Il bestiario dell'inconscio: cani, gatti, cavalli, bambini, psicoanalisti e altri animali

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 Il bestiario dell’inconscio: cani, gatti, cavalli, bambini, psicoanalisti e altri animali

                               Di Simona Argentieri e Tonia Cancrini

Nel 1937 Freud scriveva alla principessa Marie Bonaparte: “Meine liebe Marie ho appena ricevuto
la Sua cartolina da Atene e il manoscritto dei libro su Topsy. Mi piace: è così commovente vero e
reale. Non è naturalmente un lavoro analitico, ma dietro questa creazione s‘intravvede da parte
dell’analista una ricerca di verità e di sapere. Esso dà proprio le vere ragioni del fatto degno di
considerazione che si possa amare così profondamente un animale come Topsy (o la mia Jo-Fi:
affetto privo di qualsiasi ambivalenza, la semplicità della vita libera dai conflitti della civiltà così
difficili da sopportarsi, la bellezza di un’esistenza perfetta in se stessa. E malgrado la distanza nello
sviluppo organico, v’è un senso di stretto rapporto, di innegabile appartenenza reciproca. Spesso
quando accarezzo Jo-Fi mi sorprendo a canticchiare una melodia che, per quanto non portato alla
musica, riconosco per l’aria (di Ottavio) del Don Giovanni: “Un vincolo di amicizia ci lega
entrambi”1. Topsy e Jo-Fi - per chi non lo sapesse - erano due chow-chow, discendenti entrambi di
Tatoun, il bellissimo cane del principe Giorgio di Grecia e di Danimarca, marito dell’ultima
Bonaparte: la ‘cara Marie’ - appunto - fedelissima allieva e amica di Sigmund.
Non c’è da stupirsi se Freud dedica tanta attenzione a semplici storie di cani. Difatti, fin dalle
origini della disciplina psicoanalitica, egli si trova ad esplorare nei sogni suoi e dei suoi pazienti,
nelle fantasie inconsce, nel pensiero magico-religioso dei popoli primitivi, nella simbologia degli
artisti, la straordinaria gamma di significati che cani, gatti, cavalli, belve ed insetti arrivano ad
acquistare nel nostro scenario interiore. Ma prima di ogni considerazione psicoanalitica sul valore
simbolico degli animali, sul come divengano oggetti di proiezioni, di identificazioni proiettive ecc. -
e proprio per capire meglio queste valenze interne - vogliamo sottolineare l’importanza che
riveste l’amore reale – e ancor più il rispetto - nei confronti di questi amici così cari, che possono
avere una parte tanto importante nella nostra vita affettiva. Freud stesso lo esprime molto bene
commentando il lavoro su Topsy: “non è un lavoro analitico” scrive, e la notazione è in qualche
modo strana: perché avrebbe dovuto essere un lavoro analitico il racconto che M. Bonaparte
faceva del rapporto con la sua cagnetta? Ma, prosegue Freud, è qualcosa che riguarda l’analista
nella sua “ricerca di verità e di sapere”, qualcosa che ha a che fare con la profondità dei sentimenti
e delle emozioni, che l’analista vuole conoscere e capire. La mente dell’analista, sembra indicarci
Freud, deve continuamente guardare alle emozioni vere e più radicate del nostro essere. Il mondo
degli animali è in stretto contatto con le nostre emozioni e guardare al nostro rapporto con gli
animali significa spesso indagare molto a fondo nella nostra interiorità.
Il rapporto di Freud con gli ammali - reali o immaginari - è di antica data. Quando era ancora un
ragazzino, prima che l’immenso universo dell’inconscio prendesse forma nella sua mente, si
divertiva - come tanti altri giovani della sua generazione - a scambiare lettere con un amico.
L’amico si chiamava Eduard Silberstein e il loro fitto carteggio si era sviluppato per oltre dieci anni,
ricco di confidenze, di entusiasmi, di passioni adolescenziali, di ingenui esercizi intellettuali. Eduard
e Sigmund avevano l’abitudine di firmarsi con due pseudonimi: rispettivamente, ‘Berganza’ e
‘Cipion’. I due nomi non erano casuali; provenivano da una novella di Cervantes molto amata da
entrambi intitolata: Il colloquio dei cani.
Delle lettere di Silberstein non rimane traccia; neanche l’innocente epistolario con l’antico
compagno di ginnasio è infatti scampato alla sistematica opera di censura con la quale Freud ha
cancellato tanti indizi della sua vita privata, a beffa dei futuri biografi. Silberstein, invece, diventato
un importante uomo d’affari, non butterà nel cestino le lettere dell’amico di un tempo e ci lascerà
una graziosa testimonianza dell’epoca in cui il severo padre della psicoanalisi si divertiva ad
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identificarsi con un cane2. I due alter ego a quattro zampe non erano più che un gioco retorico,
una citazione al tempo stesso dotta e scherzosa. Tuttavia, si può forse dire che Cipion, il cane
letterario e immaginario, è il primo segno della significativa presenza degli animali nella
psicoanalisi.
Nel tempo a venire, molto numerose e di ben altri livelli saranno le occasioni in cui Sigmund Freud
dedicherà la sua attenzione al mondo animale. Quando Sigmund Freud scrive a Marie Bonaparte la
commovente lettera che abbiamo citato all’inizio sul rapporto di amicizia tra uomo e cane, è
invece il 1937. E’ vecchio e malato e solo due anni lo separano dalla morte. Con l’animo temprato
dall’avventura psicoanalitica, dalla consapevolezza del valore delle sue scoperte, ma anche dal
dramma della guerra e dell’esilio, è ormai un uomo lucido, disilluso, ma in profondo contatto con
se stesso. Le sue tenere parole a proposito di Topsy e di Jo-Fi sono dunque il punto di arrivo di una
lunga vicenda di legami ed affetti tra Marie, Sigmund, la di lui figlia Anna, l’altra allieva ed amica
Dorothy Burlingham Tiffany e gli amatissimi animali che si erano regalati l’un l’altro nel corso del
tempo: Wolf, Lün, Lin Yu, le due Jo-Fi...
