Da lontano 2020 Arianna BABBI - Sfogliami.it
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Da lontano Arianna BABBI 2020
Premio Campiello Giovani 2020 Selezione della cinquina finalista Da lontano di Arianna Babbi, Classe (RA)
Da lontano La donna grattava col cucchiaio sul fondo di una confezione di cibo ci- 3 nese: la fame le raschiava ancora in fondo alla pancia, non lasciava indietro neanche un chicco bianco. L’ultimo l’aveva tenuto un attimo in più sotto la lingua, prima di mandarlo giù. La porta di casa aveva mandato un cigolio, un gemito. Ascoltava i passi del ragazzo nell’ingresso: erano pesanti, sotto le gambe magre. Si era af- facciato alla porta della cucina per salutarla con un cenno, gli occhi neri di trucco. Lei gli aveva risposto con un gesto del cucchiaio di metallo, poi si era allontanato e si era richiuso dietro la porta del bagno. Dopo qual- che secondo arrivavano, attutiti, i riverberi di qualche canzone vecchia, poi il getto della doccia. Lei succhiava il cucchiaio, i resti di sugo che le si scioglievano contro il palato, finché non era rimasto solo il metallo secco, asciutto. Ma lo stomaco le si contorceva ancora, dava urli sommessi. Lei conti- nuava a succhiare il cucchiaio, volgeva gli occhi agli angoli bianco sporco del soffitto, alla macchia di umidità vicino alla finestra, con la vernice che si staccava come da un taglio nuovo. Li rivolgeva alle sue mani: erano piene di solchi, scavate da fiumi asciutti tra le vene e i tendini. Il cerchio profondo intorno all’anulare. Il cambiamento era stato così garbato, così muto, che non se n’era accorta. Un’iniezione. Si era alzata in fretta, gettando il cartone rosso del take away nel cestino della carta, il cucchiaio nel lavandino, con un tintinnare bagnato. Nell’altra stanza lo sentiva cantare a mezza voce. Aveva preso una confezione di biscotti secchi dalla credenza, strappan- dola aperta. Si pensava nuda davanti allo specchio, la pelle che prendeva morbidezze diverse, si scavava e si spezzava con una geologia che le era
nuova. Se la studiava con una consapevolezza vagamente colpevole: il ven- tre era più gonfio. Ecco era gonfia, più che altro. Gonfia di “schiscette” di riso gommoso riscaldato nel microonde dell’ufficio, dell’acqua che prende- 4 va il sapore metallico del thermos. Aveva affondato i denti su un biscotto, la testa intontita. Li mangiava uno dopo l’altro, a morsi piccoli, affondandoci i pensieri come in un’anestesia. Di là il getto della doccia si era zittito. Lei li mangiava piano, mentre apriva il sito di qualche compagnia di volo low cost sullo schermo lucido del cellulare. Dopo qualche minuto era entrato in cucina anche lui, i capelli corti ancora umidi sulla tuta scura. Aveva aperto il frigorifero, tirandone fuori un barattolo di yoghurt bianco di quelli grandi, già aperto. Aveva preso un cucchiaino di metallo dal cassetto delle posate e ve lo aveva affondato dentro, la schiena contro il freddo di una credenza di legno, vecchia, piena di buchi. Le aveva chiesto com’era andata la giornata. Lei gli rispondeva distratta. Lo guardava, gli occhi macchiati dal trucco che si era sciolto nella doccia, due fondi di bicchiere, fino ai piedi scalzi. Non riusciva a perdere quell’abitudine inquieta di fare da mamma a qualcuno, la cosa la colpiva quando non se lo aspettava come un pungiglione, un senso di colpa. Erano arrivati in Inghilterra negli stessi giorni, sotto la stessa pioggia fitta. Entrambi cercavano un coinquilino su quei gruppi di Facebook, per quel bisogno smanioso di costruirsi a una famiglia nuova che parlasse una lingua vecchia, di aggrapparsi a un letto tra quelle strade che si smangia- vano a vicenda, le auto veloci. Aveva risposto al suo annuncio per strada, pigiando sul telefonino di fretta, l’ombrello che le scivolava tra le dita. Le sembrava un ragazzo a modo, li definiva così, giovani a modo. Nell’imma- gine del profilo rideva, con la pelle olivastra, una mano sottile a coprirsi i denti. Non aveva trent’anni, aveva una laurea, un tirocinio in un’azienda con un nome importante, grosso, in inglese. Un po’ come lei. Solo che lei
