Recensioni dalla sestina dello Strega 2020 - Gianrico Carofiglio La misura del tempo Einaudi

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Recensioni dalla sestina dello Strega 2020 - Gianrico Carofiglio La misura del tempo Einaudi
Circolo di Lettura biblioteca Marconi

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                                 dalla sestina dello Strega 2020

                                   Gianrico Carofiglio
                                   La misura del tempo
                                   Einaudi

                                   Tanti anni prima Lorenza era una ragazza bella e insopportabile, dal fascino abbagliante.
                                   La donna che un pomeriggio di fine inverno Guido Guerrieri si trova di fronte nello studio
                                   non le assomiglia. Non ha nulla della lucentezza di allora, è diventata una donna opaca. Gli
                                   anni hanno infierito su di lei e, come se non bastasse, il figlio Iacopo è in carcere per
                                   omicidio volontario. Guido è tutt’altro che convinto, ma accetta lo stesso il caso; forse
                                   anche per rendere un malinconico omaggio ai fantasmi, ai privilegi perduti della
                                   giovinezza. Comincia così, quasi controvoglia, una sfida processuale ricca di colpi di scena,
                                   un appassionante viaggio nei meandri della giustizia, insidiosi e a volte letali.

Francesca ha scritto: Sicuramente un libro ben scritto e ricco di riflessioni. Il racconto di un processo per
omicidio offre lo spunto per considerazioni non scontate sulla figura dell’avvocato e del suo rapporto con la
verità. Questa non è un valore assoluto in quanto è subordinata all’architettura dell’impianto difensivo. Il
riferimento ad articoli di leggi, a ricostruzioni diverse di uno stesso fatto, il balletto delle prove a difesa o a
carico dell’imputato sottintendono una relatività delle sentenze che confermano solo una tra le diverse
ipotesi possibili formulate dall’accusa e dalla difesa, opposte ma entrambe plausibili. Vince quella costruita
con maggiore abilità, quindi il risultato non necessariamente corrisponde all’innocenza o alla colpevolezza
di un imputato. Per questo l’avvocato Guerrieri non chiede al ragazzo accusato di omicidio se ha commesso
o no il crimine, ma solo il racconto dettagliato dei suoi movimenti e incontri a cavallo dell’evento, allo scopo
di collegarli per una ipotesi plausibile di innocenza. Ne deriva un atteggiamento distaccato, quasi cinico, che
però appare come la più forte arma per la difesa di un imputato. L’avvocato Guerrieri da un lato esibisce le
sue armi più raffinate per arrivare all’assoluzione del suo assistito, dall’altra offre di sé un’immagine
malinconica che giustifica i numerosi flashback. Infatti la cronaca puntuale del processo è affiancata da
capitoli che ripercorrono la relazione giovanile del protagonista con Lorenza, la madre del ragazzo
accusato di cui lui ha assunto la difesa. La donna riemerge dal passato per chiedergli di difendere il figlio
dopo un periodo di ventisette anni in cui le loro vite hanno prese strade diverse. L’incontro con Lorenza è
l’occasione per costruire un percorso narrativo parallelo a quello del processo, dove il protagonista si
confronta con un se stesso giovane alle prese con la sua formazione professionale e soprattutto umana
favorita da lei, l’affascinante Lorenza di allora, più grande e sicura di sé, bella e sfuggente. Il romanzo
contiene molti spunti interessanti ma è appesantito dai riferimenti giuridici che a volte ne fanno una sorta
di manuale. Sarà forse perché non amo molto il genere.

Marzia ha scritto: Un nuovo capitolo dei casi dell’avvocato Guido Guerrieri, il personaggio creato da
Carofiglio e protagonista di numerosi suoi gialli nell’ambito Legal thriller. Si tratta cioè non tanto di
un’indagine svolta per appurare il responsabile di un delitto, quanto della analisi minuziosa della tecnica
giuridica e psicologica del processo penale. Certamente si indaga, si cerca di capire lo svolgimento dei fatti e
le motivazioni dei protagonisti, ma il fulcro della narrazione è di carattere giuridico e processuale: quando
un colpevole può essere definito tale senza ombra di dubbio? Carofiglio ovviamente si muove in acque che
conosce bene, di cui sa esplicitare le ragioni profonde, la ratio giuridica e le modalità procedurali, a cui
affianca l’analisi psicologica e comportamentale dei diversi attori del processo in base al ruolo ricoperto.
Ma la vicenda narrata ha anche dei risvolti di carattere personale che porteranno l’avvocato Guerrieri a
riflettere sullo scorrere del tempo. Il cliente è il figlio di una donna che è stata un suo amore di gioventù,
talmente mutata nel fisico e nel carattere che egli stenta a riconoscerla quando si presenta nel suo studio.

