Relazione del Presidente Maurizio Sella - Assonime
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Relazione del Presidente Maurizio Sella
Signor Ministro, Autorità, Signore e Signori, questa Assemblea biennale si svolge, finalmente, in un clima economico in miglioramento, dopo sette anni tra recessione e stagnazione. Il Paese ha un Governo che vuole cambiare le cose, lavora nella direzione giusta e sa decidere. Per la prima volta da molti anni la discussione pubblica può mettere al centro non la sopravvivenza, ma la positiva attesa di una fase di trasformazione, speriamo di rigenerazione del Paese. La priorità dev’essere di innalzare la crescita; il ritorno dell’instabilità politica può compromettere l’obiettivo. Si compie oggi il mio primo biennio di presidenza dell’Assonime, poco fa l’Assemblea mi ha confermato la fiducia per un secondo mandato. A tutte le associate, in particolare ai colleghi imprenditori e agli esponenti aziendali che hanno voluto essere presenti, esprimo il mio ringraziamento e la mia gratitudine. Considero Assonime un’istituzione al servizio del Paese, perché il suo lavoro di interpretazione e proposta sull’evoluzione dell’ordinamento rende un servizio utile non solo alle imprese, ma anche alle istituzioni con le quali l’Associazione interagisce con continuità e autorevolezza. Nell’ultimo biennio, le difficoltà dell’economia hanno inciso sulla compagine delle associate. Tuttavia, il bilancio dell’Associazione è solido, grazie al severo contenimento dei costi e allo sviluppo di nuovi servizi, anche a pagamento, apprezzati dalle imprese e dal mercato. L’autorevolezza di Assonime è testimoniata dalla diffusione delle nostre circolari, dall’ascolto che riceviamo nelle nostre risposte alle consultazioni per le modifiche legislative e regolamentari, a livello nazionale e europeo, dalla collaborazione instaurata con amministrazioni pubbliche, autorità indipendenti e magistrature. La risposta del mondo delle imprese è positiva, come indicano l’utilizzo dei nostri servizi da parte delle associate e le numerose nuove richieste di associazione. Per questi risultati dobbiamo ringraziare il direttore generale, Stefano Micossi, la sua squadra di dirigenti e i suoi collaboratori tutti, che ogni giorno rinnovano, con il loro lavoro, la grande tradizione di competenza tecnica e autonomia di giudizio dell’Associazione, 1
che ne costituisce il vero carattere distintivo. Rivolgo uno speciale ringraziamento al vice- presidente Innocenzo Cipolletta, che mi ha validamente coadiuvato, che sempre arricchisce il nostro lavoro con idee stimolanti e che intendo confermare al mio fianco nel secondo biennio. Il quadro economico e l’azione di Governo Tra il 2007 e il 2014 il PIL è diminuito del 9 per cento in termini reali, è rimasto invariato in termini nominali. In queste circostanze difficilissime, un risultato importante dell’azione dei Governi riformatori è stato di riportare il disavanzo del settore pubblico entro il limite europeo del 3 per cento, dal 5,3 per cento del 2009. Questo risultato, però, sottende un aumento della spesa pubblica in rapporto al PIL di oltre 4 punti percentuali, fino al 51 per cento per le spese totali e al 46,5 per cento per quelle al netto degli interessi. Sono valori vicini a quelli di altri grandi paesi europei, ma con livelli di efficienza della spesa molto inferiori. La pressione fiscale è aumentata di due punti percentuali sul PIL, salendo al 43,5 per cento. Tra il 2007 e il 2014 le spese sono aumentate di oltre 70 miliardi. La parte del leone è stata svolta dalla spesa per le pensioni, l’assistenza e i sostegni alla disoccupazione. Si sono arrestate le spese per il personale – che però rischiano di rimbalzare alla scadenza del blocco contrattuale – e sono scese quelle per gli investimenti. Le prestazioni sociali in denaro hanno consentito di limitare le tensioni sociali, ma ormai rappresentano il 44 per cento della spesa totale al netto degli interessi, comprimendo la capacità di manovra del bilancio. Intanto, il debito pubblico ha superato il 132 per cento del PIL. Per l’abbattimento del debito pubblico non ci sono scorciatoie: dovremo mantenere a lungo consistenti avanzi primari (ossia, al netto degli interessi), accelerare la dismissione e l’efficientamento del patrimonio immobiliare in mano pubblica, restituire al mercato le società controllate dallo Stato e dalle amministrazioni regionali e locali. Gli avanzi primari dovranno essere conseguiti frenando la spesa pubblica, con l’azione paziente e persistente della spending review. Nel prossimo biennio incombono sul bilancio pubblico clausole di salvaguardia che, se non si riuscirà a contenere la spesa, possono fare scattare aumenti delle imposte per 25 miliardi di euro. 2