aveva anni diversi. Da quando avevano iniziato a convivere certe volte cenavano insieme, guardavano la tv italiana nello schermo rigato del tablet di lui. Nessuno dei due la guardava mai a casa, a casa, ma lì era una tentazione costante. Erano 5 diventati grandi in un posto, ora dovevano reimparare da capo, ricostruirsi il mondo attorno, un pezzo alla volta: quali erano le marche buone dei biscotti, il bar per la colazione, il peso da dare a ogni sillaba per non farsi guardare fisso dalle commesse nei negozi. La sera si riconoscevano nelle scenografie di un programma che facevano finta di trovare divertente, ci si rifugiavano con la coda tra gambe, il figliol prodigo. Più i giorni andavano e più avevano voglia di disseppellire quegli ossi spaccati, lei gli raccontava della figlia, lui del padre che aveva smesso di parlargli, quando aveva inizia- to a uscire la sera con la matita nera negli occhi. «Pensava che fossi gay, io non lo ero, non lo sono neanche adesso.» Si era indicato la faccia con un sorriso, un dolore: «Lo trovavo diverten- te, quando andavo a suonare, mi piaceva. Mi piaceva e basta. Però mi ha guardato con un odio… ho pensato che certe volte non ha senso nemmeno combattere.» Gli aveva voluto bene per la prima volta, quel giorno. Più spesso si par- lavano del lavoro, dei contratti difficili, degli uffici con le vetrate enormi, contro i palazzi alti e un cielo sempre fitto di nuvole. Quella sera lei si sentiva addosso una faccia diversa, uno sguardo fisso. Anche lui doveva essersene accorto perché le faceva più domande del soli- to, ma non toccava mai il punto. Lei continuava a rigirararsi i biscotti tra le dita, pensava che erano anni che non li mangiava così. Capiva i suoi sottin- tesi, quelle sopracciglia che si stringevano, nel dubbio che qualche mese di convivenza non fosse abbastanza per farsi largo nel suo silenzio. Alla fine aveva raddrizzato la schiena contro la sedia, le premeva contro la chiusura
del reggiseno. «Devo tornare a casa per qualche giorno, la prossima settimana.» «Sì? Come mai?» 6 Lei aveva stretto i denti su un biscotto. «Così. un giretto. Faccio una sorpresa a mia figlia.» «Fai bene.» Aveva disteso il viso. Lei aveva la bocca piena di biscotto. «Quand’è che vai?» «Dopodomani, uscirò di casa presto. Starò via quattro, cinque giorni.» Era il volo che aveva intenzione di prenotare, ma non l’aveva ancora fat- to. Guardava le icone nere nel cellulare, fisso, finché non le si confondeva- no gli occhi. Gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto lui quella sera, contenta, perché lui aveva iniziato a raccontare di un bar di un quartiere famoso dove poteva suonare con alcuni amici. Lui suonava il basso, ogni tanto trovavano i plettri sul fondo bagnato della lavatrice. La prima volta lei li aveva scam- biati per gusci neri di insetti. Quando nella confezione erano rimasti solo un paio di biscotti aveva arrotolato il bordo e l’aveva riposto sullo scaffale. L’aveva salutato con una voce alta, acuta, e si era chiusa dietro la porta della camera da letto, piano. La stanza era ancora chiara, il buio non scendeva. Il cielo fuori dalla finestra era di un blu ancora tiepido di luce, anche se erano già passate le nove. Erano a nord, il sole faceva fatica a scendere del tutto, gli ci voleva di più. La luce continuava a stendersi sui palazzi, a specchiarsi sui vetri, con- tro i nembi. Era un sole che non conosceva: lei pensava alle notti d’estate, le prime volte che sua figlia usciva alle feste in spiaggia e lei andava prenderla in macchina, sotto un cielo nero viscoso, acceso solo di lampioni, di locali. I tappetini della macchina che sbatteva dalla sabbia, sua figlia che ogni tanto rideva, ogni tanto se ne stava seria e si slacciava i sandali, le righe rosse che
