Race for the Cure, la maratona contro il tumore al seno

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Race for the Cure, la maratona contro il tumore al seno
Race for the Cure, la maratona
contro il tumore al seno
di Paolo Campanelli

Race for the cure negli anni ha compiuto passi da gigante: basti
pensare che nella prima edizione del 2000 le Donne In Rosa erano sono
200, L’anno scorso si sono iscritte in 6.000, provenienti da tutta
Italia, e quest’anno l’evento organizzato a Roma al Circo Massimo ha
superato i 70.000 partecipanti.

Al nastro di avvio è stata collocata simbolicamente ed esposta al
pubblico la coppa del mondo di pallavolo, e anche se i più competitivi
si sono lanciati nelle maratone da 2 e 5 chilometri, la maggior parte
dei partecipanti si è limitata a passeggiare e a utilizzare gli stand
messi a disposizione per degli screening gratuiti.

Fondata da Nancy G Brinker, denominata per onorare la memoria della
sorella Susan G Komen, morta di cancro al seno, l’associazione ha
operato per trent’anni, ed è nel 1991 che Race for the Cure ha avuto
il suo primo evento a New York, rendendo il fiocco rosa il simbolo
della lotta al cancro al seno. “La prevenzione è fondamentale per
ridurre la pericolosità del tumore al seno. Le donne dai 40 anni in su
dovrebbero sottoporsi a una mammografia una volta l’anno. Oggi le
possibilità di guarigione arrivano fino al 95%” ha detto Riccardo
Race for the Cure, la maratona contro il tumore al seno
Masetti, direttore del centro integrato di Senologia del Policlinico
Gemelli di Roma e presidente dell’Associazione Susan G. Komen Italia
che organizza “Race for the cure” All’evento erano presenti anche il
presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ed il sindaco di
Roma Virginia Raggi.

L’evento si è concluso con il tradizionale lancio dei palloncini rosa
nei cieli della capitale, per onorare chi ha combattuto il tumore e ne
è uscita vittoriosa, e per chi non è più tra noi L’obbiettivo per il
2019 sarà quello di avere un evento in ogni singola regione, ma fino
ad allora, le prossime maratone si svolgeranno a Bari (dal 25 al 27
maggio), a Bologna (dal 21 al 23 settembre), a Brescia (dal 5 al 7
ottobre)

Farsi “selfie” è una malattia, ecco
i tre livelli di gravità
di Valentina Taranto
Maniaci dell’autoscatto in pose plastiche con espressioni
affettatamente ricercate e con smartphone alla mano? Non state bene.
Quello che poteva sembrare il giudizio impietoso di snob schivi è ora
avvalorato da un giudizio medico dell’American Psychiatric
Association (APA). I dottori hanno coniato un termine che descrive
l’ossessivo del selfie, ovvero selfitis.

Secondo lo studio da parte della American Psychiatric Association chi
ha la mania del selfie soffre di un disturbo mentale. “Mancanza di
autostima e lacune nella propria intimità”. È questa la tesi proposta
dall’associazione nei confronti di chi passa il tempo a
farsi autoscatti per poi condividerli sui vari social network.

Il disturbo ha trovato anche un nome: il selfitis che tradotto in
italiano potrebbe essere la “selfite“. I medici che hanno effettuato
la ricerca sostengono che gli amanti del selfie soffrono di un
desiderio ossessivo compulsivo di realizzare fotografie di sé stesso
per poi pubblicarle online per compensare la mancanza di autostima e
anche per colmare lacune nella propria intimità.

L’ American Psychiatric Association ha pubblicato anche una “scaletta”
per valutare quanto si è “disturbati” dalla mania.

Selfitis Borderline: consiste nell’auto-scattarsi foto almeno 3 volte
al giorno, me senza pubblicarle poi sui social network. Si tratta del
livello più lieve del disturbo.

Selfitis acuta: in questa seconda ipotesi, il soggetto scatta almeno
3 selfie al giorno, ma decide di pubblicarli tutti sui social.