Un sollievo importante dal debito può venire dalla ripresa della crescita e dal ritorno dell’inflazione verso il 2 per cento. Il calo del prezzo del petrolio, la manovra di quantitative easing della Banca centrale europea e il deprezzamento dell’euro spingono in questa direzione, sullo sfondo di un quadro congiunturale in via di miglioramento. Ma senza riforme profonde che liberino l’economia dall’incertezza normativa e fiscale e dai troppi vincoli al funzionamento dei mercati la ripresa si affievolirebbe presto. Ricadremmo nel sentiero di stagnazione già prevalente prima della crisi finanziaria. Il Governo Renzi ha realizzato un risultato importantissimo con il Jobs Act, da molti ingiustamente sottovalutato, i cui benefici già si manifestano. La riforma deve essere completata con le politiche attive per spostare il lavoro verso impieghi a più elevata produttività. Le imprese possono contribuire a questo processo spostando la contrattazione a livello aziendale, dove è più facile scambiare incrementi salariali con incrementi di produttività. Anche il nuovo sistema elettorale e le riforme costituzionali, con l’adozione di un bicameralismo differenziato, aiutano la crescita, perché rafforzano la capacità decisionale dell’esecutivo, accelerano i processi legislativi e riportano al centro competenze chiave per il buon funzionamento dell’economia, delle quali le Regioni hanno spesso fatto scempio. Di altre importanti iniziative riformatrici del Governo parlerò tra breve. Prima voglio soffermarmi su un altro aspetto generale. La ristrutturazione delle imprese meno efficienti e lo spostamento del capitale verso impieghi più remunerativi e tecnologie innovative procedono troppo lentamente; ne sono un riflesso i prestiti in sofferenza presso il sistema bancario. Rilevanti effetti positivi possono derivare dai provvedimenti in preparazione per allineare ai livelli europei il trattamento fiscale delle perdite sui crediti, accelerare le procedure per la crisi d’impresa e promuovere un mercato funzionante per la cartolarizzazione dei crediti delle banche. Ma occorre accettare che le ristrutturazioni aziendali si sviluppino senza impedimenti, evitando gli interventi tesi a mantenere l’occupazione in imprese non più vitali, a scapito della crescita di quelle vincenti. 3
La riforma della pubblica amministrazione Le riforme richieste per sbloccare l’economia italiana sono ben identificate nel Programma Nazionale di Riforma presentato dal Governo insieme al Documento di Economia e Finanza. Spicca per importanza la riorganizzazione della pubblica amministrazione, prevista da un disegno di legge all’esame del Parlamento. Ma scrivere leggi non basterà. La principale sfida riguarda la gestione degli apparati amministrativi, tuttora bloccata da logiche formalistiche e da una carente attribuzione delle responsabilità. Occorre gestire le amministrazioni in funzione dei risultati. L’azione amministrativa va più nettamente indirizzata al servizio dei cittadini e deve essere liberata dall’interferenza diffusa della politica nelle scelte sull’impiego delle risorse. In una prospettiva di efficiente utilizzo del denaro pubblico, il numero dei dipendenti pubblici in Italia appare in linea con quello di altri paesi, ma vi è molto da migliorare nella sua allocazione. Lo spostamento del personale dalle aree in cui esso è sottoutilizzato a quelle in cui vi è un fabbisogno insoddisfatto, dopo adeguata riqualificazione, rappresenta una priorità per assicurare il buon funzionamento dell’amministrazione e la qualità dei servizi ai cittadini. La semplificazione del procedimento amministrativo è centrale. Il disegno di legge sulla pubblica amministrazione contiene proposte utili, prevedendo ad esempio che venga compiuta una ricognizione dei procedimenti per i quali è sufficiente la segnalazione certificata di inizio di attività o una semplice comunicazione preventiva. Per dare affidabilità alle procedure semplificate, le norme devono fissare chiaramente i presupposti per l’avvio e l’esercizio dell’impresa. L’autocertificazione di inizio di attività non può funzionare se si lasciano all’amministrazione tempi lunghissimi per contestarne la legittimità. Si dovrebbe escludere in ogni caso la possibilità di una revoca del provvedimento per una mutata valutazione dell’interesse pubblico. Il disegno di legge contiene anche una delega per la revisione della disciplina della Conferenza dei servizi, finora risultata inefficace. Bisogna limitare drasticamente le ipotesi in cui sono richiesti atti di assenso da parte di più amministrazioni e, quando ciò sia inevitabile, occorre rafforzare i meccanismi di composizione dei disaccordi tra di esse e far rispettare i termini per la decisione finale. 4