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La narrazione dell’indagine e del processo si intreccia con i ricordi e con il tentativo di comprendere il
perché del mutamento di lei e del suo, che cosa l’età matura ha dato e che cosa ha tolto. Si tratta di un libro
ben scritto, scorrevole e che si legge volentieri. Non è, a mio parere, tra i migliori scritti da Carofiglio: a
volte indulge eccessivamente nella descrizione dei tecnicismi del dibattito processuale, quasi a mostrarne la
conoscenza professionale dell’autore più che per motivi funzionali al racconto; come spesso accade nei
romanzi che hanno come protagonista dei personaggi creati dall’autore, le caratteristiche, le abitudini, i tic
del protagonista diventano stereotipi, momenti di colore, perdendo l’iniziale natura di analisi psicologica.

Roberto ha scritto: La misura del tempo di Gianrico Carofiglio l’ho letto già da qualche mese, per cui i miei
ricordi sono in parte evaporati. Carofiglio è ormai un personaggio pubblico, oltre che come scrittore, come
ex-magistrato, politico e commentatore televisivo. Comunque rimane un ottimo scrittore a cui sono legato
avendolo votato alla seconda edizione del Premio delle Biblioteche di Roma, cui ho partecipato nel 2004,
quando concorreva con uno dei primi romanzi dell’avvocato Guerrieri (Ad occhi chiusi). È stato un ritrovarsi
che non mi ha deluso. La prosa di Carofiglio è molto scorrevole ed accattivante. Si rimane incollati alle
pagine che scorrono velocemente. Oltre la storia di una donna ritrovata e della difesa giudiziaria del figlio,
accusato di un grave crimine, ho trovato interessanti ed istruttive le osservazioni sulle logiche giudiziarie,
descritte con proprietà e finezza. È un libro che consiglierei a tutti di leggere. Un altro libro di Carofiglio che
ho letto recentemente e che mi è piaciuto molto è La versione di Fenoglio.

Carla ha scritto: Dalla seconda edizione del Premio delle Biblioteche di Roma, quando abbiamo per la prima
volta incontrato l’avvocato Guerrieri, ci siamo appassionati alle sue avventure. Poi ne abbiamo pure
incontrato l’autore, in una biblioteca sulla Nomentana, dove eravamo tanti, tutti stretti, qualcuno in piedi.
Lo presentava il conterraneo De Cataldo. E ci ha conquistati anche Carofiglio. Tanto è vero che vinse lui
quell’edizione del premio. Questo per premettere che non sarò imparziale nel giudicare La misura del
tempo, anche se questo non è forse il migliore romanzo di Carofiglio. Mi piacciono l’asciuttezza e la lucidità
del suo stile. È poi bravissimo a scrivere cose difficilissime come dialoghi credibili. E anche a disseminare
indizi. C’è un dialogo a metà libro molto emblematico, che dà anche la chiave per risolvere il giallo (ma non
faccio spoiler): “- L’imputato è suo figlio. Lei desidera che sia assolto, giusto? Un lampo che non riuscii a
decifrare passò nello sguardo di Lorenza. - Naturalmente disse dopo qualche secondo. Come se avesse
dovuto ponderare bene la risposta”. Ho sottolineato altre frasi durante la lettura: Un giurista [ma non solo,
mi sentirei di aggiungere] deve dedicare una cospicua parte del suo tempo a cose che con il diritto non
c’entrano nulla: leggere buoni romanzi, vedere buon cinema, anche buona televisione, insomma nutrirsi di
buone storie. Perché è l’arte del racconto a ricordarci come non esista una sola risposta di fronte ai dilemmi
umani. Pensiamo sia il tempo lentamente e ostinatamente a cambiarci. Invece il tempo in sé non cambia
nulla. Al massimo si invecchia. I cambiamenti si producono solo nel momento in cui incontri “davvero”
un’altra persona. Sono attimi. Quasi mai ne siamo consapevoli e anche se ricordiamo quei momenti per la
loro perfezione non capiamo quanto siano importanti per il nostro cambiamento.

