L economia dell Unione e i suoi campioni
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309 Franco Mosconi Leconomia dellUnione e i suoi campioni Nel dibattito corrente sull’economia in Europa, viene dato ampio spazio alle prestazioni delle principali aziende nazionali e alla nascita dei cosiddetti «cam- pioni europei», che quasi sempre derivano da fusioni e joint-ventures tra imprese originarie di Paesi diversi. Ma quanto contano questi campioni per l’economia europea e quanto potranno contribuire alla sua crescita su scala globale? L’economia dell’Unione europea (Ue) ha più bisogno di «campioni nazio- nali» o di «campioni europei»? La domanda, da alcuni anni a questa parte, anima il dibattito di politica economica (e, sovente, il dibattito politico a tuttotondo), sia nei singoli Stati membri sia al livello di governo soprana- zionale. Per discuterne, prendiamo le mosse da tre immagini, fra le tante possibili. La prima ci riporta alla mente Angela Merkel, mentre già due anni fa sosteneva che «L’Unione europea sarà in grado di cogliere le opportunità offerte dal mercato unico – e questa è la mia ferma convinzione – solo se decidiamo di creare «campioni europei» in settori […] quali l’energia elet- trica, i servizi postali ecc.»1. Il Cancelliere tedesco in quello stesso anno aveva già fatto riferimento ai «campioni europei» in almeno altre due oc- osservatorio europeo casioni formali: la conferenza stampa tenutasi al termine del Consiglio europeo di Bruxelles del 23-24 marzo e il discorso del 2 maggio in occasio- ne della cerimonia per la posa della prima pietra dell’«N3-Arnstadt Engine Servicing Centre», nel quale specificamente citava la joint-venture tra Lufthansa e Rolls-Royce come esempio di «Cooperazione europea». La seconda immagine ci porta in Francia, e in particolare alle prime mosse – in economia – di Nicolas Sarkozy, il presidente che Mario Monti in un editoriale sul «Corriere della Sera» (30 luglio 2007) definì, all’indo- mani del vittorioso ballottaggio con Ségolène Royal, un «liberale colber- tista». Un’operazione già decisa (la fusione Gaz de France-Suez nel settore energetico) e due delle quali sin dall’estate-autunno del 2007 si parla insi- stentemente (una combinazione fra Areva-Bouygues-Alstom, nonché Total ed Edf, nel nucleare e fra Thales e Safran nella difesa), sono state valutate da molti osservatori come tipiche della politica francese di creazione dei «campioni nazionali»2. Più vicino a noi (siamo al principio del febbraio
310 2008), la visita del presidente Sarkozy a La Rochelle per il battesimo dell’Agv – il treno superveloce realizzato dal gruppo Alstom – e le dichiarazioni lì espresse sul rapporto fra lo Stato e l’economia (il settore industriale, in primis), confermano quelle valutazioni3. Un puzzle difficile da comporre Quella tedesca e quella francese sembrerebbero due prospettive assai di- verse, quasi diametralmente opposte. In realtà, a una valutazione meno immediata viene alla mente – ecco la terza immagine – l’incontro che a Tolosa hanno avuto i due protagonisti di questa sorta di «dialogo» a di- stanza. Era il 16 luglio 2007 quando i capi di Stato e di governo di Francia e Germania si incontravano presso il quartier generale di Eads (la società che controlla Airbus). L’immagine che all’indomani dominava su tutti i principali media internazionali era quella che ritraeva Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, circondati dai massimi responsabili di Eads, molto sorridenti nel gesto di in- dossare la t-shirt con su scritto «Airbus». Stiamo parlando di uno dei veri «campioni europei» di successo, che la lungimiranza di alcuni governi, con l’apporto di importanti gruppi privati, ha saputo costruire in un settore indu- striale come l’aeronautica, prima dominato dagli Stati Uniti con Boeing e McDonnel Douglas (poi riunitesi in un’unica società nel 1997), settore di stra- ordinaria importanza innanzitutto sotto il profilo tecnologico. Si tratta di tre immagini che, viste nel loro insieme, compongono un bel puzzle intellettuale. Per risolverlo, si sa, nessuno – né i policy maker né i tanti studiosi che si occupano dell’argomento – dispone di una bacchetta magica. Quel che più realisticamente si può fare è cercare di meglio comprendere i vantaggi che il mercato unico – e società in grado di crescere a livello conti- nentale – possono portare alla prosperità dell’Ue. Vi è, in altri termini, la ne- cessità di sviluppare un «modo di pensare europeo» sulla competitività, am- messo e non concesso che, oggigiorno, nessuno può più ragionevolmente pen- sare che i «campioni nazionali» – così come promossi dalle politiche indu- osservatorio europeo striali dei Paesi europei negli anni Sessanta, Settanta e oltre – siano ancora adatti a competere nel nuovo contesto internazionale. Uno sguardo d’insieme alla trasformazione del paesaggio economico in atto da oltre un decennio, fa emergere con forza almeno tre grandi cambia- menti rispetto alla situazione che ha prevalso durante gran parte della secon- da metà del XX secolo. Essi possono essere così riassunti: i) la crescente globalizzazione dei mercati e l’emergere di nuovi protagonisti: pensiamo ai cosiddetti «Paesi Bric» (Brasile, Russia, India e Cina), per dirla col fortunato acronimo coniato da Goldman Sachs4; ii) la diffusione su ampia scala delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che si sono rivelate cruciali nel determinare un’accelerazione nel ritmo di crescita della produttività, in specie nell’economia americana; iii) l’allargamento dell’Ue verso i Paesi del- l’Europa centro-orientale, che ha portato alla nascita del più grande «mercato unico» del mondo creando così le condizioni per una riorganizzazione delle imprese a livello paneuropeo (a condizione che beni, servizi, persone e capita- li possano circolare liberamente e senza ostacoli su detto mercato).
