascoltare, ma anche di dare un’impronta, di guidare, non tanto con le prediche, quanto con l’esempio, con i fatti più che con le parole, mostrandomi, concretamente, che diamo la migliore testimonianza cristiana o democratica o sociale quando siamo credibili come persone, come lavoratori, come professionisti.Le attività di volontariato, di impegno sociale, politico, religioso non possono essere una compensazione di quello che non riusciamo a fare nella nostra vita familiare o professionale.
Il nostro primo modo di rispondere alla vocazione di Dio nella nostra vita e di servire il Paese è quello di fare bene il nostro dovere. Questa è una delle cose importanti che, in un mondo per tanti versi cambiato rispetto ai tempi di mio padre, mi piacerebbe aver trasmesso ai miei figli e saper trasmettere ancora oggi ai miei nipotini. Cosa ha rappresentato per la sua vita l’assassinio di suo padre? Allora, purtroppo, era un evento non rarissimo la morte violenta nel corso di attentati terroristici o di violenze: c’erano bombe sui treni, nelle banche, omicidi. È difficile ricordare ai ragazzi di oggi quel clima perché per fortuna non c’è più da molti decenni.Ai tanti che si lamentano del presente, quelli che il mio papà e, prima ancora, Giovanni XXIII avrebbero chiamato “profeti di sventura” e che considerano il passato sempre migliore, ricorderei quel tempo in cui ogni settimana veniva ammazzato qualcuno, un momento di grande pericolo per le istituzioni, per la democrazia rappresentativa che allora era disprezzata e considerata una specie di orpello inutile del capitalismo, della borghesia.Oggi, forse, non riusciamo ad apprezzare e vivere con entusiasmo questi doni della libertà e delle elezioni libere dei propri rappresentanti: la ragione, probabilmente, è che quei tempi brutti sono passati, siamo tornati a una fisiologia della democrazia, difficile, ma pur sempre meno difficile di quegli anni. Come giudica i rigurgiti antidemocratici attuali? Io credo che siano diversi. Mio padre forse direbbe che ogni tempo ha le sue difficoltà da conoscere, che non bisogna adeguarsi alle mode del momento, ma che è necessario studiare il proprio tempo per poterlo trasformare e gettarvi dentro qualche seme buono di Vangelo o di principi di convivenza
democratica. Ma non solo. Una volta mio padre disse: “Questo nostro tempo non è meno ricco di generosità, di bontà, di senso religioso, di santità, perfino, di quanto lo fossero i tempi passati”. In ogni tempo c’è una riserva di bontà e ci sono problemi da risolvere, basta affrontarli con coraggio, con serenità, con fiducia negli uomini che Dio ama, come il mio papà, da cristiano, ha sempre creduto: il Signore guida la nostra vita e la storia, attraverso tutte le difficoltà ci porta a un approdo di gioia e di bene.Il mondo di oggi è molto diverso da allora, ma restano in agguato l’odio e la menzogna.Ai tempi di mio padre sarebbe stato inconcepibile negare l’Olocausto o dire pubblicamente: “Mandiamo gli ebrei ai forni crematori” oppure “Buttiamo a mare tutti gli immigrati”. Quanto avviene oggi fa spavento sia in sé, sia perché negli anni di piombo prima sono iniziati i proclami di tipo ideologico e poi sono arrivati, piano piano, i sassi, le spranghe, le bombe molotov, le pistole. È necessario, pertanto, vigilare sempre. Ma anche rallegrarsi di opportunità allora impensabili che a mio padre piacerebbero di sicuro: non ci spariamo per strada, non c’è più una divisione del mondo in blocchi, si può comunicare con tutti in tempo reale, il nostro Paese un tempo abbandonato da tanti dei nostri in cerca di lavoro diventato meta di speranze e sogni per tanti altri più poveri di noi, terra promessa per uomini e donne di ogni colore e religione. A papà piaceva una canzone degli anni Sessanta che diceva “Di che colore è la pelle di Dio?”.Se fosse vivo forse ci esorterebbe alla speranza e all’azione: ci direbbe che dobbiamo studiare il nostro tempo, amarlo e cercare di renderlo ancora più libero, più giusto, più umano. Lei al funerale di suo padre usò la parola perdono nei confronti dei suoi assassini… Anche altre famiglie, in quegli anni, nelle stesse condizioni