Margherita ha scritto Premetto che non amo molto questo genere di libri. Però il libro di Carofiglio devo
riconoscere che è un’eccezione. Vero protagonista è il tempo, come indicato dal titolo, per come cambia la
vita delle persone. Il libro è scritto bene, scorrevole, (tranne forse per la requisitoria finale molto tecnica)
coinvolgente e capace di farti pensare. L’avvocato Guerrieri mi ha conquistato per la sua passione per la
lettura, per i film e per la musica. Interessante la lezione ai magistrati L’ho letta e riletta per capire meglio le
“Fallacie”. Ma esisterà davvero la libreria notturna del Caffelatte con il suo proprietario? Ci potremmo fare
una capatina. Che ne dite?

Filippo ha scritto: Quando un lettore si imbatte nei libri di Carofiglio sa più o meno cosa lo aspetta. E La
misura del tempo è uno di quelli che non lo deluderà. Anche una persona abituata alle esemplificazioni si fa
trascinare nei complicati meandri di un processo in cui le parti in causa diventano protagoniste. Così come i
riti e i luoghi. Si sa però che l’unico vero protagonista in grado di rappresentarli nei minimi particolari è
l’avvocato Guerrieri, impersonato dall’Autore, che parteciperà al Premio Strega, destinato a far parte
almeno della Cinquina. Carofiglio non è come quando lo vediamo nei dibattiti televisivi sempre assertivo e
diretto e al tempo stesso efficace, perché dotato di grande dialettica argomentativa. Nel suo romanzo cerca

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Recensioni dalla sestina dello Strega 2020 - Gianrico Carofiglio La misura del tempo Einaudi
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di fare la stessa cosa. Ma non sempre ci riesce. Leggiamo questo passo: “…La rividi in strada una mattina,
per caso, verso la fine dell’anno. Forse era novembre. Forse era sabato. Faceva freddo, ricordo – chissà
perché – che indossavo un giubbotto pesante e avevo una sciarpa. Lei era con un uomo dall’aspetto
sciatto…”.

                                 Sandro Veronesi
                                 Il Colibrì
                                 La Nave di Teseo
                                 Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è
                                 una vita di con nue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori
                                 assolu . Non precipita mai fino in fondo: il suo è un movimento incessante per rimanere
                                 fermo, saldo, e quando questo non è possibile, per trovare il punto d’arresto della caduta
                                 – perché sopravvivere non significhi vivere di meno. Intorno a lui, Veronesi costruisce altri
                                 personaggi indimenticabili, che abitano un’architettura romanzesca perfetta. Un mondo
                                 intero, in un tempo liquido che si estende dai primi anni se anta fino a un cupo futuro
                                 prossimo, quando all’improvviso splenderà il fru o della resilienza di Marco Carrera: è una
                                 bambina, si chiama Miraijin, e sarà l’uomo nuovo.

Francesca ha scritto: È un romanzo accattivante che mantiene viva l’attenzione. Tutto ruota intorno alla
figura dell’oftalmologo Marco Carrera, la cui vita viene ripercorsa a sbalzi, con passaggi temporali dagli anni
settanta al 2030. La narrazione passa dalla terza persona alla prima grazie alle lettere unidirezionali del
protagonista al fratello Giacomo e a quelle, ricambiate, alla donna da lui amata, Luisa, miraggio impossibile.
L'incipit è d’effetto, crea stupore e attesa con la strana visita dello psicoanalista della moglie di Marco
Carrera. Quest’ultimo viene sottoposto a una raffica di domande sulla sua vita che sarebbe in pericolo. Il
lettore viene così a conoscere dalle primissime pagine la rete di rapporti di Marco: i genitori, la sorella
suicida, il fratello in America, la moglie disturbata, la figlia Adele e la donna amata di un amore platonico.
Vengono presentate le tessere più importanti del mosaico che via via si completerà con l’apporto di altri
personaggi come l’amico iettatore e soprattutto la nipote, figlia di Adele. Bisogna dire che il romanzo non
mantiene la promessa di quell’attacco così originale che resta poco sviluppato rispetto alle premesse e non
spiega in maniera convincente perché la vita di Marco dovrebbe essere in pericolo. L’intreccio si svolge in
modo non lineare: gli anni si alternano senza rispettare la sequenza cronologica con un effetto di
spaesamento favorito da anticipazioni o ritorni al passato. Ogni evento appare quasi indipendente da ciò
che lo precede e lo segue, come momentaneamente scaturito ed emerso dal flusso temporale. La metafora
del colibrì rende non solo lo scarso sviluppo fisico del protagonista da bambino, ma soprattutto la sua
disposizione a rimanere fermo ma vitale, malgrado i dolori e i lutti che lo colpiscono, come il colibrì è
capace di rimanere immobile nell’aria grazie alle acrobazie del suo volo. Quindi una coesistenza di
immobilità e movimento, condizione rivendicata come il risultato di un’estrema saggezza, in quanto per
vivere non occorre uno spostamento continuo da un luogo all’altro ma il desiderio nostalgico di continuare
ad oltranza secondo quanto indicato dal termine "emmenalgia" mutuato dal libro Lui, Io, Noi di Dori Ghezzi
su Fabrizio De André. Il romanzo accoglie al suo interno una grande quantità di citazioni dalla letteratura e
dalla musica non sempre esplicitate nel testo, ma tutte elencate nell’appendice finale sui debiti dell’autore.
Si trova ad esempio la canzone ungherese Gloomy Sunday, passata alla storia come la canzone del suicidio e
perfettamente aderente all’atmosfera di morte che aleggia sul protagonista; in un altro passo del libro un
racconto di Fenoglio, Il Gorgo, viene ripercorso nei suoi snodi narrativi nel capitolo Ai Mulinelli e ripreso
letteralmente nelle ultime due righe come un omaggio allo scrittore. Nel finale del romanzo si evoca il film
Le Invasioni Barbariche, in cui il protagonista, malato terminale, chiama attorno a sé tutte le persone

