"RI-COMINCIARE A CREDERE" - Colle per la Famiglia
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Scheda 10 “RI-COMINCIARE A CREDERE” Obiettivo: accompagnare i partecipanti a riscoprire la bellezza di credere DINAMICA o Accoglienza e presentazione dell’incontro o Introduzione all’incontro o Preghiera iniziale o A partire dalla nostra esperienza: lavoro a gruppi. o Approfondimento. o Ritornando alla nostra vita: interventi liberi in assemblea. o Preghiera finale Accoglienza, presentazione dell’incontro _________________ Introduzione ___________________________ «Il termine “ricominciare” non è certo il più adeguato per esprimere ciò che è in gioco, ma lo adottiamo ugualmente: è l’espressione che le persone interessate, pur così diverse tra di loro, utilizzano più spesso e spontaneamente per indicare il loro cammino. Ma chi sono questi “ricomincianti”? Sono dei battezzati. La loro vita è stata dunque segnata agli inizi da un certo rapporto con il cristianesimo. Alcuni, poco a mal catechizzati, sono sempre vissuti piuttosto lontani dalla fede e dalle pratiche cristiane. Altri, al contrario, hanno sciolto i loro legami con la Chiesa per diverse ragioni, più o meno valide. Per alcuni il distacco è avvenuto per pigrizia, per negligenza o mimetismo con i loro ambienti di vita. Ma per altri questa distanza è stata assunta deliberatamente perché la Chiesa sembrava loro ora troppo dura, ora troppo intollerante, ora non sufficientemente rispettosa delle diversità culturali o delle esigenze della ragione. Ciò che è comune a queste persone, al di là della loro diversità, è il fatto che “ricominciare a credere” non significa per nulla “ritornare indietro”. Infatti non si tratta per loro di riprendere, dopo un tempo di smarrimento, un percorso religioso nel punto in cui lo hanno lasciato. Per i “ricomincianti” si tratta piuttosto di andare avanti, di assumere tutta la loro storia con ciò che essa comporta di esperienze, di gioie e di pene, di convinzioni e di dubbi, per “ricominciare a credere”, ma diversamente, su altre basi, con una freschezza, un’intelligenza e una libertà nuove». (Andrè Fossion1). Preghiera iniziale Salmo 133___________________________ R. Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza. Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: 1 FOSSION ANDRÉ, Ricominciare a credere. Venti itinerari di Vangelo, EDB.
egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, perché la sua gloria abiti la nostra terra. R. Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo. R. Certo, il Signore donerà il suo bene e la nostra terra darà il suo frutto; giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino. R. A partire da noi ____________________________________ LAVORO A GRUPPI • Ho fatto l’esperienza del perdonare: quali i punti di forza e quali le difficoltà? Come mi sono sentito\a? • Sono stato perdonato\a: come mi sono sentito\a? METTIAMO IN COMUNE QUANTO LIBERAMENTE CI SENTIAMO DI CONDIVIDERE Approfondimento A partire dalla Parola __________________ (Gv 13,36-38) 36 Simon Pietro gli disse: "Signore, dove vai?". Gli rispose Gesù: "Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi". 37Pietro disse: "Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!". 38Rispose Gesù: "Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m'abbia rinnegato tre volte. Il dialogo tra Gesù e Pietro, il primo degli apostoli, si svolge in un momento drammatico: siamo alle battute conclusive della missione di Gesù, nel discorso di commiato che Gesù rivolge ai suoi durante l’ultima cena. Gli evangelisti Marco (14,9) e Matteo (26,33) precisano con quanta sicurezza Pietro confida di vivere il futuro della sua relazione con Gesù: “Pietro gli disse: "Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!” e, nel Vangelo di Luca (22,33), quest’uomo che ha lasciato tutto per Gesù, che crede in lui e che crede in se stesso afferma senza timore: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”, anzi è pronto a ribadire "Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò". E invece… la realtà sarà un’altra. La sua vulnerabilità, la vita, la paura gli faranno sperimentare il tradimento, il suo tradimento verso la persona che amava. Dal Vangelo di Giovanni (21,15-19) 15 Gesù disse a Simon Pietro: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci i miei agnelli". 16Gli disse di nuovo, per