311 I governi nazionali sono diventati sempre più incapaci di proteggere e/o sostenere le aziende o i settori un tempo favoriti: si ricorderà l’approccio picking the winners, tipico delle politiche industriali del passato5. L’innova- zione è diventata il principale motore della crescita, come un’ampia lette- ratura economica dimostra. Per rimanere all’Europa, si pensi al celebre «Rapporto Sapir»; più in generale, ai lavori condotti presso l’Ocse nei pri- mi anni Duemila sotto la direzione di Ignazio Visco6. Se dunque il contesto internazionale – l’arena competitiva, come spes- so si usa dire – è realmente diverso da quello di solo un paio di decenni fa, è necessario mutare anche le nostre chiavi di lettura. Raccogliere e inter- pretare le prese di posizione ufficiali dei singoli capi di Stato e di governo dell’Ue, beninteso, è esercizio sempre utile e per certi versi obbligato. Ma appare giocoforza legato ai tempi della politica, spesso assai brevi (e ne sa qualcosa l’Italia). In un’epoca come quella che l’Ue sta vivendo (il mercato unico, una moneta comune) e che la vede pienamente inserita nelle tra- sformazioni in atto nell’economia mondiale (i tre cambiamenti di cui più sopra si diceva) un modo di procedere di più lungo periodo è, crediamo, quello di delineare una tassonomia di base dei «campioni europei». L’im- pressione è che se ne possano identificare almeno due categorie o classi (che chiameremo di primo tipo e di secondo tipo) giacché diversa – alme- no parzialmente – può essere la loro genesi. «Campioni europei» di primo tipo (ovvero, il Modello Airbus) Altrove abbiamo sostenuto che l’intuizione del compianto Alexis Jacquemin sulla «necessità di formulare una politica industriale europea concertata che permetta di superare le strategie settoriali lungo le linee nazionali»7– intuizio- ne sviluppata originariamente alla metà degli anni Ottanta, ai tempi cioè della competizione fra Cee, Stati Uniti e Giappone – può essere considera- ta il fondamento di quelli che definiamo «campioni europei di primo tipo». Vale a dire, grandi imprese che – proprio sul modello di Airbus – nascono come risultato della cooperazione sopranazionale fra imprese di diversi Paesi dell’Ue (quattro in questo caso) e del sostegno pubblico per lo sviluppo di osservatorio europeo tecnologie in settori che si collocano lungo la frontiera tecnologica. Lungo la stessa vena possiamo citare un’altra storia di successo – STMicroelectronics, anch’essa operante in un settore ad alta tecnologia (elettronica/semiconduttori) – frutto della collaborazione fra due grandi Paesi dell’Ue, l’Italia e la Francia. Sotto questo profilo, il tema dominante diviene quello dei fondamenti economici e istituzionali della (nuova) politica industriale dell’Ue. Per giu- dizio condiviso, essa è costituita da un «triangolo» di politiche fra loro complementari: politica della (1) concorrenza, (2) commerciale e (3) tecnolo- gica. L’imperativo categorico è rappresentato, oggi più di ieri, dal rafforza- mento del terzo lato senza indebolire i primi due. Il terzo lato, infatti, lo possiamo leggere come «investimenti in conoscenza» (ossia ricerca e sviluppo e formazione del capitale umano), mentre il primo e il secondo lato contribu- iscono a rendere l’economia europea il più possibile vicina all’ideale di level playing field, oltre che aperta verso il resto del mondo. Così facendo, la politi-
312 ca industriale alza il velo su quelli che attualmente sono (o dovrebbero essere) i suoi due obiettivi principali: la ristrutturazione economica e l’innovazione. Significativa, al riguardo, è stata l’evoluzione avvenuta nel pensiero dell’Ue – e della Commissione europea in particolare – lungo il corso della prima metà di questi anni Duemila. L’approccio che, in generale, resta «orizzontale» (gli strumenti della politica industriale sono volti a fornire le «condizioni quadro entro le quali imprenditori e imprese possono assumere iniziative») e che è es- senzialmente frutto delle elaborazioni degli anni Ottanta, è stato infatti affianca- to all’inizio del nuovo secolo da una nuova enfasi sulle applicazioni «verticali» (ossia, per singoli settori industriali). Tutte e quattro le Comunicazioni della Commissione europea di Bruxelles che danno corpo alla nuova politica indu- striale dell’Ue (le prime tre nel 2002, 2003 e 2004 a opera della commissione Prodi, la quarta nel 2005 della commissione Barroso) si reggono su questo binomio. È presentando la prima di queste Comunicazioni – La politica indu- striale in un’Europa allargata (dicembre 2002) – che l’allora presidente Prodi, in un suo discorso del gennaio 2003, offriva una prima elencazione di set- tori adatti alla nascita di nuovi «campioni europei» (citiamo testualmen- te): le «biotecnologie e scienze della vita»; il «settore dell’informazione e della comunicazione»; la cosiddetta «economia dell’idrogeno»; l’«industria della difesa»; il «nostro aerospazio». Il «programma Galileo» (il sistema europeo di navigazione satellitare che farà concorrenza al Gps americano), di cui molto si parla in questi mesi, è da ascrivere a questo filone di pensiero. E per la leadership tecnologia dell’Europa c’è da augurarsi che esso sappia ripetere il successo che, nella telefonia mobile e a livello internazionale, ha realizzato lo standard Gsm. Beninteso, dai tempi del saggio di Jacquemin, e dallo stesso lancio del- la nuova politica industriale europea, molte cose – inutile dirlo – sono cambiate. Ma una domanda conserva una sua validità: vi sono, oggi in Europa, altri settori nei quali si potrebbe replicare il caso dei «campioni osservatorio europeo europei di primo tipo» (che per semplicità chiamiamo «Modello Airbus»), e se sì come ciò potrebbe ragionevolmente essere posto in essere? «Campioni europei» di secondo tipo (ovvero, il farsi del mercato unico) La domanda ci porterebbe molto lontano, ben al di là degli scopi di questo articolo. Sulla questione che, per semplicità, possiamo riassumere con «campioni nazionali vs campioni europei» ci si interroga infatti sia nel mondo politico (alle dichiarazioni del cancelliere Merkel e del presidente Sarkozy molte altre se ne potrebbero aggiungere) sia nella letteratura eco- nomica. Da quest’ultimo punto di vista, entrano in gioco temi quali l’evo- luzione della «struttura di mercato» (leggi, concentrazione), la natura dei costi di produzione (in particolare, quelli fissi e «irrecuperabili»), la tipologia di differenziazione del prodotto, nonché i fondamenti stessi di una politica industriale moderna e adatta al XXI secolo8. Chissà se alla domanda potrà mai essere data una risposta condivisa, a un tempo, da studiosi e da uomini di governo. In verità, potrebbe darsi il