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importanti della sua vita, allo stesso modo di Marco Carrera, senza più speranza di sopravvivenza, nella
stanza in cui sceglierà di morire alla presenza di quelli che hanno costituito il suo mondo. Si potrebbe
continuare con altri numerosi rimandi. Nell’insieme Il Colibrì è un bel romanzo anche se personalmente
riscontro un peccato di retorica e di artificiosità nel significato attribuito alla figura della nipote del
protagonista, da lui vista nascere al posto di un padre inesistente, esaltata come la promessa di un "uomo
nuovo". Troppe pagine che stravolgono lo stile e il registro del testo.

Carla ha scritto: Un libro sbilanciato. Una prima parte, godibilissima, con il ritratto di personaggi
altoborghesi e nevrotici tutti dallo psicoanalista, manco fosse un film di Woody Allen. C’è poi la “vertigine
della lista”, quando il protagonista Marco ci dice esattamente chi fossero i suoi genitori attraverso gli
oggetti che va inventariando dentro la loro casa. C’è il citazionismo postmoderno (nella postfazione
Veronesi paga i suoi “debiti” a Fenoglio, Pirandello e Vargas Llosa, tra gli altri). C’è il cinismo e c’è la pietà
(proprio pietà perché la pietas latina è un’altra cosa, sebbene ci sia un po’ anche di quella). Poi il finale:
inaspettato, lirico e profetico, in cui mescola ecologia e peace&love, buddismo e stoicismo.

Filippo ha scritto: Non so se sia un vantaggio partecipare di nuovo a un “Premio Strega” dopo averne vinto
già uno nel 2006 con Caos Calmo, poi diventato un film. Il fatto che faccia parte della dozzina è già un
risultato importante. L’autore è abituato alla competizione. Si ha l’impressione che debba vedersela con
Carofiglio, a giudicare dalla classifica dei rispettivi libri venduti. Un primo giudizio lo farei sui dettagli
partendo dal titolo. Il colibrì, uno strano uccello, che a differenza del calabrone, il quale, secondo una legge
dell’aerodinamica non potrebbe volare e ci mette tutte le energie per riuscirci, lui, il colibrì, le impiega per
restare fermo. Poi si è appreso che il nomignolo gli era stato appioppato dalla madre all’età di 14 anni
perché molto più basso dei suoi coetanei. Anche l’esergo che utilizza “Non posso continuare. Continuerò”
tratto da Samuel Beckett pare fatto apposta per la costruzione dei personaggi che abitano un’architettura
romanzesca perfetta. Mi ha colpito il dialogo fra il dott. Marco Carrera, specialista di oculistica e
oftalmologia, che è il protagonista, e Daniele Corradori, l’ometto basso, calvo e barbuto, che è lo
psicoanalista di sua moglie. Il dialogo sembra un interrogatorio. Le domande dello psicologo richiedono una
risposta secca: SÌ o NO. “Dunque non vi scrivete lettere da anni, lei e questa Luisa Lattes? – No! È sincero
Dott. Carrera? Ma, Sì! …E allora sua moglie non è stata sincera con me e lei non è più in pericolo come
credevo…” Alla fine del libro l’autore riproduce una poetica lettera d’amore che Marco Carrera aveva
indirizzato a Luisa Lattes. Il libro è un po’ lunghetto per i gusti del nostro circolo. Ma leggerlo non è una
perdita di tempo.