Selfitis cronica: è la voglia incontrollabile di scattarsi fotografie
in qualsiasi istante e per tutto il giorno. In questo caso i selfie
vengono poi pubblicati in rete almeno 6 volte al giorno. Si tratta
dello stadio limite e più grave del disturbo.

Dunque, tutto sta nel quante foto al giorno pubblicare. La soluzione,
secondo gli studiosi, consiste nel limitare la condivisione della vita
privata alle sole persone appartenenti al mondo reale,
disintossicandosi giorno per giorno dalla dipendenza, invece, dal
mondo virtuale.
Come evitare gli attacchi di panico

nella foto la dr.ssa Daniela Sannino

di Daniela Sannino*

Il disturbo da attacchi di panico rientra nella sfera dei disturbi
d’ansia ed è caratterizzato da manifestazioni di improvvise, intense e
ripetute crisi di paura, tali da provocare una costellazione di
sintomi, quali: tachicardia, senso di oppressione al torace, crampi o
dolori addominali, sudorazione, tremori, nausea,sensazione di
soffocamento, depersonalizzazione(sentirsi come staccati da se
stessi), de realizzazione (sensazione di irrealtà), sensazione di
instabilità o di svenimento, sensazioni di malessere, di terrore,
paura di morire, di perdere il controllo o di impazzire. Durante
l’attacco di panico però, quasi mai le manifestazioni sintomatologiche
descritte si presentano tutte assieme ma variano da soggetto a
soggetto. L’attacco di panico dura poco e generalmente non supera mai
i 20 minuti, ma la loro intensità può essere devastante per chi li
sperimenta per la prima volta.

Gli attacchi di panico sono dunque, la forma più acuta dell’ansia.
Specialmente nelle prime fasi del disturbo, i sintomi possono
insorgere improvvisamente senza una causa o un motivo scatenante,
durante una situazione di routine e ciò che li caratterizza è la loro
“imprevedibilità” cogliendo l’individuo come un fulmine a “ciel
sereno”. Nella maggior parte dei casi tende a manifestarsi in
situazioni specifiche, ad esempio in luoghi pubblici, come al cinema,
supermercati, autobus, oppure mentre si è alla guida, innescando così
nel soggetto la paura e l’evitamento di tali luoghi (Agorafobia) ,in
quanto subentra il timore di non poter ricevere aiuto se si viene
colti da un attacco, con la conseguenza, dunque, di non riuscire più
ad uscire di casa e di isolarsi, compromettendo così la vita sociale,
lavorativa e sentimentale.

Fortunatamente, gli attacchi di panico non mettono a rischio la vita
delle persone, ma in genere dopo il primo attacco si possono
sviluppare altre convinzioni e cioè quello di essere affetto da una
malattia fisica, sottoponendosi ad una serie di visite mediche che
hanno si un effetto rassicurante, ma solo momentaneamente, in quanto
il soggetto, continuando a star male, penserà che prima o poi gli
verrà un infarto o qualche altra malattia.

L’età di esordio degli attacchi di panico in genere si colloca tra i
16 e i 35 anni , con un picco massimo intorno ai 25 anni e
difficilmente dopo i 45 anni, anche se un esordio tardivo dovrebbe far
sospettare un disturbo organico come l’ipertiroidismo. Il disturbo da
attacchi di panico oggi è sempre più diffuso e si calcola che circa il
2-4% della popolazione in Italia soffra di tale disturbo e sono
colpite in prevalenza le donne rispetto agli uomini. Prima di
diagnosticare un attacco di panico, è bene che il soggetto si
sottoponga ad accertamenti diagnostici, in quanto causa di disturbi di
panico possono essere un mal funzionamento della tiroide o un difetto
cardiaco come il prolasso della valvola mitrale. Una volta escluso una
componente organica, allora possiamo parlare di attacchi di panico
derivati da una componente psicologica. Tra le cause scatenanti di un
attacco di panico vi è senza dubbio una radice biologica e gioca un
ruolo significativo la predisposizione familiare o l’uso di sostanze
stupefacenti, ma nella storia delle persone che soffrono di tale
disturbo spesso sono presenti eventi stressanti, la separazione da
figure significative , instabilità economica, sensazione di
insicurezza, lutti importanti, un evento traumatico o grandi
cambiamenti di vita.