Vicende sottili e complesse, intrecciate di significati relazionali profondi, non sempre - ai livelli
inconsci - così semplici e liberi da conflitti come Freud scriveva a Marie.
Nelle tante opere biografiche messe a confronto si registra una certa confusione a proposito della
successione e della parentela dei beniamini, e si può fare una piccola “questione” sull’attribuzione
a Marie Bonaparte o a Dorothy Burlingham del privilegio di aver donato a Sigmund la prima
cagnetta chow-chow3. I dati dei vari autori sono in proposito discordanti; e anche questo è
significativo, poiché probabilmente a molti di loro non è sembrato importante verificare l’identità
di un cane. A loro parziale discolpa, bisogna sottolineare però la quasi ‘ossessiva’ fedeltà di
Sigmund alla stessa razza: i chow-chow, tutte femmine di radiosa fotogenia, che appaiono in tanti
ritratti con la loro bella massa di pelo morbido, il musino appuntito, gli occhi intelligenti e la
proverbiale coda a riccio; e davvero non è facile capire chi sia Topsy, Jo-Fi o Lün. Il primo cane che
compare sulla scena è invece un maschio: Wolf, un bel lupo nero alsaziano, che su precisa richiesta
della figlia, Sigmund regala ad Anna nel 1925 perché le faccia compagnia nelle sue lunghe
passeggiate solitarie e la protegga.
Poco dopo, in occasione del compleanno di lui, è invece Anna a regalargli un piccolo ritratto di
Wolf, fatto da lei stessa, perché - come scriveva scherzosamente in una lettera a Lou Andreas
Salomé “ormai egli ha trasferito totalmente tutto il suo interesse per me su Wolf”4.
D’altronde, Lou Andreas Salomé - un’altra delle affascinanti analiste di prima generazione - era la
persona giusta a cui raccontare storie di cani.
Anche lei possedeva un piccolo amico a quattro zampe, che divenne l’inconsapevole protagonista
di un grazioso esempio di lapsus in Psicopatologia della vita quotidiana. Freud, infatti, racconta
anonimamente di “una signora” che, in tempo di guerra e di ristrettezze economiche, si
dimenticava sempre il latte sul fuoco. Una piccola analisi consentì però di capire che la
‘distrazione’ era in realtà un modo indiretto di offrire al cagnolino la possibilità di leccare il latte
traboccato a terra, senza che la tenera padrona si sentisse in colpa per lo spreco5.
Anche Sigmund Freud e la figlia Anna si divertivano moltissimo a vezzeggiare, coccolare, dare
bocconcini a tavola ai loro prediletti, creando un piccolo fronte di alleanza contro Frau Martha
Freud, che invece non amava gli animali e pativa sempre un po’ a vedere disturbare l’ordine e
l’igiene della casa. Quando Lün scappava tutta gocciolante dalle mani di Martha e della cameriera
Paula, che le infliggevano uno scrupoloso bagno, era Freud ad accoglierla indulgente in salotto.
Dalle memorie di Paula Fichte sappiamo invece che quando una volta, ancora ragazza, si divertì a
vestire la cagnolina con sciarpa e cuffietta, Freud la sgridò severo: “Questo è un animale. Non una
persona!”6 E’ questa un’illuminante testimonianza di quanto l’amore di Freud per i cani si fondasse
sul riconoscimento e sul rispetto dell’identità dell’animale. Anche Freud scrive a Lou di cani; in una
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lettera da Berlino le confessa che sente la mancanza della sua Jo-Fi, “quasi quanto quella di un
sigaro; è una creatura affascinante, interessante e - da vera femmina - istintiva, tenera,
intelligente, eppure non così dipendente come possono essere altri cani”7.
E’ attraverso la mediazione emotiva di Jo-Fi, dunque, che Freud esprime alla bella amica il suo
modo di intendere la femminilità. Ed è forse proprio in queste occasioni indirette e fuori
dell’ufficialità, che rivela le sue idee più profonde ed originali sul mondo femminile. Senza rancore,
anzi con una precisa nota di rispetto, egli sottolinea lo spirito indipendente della bestiola, mentre
non si vergogna ad ammettere la sua propria dipendenza, “quasi quanto quella di un sigaro”.
D’altra parte, c’è un’altra significativa analogia che si svela sempre per via epistolare; se Anna si
sposasse e andasse via di casa, egli confessa, sarebbe per lui così drammatico come se dovesse
smettere di fumare. Dunque Anna, i cani, i sigari.., una catena di dipendenze, di equivalenze e di
affetti molto importanti per Freud.
Per quel che riguarda Jo-Fi, bisogna precisare che il vero, altissimo segno del privilegio concesso
all’amica non è però nel diritto di accesso al salotto o alla tavola di famiglia; bensì nel permetterle
di stare nel luogo più sacro e privato di Sigmund Freud: lo studio dove riceveva i pazienti.