313 caso che la domanda finisca con l’essere superata dai fatti, che passo dopo passo stanno spingendo verso la crescente affermazione di un altro model- lo di «campioni europei»: quelli, appunto, di «secondo tipo». Si tratta di quei grandi protagonisti dell’industria e della finanza che in Europa si sono venuti formando – e stanno tuttora formandosi – come risultato di successi- ve ondate di «fusioni e acquisizioni». Il riferimento va, in particolare, al- l’ondata in atto da due-tre anni, che ha proprio nell’economia europea uno dei suoi epicentri, caratterizzandosi altresì per l’elevato numero di fusioni transfrontaliere (cross border). Sotto tale profilo, la più importante politica industriale per questo tipo di «campioni europei» resta l’effettivo completa- mento del mercato unico. Ciò al fine di garantire sia la piena libertà di circola- zione dei quattro fattori della produzione, sia la presenza di tutta una serie di «regole del gioco» di vitale importanza per un mercato autenticamente conti- nentale (si pensi, solo per fare due esempi, al brevetto europeo e all’Opa co- munitaria). Il mercato unico rappresenta, assieme all’euro, la principale storia di successo del processo di integrazione europea. Benché non possa dirsi anco- ra interamente completato – dopo il compromesso al ribasso sulla «Diret- tiva Bolkestein» la piena liberalizzazione del macro-settore dei servizi, che valgono come minimo il 70% del Pil, è infatti ancora di là da venire – il mercato unico è proprio il contesto di cui hanno bisogno le imprese euro- pee, non solo quelle più grandi, per attuare le proprie strategie di crescita. Strategie che sono spesso di «crescita esterna», ossia, mediante fusioni e acquisizioni, joint ventures ecc. Ma prima di esaminare le strategie di crescita delle (grandi) aziende europee, è utile compiere una breve analisi dell’oligopolio europeo. Nel farlo, confronteremo questa struttura con quella dell’economia americana (senza dimenticare l’economia giapponese), dato che la strategia di fondo di ogni grande impresa, ovunque essa sia originariamente localizzata, è orientata – ora più che mai – verso i mercati mondiali. Per gli obiettivi che ci siamo dati in questo articolo, considereremo le classifiche delle più grandi aziende del mondo – pubblicate regolarmente osservatorio europeo da autorevoli quotidiani, periodici e centri studi – come approssimazioni sufficientemente affidabili della struttura di mercato. Loligopolio europeo: alcuni dati essenziali In un’ampia indagine sulle aziende europee, l’«Economist» – citando a sua volta un’analisi di McKinsey – sosteneva che l’Europa detiene il 29% delle circa 2.000 aziende più grandi del mondo, in linea con la propria quota di Pil mondiale, pari al 30%. Essa fa sentire il proprio peso in quasi tutte le industrie mondiali fatta eccezione per le tecnologie dell’informazione (It), in cui gli Stati Uniti sono avanti anni luce9. Nella stessa indagine, riferen- dosi alle classifiche delle più grandi imprese mondiali stilate da «Fortu- ne», il settimanale inglese aggiungeva: Per molti anni l’Europa ha avuto un ruolo centrale nell’economia mondiale. Secondo
314 una tabella compilata dalla rivista «Fortune» (2006), metà delle 30 principali aziende del mondo in termini di ricavi sono europee. Tuttavia, l’Europa arranca in due settori chiave: l’alta tecnologia (che significa per lo più tecnologie dell’informazione, It) e le scienze della vita. In questa sede, ci proponiamo di estendere quest’analisi strutturale dell’industria e della finanza europee facendo ricorso anche ad altre classi- fiche. Come detto in precedenza, il fine ultimo è di far luce sul comporta- mento dei big players in un contesto certo dominato dalle loro strategie sul mercato unico, ma ponendo altresì in risalto la loro naturale tendenza a superare i confini continentali per diventare leader a livello globale10. Sulla «forza economica» dell’Ue ha di recente scritto su questa stessa rivista Alberto Quadrio Curzio, che ne ha passato in rassegna – in un’otti- ca comparata – le buone e in alcuni casi eccellenti performance in termini di Pil (aggregato, pro capite, ritmo di crescita); Indicatore di sviluppo uma- no (Hdi); esportazioni e saldi della bilancia commerciale; Investimenti di- retti esteri (Ide); numero di imprese transnazionali (Tnc). In queste stesse pagine è André Sapir a descrivere una «mappa dell’Europa nel mondo», ponendo altresì in evidenza l’«agenda globale, transatlantica, regionale» che essa si trova di fronte11. Il profilo macroeconomico dell’Ue risulta, in estrema sintesi, dai dati sul Pil (tabella 1, lato destro) dai quali emerge che l’Ue è, seppur di poco, la più grande economia del mondo, anche se resta il noto divario con gli Stati Uniti in termini di Pil pro capite a causa soprattutto della diversa dinamica della produttività. Accanto a questi dati di base sulla ricchezza prodotta, inseriamo ora alcu- ni fondamentali numeri che ci derivano dalla classifica «Global 500» del «Financial Times» sempre per l’anno 2006. Un fatto che balza immediatamen- te agli occhi contraddice, almeno parzialmente, il quadro delineato dal- osservatorio europeo Tab. 1. Uno sguardo allEuropa Classifica «FT Global 500» (2006) Dati Pil (2006) Numero Valore % sul totale Valore % su Pil di società di mercato (valore nominale complessivo (in milioni di mercato) (in milioni della «Triade» di dollari) della «Triade» di dollari) Europa Ue 139 6.945,0 27,4 14.609,8 45,4 [Area euro] [89] [3.734,0] [16,6] [10.609,8] [32,9] Stati Uniti 197 9.897,0 44,2 13.194,7 41,0 Giappone 60 2.155,0 9,6 4.366,4 13,6 Fonte: Nostra elaborazione su dati del «Financial Times» e del Fondo monetario internazionale. l’«Economist». Raggruppando le «Global 500» (classificate in base al loro «valore di mercato») per ciascuna delle tre regioni di quella che si era soliti definire la «Triade» (Ue, Stati Uniti e Giappone), si nota infatti che l’inciden- za delle maggiori imprese europee in questa classifica è meno che proporzio- nale (il 45,4 contro il 27,4%) rispetto al peso dell’Ue sul Pil della stessa «Triade».