Un tema di drammatica attualità per l’attrattività del nostro Paese agli occhi degli investitori è il rischio regolatorio: troppo spesso le regole cambiano con effetti retroattivi. Sul tema, Assonime ha presentato da tempo proposte che auspichiamo possano essere prese in considerazione dal Governo e dal Parlamento. In Italia vi sono circa ottomila società a partecipazione pubblica; la disciplina che ne regola il funzionamento si è sviluppata negli anni con frequenti interventi normativi, ma senza un disegno organico. La Corte dei conti ha evidenziato che oltre un terzo delle partecipate locali è in perdita; secondo il Rapporto Cottarelli eliminando le società inutili o quelle costituite per sole finalità clientelari, il numero complessivo potrebbe scendere a mille, con risparmi significativi per le finanze pubbliche. Nel suo Rapporto “Principi per un riordino del quadro giuridico delle società a partecipazione pubblica”, Assonime argomentava che l’azionista pubblico dovrebbe esercitare i suoi poteri attraverso i normali canali previsti dal diritto societario, senza intervenire direttamente sul management. In occasione della recente consultazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Autorità nazionale anticorruzione, abbiamo sottolineato che non si possono trattare come amministrazioni pubbliche le società che svolgono attività d’impresa sul mercato, anche se sono controllate da soggetti pubblici. Le società che operano sul mercato richiedono controlli e presidi organizzativi diversi da quelli delle amministrazioni. Per le società che gestiscono servizi pubblici locali, sprechi e inefficienze sono quasi sempre associati agli affidamenti delle concessioni senza gara: un sistema opaco che non serve l’interesse pubblico alla qualità dei servizi e che occorrerebbe finalmente riportare alla normale applicazione delle regole di mercato. La delega al riassetto della disciplina sulle società partecipate, contenuta nel disegno di legge sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione, offre l’occasione per mettere ordine nel sistema. Nel settore degli appalti pubblici la disciplina vigente, composta da moltissime disposizioni e improntata a procedure rigide e iperdettagliate, non è stata in grado di contrastare la corruzione e la cattiva gestione delle risorse pubbliche. Anche per questo comparto vi è oggi l’opportunità di un profondo cambiamento, in concomitanza con il recepimento delle 5
nuove direttive europee sui contratti pubblici. Serve una radicale semplificazione del quadro normativo, rispettando il divieto di aggiungere varianti nazionali nella trasposizione delle disposizioni comunitarie. Secondo l’impostazione europea, le amministrazioni devono poter scegliere il modo migliore per soddisfare la domanda pubblica; a tal fine, occorre rafforzare la capacità gestionale e la professionalità delle stazioni appaltanti, riducendone drasticamente il numero. Dall’attuazione dell’Agenda digitale europea e nazionale può derivare un forte impulso alla crescita, all’occupazione e a una migliore qualità della vita. I dati dell’ultimo Digital Scoreboard della Commissione europea mostrano che il nostro Paese è in grave ritardo rispetto agli obiettivi dello sviluppo dell’e-commerce e dell’utilizzo dei servizi di e-government da parte dei cittadini. L’insufficiente sviluppo della banda ultra-larga penalizza gravemente le applicazioni IT nella vendita di servizi online. La strategia del Governo per la crescita digitale 2014-2020 identifica le azioni da intraprendere e indica una serie di piattaforme abilitanti (anagrafe della popolazione residente, pagamenti elettronici, fatturazione elettronica, open data, eccetera). Non basta automatizzare i processi esistenti, occorre rivedere le organizzazioni sottostanti in profondità, adattandole alle potenzialità del mondo digitale. Non sono indicazioni nuove, ma la realizzazione è troppo lenta. Occorre agire per colmare questi ritardi e farlo in fretta. Legalità e sviluppo economico La performance dell’economia italiana è zavorrata da un carico di corruzione enorme, anomalo tra i paesi avanzati. Assonime interviene da tempo sul tema; abbiamo pubblicato un Rapporto, da me fortemente voluto, che propone rimedi strutturali nella gestione delle amministrazioni pubbliche e delle imprese. Gli interventi chiave per sradicare la corruzione coincidono largamente con le riforme della pubblica amministrazione di cui già ho parlato. Negli ultimi mesi il Parlamento ha inasprito le pene per i reati economici, istituendo anche il nuovo reato di autoriciclaggio. Si delinea un forte allungamento dei termini di prescrizione, in particolare per la corruzione: è una misura che, se riduce il rischio dell’estinzione 6