Gli attacchi di panico generano notevole sofferenza nelle persone che
li sperimentano. Ma cosa fare e come comportarsi se un nostro amico o
parente soffre di tale disturbo e come comportarci se ci troviamo con
loro in quei momenti?. Sicuramente assistere ad un episodio di crisi
allarmerebbe chiunque , ma è bene che dall’altra parte vedano almeno
in voi una rassicurazione. Prima di tutto, se la persona è la prima
volta che sperimenta un attacco di panico, è bene accertarsi che si
tratti proprio di quello. Se il soggetto manifesta alcuni dei sintomi
elencati, in caso di dubbio è bene recarsi al pronto soccorso, anche
perché i sintomi di un attacco di panico possono mimare o esser simili
a quelli di un attacco di cuore. Se invece non è la sua prima volta,
allora bisogna ricordarsi che i sintomi non mettono a rischio la vita
della persona e che durano meno di mezz’ora, quindi è bene mettere la
persona in un posto tranquillo in quanto il soggetto vorrà sicuramente
andar via dal luogo in cui si è scatenato l’attacco. Cerchiamo di
evitare frasi del tipo: “stai calmo, non è niente” perché in questo
modo stiamo sottovalutando la sua paura.

Cerchiamo invece di parlargli in modo deciso, ma rassicurante, in
maniera calma prendendo sul serio la sua situazione e le sue paure
senza giudicare e chiediamo se riesce a capire come mai sta vivendo
una situazione del genere, senza fare troppe pressioni se non vuol
rispondere. Aspettiamo che i sintomi si attenuino, dopodiché aiutiamo
la persona a calmarsi proponendogli degli esercizi di respirazione.
Dobbiamo aiutare la persona a controllare la respirazione facendolo
inspirare dal naso ed espirando dalla bocca per alcuni minuti in
quanto durante gli attacchi di panico la persona entra in
iperventilazione, ossia un eccesso di respirazione e dunque il
soggetto respira con una frequenza maggiore rispetto alla necessità
effettiva del corpo che crea squilibrio fra ossigeno e anidride
carbonica.

Il panico rappresenta un campanello d’allarme ma non dobbiamo pensare
che sia un nostro nemico, anzi è arrivato proprio perché vuole
comunicarci qualcosa, avvertirci che forse è arrivato il momento di
fermarsi e di capire che c’è qualcosa nella nostra vita che non sta
procedendo come dovrebbe e cominciare dunque a cambiarla, prima che
gli attacchi si cronicizzino. E’ bene dunque diagnosticare in tempo il
disturbo e impostare un percorso mirato, ricorrendo ad una terapia
farmacologica ,nei casi particolarmente gravi, che aiuti a ridurre la
sintomatologia legata agli attacchi. C’è da aggiungere però che da
soli i farmaci non sono sufficienti perché attenuano i sintomi ma non
la causa scatenante ed è dunque importante abbinare ai farmaci anche
un percorso di psicoterapia che aiuterà la persona a capire l’origine
degli attacchi individuando il modo per superarli, operando così un
cambiamento della realtà minacciosa.

* Psicologa e specializzanda in piscoterapia

La carbossiterapia, una preziosa
alleata
L’ infiltrazione di anidride carbonica per via sottocutanea o
intradermica, oggi nota come carbossiterapia, è conosciuta dagli anni
’30, quando a Royat in Francia si osservarono i benefici effetti di
trattamenti termali con somministrazione transdermica di CO2 su
pazienti affetti da arteriopatie periferiche. L’utilizzo in medicina
estetica viene sviluppato in Italia intorno agli anni ’90 e sempre
italiano è lo sviluppo delle prime apparecchiature per le applicazioni
in sede sottocutanea. Clelia Cassano, medico di medicina estetica a
Lecce ed a Taranto si è diplomata presso la Scuola internazionale di
medicina estetica Fondazione Fatebenefratelli di Roma, ci offre una
disamina delle indicazioni e risultati della carbossiterapia in
medicina estetica e dermatologia.
nella foto, la dottoressa Cassano ed il prof. Bartoletti

La carbossiterapia è nota per essere particolarmente indicata nel
trattamento della cellulite: quale è il razionale di efficacia?