la seconda volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pascola le mie pecore". 17Gli disse per la terza volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: "Mi vuoi bene?", e gli disse: "Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecore. 18In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi". 19Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: "Seguimi". Questo è l’ultimo racconto del Vangelo di Giovanni; Gesù, crocifisso-risorto, riavvia la relazione. Investe Pietro, colui che lo aveva tradito solo poco prima dell’epilogo della croce, di una missione che finalmente è in grado di accogliere con umiltà e consapevolezza grazie alla sua misera esperienza. Egli, con la triplice risposta affermativa alla domanda di Gesù: “Pietro, mi vuoi bene?”, cancellerà la vergogna del triplice rinnegamento, pronto rialzarsi e a ricominciare daccapo. Leggiamo insieme ___________________________________ GIANCARLO FRANCINI2 E’ impossibile perdonare se non riusciamo a perdonare noi stessi: per quello che si è fatto, per ciò che non si è fatto, per ciò che non si è visto, per ciò che non si è capito, per la nostra paura, per i nostri desideri, per i nostri bisogni, ma anche per i nostri errori. Se il perdono è per-dono, allora dobbiamo capire come donare qualcosa a se stessi, e vedere perché non lo riteniamo possibile, qual è l’ostacolo che vieta un atto così semplice e creativo (nel senso del generativo) di donarsi qualcosa. Spesso il blocco depressivo attiene ad una svalutazione di sé che va a reprime la capacità desiderante. Recuperare il desiderio avvia il processo generativo attraverso quale prendersi cura di sé. A volte il blocco è rappresentato dal senso di colpa, che come una pietra miliare, segna la rappresentazione che abbiamo di noi in una strada obbligatoria, dove pensiamo di non poter essere che così, condannati, per sempre, da una colpa originaria che non abbiamo mai osato guardare. Sbloccare questa dinamica attiene alla possibilità di trovare una relazione di cura che ci faccia sentire in un luogo protetto e sicuro, in grado di permetterci di guardare alla nostra colpa, ridefinirla, svincolarsi da sé per procedere di nuovo in senso generativo. A volte è la paura a bloccare il percorso di crescita della personalità. Ma la paura spesso non è che la paura di se stessi. Paura delle nostre spinte al cambiamento. In tutte queste situazioni solo perdonarsi permette di ripartire. Cosa potrà servire per questa difficile impresa umana? C’è il tema della fiducia da recuperare. Anche qui dovremo fare i conti, durissimi e difficilissimi, col fatto che noi non ci fidiamo mai degli altri non è neanche giusto farlo : noi ci fidiamo e dobbiamo fidarci delle nostre risorse, delle nostre difese, delle nostre esperienze, poiché solo in questo modo potremmo lasciarci andare nella relazione con l’altro, liberamente e intensamente; se questa relazione finirà, io certo starò male ma non avrò rimpianti e so che riprenderò il mio cammino proprio grazie alle mie risorse, alle mie difese, alle mie esperienze e alle mie precedenti relazioni ai miei legami. Per questo nella dinamica della coppia all’interno della quale si è persa la fiducia, prima o poi arriva il 2 Dalla relazione che il dott. G .Francini ha tenuto all’Oasi San Giacomo durante l’incontro “Olio sulle ferite”, il 25 11- 2017.
momento di affrontare il tema delle garanzie. Voglio dire con questo che io non posso chiedere fiducia agli altri, la fiducia la devo chiedere a me; agli altri posso solo chiedere delle garanzie. Con questo non penso solo al controllo, anche se necessario almeno in una forma limitata, ma penso più che altro alla verificabilità di alcuni accordi, al rispetto da parte dell’altro dei miei bisogni e delle mie necessità, infine il rispetto dei mie tempi e dei miei percorsi. Queste sono le garanzie che posso chiedere all’altro/a, io troverò la fiducia in me e potrò così, gradualmente, grazie alle garanzie e alle mie risorse (alle mie esperienze e ai miei tentativi), ritrovare lo spazio per lasciarmi andare con l’altra/o. Ritornando alla nostra vita _____________________________ ➢ Riportiamo in assemblea quale punto dell’approfondimento e\o del testo evangelico ci ha colpito in modo particolare Preghiera finale __________________________________ Semina sempre nelle stagioni della vita semina quando il sole sorge e la luce danza nei campi semina sempre nei passaggi della vita quando sei giovane e cerchi il tuo futuro quando sei vecchio e speri in un abbraccio. Semina sempre, intorno a te, ogni giorno. Semina per le tue figlie e per i figli della terra perché ci sia pane sulla tavola di tutti e il vino nuovo per brindare alla vita. Semina la tenerezza, sempre sana le ferite, dai il perdono e abbraccia il tuo nemico. Semina piccoli gesti per andare incontro semina l’ascolto di un cuore che accoglie. Semina la giustizia in ogni cosa nelle piccole scelte di ogni giorno spezza tutte le mafie e i sistemi di violenza. Semina la Pasqua del perdono anche quando è inverno semina sempre anche controvento. Il fiore sboccerà, rifiorirà la terra. E tu continua, semina perdono, semina ancora L’aurora nasce e il seme ormai matura..