le lasciavano sulle caviglie. Quella luce la innervosiva, alla fine aveva tirato le tende pesanti, si era coricata sopra le coperte ancora fredde. Aveva il cellulare acceso su quel volo, guardava la data con un’asfissia stretta al collo. Non tornava da mesi, 7 dopo quel primo biglietto di sola andata. Prima di partire aveva promesso alla figlia che sarebbe tornata per il suo compleanno, che a giugno avrebbe avuto un po’ di ferie. Quanti anni avrebbe compiuto? Cinque, trenta? Era piena di diacronie che nella sua testa si confondevano, una bambina, un embrione, e certe volte la guardava e aveva questi occhi da donna, con una sofferenza che le faceva venire voglia di gridare, di piangere. Sedici anni, erano sedici anni. Glielo ricordava sempre il biglietto di auguri che le aveva comprato, stava appoggiato sul pacchetto regalo lucido sopra la sua scriva- nia. Se ci passava una mano sopra, le dita le impazzivano un po’. Alla fine si era decisa a chiamarla, lo faceva tutte le sere, era ora. La figlia era stretta in una coperta, sul divano ruvido. Guardava la re- plica di un vecchio quiz sullo schermo piccolo della tv della nonna, i con- correnti avevano facce sgranate, intente. Le piaceva indovinare le risposte. Scambiava qualche parola con la nonna, poi l’aveva sentita russare, la testa nascosta dentro il palmo di una mano, allora aveva sorriso, si era stretta le labbra. Intanto le si era annunciato un fastidio in fondo alla pancia, come tutte le sere: non l’aveva ancora chiamata. Era tornata a concentrarsi sulle domande, gli occhi dentro quelli chiari del presentatore, sui suoi modi ve- loci, i giri di parole che conosceva a memoria. Il telefono aveva iniziato a vibrarle contro una coscia mentre pensava a dei fatti della seconda guerra mondiale, ma aveva sbagliato, aveva detto bene il concorrente. Aveva ri- sposto con un’inclinazione di fastidio, mentre abbassava il volume, con un pugno in pancia. «Nanà, come stai?»
Aveva preso a mordicchiarsi intorno a un’unghia, le aveva raccontato qualcosa della scuola mentre teneva gli occhi sul programma, muto, sul sorriso imbarazzato e pieno di denti della concorrente che era appena stata 8 eliminata, vedeva come le si piegavano i capelli intorno alla testa. Non le chiedeva mai niente di rimando, ma lei le raccontava lo stesso, quello che faceva, quello che non faceva. Un lavello che continuava a perdere acqua. Alla fine si era svegliata anche la nonna, aveva battuto un po’ le palpebre sugli occhi macchiati. L’aveva ascoltata in silenzio per un po’, alla fine le aveva chiesto di passargliela. «Chiara? Ciao. Ascolta, allora quando arrivi?» Aveva annuito appena, i lobi appesantiti da cerchi dorati che le tremava- no intorno alla faccia. «No, ma che hotel, stai qui da me. Sì… tranquilla. Ciao, ciao.» Aveva restituito il cellulare alla nipote, la bocca sigillata. Forse non se ne rendeva conto ma continuava a scuotere un filo la testa, anche mentre si aggiustava la coperta sulle ginocchia, mentre la ragazza rialzava il volume del televisore, mentre i concorrenti ricominciavano a parlare. Scuoteva la testa. E a un certo punto la ragazza era certa di averle sentito uscire dalla bocca una parola, “strega”: le aveva provocato come una risata, un riflesso involontario, aggressivo. Si era chiesta per un attimo se fosse possibile per una madre odiare la propria figlia, se era questo che aveva sentito in quel sussurro incattivito. La nonna non si era più riaddormentata dopo. La ragazza l’aveva sa- lutata con un bacio contro la guancia piena di fili, piena di increspature. Era uscita nel cortile stretto, l’aria satura dell’odore bagnato della terra, gli insetti aggrappati alla lampadina che illuminava il vialetto. Le mettevano addosso un fastidio strano, aveva fatto i gradini della scala esterna due a due. Cercando le chiavi si sentiva formicolare i capelli, si era richiusa la
porta dietro con frenesia. Papà bofonchiava qualcosa, la telecronaca di una partita a volume troppo alto. Aveva cominciato a dirglielo lei, di abbassarlo, prima lo faceva la mamma. L’aveva salutato di fretta, nella casa buia, era en- trata nel bagno tastando con le mani contro i muri ruvidi, le intercapedini 9 di legno, la maniglia fredda metallica della porta. Una tensione le iniziava a salire dalle piante dei piedi, le si arrampicava sulle gambe mentre si lavava i denti allo specchio, mentre cambiava l’assorbente tra le ginocchia aperte. Dopo si era passata un’altra volta il mascara, si era anche riempita la bocca di un rossetto scuro, uno di quelli che aveva lasciato sua madre, ma se l’era