Nella    PEFS     esiste    una   indubbia     diminuzione      della
vasomotion, flowmotion e del letto vascolare, con ipossia e
alterazione della regolazione del flusso ematico al tessuto adiposo.
L’infiltrazione di CO2 provoca un rilascio massivo di ossigeno, con
benefici immediati. Gli effetti a lungo termine sono determinati da un
aumento della vasomotion, vasocostrizione alternata a vasodilatazione,
con onde che da 15/min passano a 50/min dopo appena 150 cc di anidride
carbonica iniettata, attestato dalla videocapillaroscopia a sonda
ottica. L’aumento della disponibilità di O2 , determinato dalla
vasomotion, viene esaltato dall’accresciuta velocità del flusso
ematico ai tessuti, flowmotion, determinata dall’aumentata
deformabilità eritrocitaria che diminuisce la viscosità ematica. La
CO2 provoca in aggiunta apertura e canalizzazione di capillari
preesistenti ed AVA, con conseguente maggiore quantità di flusso
ematico tissutale

Quali risultati ha riscontrato sulla cellulite?

Eccellenti. Oltre alla sensazione di benessere e leggerezza che segue
la seduta nell’immediato, si riscontra, nel prosieguo, un benessere
più stabile e protratto nel tempo (pesantezza, crampi, formicolii)
nonché un miglioramento dell’aspetto estetico con riduzione dei
volumi, aumentata tonicità e una chiara attenuazione delle
caratteristiche ondulazioni.

La cellulite è una condizione cronica come il diabete, che regredisce
e va in remissione grazie a terapie, alimentazione e corretto stile di
vita, ma è difficile pensare a una vera guarigione senza che tali
condizioni sussistano; pertanto il richiamo terapeutico a fine ciclo
risulta indispensabile, seppure personalizzabile. Più tardi si
instaura il trattamento, più risulta difficile, naturalmente, ottenere
risultati ottimali a causa di aggravamenti anatomofunzionali
irreversibili. La risposta alla carbossiterapia c’è sempre, ma
l’entità, la velocità e la durata del risultato dipendono, oltre che
dallo stadio evolutivo – edema, fibrosi e sclerosi – da fattori
individuali. Ho notato che il persistere nel trattamento, con più
cicli terapeutici, migliora la qualità e la durata del risultato.

Come si pone la carbossiterapia rispetto alla liposuzione?
È una questione di indicazioni terapeutiche. L’atto chirurgico
andrebbe riservato elettivamente all’adiposità localizzata, tessuto
adiposo in eccesso, ma normale dal punto di vista anatomo-funzionale.
Nel caso di liposuzioni effettuate su pannicolopatia non è
infrequente, infatti, osservare, effetti collaterali legati al
traumatismo tissutale, in un ambiente già compromesso dal punto di
vista vascolare e microcircolatorio. La CO2 si affianca alla chirurgia
per ridurre l’incidenza degli antiestetici dimpling post-lipo,
accelerare il post-operatorio e nel trattamento della lipomatosi
multipla simmetrica. Per quei pazienti che non possono/vogliono
affrontare una liposuzione, accontentandosi di un risultato meno
eclatante, l’utilizzo della CO2 potrebbe costituire un’alternativa.
L’azione riduttiva della CO2 sul grasso, infatti, è dovuta sia a
un’azione sia clasica che litica sugli adipociti. Studi istologici
hanno dimostrato la clasi di membrana e la totale indennità a carico
del connettivo, delle strutture vascolari e nervose. Il meccanismo
lipolitico, invece, riconosce l’attivazione del recettore beta
adrenergico     adipocitario,      con    attivazione     successiva
dell’adenilatociclasi, che catalizza la trasformazione dell’ATP in
AMPc, responsabile dell’attivazione della PKA, che stimola la lipasi
intradipocitaria, quest’ultima responsabile dell’idrolisi dei
trigliceridi a glicerolo e acidi grassi. L’aumentato apporto di
ossigeno e flusso ematico poi, favorisce i processi ossidativi degli
acidi grassi con un incremento metabolico del tessuto adiposo.