Allegato 1 Approfondimento dott. Giancarlo Francini Lei : “Bugie, bugie, ne sta dicendo una marea….Non ce la faccio più. Forse sono io che non riesco a farmi portar rispetto”. Lui : “Siamo ad un punto ristagnante…. Se è successo tutto questo ci sarà un motivo…. ci sono dei vuoti in me…” T. : “ Perché siamo qui?” Lei : “ Per capire cosa si può fare. nonostante tutto io so che riuscirei a superare tutto…. ma io voglio, io vorrei, rimanere con lui ma vorrei che lui rimanesse per me, non voglio fargli pena, non voglio che lo faccia per la figlia o la famiglia…Io sono forte e so star da sola… Lui: “ Se volevo andarmene da casa questo era il momento giusto e non l’ho fatto…. però quando è il fine pena? Se è un ergastolo io evado subito” Lei : ” Si ma per tornare a fidarsi ci vuol del tempo” T.: “Ma riuscirete a dimenticare? Essere in due e sentire di essere in tre è difficile, doloroso….” Lei : “Per ora la rabbia mi è passata e riesco a riderci… ma lui non me neppur parlare in continuazione o raccontare ancora bugie..” Lui “ Io ho fame ed ho la pancia vuota…. e se non trovo risposta a questo bisogno di affetto …. vado a cercarlo altrove” T.: “Possiamo provare ad affrontare questo vostro periodo insieme, qui, e so che se c’è un possibilità per uscirne è che voi vi dedichiate a voi stessi e alla vostra coppia … ma è ovvio questo lavoro rimane aperto ad entrambe le vie di uscita, quella insieme e quella da soli, in fondo sia per ritrovare un assetto di coppia, che non potrà essere più come prima, e trovare una strada per la separazione, comunque bisogna lavorarci Il perdono ed il perdonare Che il perdono faccia parte dell’esperienza umana è quasi ovvio, e rappresenta uno di quei fenomeni che ognuno di noi si è trovato ad affrontare nel corso della vita, sia nella sua accezione di perdonare l’altro sia in quella di essere perdonato. D’altra parte veniamo da una tradizione culturale giudaico-cristiana che ha fatto del perdono uno dei cardini della propria impostazione. Vorrei qui di seguito parlare di come il Perdono si trovi ad essere un crogiolo complesso che incontriamo spesso in terapia e che se non ci soffermiamo a pensarci un po' sù non riusciremo ad affrontare come terapeuti dei nostri pazienti. Bowen riteneva che un terapeuta non potesse sostenere la differenziazione di un paziente oltre al grado di differenziazione che lui stesso aveva raggiunto; non so se sia vero, senz’altro però vale anche per il perdono come esperienza umana. Perdono e Lutto Non ci può essere bisogno o richiesta di perdono se non c’è ferita. Spesso la ferita in questo specifico è vissuta come tradimento. Nello splendido affresco del Masaccio, vediamo Adamo ed Eva, colpevoli di aver tradito la fiducia di Dio che aveva dato loro un solo divieto, essere scacciati dal Paradiso Terrestre : si coprono il volto, capo chino sentono di aver distrutto u’armonia precedente. Tutto ora sembra andato perso. La sensazione è quella della morte, della fine. Ma nel tradimento, cos’è che muore? Se proviamo a farci questa domanda ci rendiamo conto che muore la fiducia e lascia il posto alla delusione. Si apre cioè una voragine interna a noi in cui la rabbia e la disperazione (oscillazione tipica della depressione come fenomeno esistenziale) sono i due sentimenti che esprimono, precedono, coprono e derivano direttamente da queste dimensioni della fiducia e della delusione. La fiducia : ma di cosa ci fidiamo in fondo, noi? Ci fidiamo dell’altro? Noi spesso riteniamo l’altro come noi, con un’operazione transferale proiettiamo sull’altro ciò che noi vorremmo e lo riteniamo in