dei procedimenti, non incoraggia i tribunali a lavorare più speditamente. L’esigenza di durata ragionevole del processo appare sacrificata per calmare l’indignazione che scuote l’opinione pubblica; ma la risposta giusta è assicurare il buon funzionamento, in tempi certi e prevedibili, del processo. La corruzione trova il suo terreno di coltura nel clientelismo e nell’occupazione partitica delle pubbliche istituzioni. Non ci può essere miglioramento sul fronte della corruzione diffusa senza un passo indietro dei partiti dalla gestione delle risorse pubbliche e un rafforzamento dell’autonomia e della professionalità delle amministrazioni. La legge n. 190/2012 segna un punto di svolta, con l’introduzione di modelli di gestione per prevenire i comportamenti illeciti e l’istituzione dell’Autorità nazionale anticorruzione. Servono criteri di selezione meritocratica del personale, la responsabilizzazione dei dirigenti e l’applicazione di standard trasparenti di valutazione dei risultati. Non si tratta di eliminare la discrezionalità amministrativa, ma di esercitarla in maniera trasparente, sulla base di obiettivi ben definiti e chiare attribuzioni di responsabilità. I controlli formali sul rispetto delle procedure devono lasciare il posto al controllo rigoroso dei risultati. L’azione di contrasto alla corruzione deve prevedere misure idonee a promuovere la cultura della trasparenza e del rispetto delle regole tra le imprese. Accanto alle misure di repressione servono efficaci sistemi di prevenzione dei comportamenti illeciti. Il decreto legislativo 231/2001 ha promosso l’identificazione preventiva dei rischi di corruzione e l’adozione di modelli organizzativi capaci di prevenirli. Un contributo può venire anche da protocolli e rating di legalità e da politiche di corporate social responsibility attuate con codici di autodisciplina. Tuttavia, i modelli organizzativi predisposti dalle imprese non vengono tenuti in gran conto dalla giurisprudenza, che quasi mai esclude la responsabilità dell’ente. L’assenza di un vero raccordo con il diritto societario, l’ampiezza del catalogo dei reati, la peculiarità del sistema delle misure cautelari e dell’onere della prova (di fatto a carico dell’ente) hanno trasformato il sistema 231 in un sistema di responsabilità oggettiva dell’impresa. La sfiducia verso i modelli organizzativi da parte della magistratura può risultare controproducente, indebolendo l’azione preventiva degli illeciti all’interno delle imprese. La disciplina 231 richiede qualche intervento di manutenzione per rafforzarne la funzione 7
originaria e per raccordarla con l’evoluzione delle regole sui controlli societari dell’ultimo decennio. Si tratta di un’esigenza molto sentita dal mondo imprenditoriale, che auspica un maggiore equilibrio tra le esigenze di legalità e quelle di certezza sugli effetti dei modelli organizzativi. Occorre anche arrestare la tendenza a creare nuovi presidii di controllo nelle società, piuttosto che rafforzare e coordinare quelli esistenti. Un recente studio della CONSOB mette in evidenza che l’eccesso regolatorio del passato decennio ha determinato un irrigidimento e un sovraccarico delle funzioni e dei costi di compliance, non sempre con l’effetto di limitare i comportamenti opportunistici o illeciti. Per le società quotate, un ruolo rilevante nel miglioramento del governo societario è stato svolto dal Comitato per la Corporate Governance, che ha adeguato il Codice di Autodisciplina alle migliori pratiche internazionali e ha avviato il monitoraggio dei comportamenti. In generale, è importante che le imprese adottino una governance moderna e trasparente, affidando la gestione e il controllo a consigli di amministrazione forti e con elevate competenze. Recentemente la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge volta a rafforzare l’azione di classe e a estenderne l’ambito di applicazione. La formulazione indebolisce i filtri per il giudizio di ammissibilità, prevede incentivi alle liti e forme di danno punitivo. È un’impostazione che si discosta dal modello europeo e suscita serie preoccupazioni tra le imprese; auspichiamo che possa essere corretta nei successivi passaggi parlamentari. Le regole sulla crisi d’impresa Dopo la riforma del 2005-2006 e gli aggiustamenti successivi, il nostro sistema concorsuale si è avvicinato al modello americano del Chapter 11 e ai sistemi più avanzati dei paesi europei, che pongono al centro la continuità dell’impresa. Questo obiettivo è preminente anche nella raccomandazione della Commissione europea del 2014. Dunque, le nostre regole in materia d’insolvenza sono in linea con le legislazioni migliori dei paesi avanzati e i principi ispiratori fissati dall’Unione europea. La crisi ha messo alla prova molti istituti, un ulteriore contributo normativo può essere necessario; ma va mantenuto l’impianto della disciplina, che si sta oramai affermando nella cultura giuridica del Paese. 8