315 D’altro canto, gli Stati Uniti mostrano una maggiore incidenza sul valore di mercato delle «Global 500» rispetto a quella – già altissima – sul Pil, mentre il Giappone ricade in una situazione più simile a quella dell’Europa. Se poi con- sideriamo soltanto dell’area euro, escludendo quindi il Regno Unito, la Svezia e la Danimarca dalla lista dell’Ue, il peso dell’Europa nella «Global 500» si riduce ancora. Naturalmente, questi risultati dipendono in misura considerevole dal parametro utilizzato dal «Financial Times» per stilare la propria classifica, vale a dire la capitalizzazione del mercato azionario («valore di mercato»), che, per così dire, premia i Paesi con un capitalismo di tipo anglosassone imperniato sui mercati finanziari. Proseguendo con il «Financial Times», ma passando dalla graduatoria per Paesi a quella per settori, si può cercare di raggruppare – con un mini- mo margine di discrezionalità – i 37 settori presenti in alcune macrocategorie fondamentali, che possono aiutare a comprendere le nuove dinamiche dell’oligopolio europeo e mondiale. La finanza (banche e assicurazioni) con 114 imprese nella «Global 500» è il macrosettore maggiormente rappresentato, ed è anche quello con la maggiore incidenza sul valore di mercato complessivo (il 23,5%). Segue con 89 imprese e il 19,1% della capitalizzazione complessiva delle nostre ormai familiari «Global 500», il macrosettore che chiamiamo Ict ed Elettronica (hardware, software, media, Tlc fisse, Tlc mobili, apparecchi elettronici). Dopodiché troviamo il macrosettore dell’Energia (con le compagnie petro- lifere in posizione di assoluto rilievo) e quello dell’Elettricità (ivi comprese anche comprese le multiutilities), il che significa 71 imprese e il 16,2% della capitalizzazione. Il quarto e ultimo macrosettore che presenta una forte in- cidenza è quello che abbiamo denominato Farmaceutica, Biotecnologie e Sanità (37 imprese per un 9,6% di capitalizzazione). Seguono infine settori manifatturieri più tradizionali (automobili, aerospazio e difesa, chimica), che presentano ciascuno circa 10 imprese nelle «Global 500» per un valore di mercato che si aggira nell’intorno dell’1,5-2,5% del totale. Giunti a questo punto, è opportuno fare un ulteriore passaggio in que- osservatorio europeo sta nostra breve rielaborazione delle «Global 500», confrontando per set- tori (o macrosettori) Ue e Stati Uniti. Nel settore bancario l’Europa pre- domina sia per numero di big players (più del doppio rispetto agli Stati Uniti, 75 contro 32) sia per valore di mercato (quasi il doppio). Questo fatto di per sé non è sorprendente se si considera la tradizione «bancocen- trica» del modello europeo di capitalismo nelle sue diverse varietà, in primis quello «renano». Un maggiore equilibrio tra Ue e Stati Uniti si nota nel nume- ro di grandi attori presenti nel settore assicurativo preso nel suo complesso (ramo vita e non). Anche in quello che abbiamo definito il macrosettore Ener- gia ed Elettricità – caratterizzato anch’esso, al pari di quello bancario, da nu- merose operazioni di fusione ed acquisizione – la posizione dell’Europa è ec- cellente. Gli Stati Uniti predominano invece nel settore Farmaceutica e Biotecnologie, mentre le posizioni delle due aree sono molto simili nel più tradizionale settore della chimica. L’altro macrosettore in cui il dominio degli
316 Stati Uniti è evidente è quello delle Ict (più l’elettronica) considerate in senso lato attraverso l’aggregazione di una serie di settori, dianzi ricordati. Tuttavia, mentre le corporations americane prevalgono nei settori dell’hardware, del software e dei media, la situazione è diversa nel campo delle telecomunicazio- ni, nel quale gli operatori europei hanno un ruolo più importante sia nel setto- re delle Tlc mobili sia in quello delle Tlc fisse. Il confronto si conclude pren- dendo in considerazione due settori manifatturieri – il settore aerospaziale e della difesa, il settore automobilistico – che restano assai importanti, al di là delle quotazioni di borsa (che non sempre premiano, lo si dica per inciso, l’attività manifatturiera), per fondamentali ragioni di ordine tecnologico. Nel- l’industria automobilistica si nota una chiara predominanza europea, mentre in quello aerospaziale prevalgono gli Stati Uniti, anche se non si può non rico- noscere la performance di Eads, la società che come sappiamo controlla Airbus. Oltre all’esame pubblicato dall’«Economist» e a quello condotto in que- sta sede utilizzando i dati del «Financial Times» sulle «Global 500», sarebbe- ro possibili altre analisi di questo tipo. Classifiche (o graduatorie) delle princi- pali imprese del mondo sono pubblicate da autorevoli periodici come Business Week, Fortune e Forbes oltre che da autorevoli uffici studi come, per citare un caso italiano, Mediobanca - Ricerche e Studi (R&S). Ciascuna di queste classi- fiche ha le sue proprie peculiarità e utilizza parametri specifici, che portano anche a differenze nei risultati finali. Ad esempio, la «Global 1200» di Business Week utilizza il valore di mercato; la «Global 500» di Fortune fa riferimento al giro d’affari (vendite) e lo stesso dicasi per le 230 «Multinationals» di Mediobanca - R&S; infine «Forbes» per le sue «Global 2000» ha sviluppato una graduatoria composita basata su quattro parametri (vendite, utili, asset, valore di mercato). Pur non potendo ripetere, in questa sede, altre analisi dettagliate come quella sui dati del «Financial Times», crediamo che una visione d’insieme abbia una sua ragion d’essere. I principali fatti possono così riassumersi: i) Bigness is back, nel senso che la crescente incidenza delle (a seconda osservatorio europeo dei casi) Top 230, 500, 1200 o 2000, può essere vista come un segno che l’economia si sta muovendo verso livelli di concentrazione più alti; ii) in cima alle classifiche troviamo spesso imprese petrolifere e del settore energetico, le Tlc, le banche e le società d’assicurazione. Ma non di rado, nella parte alta di queste classifiche, troviamo anche imprese mani- fatturiere appartenenti a settori che vengono ripetutamente citati nel do- cumenti della nuova politica industriale dell’Ue (le quattro Comunicazioni della commissione nel periodo 2002-05), come ad esempio le aziende far- maceutiche, informatiche, dei mezzi di trasporto, chimiche, meccaniche e via dicendo; iii) il ruolo del processo di «distruzione creatrice» à la Schumpeter emerge in tutta la sua importanza. A questo proposito, il «Financial Times» elenca numerose aziende che ogni anno entrano ed escono dalle proprie graduatorie. Nella classifica del 2006, ad esempio, c’erano 68 new entry ed altrettante «uscite». In una certa misura, queste tendenze riflettono i settori in ascesa e quelli in declino, così come la posizione relativa dei singoli Paesi;
317 iv) sebbene il peso della «Triade» sia ancora notevole (sempre dalla tabella 1 vediamo che sono 396 su 500 le imprese appartenenti a Ue, Stati Uniti e Giap- pone), la presenza di grandi imprese e/o gruppi provenienti dai «Paesi Bric» si fa sempre più visibile, come vedremo parlando di fusioni e acquisizioni. A ogni buon conto, ciò di cui dobbiamo essere consapevoli quando pren- diamo in considerazione una certa classifica di imprese è il fatto che essa forni- sce solo un’istantanea della struttura di mercato, e della sua articolazione fra settori e Paesi. Come traspare dal processo di entrata-uscita di imprese nella classifica del «Financial Times», queste graduatorie sono fluide e soggette al- l’azione delle forze di mercato. Una forza che ha assunto particolare centralità negli ultimi due-tre anni, e che sta esercitando un forte impatto sulla posizione internazionale delle imprese europee, è la nuova ondata di fusioni e acquisizioni. È da questa ondata che dipende, in una misura non piccola, lo sviluppo dei «cam- pioni europei di secondo tipo». Non casualmente, vi è una sostanziale coin- cidenza tra i macrosettori più importanti dell’oligopolio europeo (così come emergono dalla classifiche testé esaminate) e quelli maggiormente interes- sati dall’ondata di fusioni e acquisizioni, in specie di natura cross border. Fusioni e acquisizioni transfrontaliere Di grandi imprese europee in formazione si parla sempre più spesso. È anche questo un segno dei tempi. Per farsene un’idea è sufficiente soffermiamoci sulle implicazioni di tre recenti analisi12. Anzitutto, la «ten- denza verso l’europeizzazione delle più grandi imprese europee» – segna- lata da Nicolas Véron nel suo Campioni nazionali addio – può venire ulte- riormente rafforzata dalle suddette strategie di crescita esterna. Avendo analizzato la quota di mercato europeo (ossia la quota sul mercato inter- no) delle prime 100 imprese europee, Véron argomenta che «la quota di vendite europee sul totale dei ricavi è quasi identica, in media, alla quota di ricavi realizzati dalle prime cento americane negli Stati Uniti, pari al 65%. La percentuale della loro base nazionale (o, per i Paesi più piccoli, regionale) tende a diminuire rapidamente, assestandosi nel 2005 attorno osservatorio europeo al 36,9% del totale dei ricavi, contro il 50,2% del 1997». In secondo luogo, è da ritenersi che queste strategie contribuiscano in maniera cruciale all’emergere di «campioni globali» di derivazione europea che Barry Eichengreen ha definito come «aziende con le economie di scala e di diversificazione necessarie per essere competitive a livello internazionale». In terzo luogo, seguendo Alfredo Macchiati e Luigi Prosperetti, possiamo affermare che «campioni europei stanno già naturalmente emergendo da pro- cessi di concentrazione “spontanei”, che vanno interessando, con intensità crescente, l’economia europea, e stanno creando grandi imprese plurinazionali in molti settori, dal trasporto aereo all’intermediazione finanziaria, dall’auto alla difesa ed ai media». Le operazioni di fusione e acquisizione vengono monitorate da istitu- zioni finanziarie, società di consulenza, centri studi ed esistono così diver- se banche-dati molto dettagliate sull’argomento (ad esempio, Dealogic,
318 Thomson Financial, Osservatorio Università Bocconi-Clifford Chance-Maisto ecc.). Rinviando a queste fonti per ogni analisi sistematica e completa, il nostro intendimento in questa parte finale è quello di sottolineare – a somiglianza di quanto già fatto intorno al nuovo oligopolio europeo – i principali fatti stilizzati che emergono da questa nuova ondata. Nel fare ciò, ci avvarremo della tabella seguente, che rappresenta una breve sintesi, nei settori di maggior rilevanza, delle più significative operazioni di «crescita esterna» avvenute negli ultimi anni e capaci di coinvolgere «giocatori» europei e/o il «campo da gioco» europeo. Ebbene, alla luce delle operazioni riepilogate a titolo esemplificativo nella tabella, possono essere formulate alcune considerazioni. i) Questa ondata di fusioni e acquisizioni fa dell’Europa