grado di essere come noi lo vorremmo poiché è prodotto proprio da noi, (anche se noi percepiamo l’altro solo come noi lo volevamo) : in sintesi un transfert. Ma in definitiva questo significa che noi ci fidiamo di noi stessi, o meglio di quello che è altro da noi ma che noi percepiamo come la nostra parte mancante, o addirittura come un altro noi identico. Quindi ci fidiamo di noi, solo che lo trasferiamo sull’altro e ci lasciamo andare in modo fideistico appunto, al non controllo . Altrimenti dovremmo controllarlo in continuazione (come a volte in realtà facciamo, senza peraltro riuscirci poiché trattasi di operazione impossibile). Unica via di uscita è ripartire dal fatto che noi abbiamo fiducia in noi stessi e non nell’altro; nel senso che noi abbiamo fiducia nelle nostre possibilità e nelle nostre risorse. Solo se riconosco in me la capacità di affrontare il dolore, allora davvero mi potrò lasciare andare con l’altro, senza controllarlo. Se l’altro mi ferisce ho le risorse per sopravvivere, starò male, soffrirò , ma riuscirò ad andare avanti. questo però implica che io sia consapevole che l’altro è altro da me e non è me, non pensa come me, non indovina ciò che io desidero e non è riducibile a me. La delusione : delusione fa rima con illusione. Spesso rimaniamo vittime delle nostre illusioni. Il desiderio di qualcosa ci spinge spesso a proiettare i nostri bisogni sull’altro, ( e spesso per un po’ funziona), per poi esserne delusi poiché l’altro non è, come dicevamo sopra, me, e quindi non partecipa alla nostra illusione, se non in parte. Cosa possiamo fare allora? Ogni perdita comporta la necessità di lasciare andare l’oggetto amato, non lo possiamo trattenere, trattenerlo significa stare lì con l’oggetto e non crescere o non evolvere, significherebbe cioè non avere una speranza ma solo accanimento pseudo-terapeutico. Lasciare andare l’oggetto invece vuol dire aprirsi alla speranza, dare al desiderio una prospettiva di futuro, affrontare il cambiamento, cioè stare nella dimensione che ogni perdita in realtà è una fase o meglio il cambiamento da una fase ad un’altra. Ma per far questo abbiamo la necessità di dare senso, (ridefinire l’accaduto e la storia che lo ha caratterizzato) recuperare le nostre proiezioni e prendersi cura di sé. Quale ferita? Ovvero l’imperdonabile Valdimir Jankélévich (1969) nel suo saggio sul perdono, si sofferma a distinguere il perdonabile dall’imperdonabile, ritenendo quest’ultimo l’atto contro l’umanità in sé e contro l’umanità tutta. Ciò che è imprescrittibile risulta imperdonabile. In questo senso fa riferimento all’esperienza della Shoa. Derrida (2004) risponderà che essendo il perdono appunto un “per-dono”, non attiene alla richiesta di chi vuol essere perdonato ma trattasi semmai di una volontà di donare all’altro e quindi non si può perdonare l’imperdonabile perché questo non attiene all’umano e non rientra nel novero del perdonare se è imperdonabile, infine il perdonabile dipende dalla capacità di perdonare e non dall’atto in sé. In un saggio più recente Laura Boella (2013), ci permette di avanzare su questa riflessione : il saggio prende in considerazione le donne che hanno compiuto un atto ritenuto imperdonabile dalla società e dalle convenzioni, perciò severamente punite. “L’essere imperdonabile significa aver rotto i fili che legano a regole di condotta comunemente accettate, essersi sottratti ai principi etici fondamentali, o aver improvvisamente ribaltato l’immagine che gli altri hanno di noi” (L.Boella 2013) Ecco allora che ci si apre alla mente una ridefinizione dell’imperdonabile, che attiene a ciò che è umano e che è vittima del proprio tempo e delle opinioni e valori del suo tempo. Imperdonabile è per la Boella, (e prima di lei per Cristina Campo), ciò che non rientra tra le cose per cui chiedere un perdono, poiché trattasi di un non rispetto di convenzioni, di una visione diversa su cose e condotte che hanno si un loro collegamento o determinazione con valori e convenzioni attuali, ma che non rappresentano una colpa. Sono comportamenti che rischiano di ferire l’altro perché l’altro non li aveva considerati, o come si dice in questi casi, che “non me lo aspettavo” o peggio “ da te non me lo aspettavo”; il tuo comportamento non è in linea con quello che io avevo transferito su di te, quindi mi colpisce e mi ferisce (nel senso che abbiamo dato sopra), ma che in realtà ha solo il difetto di non essere annoverato da me, mentre in se stesso, come comportamento non ha nulla da farsi perdonare. Ogni atto o pensiero o comportamento legato al processo di differenziazione, per esempio, pur rischiando di provocare una ferita o una delusione (se non addirittura una perdita ) nell’altro, non ha nulla di cui farsi perdonare , e quindi è imperdonabile .