Sappiamo che cane e padrone amavano fare insieme il riposino di mezzo giorno. Lui sul divano, la
mano tesa ad accarezzare lievemente il morbido mantello fulvo della bestiola, canticchiando a
bocca chiusa - lo sappiamo - l’aria dell’amicizia. Ma c’è di più (lo raccontano sia l’allievo Hans Sachs
che il figlio Martin)8: per quanto poco ortodosso possa oggi apparire, Freud spesso riceveva i
pazienti insieme al cane, e anche a qualche cliente era concesso di venire in terapia accompagnato
dalla sua bestiola. Pare che Jo-Fi avesse l’abitudine di alzarsi e sbadigliare verso la fine della
seduta, abbastanza puntualmente; anche se, come tutti i cani - commentava Martin - “parteggiava
per il padrone” e a volte anticipava di qualche minuto! Jo-Fi, naturalmente, andava a simpatie e
Freud sembrava tenere conto: “in chi non piace a Jo-Fi c’è sicuramente qualcosa che non va... Poi
si finiva sempre col constatare che aveva ragione! “9.
Ancora un piccolo episodio tra i tanti che si potrebbero citare del profondo rapporto dei Freud con
i loro cani: quando ormai Anna è vecchia e malata, dopo la morte dei genitori e dell’amica
Dorothy, viene ricoverata in ospedale e deve riempire un modulo. Alla voce “parente più
prossimo” racconta che le viene spontaneo scrivere ‘Jo-Fi’, l’ultimo cucciolo di chow-chow che ha
preso con sé e che nel nome conserva il ricordo di antichi legami ed affetti10.
Passando dal terreno biografico a quello clinico e speculativo, è d’obbligo cominciare con il
ricordare, L’ uomo dei topi e L’ uomo dei lupi.
E’ difatti notevole che due dei celebri e affascinanti pazienti protagonisti degli storici Casi freudiani
siano universalmente conosciuti con queste suggestive denominazioni, che legano la loro anonima
identità a quella di due animali: i topi ed i lupi, appunto. Né l’uno, né l’altro – peraltro - avevano
avuto alcun rapporto reale con le bestie oggetto dei loro tormenti nevrotici. ‘L’uomo dei topi’ - un
giovane tenente di “mente limpida e acuta” - come scrive Freud - era giunto a lui ossessionato
dall’immagine di un supplizio orientale che veniva inflitto crudelmente al condannato, esposto
all’attacco dei roditori affamati. L’angoscia toccava i suoi vertici quando egli si sentiva costretto ad
immaginare che a questa pena venissero sottoposte le persone a lui più care: il padre e la donna
amata.
La minuziosa e serrata indagine analitica arriverà a scoprire i profondi significati inconsci della
sadica fantasia che - commenta Sigmund Freud, osservando l’espressione del tenente mentre si
affida alla cura - rivelava in lui “orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto”.12
I topi rivelano poi tutta un’ampia gamma di significati simbolici: l’erotismo anale dell’infanzia,
l’ambivalenza della sua attrazione sessuale per le donne, i desideri passivi omosessuali. Ma le orde
di ratti simboleggiano ancora lo ‘sporco’ denaro e - come nella favola del pifferaio che viene
associata - una moltitudine di bambini. Infine, si arriva a comprendere che lui stesso era stato un
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bambino violento e mordace, che avrebbe potuto ‘meritare’ le più severe punizioni. Ad esempio,
ricorda che quando aveva circa quattro anni aveva una governante giovane e carina, di nome
Fraülein Peter, alla quale aveva dato un morso appassionato. Tutto questo tumulto di emozioni e
patologie, dunque, viene messo in scena e interpretato da un minuscolo, banale animaletto: il
topo.
Cinque, sei, sette, lupi compaiono invece nei sogni e poi nelle fantasie di Sergej, l’infelice principe
russo, analizzato prima da Freud, e poi, in un’epoca successiva, da una delle sue allieve13. Anche in
questo caso, le bestie feroci, che lo fissano con occhi inquietanti dal buio della notte, vengono
usate dall’inconscio del paziente per rappresentare un drammatico intrico di rapporti di amore e
odio tra lui, i genitori, la sorella, le governanti. Più nel dettaglio, l’angoscia che evocano i lupi è
connessa a un’esperienza traumatica originaria, quella della seduzione - reale o fantastica? - della
sorella da parte del padre, accompagnata da un’identificazione alternante di Sergej con l’uno o
con l’altra.
Ad un livello assai meno drammatico, senza la diretta evidenza della relazione terapeutica, c’è
un’altra affascinante indagine freudiana che possiamo far rientrare nel nostro ‘bestiario
psicoanalitico’. L’animale in questione è questa volta un uccello, ed a chiamarlo in causa come
interlocutore delle sue vicissitudini inconsce è Leonardo da Vinci. Com’è noto, Freud si appassionò
nell’esplorare le opere e le vicende biografiche del genio fiorentino, alla ricerca delle radici dei
conflitti primitivi che avevano determinato al contempo la sua creatività artistica e la sua
patologia. E’ Leonardo stesso a scrivere che, mentre stava redigendo un protocollo scientifico, si
era interrotto per seguire il filo dei suoi pensieri perché un ricordo era affiorato dai primissimi anni
della sua vita: gli era sembrato che - quando era ancora in culla -, un uccello volasse fino a lui “mi
aprissi la bocca con la sua coda e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra”14.