Per rafforzare la tutela dei creditori si possono adottare misure che rendano più celeri le procedure concorsuali, riconoscendo ai creditori un ruolo proattivo nell’individuazione di soluzioni non liquidatorie per il recupero del proprio credito, inclusa la possibilità di conversione del credito in equity, e semplificando l’escussione delle garanzie. Permangono alcune lacune normative, ad esempio sul fallimento delle società di capitali, l’assenza di una disciplina per i gruppi, la costituzione di un vero mercato per la smobilitazione dei crediti incagliati nelle procedure, un moderno diritto penale dell’insolvenza. Inoltre, l’Italia non ha ratificato lo schema di legge dell’United Nations Commission on International Trade Law sull’insolvenza transfrontaliera extraeuropea, che essa stessa aveva contribuito a promuovere. Ancora immutata, nonostante il disegno di legge delega presentato nel 2010, è rimasta la disciplina dell’amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi, regolata da molteplici norme con diverse procedure. Dobbiamo chiederci se la sua esistenza sia ancora giustificata, dopo la modernizzazione delle nostre procedure fallimentari secondo i modelli più avanzati. A livello europeo, è stato emanato il nuovo regolamento sulle procedure transfrontaliere d’insolvenza. Una novità importante è l’istituzione di un registro elettronico delle procedure, che consentirà a creditori e corti nazionali di accedere alle informazioni sulle procedure transnazionali. Si delinea una nuova disciplina sull’insolvenza dei gruppi. È importante che l’Italia adegui il suo ordinamento a questi sviluppi. I numerosi provvedimenti varati dai Governi nel biennio 2013-2014 in materia di giustizia sono positivi; occorre proseguire rafforzando gli interventi sull’organizzazione dei tribunali, completandone l’informatizzazione e potenziandone gli organici. Mancano ottomila cancellieri; la destinazione a queste funzioni del personale delle Province in via di abolizione garantirebbe il forte aumento della capacità di lavoro dei tribunali. Sarebbe un segno concreto della determinazione del Governo di usare le nuove norme sulla mobilità del personale pubblico. Ulteriori miglioramenti sono possibili per ridurre i tempi dei processi e dare efficacia alla tutela dei creditori, come indicato dalla Commissione Berruti istituita presso il Ministero della Giustizia. In particolare va riformato il procedimento esecutivo che ha un peso significativo nei tempi della giustizia e ha perso contatto con le esigenze dell’economia moderna. 9
Una più decisa “de-giurisdizionalizzazione” consentirebbe di accelerare le procedure e snellire le formalità. Non si tratta di una fuga dai tribunali; anzi, indirizzando in misura crescente verso i canali alternativi la soluzione delle controversie private, si restituirebbe centralità ai tribunali nell’accertamento del diritto. Un ecosistema per il mercato dei capitali Con la recente consultazione sul mercato unico dei capitali, la Commissione europea si propone di ridurre la frammentazione dei mercati finanziari in Europa, rafforzare i flussi di capitale cross-border, diversificare le fonti di finanziamento per le imprese, in particolare le piccole e medie. Sarebbe utile accelerare i tempi dell’iniziativa rispetto alla scadenza del 2019. Nella nostra risposta alla consultazione, abbiamo sottolineato come in alcune aree sia richiesta una maggiore armonizzazione a livello europeo: in particolare per fissare la definizione di azionista nelle società quotate e i requisiti di trasparenza per le partecipazioni rilevanti. Per gli investimenti transfrontalieri serve una definizione comune di strumento di debito e di capitale, al fine di evitare distorsioni di trattamento di dividendi e interessi e fenomeni di doppia o mancata imposizione. In altre aree, invece, le norme comuni dovrebbero arretrare. Ad esempio, si dovrebbe correggere il regolamento sugli abusi di mercato, che ha esteso gli obblighi informativi delle società quotate sul mercato regolamentato anche agli emittenti, tipicamente piccole e medie imprese, i cui titoli sono negoziati solo sui mercati alternativi. Va rispettata l’area di intervento dell’autodisciplina in materia di corporate governance, frenando la tentazione di incorporarne le prescrizioni nella legislazione. Infine, è desiderabile un maggiore accentramento della vigilanza sui mercati dei capitali, in linea con quanto si è fatto per le banche. In questo senso, abbiamo proposto di attribuire all’Autorità europea di vigilanza sui mercati finanziari poteri diretti di controllo sulle entità – mercati, intermediari, emittenti – d’importanza sistemica. Un aspetto da migliorare nella disciplina europea riguarda il prospetto. La concorrenza tra regolatori non sta funzionando in quanto per le emissioni azionarie il prospetto è approvato dall’autorità nazionale del paese in cui l’emittente ha la sede legale. In molti paesi la 10