In questo senso, spesso l’imperdonabile, è ciò che noi non riusciamo a perdonare a noi stessi. Questo perché non riusciamo a perdonare o perlomeno accettare quella parte di noi stessi , o meglio sarebbe dire, la relazione con quella parte di noi e la relazione tra quella parte di noi e l’altro, da cui dipende, in gran parte, anche la nostra identità. In questo senso perdonare attiene principalmente al “donare” all’altro o a se stessi la libertà di essere diversi, di cambiare, di mettersi in viaggio verso il cambiamento o verso la ricerca di sé o la ricerca di senso. Il processo perdonativo Il perdono è un processo, o meglio potremmo dire una ricerca. In questo senso necessita di un tempo. Dobbiamo darci tempo, dobbiamo dare tempo, ma anche prendersi del tempo. Il semplice trascorrere del tempo tuttavia non coincide con il perdono. Jankelevich nel distinguere il vero perdono dai “simil-perdoni”_, solo apparentemente generatori degli stessi effetti, annovera tra questi l’usura intesa come tempo che passa e che in sé trasforma ogni cosa. Essa implica l’ inevitabile, progressiva erosione dei sentimenti di risentimento e rancore, poiché il tempo pian piano allontana dalla ferita , lascia il posto alla ripresa senza un reale confronto con l’accaduto e smorza in questo modo i toni ma lascia dietro di se il rammarico, un "ancora" che può riesplodere come un incendio che covava sotto la cenere_. Ma si tratta di un atteggiamento atrofico, astenico, stanco che non solo non ha pari rango di eticità ma non produce il volgersi dei sentimenti negativi in positivi. Il rancoroso è un malato non guarito, l’unica guarigione definitiva e completa è quella che il ferito può darsi da se stesso, in tal senso il perdono è un’intenzione. Il processo perdonativo, quindi, è intenzionale , è atto voluto, ricercato, che necessita ovviamente di tempo. Ovviamente inizia dopo un primo spaiamento e un intervallo, una sospensione, un momento di regressione/isolamento dovuto all’accadimento. Prendersi tempo , dare tempo3, implica pensare il tempo, nel senso di connettersi con la dimensione temporale con l’esperienza vissuta dello stare nel tempo, in un certo senso ritornare a percepire la “crescita”. Ma, in fondo, questa esperienza non attiene direttamente la psicoterapia”? Dimenticare? Il perdono non attiene il dimenticare. Dimenticare è impossibile. Dimenticare non è umano, è semmai divino. Dimenticare dal punto di vista umano può diventare rimuovere o negare, che sono antitetici il perdono. Riusciamo a perdonare solo confrontandosi con se stesi (vedi sopra) e/o con l’altro. Il processo perdonativo è un processo relazionale, meglio se a tre, nel senso che attiene al confronto con me stesso e con l’altro (sia inteso in senso reale che virtuale) meglio se effettuato tramite un terzo che ci aiuta in questo confronto (la terapia appunto). Nel confronto con l’altro, sia che riesca o meno a mettermi nei suoi panni, mi permette comunque di considerare l’altro altro da me e svincolarmi quindi dal processo di transfert di cui sopra. E’ quindi intuibile come il terzo (terapeuta) riesca a sbloccare la proiezione del transfert e riportare il paziente sul piano della realtà delle proprie percezioni. Noi ci confrontiamo, infatti, con l’altro che sta dentro di noi, con quella relazione di cui avevamo bisogno per riconoscersi, per arrivare invece a riconoscersi per se stessi. Altro è confrontarsi davvero con l’altro, di fronte a noi, sia che chieda di essere perdonato sia che non lo chieda, perché sente di essere imperdonabile (nel senso dato da L.Boella). Se chiede di essere perdonato, ci confrontiamo con il fatto che lui riconosce la nostra ferita, il nostro dolore e si pone in questo modo come la cartina di tornasole rivelatrice della nostra esistenza : cosa siamo stati , cosa abbiamo rappresentato e altro ancora. Questa sua presenza di fronte a noi permette a noi di sentirci concretamente e vederci confermati in ciò che siamo stati e siamo. 3 G. Francini, (2014)