Fiorella ha scritto: Il colibrì di Sandro Veronesi racconta la storia di un uomo, Marco Carrera, e delle sue
difficoltà per mantenere immobile la sua vita. Il colibrì è un uccellino tropicale che riesce a stare immobile
in volo grazie alla più frenetica attività delle ali… Carrera punta nella sua vita a evitare ogni cambiamento
attraverso tutto ciò che fa. La struttura del libro è molto strana: nessun capitolo è uguale all’altro, non c’è
un ordine, il lettore non sa mai dove sarà una volta terminato il capitolo. Marco ha un grande amore che si
chiama Luisa. Un amore mai consumato, un’ossessione che lo accompagna per tutta la vita: numerosi gli
addii tra di loro, tanti gli incontri ma non andranno mai oltre. Il filo è anche il protagonista della
disfunzionalità che affligge la figlia di Carrera, la quale vive credendo di avere una cordicella attaccata
dietro la schiena, una corda che la collega al muro più vicino. Nessuno può passarle alle spalle, altrimenti la
bimba deve andare a sbrogliarsi con una serie di giri. È un personaggio che nel corso del romanzo evolve,
ma i motivi di questo rito sono decisamente commoventi e spiegano le sue difficoltà nello stare al mondo. È
il personaggio che più di tutti appare appeso a un filo. Il libro è pieno di racconti, ricordi, di elenchi degli
oggetti contenuti nella casa dei genitori e degli Urania posseduti dal padre, attraverso questi oggetti che va
catalogando noi riusciamo ad avvicinarci ai genitori e alla vita famigliare di Marco. La prima parte si legge
con maggiore facilità e curiosità ma da un certo momento in poi il libro diventa carico di sofferenza, dolore
e morte con un finale un po’ inaspettato non del tutto convincente che vuole annunziare il futuro.

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Circolo di Lettura biblioteca Marconi

                                        Daniele Mencarelli
                                        Tutto chiede salvezza
                                        Mondadori
                                        Ha vent’anni Daniele quando, in seguito a una violenta esplosione di rabbia, viene
                                        sottoposto a un TSO: trattamento sanitario obbligatorio. È il giugno del 1994,
                                        un’estate di Mondiali. Al suo fianco, i compagni di stanza del reparto psichiatria
                                        che passeranno con lui la settimana di internamento coatto: cinque uomini ai
                                        margini del mondo. Personaggi inquietanti e teneri, sconclusionati eppure saggi,
                                        travolti dalla vita esattamente come lui. Come lui incapaci di non soffrire, e di non
                                        amare a dismisura. Dagli occhi senza pace di Madonnina alla foto in bianco e nero
                                        della madre di Giorgio, dalla gioia feroce di Gianluca all’uccellino resuscitato di
                                        Mario. Sino al nulla spinto a forza dentro Alessandro. Accomunati dal ricovero e
                                        dal caldo asfissiante, interrogati da medici indifferenti, maneggiati da infermieri
                                        spaventati, Daniele e gli altri sentono nascere giorno dopo giorno un senso di
                                        fratellanza e un bisogno di sostegno reciproco mai provati. Nei precipizi della follia
                                        brilla un’umanità creaturale, a cui Mencarelli sa dare voce con una delicatezza e
                                        una potenza uniche. Daniele Mencarelli torna con una intensa storia di sofferenza
                                        e speranza, interrogativi brucianti e luminosa scoperta. E mette in scena la
                                        disperata, rabbiosa ricerca di senso di un ragazzo che implora salvezza: “Salvezza.
                                        Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E
                                        i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama
                                        salvezza”.