il principale prota- gonista: secondo l’«Economist» (che cita abitualmente «Dealogic»), le opera- zioni avvenute in Europa nel 2006 avevano un valore pari a 1.590 milioni di Tab. 2. Campioni europei in divenire: alcuni esempi di fusioni, acquisizioni e joint-ventures Settori Principali operazioni Anni recenti (2007, settembre) (2004-2006) Finanza (banche, Barclays - Abn Amroa 2006: Bnp Paribas - Bnl assicurazioni, Assicurazioni Generali - Ppf Abn Amro - Antonveneta mercati azionari) Euronext - Nyse* Credit Agricole - Emporiki Bank Lse - Borsa di Milano UniCredit - Ukrsotsbank e 2005: UniCredit - Hvb Aft Bank Intesa SanPaolo - Bof Leasing 2004: Santander - Abbey National Deutsche Börse - International Securities Exchange (Ise) In corso: Borse Dubai - Omx Nasdaq* Ict e media Telefonicab - Telecom Italia 2006: Alcatel - Lucent* Rcs Media Group - Recoletos Nokia - Siemens (network division) Mediaset - Endemol Mondadori - Emap France STMicroelectronics - Intel* Lottomatica (De Agostini) - Gtech Holdings* Swisscom - Fastweb In corso: 2005: Telefonica - 02 osservatorio europeo Reuters - Thomson* News Corporation - Dow Jones (WSJ)* Farmaceutica Schering-Plough - Organon BioSciences* 2006: Ucb - Schwarz-Pharma e biotecnologie Astra-Zenaca - MedImmune* Nycomed - Altana Bayer - Schering Merck - Serono Energiac Enel - Endesa 2006: Iberdola - Scottish Power Suez & La Caixa - Agbar 2005: Suez - Electrabel Aem & Edf - Italenergia Moda Ppr - Puma e beni di lusso Luxottica - Oakley* Industria Tata Steel - Corus** 2006: Mittal - Arcelor** manifatturiera Tre joint ventures** di Fiat con (meccanica, impianti, Severstal, Tata Motors, Chery automobili, Automobiles difesa ecc.) Tenaris - Hydril* Finmeccanica SpA - Selex Note: a Più lofferta concorrente sulla banca olandese di Royal Bank of Scotland/Santander/Fortis (che poi risulterà quella vincente); In società con alcune delle più importanti istituzioni finanziarie italiane: Mediobanca, Intesa San Paolo, Generali e b la famiglia Benetton; c Qui cè anche la via inversa («campioni nazionali»): Gaz de France (Gdf) e Suez. Le operazioni contrassegnate dal simbolo (*) sono di natura transatlantica, mentre quelle da (**) coinvolgono imprese dei Paesi BRIC. Fonte: Nostra elaborazione aggiornata al settembre 2007.
319 dollari e superavano pertanto il valore degli accordi siglati negli Stati Uniti, pari a 1.540 milioni di dollari; più in generale, dal 2004 il valore totale degli accordi di fusione e acquisizione europei è quasi triplicato13. ii) Sempre secondo le cifre di «The Economist/Dealogic», gli accordi siglati a livello mondiale nel 2006 erano caratterizzati da valori più alti che in passato e continuano a crescere: 14 accordi valevano più di 10 miliardi di dollari. In Europa, in particolare, si registravano nove accordi del valo- re di più di 10 miliardi di dollari soltanto nel primo trimestre del 2006, tanti quanti ne erano stati fatti nei tre anni che vanno dal 2002 al 2004. Questo fatto sembra rispecchiare, in una certa misura, ciò che abbiamo già evidenziato giusto all’inizio dell’altra lista di fatti stilizzati, cioè che bigness is back. iii) La pressione concorrenziale esercitata dal progressivo completamen- to del mercato unico è certamente una delle cause principali dell’ondata «europea». Questo diventa particolarmente chiaro quando si considerino i settori nei quali è stata siglata la maggior parte degli accordi cross border: tutti settori interessati da processi, più o meno vasti e profondi, di liberalizza- zione del mercato. Ai primi posti troviamo il settore dei servizi e quello del- l’energia, le telecomunicazioni e l’industria della difesa, le banche e altre so- cietà finanziarie, come ad esempio le società di assicurazioni e le stesse Borse valori. Si tratta di settori in cui operano imprese e gruppi che hanno tratto vantaggio non soltanto dal mercato unico, ma anche dai passi in avanti com- piuti dall’Unione monetaria, che con l’euro ha ulteriormente cambiato il pae- saggio finanziario europeo. Anche nei settori farmaceutico e delle biotecnologie stanno avvenendo numerose fusioni ed acquisizioni: qui il motore principale sembra essere l’intensità degli investimenti in «ricerca e sviluppo» (R&D). iv) Nell’insieme, come già abbiamo avuto modo di osservare, i settori in- dividuati al punto iii) sono in linea con i settori – sovente ad alta tecnologia – che compaiono nelle classifiche delle Top Companies prima richiamate. La strategia di base delle maggiori aziende europee è quindi di concentrarsi sul proprio core business, utilizzando le fusioni e le acquisizioni per attuare una strategia di «integrazione orizzontale». Sembra esserci ampio consenso sul osservatorio europeo fatto che è più probabile che un’acquisizione sia redditizia quando le aziende appartengono allo stesso settore o a settori simili, perché esse tendono ad offrire maggiori opportunità nello sfruttamento delle economie di scala e di diversificazione (il famoso argomento in favore delle «sinergie»). v) Insieme alla centralità dell’Europa nell’attuale ondata di fusioni e acquisizioni e alla tendenza all’«europeizzazione» delle aziende europee meri- tano attenzione altre due prospettive: di entrambe dà conto la seconda tabella. Innanzitutto, le alleanze e gli accordi transatlantici sono tutt’altro che una rari- tà: a titolo di esempio citiamo l’acquisizione di Lucent Tech da parte di Alcatel; la joint venture fra STMicroelectronics e Intel per la produzione di nuove me- morie Flash; nel settore finanziario, la fusione tra la Borsa di New York (Nyse) e il network di Borse europee Euronext (che a sua volta era sorta dalla fusione delle borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Lisbona e del Liffe di Londra), mentre contemporaneamente, Deutsche Börse ritirava la sua proposta di fu-