strofinato via dalla faccia con vergogna, lasciandosi le labbra arrossate. Si aggrovigliava nel letto macchiando il cuscino di trucco, nella luce cal- da della lampada che teneva sul comodino. Teneva il cellulare tra le dita, cercando di far entrare nello schermo il nero dei ricci sul collo, sul petto. Si riempiva la faccia di fotografie, lasciava che la corrodessero. Ogni prospet- tiva era quella sbagliata, la carne le cadeva male sulle guance, riempiva gli spazi dell’immagine con geometrie tutte diverse e tutte sbagliate. Alla fine scorreva la galleria, un nugolo di seni, di luce aranciata, i suoi stessi occhi che la riguardavano decine di volte. Lui le aveva mandato un messaggio, le chiedeva dove fosse finita. Alla fine gli aveva inviato una delle immagini, di fretta, una di quelle sfocate, con un sorriso che le moriva in bocca, un’ansia elettrica nelle dita. Ma poi lui le aveva mandato un altro messaggio e le diceva che era bella e le diceva che la amava, l’ansia le si scioglieva dentro, come sale nell’acqua. Anche oggi la amava. Era un’abitudine, una messa. Lui era un amico di amici, coi denti lucidi, alto. Era più grande di lei, di qualche anno. L’aveva guardata qualche volta nel buio sfocato di un locale, le aveva offerto da bere. Lei aveva detto di no, grazie, che era con le sue amiche. Lui aveva alzato le spalle, un sorriso candido, un morso nelle labbra. Poi un venerdì ci aveva litigato, con le sue
amiche, aveva lo stomaco gonfio di nervosismo, smangiava la cannuccia di una coca-cola. Lui le aveva fatto un altro sorriso bianco, e alla fine avevano condiviso un Long Island, qualche parola. Lei aveva insistito per restituirgli 10 i soldi del drink, lui aveva riso e lei aveva fatto finta di non vergognarsi. Le aveva raccontato dell’università, di come si viveva in una città grande. Lei qui a volte si sentiva morire. Gliel’aveva detto così, con l’alcool che le si scioglieva nelle braccia, e lui e aveva dato un bacio in fronte, un battesimo. Non si erano mai toccati più di così. Lui le mandava messaggi pieni di impegni, le raccontava che non sarebbe tornato a casa per un po’, per gli esami. Lei tornava nel locale con le sue amiche, e lui non c’era. Erano rimaste solo quelle conversazioni, quelle notti accese, si erano fissate tra le sue necessità come una colla, una dose. Aveva toccato zone buie di lei che le avevano sempre insegnato a tenere spente, la rabbia enorme che aveva addosso, una voglia sconosciuta di sentirlo vicino, quando lui le parlava. Gli aveva raccontato di sua madre, ne aveva parlato solo con lui. Non lo sapeva nessun altro, sapevano solo che i suoi genitori avevano divorziato. E se lo aspettavano, sua madre era sempre incazzata. Invece a lui aveva spiegato che se n’era andata per lavorare. Che aveva preso una laurea a quarant’anni, con una premeditazione meschina, che aveva trovato un la- voro in Inghilterra. Lui aveva detto che doveva essere molto brava, e lei l’aveva odiato, per l’unica volta. In un attimo le si era sedimentata dentro la certezza oscura che lui non era la cura di nulla, ma aveva imparato a fingere di non vederla. Dopo lui le aveva chiesto se poteva vederle il seno. Non si era mai sentita così spoglia, come mentre si sfilava la maglietta di cotone del pigiama tra le lenzuola sfatte, ma l’adrenalina le uccideva la rabbia, attutiva il vuoto. Quella sera le aveva chiesto un’altra foto, davanti allo specchio. Si era alzata dal letto senza nemmeno pensare, stringendosi una mano addosso
davanti alla specchiera alta, nell’angolo della stanza. Suo padre guardava la replica di una partita vecchia, le mani strette die- tro la nuca, tra i capelli che iniziavano a farsi radi, leggeri. Guardava fisso lo schermo al punto che i giocatori sembravano macchie bianche, che si 11 avvicinavano e si allontanavano in preda ad attrazioni, a repulsioni recipro- che. Atomi nell’aria, ai fini della partita c’erano movimenti più sensati, ma era tutto talmente soggettivo da risultare quasi casuale. Chiara le tornava in mente con un bruciore alla bocca dello stomaco, un vuoto in mezzo alla gola. Lei era stata l’atomo più imprevisto, non il più imprevedibile. Ogni