Filippo ha scritto: “Da quando sono nato non ho fatto altro che portare disordine, un’esagerazione dietro
l’altra, tutto un impulso da seguire, nel bene come nel male”. Sarebbe non solo ingeneroso ma anche
riduttivo e persino offensivo definire il libro di cui ci stiamo occupando come “una gabbia di matti”. Il TSO
(Trattamento Sanitario Obbligatorio) è infatti tutto tranne che “una gabbia di matti”. Fin dall’inizio di
questo romanzo ti rendi conto che chiunque si trovi in quel luogo non è capace di guardare o di ascoltare il
dolore degli altri (sono cinque i protagonisti del racconto) senza poter fare a meno di viverlo intensamente
in prima persona. Ogni volta che Giorgio, sulla pelle di bambino, poi adolescente, infine uomo, ha vissuto la
visione della madre morta, ha tracciato una riga, come un cowboy sul suo fucile. La visione della madre
mancata si è tramutata in maledizione, facendolo rimanere lì accanto a lei in eterno, a dieci anni nemmeno
compiuti. “Vorrei avere una corazza, un’armatura di ferro, capace di tenermi distante dalle cose, vorrei non
disperarmi per la disperazione degli altri, non sentire la madre di Giorgio come mia madre, la vita degli altri
saldata alla mia con un patto di sangue”. Questo lo aveva già compreso in pieno Franco Basaglia più di 40
anni fa con la legge 180, la riforma dei centri psichiatrici, dove nascono sentimenti che bisogna coltivare
attraverso un approccio terapeutico adeguato. L’autore parla di una settimana di internamento coatto.
Forse è l’unico libro della dozzina selezionata candidato al premio Strega che evoca, sia pure
indirettamente con riferimento alla parola Salvezza, contenuta nel titolo l’espressione “io sto a casa”
imposto dalla pandemia. La mia malattia si chiama salvezza ripete l’autore in continuazione. Leggendo il
libro anche nelle parti in cui viene usato efficacemente il romanesco, la parola “salvezza”, implorata in mille
modi in tempi di Coronavirus, non vuol dire “guarigione” del solo corpo ma anche dentro di sé e non
nell’unico senso dell’amor proprio, che invece viene visto come un limite. E questo limite ce lo fa
comprendere l’autore durante la sua settimana trascorsa nel TSO nel luogo del dolore che ha condiviso con
i suoi compagni di viaggio.

Carla ha scritto: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.
La citazione, da Nizan, mi è venuta in mente leggendo lo sfogo di Daniele, protagonista del romanzo:
“Vent’anni. A diciassette ho dichiarato guerra alla vita…” E continua facendo quasi eco a Ginsberg: “ho visto
tanti ragazzi, miei coetanei, vivere anche loro in un tempo passato, morto”. Mencarelli narra una dolorosa
storia che attinge probabilmente all’autobiografia e merita quindi tutto il nostro rispetto. Come la narra
può essere argomento di recensione. Sceglie di raccontarla attraverso i dialoghi tra lui e gli psichiatri, gli

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infermieri e gli altri degenti in TSO. È in fondo una pièce scandita in quadri. Ogni quadro è un giorno della
settimana. Commovente, sincero, irruento. Anche a teatro sono convinta che funzionerebbe.

Francesca ha scritto: L'autore ci guida nel girone infernale di un reparto psichiatrico per pazienti in
trattamento sanitario obbligatorio. È lì che Daniele, il protagonista ventenne, racconta l’arco di una
settimana di ricovero come una tappa del suo processo di formazione. I cinque malati che condividono con
lui uno stanzone e gli infermieri che si alternano nei turni fanno parte di un unico universo osmotico in cui
nessuno può dirsi veramente sano o malato, e tutti crescono grazie agli inevitabili scambi umani. Vinta
l’iniziale diffidenza reciproca, ci si scopre persone complesse, al di là del tratto di devianza che molti
vorrebbero definitivo e classificatorio. Così come, d’altra parte, gli infermieri perdono la loro rudezza
quando esprimono, in un dialogo casuale, le loro fragilità, e i medici alternano cinismo e umanità in un
contesto che mette tutti a dura prova. Il romanzo alterna dialoghi in dialetto romano - con qualche
imprecisione nella scrittura - a monologhi in italiano del protagonista, forse con qualche difetto di coerenza
dal momento che il personaggio Daniele sdoppia la sua voce: espressioni romanesche accentuate nei
dialoghi e perfetta espressione sintattica e lessicale nei monologhi. Personalmente ho trovato questo
contrasto un po’ stridente. Poi è vero che la lettura coinvolge e si può ignorare facilmente questa
contraddizione stilistica. Il racconto raggiunge il culmine del suo climax nelle pagine finali con la caduta
dalla finestra, più o meno accidentale, del paziente colto e saggio (malgrado la macchia di una passata
violenza contro la moglie e il figlio), che parla a un uccellino sull’albero di fronte. Tale episodio drammatico
scatena una serie di reazioni da quelle più commoventi come la preghiera collettiva per la salvezza del
compagno di stanza a quelle più estreme come la violenza incontrollabile di uno di loro che si scatena
contro medici e infermieri. Reazioni tutte riconducibili alla scoperta di un sentimento di unità di un gruppo
improbabile eppure potente, terreno di confronto delle proprie debolezze ma anche rivelatore della forza
delle relazioni umane.