procedura di approvazione del prospetto resta troppo lunga e complessa, con modesti benefici informativi per gli investitori. Si dovrebbe lasciare all’emittente la scelta del mercato di emissione, indipendentemente dalla sede legale; inoltre, il prospetto dovrebbe essere molto più semplice, limitandosi a fornire poche informazioni standardizzate sull’emittente, lo strumento finanziario e i rischi connessi, sul modello del Key Information Document utilizzato per i prodotti di investimento al dettaglio. Qualche parola va detta anche sulla tassazione degli strumenti finanziari. Non so dire se il progetto di una cooperazione rafforzata per la Financial Transaction Tax avanzerà; certo, i progetti in materia paiono mal pensati. Oramai, dopo aver esentato la gran parte delle transazioni finanziarie, si finirebbe per colpire solo le azioni e i derivati azionari, cioè il capitale per gli investimenti. Ben sapendo che l’imposta può dare frutti modesti di gettito, dato che la base imponibile tenderebbe a spostarsi verso piazze esenti. Sarebbe più utile incoraggiare gli stati membri a introdurre regimi fiscali che favoriscano orizzonti temporali più lunghi per gli investimenti. In Italia, con il decreto sulla competitività dello scorso anno (decreto legge n. 91 del 2014) il nostro ordinamento ha abbandonato il principio “un’azione, un voto”, già scalfito dalla riforma societaria del 2003, introducendo le azioni a voto plurimo per le società non quotate e il voto maggiorato per quelle quotate. Queste innovazioni si collocano in un contesto di misure volte a favorire il finanziamento diretto dal mercato e l’eventuale quotazione delle imprese. Muovono dall’idea che la presenza di un socio o di un gruppo di soci stabili interessati alla gestione della società sia un fattore positivo per il suo sviluppo; che le azioni a voto plurimo o maggiorato possano facilitare la raccolta di capitale di rischio dal mercato, perché non si indebolisce il controllo del socio di riferimento. Restano i potenziali svantaggi di proteggere assetti relazionali più attenti agli equilibri azionari che alla miglior gestione. La disciplina è facoltativa, la sua concreta attuazione è rimessa alle scelte statutarie. Le imprese italiane dipendono dal credito bancario anche più largamente che nel resto d’Europa. Per questo la nostra economia è stata colpita più severamente dalla crisi finanziaria. La radice del problema sta nella scarsa propensione delle nostre imprese ad aprire il capitale 11
al mercato. Troppo spesso ciò si accompagna a una bassa patrimonializzazione. I nuovi assetti regolamentari indurranno a limitare il credito alle imprese più rischiose. Con la crisi si è creato un solco fra le imprese più robuste, per le quali l’offerta di credito eccede la domanda e che hanno trovato sbocco anche sul mercato obbligazionario, e le imprese più fragili, che stentano a ottenere nuovo credito e in molti casi devono fronteggiare richieste di rientro. È dunque importante favorire lo sviluppo di canali alternativi di accesso diretto al mercato dei capitali, i quali riducono la ciclicità del credito e consentono una ripartizione più diffusa dei rischi. Numerosi studi empirici confermano che l’aumento della quota di finanziamento alle imprese proveniente dal mercato dei capitali accresce gli effetti positivi della finanza sulla crescita. Dal 2012 si sono susseguiti vari provvedimenti governativi tesi a offrire alle imprese strumenti alternativi al credito bancario. Nonostante un certo aumento delle emissioni di obbligazioni, il peso dei finanziamenti diretti alle imprese dal mercato, di debito e di capitale di rischio, resta limitato. Vi è spazio per iniziative tese a favorire lo sviluppo di un mercato di titoli cartolarizzati rappresentativi di crediti alle imprese: ad esempio, rafforzando l’intervento dei fondi di garanzia anche a favore dei canali di finanziamento non bancario e incoraggiando l’accesso delle imprese a piattaforme dirette di finanziamento online, che in altri paesi iniziano a svilupparsi anche con il sostegno degli intermediari tradizionali. Si pone il problema di sviluppare strumenti