320 sione con Euronext per una soluzione paneuropea. In secondo luogo, passo dopo passo, i gruppi localizzati nei «Paesi Bric» stanno facendo il loro ingresso sulla scena europea (ivi compresa l’Italia14): si possono citare le offerte fatte dai colossi indiani Mittal Steel (per la francese Arcelor) e Tata Steel (per Corus, concorrente anglo-olandese). Di più: dalle economie asiatiche (dai ricchi Paesi del Golfo così come dai nuovi giganti) stanno arrivando in tutto l’Occidente i loro «fondi sovrani», dotati di ingenti risorse finanziarie, già investite in blasonate istituzioni finanziarie americane alle prese con i postumi della crisi dei mutui subprime e, più in generale, del private equity. Naturalmente, in considerazione dell’impetuosa crescita dell’economia asiatica vale anche il percorso inverso, con le imprese europee (e americane) che si espandono verso i «Paesi Bric»: per restare questa volta in casa nostra, particolare significato riveste la strategia perseguita dalla Fiat. vi) Se al termine della nostra analisi sull’ondata di fusioni ed acquisizioni in corso passiamo a considerare la sfera prettamente politica, non si può non richiamare alla mente la questione del «nazionalismo (o patriottismo) economico». Com’è ampiamente noto, è stato sbandierato da più di un governo occidentale in occasione di operazioni di fusione e acquisizione (considerate «ostili») lanciate da gruppi stranieri su asset nazionali. Il ten- tativo di proteggere settori e/o imprese considerati strategici dipende dal- l’idea, comune appunto a molti governi di diverso orientamento politico, che ciò che conta è la nazionalità della proprietà. I «campioni europei di secondo tipo», essendo – come abbiamo cercato di argomentare – il risul- tato finale dei processi di apertura del mercato, appaiono più coerenti con i Trattati istitutivi dell’Ue di qualsiasi tentativo di protezione dei «campio- ni nazionali» di antica memoria. «Il nuovo mondo» Cercando ora di avviarci alla conclusione, dobbiamo subito riconoscere che i confini tra i tipi di «campioni europei» qui delineati non sono e non osservatorio europeo possono essere rigidi, e tanto meno dati una volta per tutti. Anzi, in taluni casi possono essere assai sfumati: da qui, due contro-deduzioni. La prima ha a che fare con gli esempi che ci vengono dai settori del- l’energia, delle utilities e delle telecomunicazioni, i quali in moltissimi Pae- si dell’Ue sono ancora caratterizzati dalle posizioni di forza ricoperte da ex aziende statali, che per decenni operarono in regime di monopolio. Malgrado la spinta che viene dai Trattati in vigore e dalle direttive comuni- tarie, non sono affatto mancati – in singoli Stati membri – processi di privatizzazione parziale e di liberalizzazione a macchia di leopardo. Per- tanto, ancora oggi, la presenza pubblica a livello di Stato nazionale risulta in più di un caso tuttaltro che irrilevante. La seconda contro-deduzione chiama in gioco una serie di esempi propri della nuova politica industriale dell’Ue (quella della quattro Comunicazioni) e, più nello specifico, della politica tecnologica e della ricerca portata avanti dalla commissione di Bruxelles mediante una pluralità di strumenti (il «VII Programma Quadro», le «Piattaforme tecnologiche», le «Iniziative tecnologi-
321 che congiunte» ecc.). Non è infrequente, in questi e altri documenti comuni- tari che si potrebbero citare, imbattersi in una elencazione molto dettagliata di settori hi-tech. Resta a volte il dubbio se si vogliano finanziare le attività (la R&D e la formazione, su tutte) o, come nel passato, i settori in sé al fine di «selezionare i vincenti»: cosa, quest’ultima, che solo un mercato unico piena- mente operante e senza distorsioni alla concorrenza può fare in maniera effi- ciente. D’altro canto crediamo che queste due contro-deduzioni riconducibili al rapporto Stato-mercato, che deve ancora trovare una sua più moderna configurazione, non invalidino il presente tentativo di giungere a una pri- ma tassonomia sui «campioni europei». Essi vanno visti come parte inte- grante di quel processo di internazionalizzazione sempre più visibile, sia mediante le esportazioni sia tramite investimenti all’estero, delle imprese europee. Processo che a sua volta fa capo a un certo numero di protagoni- sti eccellenti, capaci di realizzare performance di rilievo dappertutto nel mon- do, che possiamo chiamare «campioni europei tendenza global». È ragionevole pensare che il processo di integrazione europea, visto nella sua dimensione eminentemente economica e in prospettiva più che cinquantennale (mercato unico, moneta comune, allargamento a Est, os- sia, ulteriore estensione del mercato), abbia giocato un ruolo di primo piano nel determinare questi sviluppi. Tornano alla mente le parole pro- nunciate da Shimon Peres all’ultimo workshop di Villa d’Este organizzato dallo Studio Ambrosetti, quando – parlando dell’economia come «forza trainante» – disse: «Tutto è partito dalla seconda guerra mondiale: l’eco- nomia è la locomotiva che ha dato l’impulso, non i carri armati. Guardate- vi attorno: sin dai suoi albori […] nell’Europa unita vediamo come Jean Monnet sia più importante di Napoleone. Napoleone ha lasciato tombe, Jean Monnet ha creato culle. Quindi il primo appartiene alla storia passa- ta, il secondo al futuro»15. note osservatorio europeo Questo articolo riprende e rielabora alcune delle considerazioni svolte dall’autore nel paper «Eu Policy Making, the Single Market and European Champions: Towards a Taxonomy», presentato alla X Conferenza internazionale dell’European Network on Industrial Policy (Eunip), Università di Firenze, 12-14 settembre 2007. La traduzione dall’inglese del paper originale è di Alessandra Adami. 