Roberto ha scritto: E un romanzo ben scritto, con stile fluido e coinvolgente. Daniele Mencarelli ci rende
partecipi di una significativa esperienza di vita: una settimana in un reparto psichiatrico poiché sottoposto a
trattamento sanitario obbligatorio. L’esperienza, seppure molto difficile, è stato una “fortuna” perché ha
permesso al protagonista/autore di poter parlare profondamente della sua natura con gli altri compagni di
stanza senza vergogna, proprio perché condividevano un destino comune. La sua iniziale diffidenza si
trasforma poi in un sentimento di fratellanza e condivisione ed è questo l’elemento terapeutico per
Daniele. I medici e gli infermieri del reparto, infatti, sono descritti come freddi, distanti, scarsamente
sensibili. L’autore si domanda, quindi, se possa esserci salvezza nell’indifferenza e nell’individualismo, ma il
rapporto di accettazione e accoglienza che si crea tra i pazienti è la vera cura per Daniele. Il protagonista
soffre perché cerca continuamente un senso e significato negli eventi e nella vita e questo non viene
compreso da chi lo circonda. Nella vita le persone che incontriamo possono cambiare il nostro percorso e
darci una nuova direzione ed è esattamente questo che succede a Daniele. L’inclinazione a porsi domande
sull’esistenza e sul suo significato è un’attività che viene scoraggiata dalla società ma dalla sofferenza può
nascere qualcosa di buono. Libro è toccante, ma fa molto riflettere sul tema delle diversità. Ne consiglio la
lettura.

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                                 Jonathan Bazzi
                                 Febbre
                                 Fandango Libri
                                 «Febbre di Jonathan Bazzi è un romanzo che testimonia un presente che è già futuro
                                 prossimo. Questa è una storia del tempo nuovo: perché il fuoco è sorprendentemente
                                 altrove rispetto a dove è stato messo fin qui da letteratura e senso comune. Esula dai giudizi
                                 e sposta il baricentro sull’accettazione delle fragilità. Una lingua contaminata – la lingua di
                                 una periferia dove si parla un pidgin febbrile di milanese, napoletano, pugliese e siciliano – a
                                 tratti interrotta, a tratti fluida, distorce, denuncia, svela, innalza e abbassa la soglia della
                                 gioia. Così il protagonista, creatura in divenire, non cerca un’identità, o almeno non nelle
                                 categorie esistenti, ma ne inventa una sua personale in cui si ama su internet (“usatemi per
                                 studiare il cuore del nuovo millennio, quello che prima s’innamora e poi ti vede in faccia”),
                                 in cui si può essere tutto, felicemente tutto: colto, balbuziente, emotivo, gay, ironico e
                                 anche sieropositivo. L’Orlando di Virginia Woolf qui si condensa, e trova realizzazione in
                                 pochi anni. Non servono più secoli».

Filippo ha scritto: In tempi di Covid19 quando senti parlare di febbre pensi che ci sia qualcosa che abbia a
che fare con la pandemia del 2020. Bazzi ne descrive i sintomi - della febbre, però - facendone un elenco
interminabile: febbricola, febbriciattola, febbre di origine sconosciuta, ma poi scopre che si tratta di
Mononucleosi, il virus di Epstein–Barr, la malattia del bacio. A rasserenarlo non è tanto la perniciosità della
temperatura che oscilla da 37 a 37 e mezzo, che non gli dà tregua nel corso dei suoi spostamenti, quanto un
test che rivela di aver contratto l’HIV: Jonathan è siero positivo. Un’autobiografia che ha al centro Rozzano,
un quartiere, alla periferia di Milano, che l’autore chiama il Bronx del Sud, dove è nato ed è cresciuto. A
Rozzano si litiga sempre, si può anche ammazzare, si viene ammazzati. Non è certo il Rocco e i suoi fratelli
di Luchino Visconti, ideale approfondimento del contrasto tra vecchio e nuovo che si svolge all’interno di
una società in espansione simboleggiata da una Milano neocapitalistica. E nemmeno la Febbre che, guarda
caso, è il titolo di altri due libri: uno di Ling Ma, figlia di immigrati cinesi che, sopravvissuta alla morte dei
suoi, si sente auto reclusa, passando il suo tempo in una rigorosa routine casa - lavoro e che poi, in ritardo,
molto in ritardo, si accorge che l’epidemia si sta diffondendo in tutto il mondo decimando tragicamente la
popolazione di New York. L’altro libro è di Mary Beth Keane, che racconta la New York dei primi ‘900 in cui
una ragazza, senza ammalarsi, (oggi si direbbe asintomatico) portò dentro di sé il germe di una malattia
contagiosa e mortale. Giusto per restare in tema di febbri e di contagi.