informativi standardizzati sulla qualità dei prenditori di credito di minore dimensione. Le iniziative di sostegno del mercato devono includere anche i fondi d’investimento disposti ad investire negli strumenti di cartolarizzazione. La regolamentazione primaria e secondaria sulle società quotate resta troppo complessa e onerosa; sull’onda dell’emotività scaturita dagli scandali finanziari, non solo non si sono sufficientemente differenziate le norme per le società minori, ma le regole di accesso al mercato per le piccole e medie imprese si sono avvicinate a quelle del listino principale. Da tempo Assonime propone di riorganizzare i mercati borsistici attraverso la creazione di tre mercati, o regimi, caratterizzati da regole progressivamente più stringenti, in modo da facilitare l’accesso iniziale alla quotazione di azioni e obbligazioni, in particolare per le 12
piccole e medie imprese. Si tratta di differenziare le regole di ammissione a quotazione su due livelli di mercato – uno standard e uno premium con requisiti più stringenti – come già accade nel Regno Unito, mantenendo inoltre piattaforme non regolamentate (Multilateral Trading Facilities) per la negoziazione di titoli, azionari e obbligazionari, di imprese non quotate. Gli emittenti potrebbero allora scegliere il regime di governance al quale conformarsi, segnalando in tal modo agli investitori le caratteristiche di qualità dei titoli emessi. Anche emittenti non disposti a sopportare gli oneri pieni della quotazione potrebbero essere indotti ad accedere al mercato, scoprendo più tardi i benefici addizionali di prezzo e liquidità del titolo ottenibili con la scelta di un segmento con regole più stringenti – come già mostra l’esperienza del segmento STAR. Il mercato regolamentato standard, aperto a tutte le società quotate, prevedrebbe l’applicazione dei soli requisiti imposti dall’applicazione delle normative comunitarie, con significative semplificazioni rispetto all’attuale disciplina nazionale. Il mercato regolamentato premium, o di eccellenza, sarebbe caratterizzato da una disciplina più rigorosa sia in tema di governance che di disclosure di informazioni al mercato. Le piattaforme di scambio non regolamentate dovrebbero essere affidate ai regolamenti emanati dai gestori, escludendo interventi della legislazione nazionale diversi da quelli di attuazione delle direttive europee. Un fisco semplice e prevedibile In un saggio del 1946, parlando del sistema fiscale italiano Einaudi scriveva: “La molteplicità, l’intrico, le sovrapposizioni sono oramai giunte a tale stremo, che nessuno ci si raccapezza più … il contrario di quel che servirebbe per la ricostruzione economica e sociale del Paese.” Purtroppo, le cose sono addirittura peggiorate, i contribuenti sono ostaggio di un fisco che continua a complicarsi. Troppe imposte e troppi adempimenti. Un diluvio di disposizioni pensate e scritte fuori sistema, solo per esigenze di gettito, che faticano a trovare sistemazione in un corpo normativo già troppo complesso. Ne scaturisce un volume abnorme di contenzioso. 13
Il sistema sanzionatorio è oppressivo e imprevedibile. Dalla contestazione di violazioni amministrative minori possono scaturire procedimenti penali ed elevati costi reputazionali; la certezza del diritto è compromessa dalla durata eccessiva dei processi tributari e dalla variabilità della giurisprudenza. Il Governo Renzi sembra determinato a invertire la rotta, portando a compimento la delega fiscale e avviando una nuova stagione nel rapporto tra fisco e contribuenti, all’insegna della compliance volontaria e della trasparenza. Il vento del cambiamento viene da fuori, dai lavori dell’OCSE e del G20 che cercano di definire nuove regole di tassazione dei gruppi multinazionali per contrastare le operazioni di profit shifting e i regimi di concorrenza fiscale dannosa. In questo contesto è nato il sistema di scambio automatico multilaterale delle informazioni sui capitali detenuti all’estero. Non meno importante, per un rinnovato rapporto tra contribuente e amministrazione finanziaria, è l’introduzione di una definizione normativa dell’abuso del diritto – da noi sempre invocata e ora contenuta in uno dei decreti attuativi della delega fiscale. Punti fondamentali della nuova disciplina sono la precisazione degli elementi costitutivi dell’abuso, che potrà essere invocato quando, oltre alla mancanza di sostanza economica dell’operazione, sussista anche una effettiva violazione dei principi o delle finalità delle norme tributarie. È prevista una netta separazione della fattispecie di simulazione e di frode da quella di abuso, con conseguente inapplicabilità delle sanzioni penali per quest’ultimo. È