Nell’invecchiamento cutaneo, a chi riservare questo trattamento?

A tutti i casi in cui l’apporto vascolare risulta insufficiente per
estrogeni in calo, tabagismo o per terapie mediche che comportino una
battuta d’arresto inevitabile sul supporto vascolare come i farmaci
target in oncologia. Utile nell’aging fisiologico di viso, collo,
décolletè, dorso delle mani e interno coscia, come pure nel
trattamento di occhiaie, ptosi della palpebra superiore e borse,
quando l’atto chirurgico è ancora sconsigliabile, ma l’inestetismo
comincia a comparire; inoltre, la carbossiterapia, potenzia i
risultati di trattamenti come biostimolazione, fattori di crescita
piastrinici, luci pulsate, laser, peeling e filler. Gli impieghi più
recenti sono il trattamento dell’invecchiamento dei genitali femminili
e l’alopecia.

In ambito dermatologico quali sono le indicazioni?

Nella patologia dermatologica, si fa strada per il trattamento della
psoriasi. In poche sedute si assiste a un netto miglioramento e a
volte persino alla scomparsa delle lesioni. Il meccanismo non è del
tutto chiaro, ma sembra coinvolgere la stimolazione recettoriale beta,
la cui diminuita sensibilità è dichiarata nella psoriasi.
L’attivazione    recettoriale    supererebbe   l’inibizione    della
fosfodiesterasi che attiva la PKA, capace di fosforilare svariati
enzimi intracellulari preposti alla biosintesi. La psoriasi è
caratterizzata dal punto di vista istopatologico da una situazione
microangiopatica e dal punto di vista fisiopatologico
microcircolatorio da una situazione di stasi microcircolatoria,
condizioni su cui la carbossiterapia svolge funzione riabilitativa.

E le controindicazioni?

Insufficienza respiratoria, cardiaca, renale, epatica gravi; terapia
con acetazolamide, diclofenamide o altri inibitori dell’anidrasi
carbonica; ipertensione arteriosa grave; pregresso ictus cerebrale;
tachiaritmie cardiache; trombosi arteriose; tromboflebiti;
flebotrombosi; embolie; gangrena gassosa. Inoltre è da evitare in
gravidanza.

Lei utilizza la carbossiterapia per ridurre l’impatto sulla cute delle
terapie oncologiche…

Gli agenti chemioterapici sono farmaci citotossici a scarsa
selettività, inducono morte o arresto della crescita cellulare
bloccando il DNA con legami stabili e colpiscono soprattutto le
cellule in rapido ricambio come la cute e gli annessi. La tossicità
quindi non si limita solo alle strutture cosiddette “vitali”, come il
midollo, tanto da provocare una senescenza dell’aspetto nella sua
globalità. L’introduzione dei farmaci target, poi, se da un lato ha
rappresentato una nuova vincente frontiera terapeutica, dall’altro ha
causato un nuovo fronte di complicanze, prevalentemente cutanee, con
una percentuale più elevata rispetto al passato, spesso con grado di
tossicità tale da alterare la QDV o da richiedere la sospensione della
terapia stessa. Infatti tali farmaci agiscono come inibitori dei
fattori di crescita (EGF, FGF, VEGF, PDGF, IGF…), dalla cui integrità
funzionale    dipendono    crescita,    proliferazione,     mobilità,
differenziazione, difese e vascolarizzazione.