notte le galleggiavano in testa segnali che non aveva considerato, sintomi a cui non aveva dato peso, costruiva le geometrie di un presente che poteva essere diverso, una malattia che si poteva prendere per tempo. Se avesse ascoltato quando lei si arrabbiava, se avesse guardato come le si piegava la bocca quando ammetteva di lavorare nel negozio dei genitori, nell’odore fitto delle scatole di scarpe. E certe volte non riusciva a trattenere quella smania di raccontare che aveva dovuto lasciare l’università a pochi esami, che era brava, solo che era incinta. E ci aveva provato, i primi mesi vomita- va con la testa appoggiata contro le mattonelle bianche dei bagni dell’uni- versità, fredde contro la fronte. Ma poi aveva perso contro gli affitti, contro i genitori, contro le debolezze del suo corpo. E quando era nata, aveva amato sua figlia, davvero, un dito sotto il suo naso ogni notte, nella culla, per l’ansia di sentirla respirare. Lui però la vedeva disfarsi sempre di più con la testa sulla spesa, sui con- ti delle bollette, vedeva con che insofferenza guardava il pollo bruciare nel forno, quando se l’era dimenticato, riempiendo la cucina di un odore acre. Che voglia di urlare le veniva quando la madre le chiedeva della bambina, le faceva notare che dal piano di sotto la sentiva tossire, una notte che aveva la febbre. Alla fine l’aveva guardata con la testa piena di contrasti mentre
apriva il pacco di Amazon con i libri dell’università, mentre se li mangiava una notte dopo l’altra, nel letto. Lui le stringeva una coscia nel palmo e si abituava a dormire con la luce ancora accesa, a chiudere a chiave la porta 12 del bagno. Quando lui aveva trovato le mail che si era scambiata con un’azienda in- glese avevano deciso pacati, freddi, che era finita lì, e lei era partita, lascian- dosi dietro scatoloni di cartone chiusi in un ripostiglio che tutti evitavano di guardare. Il pensiero di rivederla gli metteva una strana elettricità sotto pelle, un nervosismo doloroso, pieno di rancore. I puntini bianchi sullo schermo continuavano a inseguirsi in traiettorie disfatte. Per la figlia, ovvio. Era arrabbiato per la figlia. Parlava poco, aveva fatto due occhi piccoli di rabbia. Pensandoci si era alzato dal divano, con un fastidio che gli si ripie- gava dietro la schiena, giù fino alla gamba. Buttava avanti un passo lento dopo l’altro verso la camera della ragazza, una luce tenue che riverberava sotto la porta. L’aveva aperta con un peso dentro le mani, forse consapevo- le. Poi aveva visto la ragazza davanti alla specchiera, il cellulare, i vestiti che non aveva, e aveva sbattuto la porta di nuovo, veloce. Le era caduto un peso dentro, un tuono addosso, mentre suo padre spa- riva in uno schianto dietro la porta chiusa, era rimasta a guardare il legno pieno di righe, una paralisi che le soffocava le braccia. Alla fine si era richiu- sa sotto le coperte, in una felpa grande. Non aveva più osato rispondere al cellulare, lo schermo si affollava di messaggi, di lettere senza un senso. L’a- veva lasciato sotto il letto, uno scorpione, per le sue dita morbide. Sentiva i passi di suo padre fuori dalla porta, li seguiva con le orecchie affilate, lui che camminava nel corridoio, nel bagno, i cigolii delle porte e il risucchio dello sciacquone. Al chiudersi della sua camera da letto era riuscita a strin- gere gli occhi. Si era invischiata nelle reti di un sonno agitato. Era dentro uno dei suoi
primi ricordi da bambina, al mare. Sentiva i rimbalzi della risacca oltre le file aranciate degli ombrelloni, i discorsi della gente dietro agli occhiali da sole. Passava un dito sopra la tovaglia azzurra e ruvida del bar, i piedi scalzi, il sedere rigato dalla sedia di plastica. Sua madre parlava alle signore ame- 13 ricane con dei vagiti in una lingua sconosciuta. La facevano ridere, anche loro ridevano, ma con una risata troppo grassa, la pelle scottata. Una aveva i denti storti. E sua madre continuava a farle ridere, tre come cerbero, con quei germi di parole, finché non le piantava gli occhi nella fronte, e aveva sempre la bocca impastata di quella lingua oscena. E lei parlava e parlava, finché alla