1 «Forum Europeo» della Wdr (Westdeutscher Rundfunk) del 9 maggio 2006. 2 Si veda ad esempio l’analisi del «Financial Times», National champions: French energy mergers test Eu free marketeers, 26.9.2007. 3 Anche qui, a solo titolo esemplificativo, si vedano: «Il Sole-24 Ore», Stato a fianco dell’industria. Sarkozy rilancia il sostegno pubblico ai campioni nazionali, 6.2.2008, p. 13; «Corriere della Sera», Alstom, nucleare civile e alta velocità. Così il nuovo «campione nazionale», 6.2.2008, p. 31. 4 Goldman Sachs «Global Economic Paper No 99: Dreaming with BRICSs: The Path to 2050» dell’ottobre 2003. Il paper e i successivi aggiornamenti sono disponibili sul sito internet della merchant bank americana: http://www2.goldmansachs.com/ideas/brics/index.html. Per un’analisi di altri studi sulla distribuzione del reddito in prospettiva secolare, si veda l’editoriale di G. Tabellini, Quando l’Indonesia sarà più ricca dell’Italia, «Il Sole-24 Ore», 4.11.2007. 5 Per una più generale analisi dello «spostamento altrove del potere in campo economico e sociale», si veda su questa rivista: G. Vaciago, La politica nazionale a sovranità ridotta, «il Mulino», n. 1/2008, pp. 119-124. 6 Il riferimento va rispettivamente a: A. Sapir et al., Europa, un’agenda per la crescita, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2004; Oecd, The Sources of Economic Growth in Oecd Countries, Paris, 2003 (www.oecd.org).
322 7 Si veda F. Mosconi, The Age of European Champions, «The European Union Review», n. 1/2006, pp. 29-59 e Id., Campioni europei: grandi gruppi crescono, in «east - Europe and Asia STrategies», n. 13, febbraio 2007, pp. 66-75. Si veda inoltre, più in generale, F. Mosconi (a cura di), Le nuove politiche industriali nell’Europa allargata, Parma, Monte Università Parma Editore, 20052 (con scritti di G. Amato et al.). Il lavoro di A. Jacquemin è La nuova economia industriale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1989 (cap. VI). 8 Su tutti questi temi, sarà pubblicato in uno dei prossimi fascicoli della rivista «L’industria» (n. 2/ 2008, giugno) una sezione monografica (Il nuovo oligopolio europeo) con scritti, fra gli altri, di G. Dosi, T. Mayer e G. Ottaviano, M. Motta e M. Ruta, P. Santella, oltre a una mia introduzione. 9 Who are the champions? - A special report on European Business, «The Economist», 10.2.2007. 10 Neppure in questo ambito si può sottacere quello che l’«Osservatorio sulle Pmi europee» sempre ricorda, cioè il fatto che oltre il 90% delle imprese dell’Ue ha meno di dieci addetti (e il dato, si sa, vale a fortiori per l’Italia), rappresentando perciò la «spina dorsale» dell’economia europea. Tuttavia, in tempi di grandi «fratture» (tecnologiche, geo-economiche ecc.) come quelli che stiamo vivendo non si può prescindere dal ruolo giocato, appunto, dai big players, ridotti (ma fino a un certo punto) nei numeri, ma cruciali quanto a capacità di generare innovazioni. 11 Cfr. A. Quadrio Curzio, Europa e Stati Uniti alla prova della globalizzazione, «il Mulino», n. 3/2007, pp. 387-397; A. Sapir, L’Europa e l’economia globale, pubblicato in questo stesso fascicolo della rivista, supra. 12 Cfr. N. Veron, Farewell National Champions, «Bruegel Policy Brief», n. 4, giugno 2006 (www.bruegel.org); B. Eichengreen, Back to Rome?, www.telos-eu.com, 27.3.2007; A. Macchiati e L. Prosperetti, La politica dei campioni nazionali: tra rinascita e crisi, «mercato, concorrenza, regole», n. 3/2006, pp. 455-486. 13 Fra i tanti articoli pubblicati dal settimanale «The Economist» sull’argomento, si veda l’edizione del 12.5.2007: A bid too far, p. 13, The beat goes on, pp. 73-4. Va altresì detto che le prime anticipazioni sui dati per l’anno 2007 avvalorano il primato dell’Europa sugli Stati Uniti: su un totale di 4.500 miliardi di dollari (più 24% sull’anno precedente), operazioni per 1.800 miliardi hanno interessato il Vecchio Continente contro i 1.600 negli Stati Uniti (cfr. «Il Sole-24 Ore», L’M&A batte la crisi dei listini, 3.1.2008). Per l’anno in corso e in prospettiva, tre sembrano i fattori maggiormente in grado di condizionare l’ondata: la crisi del private equity; il dollaro debole, che rende le imprese americane dei target attraenti per l’Europa e l’Asia; l’impressionante forza finanziaria dei «fondi sovrani» (cfr. Whither the great wave?, «The Economist», 5.1.2008, pp. 51-52). 14 Per una rassegna delle principali operazioni sin qui realizzate, si veda il «Focus» pubblicato dal «Corriere della Sera» sotto il titolo Cina e India, caccia alle aziende italiane, a cura di F. Fubini, 17.1.2008, pp. 12-13. 15 Per uno stralcio dell’intervento di S. Peres, si veda Il nuovo mondo, «Lettera - Club The European House Ambrosetti», febbraio/marzo 2008, n. 16. osservatorio europeo
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