Se non chiede di essere perdonato, ci permette comunque di vedere come l’atto che ci ferisce e per lui l’atto che lo libera e lo fa per sé non contro di noi. Non c’è un attacco a noi nell’atto di liberarsi , semmai c’è un attacco alla funzione che stiamo svolgendo e/o che obblighiamo lui a svolgere per noi. Come si vede è un processo antitetico alla rimozione o alla negazione. Anzi il processo perdonativo si scontra con le difese di negazione e di rimozione che a volte siamo portati a mettere in atto. D’altra parte scendere nell’ottica del perdonare l’altro, vorrebbe dire cadere in una trappola : non possiamo perdonare l’altro, possiamo invece vederne le differenze da noi e dal nostro sentire, riconfermare noi stessi o scoprire addirittura qualcosa di noi, per perdonare l’altro. Perdonarsi E’ impossibile perdonare se non riusciamo a perdonare se stessi : per quello che si è fatto, per ciò che non si è fatto, per ciò che non si è visto, per ciò che non si è capito, per la nostra paura, per i nostri desideri, per i nostri bisogni, ma anche per i nostri errori. Se il perdono è per-dono, allora dobbiamo capire come donare qualcosa a se stessi, e vedere perché non lo riteniamo possibile, qual’è l’ostacolo che vieta un atto così semplice e creativo (nel senso del generativo) di donarsi qualcosa. Spesso il blocco depressivo attiene ad una svalutazione di sé che va a reprime la capacità desiderante. Recuperare il desiderio avvia il processo generativo attraverso quale prendersi cura di sé . A volte il blocco è rappresentato dal senso di colpa, che come una pietra miliare, segna la rappresentazione che abbiamo di noi in una strada obbligatoria, dove pensiamo di non poter essere che così, condannati, per sempre, da una colpa originaria che non abbiamo mai osato guardare . Sbloccare questa dinamica attiene alla possibilità di trovare una relazione di cura che ci faccia sentire in un luogo protetto e sicuro, in grado di permetterci di guardare alla nostra colpa, ridefinirla, svincolarsi da sé per procedere di nuovo in senso generativo. A volte è la paura, come di un fulmine che all’improvviso potrebbe spazzarci via, a bloccare il percorso di crescita della personalità. Ma la paura spesso non è che la paura di se stessi. Paura delle nostre spinte al cambiamento, la paura del bisogno di differenziarsi, la paura propria della rivoluzione (o perlomeno di quella che viviamo come tale), paura di essere scacciati dal paradiso terrestre o dal ventre materno. In tutte queste situazioni solo perdonarsi permette di ripartire. Ri-partenza e generativita' Altrove (Francini 2014) ho definito la generativita' ( mutuandola da E.Erikson) come la capacità di prendersi cura di se, degli altri e delle cose, e trasmettere questa competenza relazionale alle generazioni successive. Da questo punto di vista, perdonare attiene alla scoperta di prendersi cura di se e trasmetterla alle generazioni successive. Nella misura in cui mi prendo cura di me, dedicandomi alle mie cose alla mia persona, alla scoperta di cosa faccia bene a me e ai miei desideri, riesco a prendere le distanza dall'altro, non come rimozione ma come rivalutazione di se'. Questo percorso, necessario nel processo perdonativo, diventa percorso di scoperta di nuove competenze relazionali e ci permette di interiorizzate relazioni in cui, io sono più determinato e definito, ma anche più consapevole, della differenza tra me e l’altro. Ma è esperienza umana la disperazione di non capire cosa sia il perdonare, e come si possa attingere dentro di noi alle nostre capacità o risorse, alle parti di noi sviluppate nelle precedenti relazioni, sia come difese che come funzioni, per perdonare o farsi perdonare. Cosa potrà servire per questa difficile impresa umana? e poi c’è il tema della fiducia da recuperare. Anche qui dovremo fare i conti, durissimi e difficilissimi, col fatto che noi non ci fidiamo mai degli altri non è neanche giusto farlo : noi ci fidiamo e dobbiamo fidarci delle nostre risorse, delle nostre difese, delle nostre esperienze, poiché solo in questo modo potremmo lasciarci andare nella relazione con l’altro, liberamente e intensamente; se questa relazione finirà, io certo starò male ma non avrò rimpianti e so che riprenderò il mio cammino proprio grazie alle mie risorse, alle mie difese, alle mie esperienze e alle mie precedenti