Giustamente Freud pensò che il ricordo d’infanzia fosse piuttosto una cosiddetta “memoria
schermo”; non la rievocazione di un evento reale, ma la sua deformazione simbolica, al tempo
stesso difensiva e creativa. All’origine di ogni ‘memoria schermo’ ci sarebbe infatti un fatto
traumatico, che necessita di un’operazione mentale di elaborazione successiva. In quell’uccello
Freud crede di vedere il segno della fantasia di una figura genitoriale composita, paterna e
materna, maschile e femminile. La sua ipotesi è che sia l’attività pittorica, sia l’indomabile curiosità
scientifica di Leonardo sia i suoi forti tratti omosessuali fossero in relazione con il suo bisogno di
indagare il mistero della sua nascita: il padre, la madre naturale, la madre adottiva. Freud credette
poi di individuare in una delle opere più alte di Leonardo - il quadro, oggi conservato al Louvre, in
cui sono rappresentati Sant’ Anna con la Vergine e il Bambino - la raffigurazione inconsapevole, nel
chiaro-scuro dei panneggi, di un uccello, la cui coda, appunto, sfiora le labbra del piccolo Gesù. Un
errore di traduzione dall’italiano al tedesco aveva portato Freud fuori strada, facendogli scambiare
il nibbio per un avvoltoio (Geier). Tuttavia le sue ipotesi, deboli certo dal punto di vista
metodologico e scientifico, rimangono ricche di profonde suggestioni. Si può restare perplessi di
fronte a queste ricostruzioni; Freud stesso, d’altronde, aveva ammesso con semplicità che si
trattava di “una composizione per metà romanzesca”15. Quale che sia il suo valore oggettivo, resta
però intatto il fascino dello scenario che egli sa evocare, del periodo nel quale il genio - prima di
imparare a sezionare con gelida passione i cadaveri degli animali, prima di inventare le sue celebri
macchine volanti - era solo un bambino che credeva che gli uccelli venissero a visitarlo in culla e
che sognava di volare.
Anche se non viene menzionato esplicitamente con il nome di un animale, non si può non
ricordare in questa nostra piccola galleria “il piccolo Hans”, il bimbo di non ancora cinque anni, che
Freud analizza e cura con la mediazione del padre. Hans è terrorizzato dai cavalli. Questa fobia
angoscia profondamente il bambino e gli impedisce di uscire di casa. Per comprendere le ragioni di
questa paura, Freud rivolge la sua attenzione in primo luogo allo sviluppo sessuale del bambino e
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alla sua rivalità con il padre. Il pene del cavallo, che colpisce l’immaginazione di Hans per la sua
grandezza, diviene simbolo della superiorità paterna. A proposito degli animali, Freud nota: “Gli
animali debbono buona parte dell’importanza che hanno nel mito e nella favola al fatto che
offrono apertamente allo sguardo dei piccoli figli dell’uomo, avidi di conoscere, i loro genitali e le
loro funzioni sessuali”16.
La possibilità rappresentativa del cavallo, come, del resto, degli altri animali, va certamente al di là
di queste connotazioni di organi sessuali. Il cavallo, con il suo aspetto imponente e la sua bellezza,
può simboleggiare la forza e il fascino della figura paterna. Il cavallo amato e temuto è infatti il
padre che Hans, il nostro piccolo novello Edipo, vorrebbe togliere di mezzo “per essere solo con la
bella madre, per dormire con lei”17. Ma la simbologia si allarga ulteriormente e il cavallo diviene
anche rappresentazione della madre, in particolare della madre gravida che dà alla luce un figlio.
“Dunque, scrive Freud, il cavallo che cade non era soltanto il padre che muore, ma anche la madre
che partorisce”18. E questa varietà di rappresentazioni simboliche è possibile proprio per
l‘importanza affettiva ed emotiva che ha il cavallo. “Io sono un cavallino”, dice Hans19, mostrando
di identificarsi lui stesso con questo animale così pieno di fascino ai suoi occhi. Si può qui ricordare
l’importanza che ha il cavallo bianco nelle fiabe dei bambini, dove il cavallo bianco su cui arriva il
principe è il simbolo della salvezza e della vita che si contrappone all’inganno e alla morte. Il
cavallo appare quindi esprimere la pulsione di vita e l’amore di fronte alla morte e all’odio. Il
profondo legame del cavallo con la pulsionalità e l’emotività è del resto sottolineato da Freud che
considera il cavallo simbolo dell’Es. “Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a
quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il
privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’lo e l’Es
si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là
dove quello ha scelto di andare”20.
Meno nobile dei cavallo, ma altrettanto significativo sul piano simbolico, è il gallo del piccolo
Árpád, di cui parla Ferenczi. Durante un soggiorno in campagna, Árpád entra nel pollaio e un gallo
gli becca il membro. La cameriera gli fascia la ferita e tira il collo al gallo. Da allora Árpád passa
gran parte del suo tempo nel pollaio, parla quasi esclusivamente di galli, galline, capponi e sveglia i
familiari al canto del chicchirichì. Attenzione e interesse verso i volatili si accompagnano però a
crudeli fantasie di torture dei pennuti; e il suo gioco preferito è l’uccisione dei polli. “Mio padre è il
gallo”21, spiega il piccolo Árpád. E il bambino da un lato teme che il padre lo punisca per il suo
onanismo, dall’altro lato fantastica la vendetta: l’uccisione del gallo, come dell’animale totem, di
cui parla Freud22. Nello stesso tempo però l’ammirazione per la grandezza e la forza del gallo-
padre lo porta a volersi identificare con lui e a voler diventare anche lui come il padre “il gallo del
pollaio”23.
Come ci mostrano le storie di Hans e Árpád, molto significativa appare dunque la simbologia
animale nel mondo fantasmatico del bambino. Nell’immaginario infantile gli animali occupano un
posto di grande rilievo, come si vede dalle loro fiabe, dai loro racconti e dai loro sogni. Il bambino
pensa attraverso le fantasie e ha bisogno di immagini e dl personificazioni per esprimere le sue
emozioni. Gli animali sono una rappresentazione privilegiata delle emozioni più primitive e delle
angosce più profonde. Essi personificano aspetti del Sé e rappresentano oggetti significativi del
mondo esterno del bambino. Popolato di animali di ogni tipo è anche l’universo infantile che ci
presenta Melanie Klein.