figlia non bruciavano le guance nello sforzo di continuare a sor- ridere, come le americane. Si era svegliata con gli occhi fissi, le bruciavano. Le era passato per la mente di allungare una mano sotto il letto per prende- re il cellulare, per vedere l’ora, ma le era mancato il coraggio. Lo schermo si accendeva se le arrivava una notifica, illuminava il pavimento, la polvere, il mostro sotto il letto. Lei restava con gli occhi attaccati al soffitto nero, le mani strette sui nodi che si sentiva in fondo alla pancia. Le mattine d’estate suo padre usciva presto, lei si era abituata ai risvegli lenti, ad aprire le finestre sul mattino già tiepido, ad ascoltare i propri passi sul pavimento. Quella mattina aveva aperto gli occhi con una strettoia nel petto, che per qualche minuto non aveva saputo riconoscere, poi le era pre- cipitata di nuovo addosso la consapevolezza piena di vergogna. Si stringeva nelle lenzuola, nel buio soffocante, tra le persiane si indovinava la luce della mattina, ci mescolava insieme i pensieri nel dormiveglia. La delusione dei genitori, la rabbia, tutte quelle rabbie che si incollavano l’una sull’altra. Quella volta in cui aveva rotto il televisore grande, da bambina, con una palla. Lo schermo aveva ondeggiato un momento prima di ribaltarsi in avanti, uno schianto sul pavimento pieno di briciole di vetro. Quando sua madre l’aveva sollevato, il davanti era un intrecciarsi di cavi, di schede
luccicanti. Sua madre le urlava sulla testa, lei guardava i pezzi di vetro sul parquet, la palla che era rotolata distante. Aveva urlato anche la sera a cena, mentre lei fissava la purea di patate gialla che poi non aveva toccato, poi in 14 macchina il giorno dopo, ancora, aveva urlato, e i suoi occhi erano rimasti attaccati all’oscillare tenue di un Arbre Magique. Aveva quegli urli addosso come un vestito, come una condanna. Il telefono aveva iniziato a vibrare sotto il letto, l’aveva raccolto con un dolore tra le coste, le dita rigide di sonno. Era sua madre. Da qualche parte nella sua testa, in fondo, si diceva di meritarselo, mentre rispondeva veloce, le orecchie già cariche di quegli urli, di quella rabbia che le cadeva in testa, un diluvio. «Nanà? Ho parlato con papà… Come stai?» Invece era piena di incertezza, di riserbo. Aveva una leggerezza che non aveva mai conosciuto, la appoggiava in ogni parola come una carezza, un regalo. Aveva ripreso a respirare, respirava e basta. «Non lo so.» «Ne vuoi parlare?» I pensieri le andavano alla deriva contro il palato, contro le labbra chiuse. «Ascolta, stai tranquilla. Si risolve tutto, okay? Qualsiasi cosa sia, io tra poco torno e risolviamo tutto insieme va bene?» La madre le aveva ascoltato tutti i singhiozzi, tutte le giustificazioni, per- ché non aveva voglia di parlarne ancora, che l’avrebbe fatto poi. Riusciva ad ascoltarla da lì, da così lontano, riusciva a vederla. Lo stesso pensiero le attraversò entrambe come un lampo, che forse da lì la vedeva anche più ni- tida, con una lucidità diversa. Riattaccare le aveva lasciato un sapore strano in gola, una smania addosso di prenotare quel volo in fretta, con la certezza piccola, definitiva, che sua figlia sarebbe stata felice di vederla per qualche giorno.
E mentre piegava delle magliette sottili dentro il trolley si arrendeva alla consapevolezza atroce che ogni persona è un pianeta altro, per quanto forte ti stringa, e si muove con un’ellissi che non sempre è possibile calcolare, prevedere. Aveva imparato con una fitta tremenda che la vicinanza non era 15 sempre la soluzione più gentile, che non tutto l’amore si sapeva esprimere negli stessi gesti, e che certe volte i legami di sangue non erano i legami più sinceri. E forse era razionale ipotizzare di poterle voler bene così, da lontano, lontano abbastanza per non farsi male, per non accavallarsi, per lasciarsi respirare. In un intrico di logiche soggettive, potevano costruirsi un equilibrio che tenesse, certe che a volte anche sugli abissi più profondi, si potevano costruire delle pause, dei ponti. Certe che a volte, anche quegli abissi potevano non contare niente.
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