Tutto ciò gioca a svantaggio della cute, le cui complicanze ‒
follicoliti, nasovestiboliti, rush, secchezza, desquamazione, ragadi,
sindrome mano piede, alterazioni ungueali ‒ sono una conseguenza
dell’alterato equilibrio nella fisiologia cutanea. Tali farmaci
vengono spesso utilizzati in associazione con chemioterapici classici
e radioterapia, che incrementano la tossicità cutanea in modo
esponenziale al punto tale da costringere l’oncologo a sospendere
temporaneamente il trattamento per gradi 3 e 4 di tossicità.
Utilizzando la carbossiterapia prima e durante la terapia oncologica
in questi pazienti, ho potuto osservare come gli effetti collaterali a
carico della pelle risultino fortemente attenuati o addirittura
assenti, in virtù del miglioramento della circolazione e del più
rapido allontanamento del farmaco dal distretto cutaneo trattato.

Vede uno sviluppo dell’uso della carbossiterapia contestualmente alla
terapia oncologica?

Nell’immaginario collettivo e individuale il cancro continua ad
associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, morte
ineluttabile, stigma, diversità, colpa e vergogna. La paura della
sofferenza indotta dai trattamenti può prevalere sulla paura della
malattia stessa, impedendo al paziente di raggiungere
quell’adattamento psicologico necessario per combattere e
sopravvivere. La medicina estetica, con i suoi trattamenti come la
carbossiterapia, può impedire al malato di vedere alterata la sua
immagine corporea, espressione profonda del nostro esistere, del modo
personale di essere al mondo, la nostra espressione sociale e
professionale. Tutelare l’immagine di un paziente oncologico permette
di tutelare il dialogo con se stesso e la sua qualità di vita.

Da qui l’importanza di disporre di una terapia veramente efficace e
innocua, accettata dall’oncologo perché completamente scevra da
effetti deleteri sulla malattia di fondo, facilmente praticabile e con
elevatissima tollerabilità. Inoltre, per tutte quelle malattie in cui
potrebbe essere dubbioso agire con soluzioni di medicina estetica a
elevato impatto sul sistema immunitario o patologie a elevato carico
farmacologico per il paziente, vedo certamente ampie possibilità di
ricorrere alla carbossiterapia con enorme soddisfazione. L’anidride
carbonica, iniettata nei tessuti in dosi largamente al di sotto di
quelle prodotte dal nostro corpo, viene dismessa pressocché
immediatamente, impedendo reattività dovute alla permanenza tissutale
di materiali, tutti potenzialmente non scevri da effetti collaterali
legati a reattività immunitarie imprevedibili e proprie, sostanze
chimiche utilizzate per la loro preparazione/estrazione o
contaminanti.

La cute fragile del paziente che effettua terapie di questo tipo mal
tollera poi l’aggressione di laser, luci pulsate e peeling e, accanto
alla carbossiterapia, solo le luci LED potrebbero dare un grande
contributo nel trattamento riparativo-rigenerativoantiaging di queste
condizioni. Va considerato che accanto alla regolazione del flusso
ematico, la CO2 apporta nutrienti, ioni, ormoni, drena le tossine e
incrementa il metabolismo locale, cosa ottimale per una cute
bersagliata da polichemioterapia e radioterapia.

 Chi è Clelia Cassano. Laureata in medicina e chirurgia presso
l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma nel 1990, ha avviato
nel 1991 il proprio ambulatorio di medicina estetica a Martina Franca
(TA) .

Consegue il Diploma di formazione in medicina estetica presso la
Scuola internazionale Fatebenefratelli di Roma e il Diploma di
formazione specifica in medicina generale.

E’ responsabile dal 2005 dell’Ambulatorio di medicina estetica presso
la Casa di Cura Prof. Petrucciani di Lecce. si interessa di molteplici
tecniche di medicina estetica ai fini del ringiovanimento, in
particolare filler a base di acido ialuronico, utilizzo di fattori di
crescita piastrinici e carbossiterapia, quest’ultima anche a fini
terapeutici. Tra i suoi interessi clinici e scientifici lo studio
della genesi della cellulite. Si occupa inoltre di prevenzione e cura
dell’invecchiamento cutaneo conseguente alle terapie nei malati
oncologici, che tratta nel proprio ambulatorio a titolo gratuito.