Allieva di Ferenczi e di Abraham, anziché curarli per via indiretta tramite la mediazione di un
adulto come aveva fatto Freud con Hans, applica direttamente la psicoanalisi ai bambini e può così
accedere ai livelli più profondi dei vissuti affettivi e mentali. Nella Psicoanalisi dei bambini, la Klein
mostra come negli animali pericolosi siano proiettati aspetti violenti e sadici del Sé. “Un bambino
di cinque anni affermava di possedere ogni specie di animali selvaggi, elefanti, leopardi, iene e
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lupi, per aiutarlo contro i suoi nemici. Ogni animale aveva un compito specifico: gli elefanti
dovevano ridurre in poltiglia il suo avversario, i leopardi dilaniarlo e le iene e i lupi divorarlo. A
volte immaginava che questi animali selvaggi che erano al suo servizio gli si rivoltassero contro:
questa idea suscitava in lui vivissima angoscia. Risultò che gli animali raffiguravano nel suo
inconscio le varie fonti del suo sadismo”24.
A volte sono gli aspetti del Superio, cioè dell’istanza morale punitiva interiorizzata ad essere
personificati negli animali, come nel caso di Rita che mette l‘elefantino a guardia della bambola
(che rappresenta lei stessa) per impedirle di realizzare i suoi desideri verso il padre. “Una volta,
durante l’ora di analisi, mise un elefantino vicino al letto della bambola per impedirle di alzarsi e di
andare nella camera dei genitori [...].
L’elefante quindi assumeva il ruolo dei genitori interiorizzati dei quali aveva sentito l’influenza
proibitiva”25.
Gli animali hanno anche la funzione di oggetto “soccorritore”, come un fratello, uno zio o un
nonno e aiutano il bambino a lenire l’angoscia derivante dai conflitti più precoci riguardo ai
genitori. “Anche un animale domestico, nell’immaginazione dei bambini, può occupare il posto
dell’oggetto “soccorritore” contribuendo a far diminuire l’angoscia; e lo stesso può fare una
bambola o un giocattolo raffigurante un animale, cui spesso i bambini assegnano la funzione di
proteggerli durante il sonno”26.
La miriade dei significati e delle funzioni degli animali diviene ancora più ampia nella Analisi di un
bambino, il resoconto dettagliato di un caso di psicoanalisi infantile, seguito dalla Klein nel 1941 e
pubblicato postumo nel 1961. Richard, il bambino di dieci anni, analizzato dalla Klein, sembra a
volte potersi esprimere compiutamente soltanto attraverso la simbologia animale. Richard infatti,
parlando degli animali, riesce a manifestare le sue emozioni e le sue angosce più profonde. Ci si
trova di fronte a un universo colorato e vario di cani, gatti, mosche, api, aragoste, polipi ecc. ecc.
Nei diversi animali prendono corpo le fantasie del bambino che riesce così ad esprimere i suoi
sentimenti, i suoi impulsi e i suoi desideri. La Klein scrive: “Uno dei vantaggi della tecnica del gioco,
particolarmente con giocattoli piccoli, è che, esprimendo attraverso tale mezzo una grande varietà
di emozioni e situazioni, il bambino si trova nella condizione migliore per mostrarci gli avvenimenti
dei suo mondo interiore”27. Questa considerazione della Klein credo possa riferirsi in particolare ai
piccoli animali e alla possibilità rappresentativa che essi forniscono al bambino. Nella stanza di
analisi di Richard non ci sono comunque solo gli animali giocattoli, ma anche i suoi racconti e le
sue fantasie sul mondo animale. C’è innanzi tutto Bobby, il cane di Richard, che morde il papà,
prende il suo posto presso la mamma, ha i suoi cuccioletti e la sua famiglia28. Bobby è così il
piccolo Richard-Edipo, che si identifica con il papà e ne prende il posto. “Richard parlò di Bobby,
che ora era il suo cane, benché lo avesse in comune con la mamma. Bobby lo amava molto. Era
vivace e spesso cattivo [...]. Disse di nuovo che quando il papà s’alzava dalla sua poltrona vicina al
fuoco Bobby ci saltava sopra e occupava tanto posto che ne rimaneva pochissimo per il papà. M.
Klein gli ricordò la propria interpretazione, secondo cui Bobby che saltava sulla poltrona del papà
rappresentava Richard quando provava gelosia e desiderava prendere il posto dei papà. Poteva
darsi che anche Richard avesse desiderato mordere quand’era arrabbiato e geloso” 29. Ma Bobby è
anche dolce e affettuoso e rappresenta a volte il bambino che Richard immagina di coccolare
identificandosi con una mamma amorevole. All’opposto, quando è Bobby a corrergli incontro con
amore e sollecitudine, è il cagnolino che rappresenta la mamma affettuosa che ama Richard 30.
E ancora, quando Richard lo fa entrare nel suo letto, Bobby rappresenta il papà o Paul, il fratello
maggiore, che il bambino vuole sottrarre alla mamma31. Bobby quindi - oggetto d’amore
privilegiato - ha una funzione simbolica assai complessa nelle fantasie di Richard. Si inserisce nelle
situazioni più conflittuali come quella edipica e rappresenta oggetti significativi del suo mondo
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esterno (il papà, la mamma, il fratello) e diversi aspetti della sua personalità (la gelosia,
l’aggressività, l’affettuosità ecc.).
Più lineare e unidirezionale è la simbologia di altri animali. Lo scimmiotto che tira via a Richard il
berretto rappresenta un piccolo bambino avido. Nel mandrillo cattivo e pericoloso sono proiettate
le pulsioni aggressive e violente dello stesso Richard. E anche i topi, le api e le vespe
rappresentano la parte distruttiva che attacca l’oggetto. L’agnellino esprime la mansuetudine e in
particolare identificandosi con “l’agnellino Larry” Richard si mostra mite e nasconde la sua rabbia e
la sua violenza. Le farfalle poi, commenta Richard, “sembravano belle, ma erano distruttrici,
mangiavano i cavoli e altri ortaggi”. Le farfalle, interpreta la Klein, “erano per lui lo stesso delle
stelle marine, cioè bambini avidi, come sentiva d’essere lui stesso”32. Ci sono poi ancora i canarini
che perdono le penne e che rappresentano i genitori feriti; il pesce mamma e il polipo papà che la
molesta facendole il solletico con i suoi tentacoli. Il piccolo pesce Richard li separa perché vuole
impedire al polipo di fare male alla mamma, ma anche perché è molto geloso della loro vicinanza.