dissero cose simili a quanto affermato dalla mia famiglia. Forse, le mie parole fecero scalpore perché era un momento particolarmente drammatico e c’erano tante telecamere, ma in Italia c’era e c’è ancora un humus cristiano e noi abbiamo detto solo quello che ci hanno insegnato al catechismo: la buona notizia dell’amore di Dio per noi, che spinge anche noi a perdonare agli altri così come noi speriamo di essere perdonati da Lui. Un messaggio antico eppure sempre nuovo meraviglioso e dirompente per ogni nuova generazione. Oggi si parla tanto di giustizia riparativa: che ne pensa? Non sono sicuro di essere abbastanza informato in proposito, posso raccontare la mia esperienza. Sono stato parlamentare dal 2008 al 2013; in quella stessa legislatura c’erano altre due familiari di vittime delle Br, Olga Di Serio, moglie di Massimo D’Antona, e Sabina Rossa, figlia di Guido: insieme abbiamo presentato una piccola proposta di legge, che aveva a che fare con una strana usanza dei giudici di sorveglianza, che, sulla base di una disposizione del Codice penale, per concedere a chi aveva già scontato 26 anni di carcere i benefici della legge sulla libertà condizionale pretendeva che ci fossero incontri certificati tra parenti delle vittime e condannati per omicidio. Noi non vedevamo molto bene questa prassi: se questo tipo di incontri avviene spontaneamente, lontano dai riflettori e su iniziativa di tutti gli interessati, è cosa bellissima; prevederlo invece come strumento ordinario di pacificazione e di giustizia è un po’ pericoloso se confonde il ruolo laico e imparziale della giustizia con i rapporti interpersonali, a volte anche costruttivi e edificanti, fra colpevoli e parenti di vittime, o peggio li mette sullo stesso piano. Quel che abbiamo proposto nel nostro disegno di legge era di sostituire il “sicuro ravvedimento” con il “completamento del percorso rieducativo”.Non può la giustizia umana valutare l’animo, come
può fare solo il Padreterno, e nemmeno dovrebbe costringere un poveretto a cui hanno ammazzato un parente a incontrarsi a tutti i costi con il suo omicida.Questo però non vuol dire che fra messaggio cristiano e giustizia non ci sia nessun nesso. L’articolo 27 della Costituzione, secondo cui il fine della pena deve essere la rieducazione del detenuto e mai andare contro il senso di umanità, è figlio sia dei principi laici dello stato di diritto sia dei principi cristiani che ispiravano una gran parte dell’Assemblea costituente. L’organizzazione ufficiale di incontri tra parenti di vittime e assassini mi lascia insomma perplesso. Lo capirei se avessimo alle spalle una guerra civile, ma non è così: alcuni, come mio padre, sono morti proprio perché non si sentivano in guerra con nessuno, non volevano la scorta, pensavano che si dovesse combattere la violenza continuando a fare il proprio lavoro e confidando nelle armi ordinarie della democrazia. Chi sostiene che in quegli anni di piombo ci fosse la guerra civile fa un imbroglio culturale. Non c’erano due fronti contrapposti, non c’era nessuna simmetria e sarebbe davvero paradossale riscrivere quarant’anni dopo una storia che riconosca alle Brigate Rosse o ai neofascisti degli anni Settanta una dignità di combattenti di qualche guerra che non c’è mai stata. Erano criminali politici che grazie all’ordinamento costituzionale italiano hanno scontato la loro pena e in moltissimi casi sono tornati ad essere uomini. Oggi sente ancora vicino suo padre? Per chi crede nella comunione dei santi, come ogni domenica diciamo recitando il Credo, l’amore è più forte della morte: vivi e morti rimangono uniti nell’amore di Dio, nel pane e nel vino di Gesù.Si era uniti da vivi nella preghiera anche quando si era lontani; anche oggi, nella messa, quando preghiamo e facciamo la Comunione, ci sentiamo e siamo ancora tutti uniti,
con papà, con i nonni e con gli altri che non ci sono più, proprio come quando, da bambini e da ragazzi, pregavamo insieme prima di dormire o eravamo tutti insieme a tavola. Imperdonabili? Domenica a Pandino prosegue il percorso per i giovani della Zona 1 Imperdonabili? Questo il titolo del nuovo incontro per i giovani della zona pastorale 1, domenica 16 febbraio, alle 20.45 all’oratorio di Pandino. A guidare la riflessione sarà la psichiatra Silvia Landra della casa circondariale di Bollate, che aiuterà a leggere le varie sfaccettature del perdono che ha modo di toccare con mano ogni giorno nel carcere milanese. A tracciare il filo rosso tra le serate, l’esortazione apostolica Christus vivit che stimolerà ulteriormente la riflessione. L’appuntamento è dalle 19.45 con possibilità di iniziare in modo informale la sera con l’apericena. Locandina
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