relazioni ai miei legami. Per questo nella dinamica della coppia all’interno della quale si è persa la fiducia, prima o poi arriva il momento di affrontare il tema delle garanzie. Voglio dire con questo che io non posso chiedere fiducia agli altri, la fiducia la devo chiedere a me; agli altri posso solo chiedere delle garanzie. Con questo non penso solo al controllo, comunque anche necessario almeno in una forma limitata, ma penso più che altro alla verificabilità di alcuni accordi, al rispetto da parte dell’altro dei miei bisogni e delle mie necessità, infine il rispetto dei mie tempi e dei miei percorsi. Queste sono le garanzie che posso chiedere all’altro/a, io troverò la fiducia in me e potrò così, gradualmente, grazie alle garanzie e alle mie risorse (alle mie esperienze e ai miei tentativi), ritrovare lo spazio per lasciarmi andare con l’altra/o. Sarebbe da parte mia banale, non pensare che nelle coppie e nelle relazioni in genere non ci siano anche altri motivi di legame oltre ai sentimenti. I valori, i progetti, elementi super-egoici come i figli e la famiglia che incidono fortemente sul mantenere un legame. Rispetto a questi valori, Cigoli e Scabini (2000), hanno messo in evidenza la necessità di un impegno etico nella coppia e nel legame in generale. Ma ne parlava non tanto come obbligo del legame nè come repressione dell’individuo, bensì definiva l’impegno come una rappresentazione interna, dell’orientamento a lungo termine del rapporto. Cigoli e Scabini, cioè mettevano in risalto come un fattore protettivo del legame fosse la rappresentazione di questo legame nel futuro, una visione interna di durata. D’alta parte come potrebbe formarsi un legame se pensassimo che è destinato naturalmente a finire? Questa rappresentazione interna, invece, diventa il volano del legame stesso poiché lo mette in una dimensione eterna (il per sempre degli innamorati), e viene giustamente richiamato da uno o da entrambi nel momento della crisi, per riaffermare la validità dei sentimenti di partenza e per rinnovare il tema della promessa. La promessa si sa trasforma colui che la fa (Lacan ), nel senso che nel momento io prometto amore eterno, definisco il mio sentire come qualcosa di talmente grande che trascende il momento presente, ma non attiene davvero al futuro a cui fa riferimento. Nel momento in cui il mio giuramento di amore eterno viene definito, parlato, rende me eterno, non necessariamente il legame. Così se la promessa non è programma immodificabile, non è vincolo nel tempo, ha pur sempre il valore di definire (imprigionare direbbe Lacan) i due che si incontrano come coloro che si proiettano nel futuro insieme. Di fatto questo incominciamento diventa la rappresentazione mentale della coppia, che si vede così, per quello che loro sono nella loro intimità nascosta agli altri, e che viene proiettata come segreto che accomuna, nel futuro. Il perdono attiene, nelle coppie che ce la fanno a superare la loro crisi, il rinnovamento della promessa, poiché rimanda ad una rappresentazione mentale della coppia stessa modificata ma ravvivata da un nuovo capitolo esponenziale che li fa non solo diversi ma ancora più intimi, ancora più segreti agli altri che non sanno tutto il loro percorso di dolore e di scoperta, che è appunto il perdono. Come si vede, non sono certo i valori super-egoici come la casa, la famiglia, i figli o altro ancora che possono rappresentare un impegno etico. Questi rappresentano solo vincoli, che attaccano, come con la colla, il vaso infranto, ma nessuno potrà garantire né la tenuta né la funzionalità di quel vaso. Per alcuni anche i vasi infranti e rimessi insieme hanno un fascino, ma solo come ricordo o come testimonianza di un’esperienza fatta, di una storia che è stata, una confessione di una lunga esistenza con tante esperienze e tanta umanità. Il vaso infranto, tramandato nei secoli è il risultato evidente di un processo perdonativo a livello individuale, di un opera di cura minuziosa, o il simbolo di una sventura abbattutasi su quel vaso.
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