Di nuovo complessa e varia è la simbologia del gatto. Il gatto che mangia la verdura e la guasta
rappresenta certamente “Richard che disturbava la crescita dei bambini buoni”33, ma il gattino con
cui gioca il bambino e che commuove Richard è rappresentazione di un aspetto buono ed
affettuoso del Sé. Nel sogno del gatto dove compaiono, innanzi tutto, un padre, una madre e dei
bambini belli, c’è certamente il desiderio di ritrovare sia esternamente che interiormente una
famiglia felice, che ha superato le lotte e i conflitti. “Con loro - prosegue il sogno - c’era anche un
grosso gatto. Prima il loro gatto morse il suo cane, poi andarono d’accordo. Poi il nuovo gatto
stuzzicò il gatto vero, ma anche loro finirono per diventare amici”34. Questo nuovo gatto era molto
bello, come certamente bella appariva a Richard la possibilità di comporre il conflitto e la lotta.
Perché ci sia armonia e felicità è necessario che gli aspetti più violenti e aggressivi del Sé siano
contenuti ed elaborati in modo da dare spazio all’affettuosità e all’amore. Il nuovo gatto bello e
che non graffia sembra simboleggiare questa possibilità di superare la rabbia nell’amore. E
certamente nella realtà del gatto vediamo espresse bene emozioni così contrastanti e profonde: il
graffio della rabbia e la tenerezza di un affetto caldo e dolce: il gatto che fa le fusa.
Nel mondo della psicoanalisi infantile c’è poi da ricordare un altro animale, che occupa un posto
molto speciale: il “Teddy Bear”, l’orsacchiotto o un qualche altro pupazzo di morbida ‘peluche’ che
tanti bambini stringono a sé al momento di addormentarsi, detto anche - in linguaggio tecnico e
assai poco poetico - ‘oggetto transizionale’. Gli studi di D.W. Winnicott - un sensibile pediatra poi
divenuto psicoanalista35- ci hanno fatto capire quanto questa tenera e banale abitudine di tanti
bambini esprima una fondamentale tappa maturativa nella via della separazione psicologica dalla
mamma. E’ l’orsacchiotto a placare il senso di distacco e di solitudine; questo giocattolo concreto,
ma inanimato, che rappresenta l’unione con la madre; che può essere appassionatamente amato,
stropicciato, ma anche maltrattato e abbandonato impunemente; che può essere ritrovato a
seconda del proprio bisogno e infine dimenticato per sempre.
Mano a mano che i bambini crescono, cani e gatti reali verranno a occupare questo potenziale
‘spazio intermedio’ tra loro e il mondo degli adulti: essi diventano una compagnia, una protezione,
un conforto, un giocattolo vivo, da imparare progressivamente ad amare in modo meno tirannico
ed a rispettare nella sua individualità. Chi non ha avuto questa esperienza, difficilmente può
rendersi conto di che privilegio sia per un bambino crescere insieme ad un animale. A suffragare
questa nostra convinzione possiamo, ancora una volta,
chiamare in causa le parole di Sigmund Freud, in Totem e Tabù. Prima di parlarci ancora delle fobie
infantili di Hans e Árpád e di concludere tutto il complesso discorso delle culture dei popoli
primitivi e dell’importanza magico-religiosa che riveste per ogni tribù il suo specifico animale
totemico, da adorare e poi da sacrificare ritualmente, scrive: “Il rapporto tra bambino e animale è
molto simile a quello tra uomo primitivo e animale. Il bimbo non mostra ancora alcuna traccia di
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quell’alterigia che, più tardi, induce l’adulto civilizzato a tracciare una rigida demarcazione tra la
propria natura e quella di tutte le altre creature. Il bambino non si fa scrupolo di concedere
all’animale la piena parità con se stesso; egli si sente certo più prossimo all’animale che non
all’adulto...”36.
C’è poi un altro territorio sconfinato nel quale gli animali vivono con tutta la ricchezza dei loro
significati simbolici: quello dei sogni. Se la simbologia animale è così significativa nel mondo
fantasmatico infantile, altrettanto importante è la sua rilevanza espressiva nel mondo dei sogni,
dove si è in diretto contatto con l’inconscio. Gli animali - dai topi ai lupi, dagli uccelli ai cavalli, dai
ragni alle farfalle - sono infatti rappresentazioni privilegiate degli istinti primordiali, delle emozioni
più primitive e delle angosce più profonde. Anche senza che sia possibile definire una simbologia
fissa, gli animali nei sogni costituiscono uno scenario interiore che arricchisce la nostra possibilità
rappresentativa degli eventi e delle emozioni fondamentali della vita: dall‘aggressività all’amore,
dalla sessualità all’angoscia di morte.