Carla ha scritto: Anche Bazzi (come Mencarelli, Barone, Lupo…) ci racconta la sua vita e lo fa “senza remore,
filtri, tutele”. Con una prosa spigolosa, spezzata, frasi brevi, brevissime a volte. E un’irruenza che ti trascina
all’indietro a partire dalla sua infanzia e ti sprofonda nella depressione del suo presente. Ti lascia
frastornato e dolente. L’urgenza di raccontare la sua esperienza viene dalla volontà di non subirla ma di
imparare da essa: “[voglio] rinominare quello che mi è successo, appropriarmene con le parole, darle uno
scopo non lasciarla ammuffire nel ripostiglio delle cose sbagliate. Voglio rimanere là dove sta il dolore, per
frammentarlo con le parole e fargli fare un po’ meno male”.

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Circolo di Lettura biblioteca Marconi

                                      Valeria Parrella
                                      Almarina
                                      Einaudi
                                      «Nella storia del rapporto, in un carcere minorile, tra una professoressa di matematica
                                      e la sua nuova allieva si nasconde una vicenda che ci riguarda tutti. Quanto siamo
                                      disposti a metterci in gioco davanti agli altri? Il dolore ci accomuna, la paura trae
                                      costantemente il peggio da noi, il senso del dovere può diventare una scusa per
                                      andare sempre in giro con la guardia alta. Fino a quando la vita non ci obbliga a
                                      scegliere. Almarina racconta tutto questo con un’intensità e una misura ammirevoli, e
                                      una forza linguistica rara, segnando una tappa importante nella letteratura italiana di
                                      questi anni».

Filippo ha scritto: Devo confessare che leggendo questo libro mi sono fatto prendere la mano più dai luoghi
descritti e frequentati dall’autrice (il carcere minorile di Nisida e il Tribunale per i minorenni in via dei Colli
Aminei di Napoli, che per motivi di lavoro e istituzionale ho avuto modo di conoscere), che non dalla storia
della protagonista del romanzo. Ho trovato fedelmente riprodotti quelli che sono gli stati d’animo di
chiunque si trova in qualche maniera ad avere a che fare con quelle strutture fatti di divieti, di formalità
esasperate, di abbrutimento. Sia da parte di chi è sottoposto a quelle ristrettezze, sia di chi è chiamato a
renderle meno pesanti, come l’insegnante, l’assistente sociale, l’educatore, lo psicologo, il maestro d’arte. E
una volta che entri o fai parte di quell’ambiente, ciascuno con il proprio ruolo: direttore, comandante,
singolo agente di polizia penitenziaria, magistrato di sorveglianza, è difficile separarti da quel contesto. La
protagonista, da insegnante, si compenetra in pieno in quel ruolo, segue Almarina, la minore reclusa a
Nisida, istruisce le carte per ottenerne l’affidamento dal Tribunale. Quello delle adozioni e dell’affidamento
sono storie che muovono alla commozione. Perché si tratta sempre di separazioni e di congiungimenti. E
Valeria Parrella è riuscita a raccontarci dignitosamente la sua vicenda.

Carla ha scritto: Anche Valeria Parrella l’abbiamo incontrata al premio delle biblioteche. In quell’occasione
avevamo lasciato la Parrella (cioè la sua protagonista) in un ospedale davanti all’incubatrice del figlio
prematuro (Lo spazio bianco). La troviamo qui in un altro ospedale alla morgue davanti al cadavere del
marito. Aldilà della vicenda deamicisiana della professoressa di un carcere minorile che, senza figli, prende
in affido una giovane romena sua allieva (l’Almarina del titolo) e dei siparietti alla Bellavista (cfr. il dialogo
tra la professoressa e il guardiano delle oche o la spiegazione dell’homo sapiens) - quasi d’obbligo nei
romanzi ambientati a Napoli - ci sono squarci lirici e riflessivi sulla città e sulla vita in carcere
innegabilmente belli e interessanti.

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