Relatrice in workshop e convegni organizzati da diverse società
scientifiche, è referente per la Scuola internazionale di medicina
estetica Fondazione Fatebenefratelli di Roma e del Master di secondo
livello in medicina estetica e del benessere dell’Università di Pavia

La clinica dei denti mix di
didattica e solidarietà: lezioni
agli studenti e controlli ai
bambini
L’ Orthodontic Clinic di Taranto diretta dal dottor Andrea
Masciandaro, ha inaugurato la stagione dei suoi nuovi di corsi di
formazione professionale, in campo odontoiatrico e ortodontico, che si
svolgeranno sino a fine 2015 , affiancati da numerose iniziative a
sfondo solidale e sociale, con la presentazione di          una nuova
alternativa terapeutica in ortodonzia svolta dal professore colombiano
Santiago Isaza Penco. Ma sopratutto lodevole l’ accordo raggiunto con
il Tribunale dei minori di Taranto, con il quale i bambini disagiati
con problemi ai denti godranno di assistenza gratuita una volta al
mese presso la struttura medica tarantina del dr. Masciandaro .
Numerosi gli appuntamenti programmati, con altrettante lezioni che
vedranno all’opera alcuni tra i nomi più importanti dell’odontoiatria
e dell’ortodonzia italiane e internazionali.

 Dal 25 al 29 maggio 2005 è prevista   a Taranto   presso l’Orthodontic
Clinic , la presenza sempre      del dottor Marcos Nadler Gribel,
brasiliano, uno “specialista” che può essere identificato come un
“luminare”   nella sua disciplina professionale . Specialista in
ortodonzia, ortopedia, ortopedia funzionale e disfunzioni
dell’articolazione, docente e visiting professor in Brasile, Sud
America, Stati Uniti e Europa, è il numero uno al mondo nella cura
delle disfunzioni sui bambini. Gribel svilupperà assieme al dottore
colombiano Santiago Isaza Penco, un corso di cinque giornate aperto a
odontoiatri e odontotecnici su “Prevenzione e il trattamento delle
malocclusioni nei bambini mediante Ortopedia Funzionale dei
Mascellari”.

Oltre a costituire un evento particolarmente atteso dagli specialisti
della materia, l’obiettivo del fitto calendario di corsi in programma
è quello di fare diventare dell’ Orthodontic Clinic a Taranto, il
principale punto di riferimento formativo nelSud Italia nel
campo dell’odontoiatria e dell’ortodonzia. Un progetto sicuramente
ambizioso, le cui fondamenta sono state già poste nei mesi passati con
una serie di sessioni che hanno portato corsisti provenienti da
Puglia, Campania, Sicilia e Basilicata, oltre che docenti di
riconosciuto valore internazionale a Taranto

 I corsi dopo il battesimo tenuto nei giorni scorsi dal corso del
dottor Santiago Isaza Penco, consulente scientifico della Dentaurum
Group ed editor review di Progress in Orthodontics, si svolgeranno il
17 e 18 ottobre prossimi. Il 17 il dottor Gianluigi Fiorillo terrà una
relazione dal titolo accattivante: “Se Steve Jobs fosse stato un
ortodontista“. Durante il corso di questa lezione verranno rese note
ed illustrate le nuove procedure di ortodonzia fissa tentendi ad
ottimizzare i risultati clinici e diminuire la durata del trattamento
e quindi dei costi per il paziente. Il giorno dopo, cioè 18 ottobre ,
si svolgerà un seminario su Semeiotica occluso posturale in ambito
clinico e strumentale a cura del professor Sergio Zanfrini e del
dottor Tullio Toti .

I corsi organizzati dal’ Orthodontic Clinic di Taranto continueranno
nei mesi successivi e permetteranno previa prenotazione telefonica,
 anche a un numero “chiuso” di studenti universitari del quarto e
quinto anno, di poter assistere gratuitamente ai seminari ed
affiancare alla propria conoscenza universitaria la preparazione ed i
consigli provenienti dalle esperienze di docenti di fama
internazionale.
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