Anche nel lavoro analitico attuale possiamo cogliere l’importanza rappresentativa degli animali,
che sono spesso presenti nei sogni, nelle associazioni e nelle fantasie dei pazienti. Nel caso di un
piccolo paziente autistico, in cui era quasi assente l’uso del linguaggio verbale e di ogni altra forma
di comunicazione, gli animali hanno rappresentato la prima possibilità espressiva di vissuti ed
emozioni interne. Nella stanza di analisi, in cui c’erano giocattoli di vario tipo, egli si accostò
innanzi tutto agli animali feroci, facendo andare un grande elefante contro tutti gli altri, anche
contro il rinoceronte e il leone: è così cattivo, violento e invadente che gli taglia le zanne e la coda
per rendere inoffensivo qualcosa di molto graffiante e aggressivo. Questo fa pensare al suo non
poter parlare, come se le parole potessero ferire, graffiare o uccidere. L’elefante rappresenta così
la presenza invadente e cattiva che il bambino sente dentro di sé e che disintegra le sue capacità
mentali ed espressive. Così come il vitellino che egli mostra mentre succhia il latte dalla mamma
gli serve per rappresentare un aspetto di sé dolce, infantile, bisognoso di nutrimento.
In un altro piccolo paziente il mostro cattivo è rappresentato dal leone, vorace e violento che
simboleggia il padre cattivo e la parte cattiva del bambino. La piccola pecorella, invece, e il piccolo
canguro sono rappresentazioni del suo Sé infantile e bisognoso di cure, di accudimento, di amore.
Così come i gattini da difendere e da salvare fanno la loro comparsa nell’analisi di una paziente
adulta nel momento in cui può finalmente, dopo anni di lavoro analitico, prendere contatto con le
parti del suo Sé più fragili, deboli e bisognose. Nel parlare di un sogno in cui un gattino è finito
sotto a una macchina può mostrare a quanti pericoli e a quanta sofferenza ha sentito esposti
questi aspetti infantili della sua personalità. “Questa notte ho sognato un gattino messo sotto da
una macchina. Questa cosa mi ha rovinato la giornata perché ho pensato a tutti i gattini finiti sotto
una macchina. Ma figurati! Sono proprio una stupida a prendermela per questo... Però quando
vedi queste piccole cosette, che non fanno male a nessuno, e che hanno solo diritto a vivere...”
Attraverso l’amore e la sofferenza per il gattino, la paziente riesce a parlare del suo bisogno di
essere aiutata e soccorsa, della sua angoscia di morte. E sentendosi compresa in questo suo
bisogno può trovare anche lei in sé questa capacità di accudimento che esprime nell’aiutare a
curare i cuccioli. Di nuovo i nostri piccoli amici, i gattini, i cagnolini appaiono per esprimere
emozioni e sentimenti così importanti. Di nuovo loro, che forse comprendono i nostri sentimenti
più profondi e che ci aiutano ad esprimerli.
Possiamo cogliere l’importanza del significato emotivo e rappresentativo degli animali anche negli
interessanti lavori di due psicoanaliste italiane - Silvia Molinari Negrini e Magda Mantovani37- che
raccontano di alcune esperienze terapeutiche nelle quali si coglie una profonda interazione tra le
vicissitudini del rapporto analitico e quelle che i pazienti intrattenevano parallelamente con i loro
cani o con i loro gatti. L’originalità del loro approccio si basa sul fatto che l’una – Silvia Molinari
Negrini - ama i cani; e l’altra - Magda Mantovani - ama i gatti; entrambe, quindi, si sono trovate ad
9

offrire un ascolto sensibile e privilegiato a dei pazienti che, nel corso del trattamento, avevano
cominciato a prendersi cura e a parlare (ovviamente senza saperlo) proprio degli animali prediletti
dalle loro analiste.
Magda Mantovani descrive come nella vita di una delle sue analizzate si fosse creata una ‘zona
gatto’ e poi una ‘zona analisi’ in cui si parlava di gatti e come così si realizzasse una sorta di “area
transizionale”, peculiare per consentire lo sviluppo delle relazioni tra mondo interno e mondo
esterno della paziente. Silvia Molinari, a sua volta, parlando di cani, sottolinea come un cucciolo
abbia uno ‘statuto indefinito’ oggetto sia di identificazione, sia di possesso e di investimento
affettivo, in un intreccio di aspetti ‘narcisistici’ e di aspetti ‘oggettuali’, luogo aggregante di nuclei
di sé e intermediario prezioso delle relazioni con gli altri.
E’ significativo che entrambe le autrici, pur essendo profondamente amanti degli animali, pur
mettendo al servizio del rapporto con i pazienti ‘animalisti’ tutto il patrimonio di particolare
sensibilità che caratterizza chi divide la sua vita con cani o gatti, abbiano saputo mettere a fuoco
anche i lati patologici di certe zoofile. Dobbiamo essere consapevoli, in effetti, che a volte la nostra
passione per gli animali non è esente da tratti difensivi e nevrotici. Ma questo può avvenire, d’altra
parte, in tutti i rapporti. Se volessimo infatti analizzare a fondo ogni relazione tra umani - si tratti di
amicizia, di odio, di amore - è assai probabile che riscontreremmo nella maggior parte dei casi gli
stessi meccanismi: quante volte l’ostilità si basa su proiezioni di nostri aspetti inconsci sgraditi o di
nostre paure irrazionali sul ‘nemico’; e quante volte (sempre, forse?) l’amore si fonda sull’illusione
di “ritrovare” nella persona cara un’immagine remota e segreta che portiamo in cuore ben prima
di averla incontrata! Il vero ‘rapporto oggettuale’, di totale riconoscimento dell’altro nella sua
oggettiva realtà, è forse soltanto un’astrazione. Un rapporto riuscito - con creature umane o con
creature di altra specie – è in fondo un’alchimia di ‘quote’ oggettuali e simbiotiche. Ciò che conta,
è però che nelle relazioni - quali che siano i livelli implicati o le fantasie sottostanti – si riservi uno
spazio all’altro per esprimersi, vivere, funzionare a suo modo; ed anche uno spazio a noi stessi, per
la nostra curiosità di scoprire le cose nuove e sconosciute che l’altro ci può mostrare.