necessario applicare la sanzione penale alle ipotesi di reale occultamento del reddito, escludendo le questioni interpretative. Le sanzioni amministrative andrebbero ricalibrate in funzione della gravità della violazione. Oggi vengono comminate nella medesima misura per chi compie errori di competenza e per chi occulta il reddito; si applicano sanzioni proporzionali alle imposte per meri inadempimenti formali. Gli schemi di decreti attuativi della delega fiscale hanno introdotto opportune innovazioni per favorire gli investimenti in Italia di soggetti esteri e per rendere più chiara e competitiva la disciplina fiscale dei gruppi nazionali che si insediano nei mercati esteri, prima tra tutte la branch exemption. Per completare l’opera, occorre affrontare due tematiche di grande criticità per le imprese: quella dei prezzi di trasferimento nelle transazioni intragruppo, già oggetto di un nostro Rapporto di Giunta inviato al Governo e al Parlamento; e quella dell’esterovestizione, un 14
istituto nato per contrastare le costruzioni artificiose insediate in altri paesi per sole ragioni fiscali, ma che spesso colpisce come fittizie reali attività d’impresa all’estero, solo perché la capogruppo residente in Italia ne sottopone le attività a direzione e coordinamento. Abbiamo accolto con sollievo la recente sentenza della Corte costituzionale che, in linea con le osservazioni più volte da noi espresse, ha censurato l’addizionale sulle imprese del settore energetico (la c.d. Robin Tax). Questa pronuncia fissa limiti precisi per il legislatore tributario che intendesse introdurre imposte irragionevolmente gravose per sottosettori di impresa, o addirittura singole imprese, sostanzialmente per impadronirsi della loro liquidità. Le addizionali d’imposta applicate ripetutamente a banche e assicurazioni rientrano in questa fattispecie. Le proposte di una diversa modulazione dei carichi tributari tra imposte dirette e indirette faticano ad affermarsi, pur se il Fondo monetario internazionale, l’OCSE e la Commissione europea ci incoraggiano a muovere in questa direzione. Non si affronta lo smantellamento delle aliquote ridotte IVA, che pure costituiscono la voce più significativa delle tax expenditures che ci si chiede di ridurre. Qualche limitato progresso è stato compiuto nello sgravio dei fattori produttivi, con il riconoscimento della deduzione dall’IRAP dei costi del lavoro e lo sgravio contributivo per le assunzioni con il nuovo contratto a protezione crescente, ma la distanza dai nostri concorrenti europei nel cuneo fiscale sul lavoro resta ancora troppo ampia. La dimensione europea L’Europa oggi non è popolare. Le vengono imputate politiche di austerità eccessiva che ci hanno lasciato con molti debiti e molti disoccupati. L’integrazione dei mercati viene percepita come fonte di problemi, invece che come opportunità. Si imputa all’Europa l’aumento dell’incertezza sul futuro e dell’instabilità, che invece è il prodotto della globalizzazione e del progresso tecnologico. Non riusciamo a regolare i flussi d’immigrazione dal sud del Mediterraneo, che spaventano l’opinione pubblica, per mancanza d’Europa, non per troppa Europa. Il Regno Unito chiede di rinegoziare aspetti significativi dei Trattati. La crisi greca intossica lo spazio pubblico europeo. Per la crescita, un contributo rilevante viene dalla politica monetaria espansiva della Banca 15
centrale europea; ma gli effetti saranno modesti e di breve durata se non sapremo riformare le nostre strutture economiche, ancora frenate da vincoli e rigidità che schiacciano la produttività. Il piano Juncker non avrà successo nel rilanciare l’investimento privato, se non sarà accompagnato dall’integrazione e dalla liberalizzazione dei mercati europei dei servizi a rete – telecomunicazioni, trasporti, energia. Le strutture di governo dell’Eurozona devono essere rafforzate: con politiche economiche capaci di correggere gli enormi squilibri dei pagamenti correnti che albergano al suo interno e con meccanismi di condivisione dei rischi per fronteggiare eventuali nuovi shock finanziari. La legittimità democratica non può essere ricostruita senza affidare al Parlamento europeo e ai Parlamenti nazionali adeguati poteri di indirizzo e controllo nella definizione delle politiche economiche comuni, oggi affidate solo al Consiglio europeo. Su questi temi la discussione è avviata, è importante che il prossimo Consiglio europeo indichi la direzione in maniera convincente. Guidando, invece che inseguendo l’opinione pubblica. Il nostro futuro, il futuro dei nostri giovani non può costruirsi che in Europa e con l’Europa. Vi ringrazio per l’attenzione. 16
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