In fondo, si potrebbe anche dire che fare davvero ‘amicizia’ con gli animali, il che significa
accettarli e capirli per quello che davvero sono, è la massima espressione di quello che la
psicoanalisi intende come traguardo maturativo: quello, cioè, di conoscere l’alterità; di poter
accettare che l’altro è diverso, distinto e separato da noi e non rifiutarlo per questo, quale che sia
la sua diversità: sesso, razza, ideologia, sia che parli un’altra lingua, sia che... abbia la coda.

NOTE:
1. S. Freud, Lettera a Marie Bonaparte, cit. in E. Jones, Vita e opere di Freud (1953-57), vol. 3,
   Milano, 1962, pp.252-3. La lettera è ricordata e commentata anche da AM.
Acerboni nel saggio Il segno di un’amicizia, pubblicato in appendice all’edizione di M. Bonaparte,
   Topsy (1937), Torino, 1990. Di M. Bonaparte cfr. ancora: Chronos; Eros, Thanatos (1952)
   Firenze-Rimini, 1973.
2. S. Freud, “Querido amigo...” Lettere della giovinezza a Eduard Silberstein 1871 - 1881, Torino,
   1991.
3. Cfr. E. Young-Bruehl, Anna Freud, a biography, Mcmillan, Londra, 1988, pp. 237,444,447,450-2;
   D. Berthelsen, Vita quotidiana in casa Freud, Milano, 1990, pp. 28,35,52,61; A.M. Accerboni, op.
   cit., .79; P. Gay, Freud, una vita per i nostri tempi, 1988, pp. 490-l; E. Jones, op. cit., vol. 3, p.
   276.
4. A. Freud, Lettera citata in E. Young-Bruehl, op. cit., p.2 17.
5. S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana (1901), in: Opere, vol. IV, Torino,
1970, pp. 201-2.
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6. D. Berthelsen, op. cit., p. 41.
7. S. Freud, Lettera dell’8 maggio 1930 in S. Freud - L. Andreas Salomé, Eros e conoscenza. Lettere
   1912-1 936, Torino, 1983, p. 185.
8. H. Sachs, Freud, Master and Friend, Harvard University Press, Boston, 1944; M.Freud, Glory
   reflected. Sigmund Freud Man and Father, Angus and Robertson, Londra, 1957; cfr. anche P.
   Gay, op. cit., p. 491 e n.
9. D. Berthelsen, op. cit., p. 35.
10. E. Young-Bruehl, op. cit., p. 448.
11. S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi) (1909),
   trad. it. in Opere, vol. VI, Torino, 1974, p. 10.
12. Ibid. p. 16. .
13. S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi) (1914), trad. it. in
   Opere, vol. VII, Torino. 1975. L’analisi fu poi proseguita da Ruth Mack Brunswick. Per una storia
   completa di questa analisi e della vicenda dell’uomo dei lupi, cfr. The Wolf-Man and Sigmund
   Freud, Ed. M. Gardiner, The Hogarth Press, Londra, 1972. Cfr., ancora, per delle interessanti
   osservazioni su questo caso e sul significato del lupo, M. Klein, La psicoanalisi dei bambini
   (1932), trad. Firenze, 1969, pp.221 e sgg.
14. S. Freud, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1910), in Opere, vol. VI, cit., p. 229.
15. S. Freud, Lettera a Hermann Struck, cit. nell’avvertenza editoriale, op. Cit., p. 211.
16. S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso clinico del piccolo Hans) (1908),
   in Opere, vol. V, Torino, 1972, p. 484. “Il piccolo Hans” è anche il titolo di una rivista di
   psicoanalisi, edita dal gruppo “Pratica freudiana” di cui è presidente Sergio Finzi. Nell’estate del
   1990 un intero fascicolo (il n. 66) è stato dedicato al tema “soggetto animale”. Vi compaiono
   molti interessanti articoli di autori italiani e stranieri, che affrontano il discorso sull’animalità
   dal punto di vista psicoanalitico, antropologico e culturale.
17. Ibid., p. 562.
18. Ibid., p. 575.
19. Ibid., p. 583.
20. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Nuova serie di lezioni (1932), in: Opere, vol. XI, Torino,
   1979, p, 188.
21. S. Ferenczi, Il piccolo uomo-gallo (1913), Scritti sulla terapia attiva e altri saggi, Firenze, 1964,
   p. 147.
22. Çfr. S. Freud, Totem e Tabù, alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici
   (1912-13), trad. it. in Opere, vol. VII, cit., dove sono commentate, alla luce dei problema del
   totem, le fobie di Arpád e di Hans.
23. Ibid., p. 149.
24. M. Klein, La psicoanalisi dei bambini, cit., p. 181, n. 19.
25. Ibid., pp. 19-20.
26. Ibid., p. 305.
27. M. Klein, Analisi di un bambino (1961), Torino, 1971, pp. 75-76. Sul grande valore simbolico del
   mondo animale cfr. J. Hiliman, Animali dei sogno, Milano, 1991.
Nell’introduzione, Human scrive: “La psicologia ha un debito particolare nei confronti degli
   animali, se è vero che essi sono il sistema simbolico primordiale”. (pp. VIII-IX).
28. Ibid., p. 37.
29. Ibid., p. 41.
30. Ibid., p. 34.
31. Ibid., pp. 95-96.
32. Ibid., p. 94.
11

33. Ibid., p. 296.
34. Ibid., p. 446.
35. D.W. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1951), in Dalla pediatria alla
   psicoanalisi, Firenze, 1975.
36. S. Freud, Totem e Tabù, cit., p. 131.
37. M. Mantovani, I gatti nella relazione analitica, datt. 1990; S. Molinari Negrini, I cani nella
   relazione analitica, datt. 1990.
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