Race for the Cure, la maratona contro il tumore al seno
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Race for the Cure, la maratona contro il tumore al seno di Paolo Campanelli Race for the cure negli anni ha compiuto passi da gigante: basti pensare che nella prima edizione del 2000 le Donne In Rosa erano sono 200, L’anno scorso si sono iscritte in 6.000, provenienti da tutta Italia, e quest’anno l’evento organizzato a Roma al Circo Massimo ha superato i 70.000 partecipanti. Al nastro di avvio è stata collocata simbolicamente ed esposta al pubblico la coppa del mondo di pallavolo, e anche se i più competitivi si sono lanciati nelle maratone da 2 e 5 chilometri, la maggior parte dei partecipanti si è limitata a passeggiare e a utilizzare gli stand messi a disposizione per degli screening gratuiti. Fondata da Nancy G Brinker, denominata per onorare la memoria della sorella Susan G Komen, morta di cancro al seno, l’associazione ha operato per trent’anni, ed è nel 1991 che Race for the Cure ha avuto il suo primo evento a New York, rendendo il fiocco rosa il simbolo della lotta al cancro al seno. “La prevenzione è fondamentale per ridurre la pericolosità del tumore al seno. Le donne dai 40 anni in su dovrebbero sottoporsi a una mammografia una volta l’anno. Oggi le possibilità di guarigione arrivano fino al 95%” ha detto Riccardo
Masetti, direttore del centro integrato di Senologia del Policlinico Gemelli di Roma e presidente dell’Associazione Susan G. Komen Italia che organizza “Race for the cure” All’evento erano presenti anche il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ed il sindaco di Roma Virginia Raggi. L’evento si è concluso con il tradizionale lancio dei palloncini rosa nei cieli della capitale, per onorare chi ha combattuto il tumore e ne è uscita vittoriosa, e per chi non è più tra noi L’obbiettivo per il 2019 sarà quello di avere un evento in ogni singola regione, ma fino ad allora, le prossime maratone si svolgeranno a Bari (dal 25 al 27 maggio), a Bologna (dal 21 al 23 settembre), a Brescia (dal 5 al 7 ottobre) Farsi “selfie” è una malattia, ecco i tre livelli di gravità di Valentina Taranto
Maniaci dell’autoscatto in pose plastiche con espressioni affettatamente ricercate e con smartphone alla mano? Non state bene. Quello che poteva sembrare il giudizio impietoso di snob schivi è ora avvalorato da un giudizio medico dell’American Psychiatric Association (APA). I dottori hanno coniato un termine che descrive l’ossessivo del selfie, ovvero selfitis. Secondo lo studio da parte della American Psychiatric Association chi ha la mania del selfie soffre di un disturbo mentale. “Mancanza di autostima e lacune nella propria intimità”. È questa la tesi proposta dall’associazione nei confronti di chi passa il tempo a farsi autoscatti per poi condividerli sui vari social network. Il disturbo ha trovato anche un nome: il selfitis che tradotto in italiano potrebbe essere la “selfite“. I medici che hanno effettuato la ricerca sostengono che gli amanti del selfie soffrono di un desiderio ossessivo compulsivo di realizzare fotografie di sé stesso per poi pubblicarle online per compensare la mancanza di autostima e anche per colmare lacune nella propria intimità. L’ American Psychiatric Association ha pubblicato anche una “scaletta” per valutare quanto si è “disturbati” dalla mania. Selfitis Borderline: consiste nell’auto-scattarsi foto almeno 3 volte al giorno, me senza pubblicarle poi sui social network. Si tratta del livello più lieve del disturbo. Selfitis acuta: in questa seconda ipotesi, il soggetto scatta almeno 3 selfie al giorno, ma decide di pubblicarli tutti sui social. Selfitis cronica: è la voglia incontrollabile di scattarsi fotografie in qualsiasi istante e per tutto il giorno. In questo caso i selfie vengono poi pubblicati in rete almeno 6 volte al giorno. Si tratta dello stadio limite e più grave del disturbo. Dunque, tutto sta nel quante foto al giorno pubblicare. La soluzione, secondo gli studiosi, consiste nel limitare la condivisione della vita privata alle sole persone appartenenti al mondo reale, disintossicandosi giorno per giorno dalla dipendenza, invece, dal mondo virtuale.
Come evitare gli attacchi di panico nella foto la dr.ssa Daniela Sannino di Daniela Sannino* Il disturbo da attacchi di panico rientra nella sfera dei disturbi d’ansia ed è caratterizzato da manifestazioni di improvvise, intense e ripetute crisi di paura, tali da provocare una costellazione di sintomi, quali: tachicardia, senso di oppressione al torace, crampi o dolori addominali, sudorazione, tremori, nausea,sensazione di soffocamento, depersonalizzazione(sentirsi come staccati da se stessi), de realizzazione (sensazione di irrealtà), sensazione di instabilità o di svenimento, sensazioni di malessere, di terrore, paura di morire, di perdere il controllo o di impazzire. Durante l’attacco di panico però, quasi mai le manifestazioni sintomatologiche descritte si presentano tutte assieme ma variano da soggetto a soggetto. L’attacco di panico dura poco e generalmente non supera mai i 20 minuti, ma la loro intensità può essere devastante per chi li sperimenta per la prima volta. Gli attacchi di panico sono dunque, la forma più acuta dell’ansia. Specialmente nelle prime fasi del disturbo, i sintomi possono insorgere improvvisamente senza una causa o un motivo scatenante, durante una situazione di routine e ciò che li caratterizza è la loro “imprevedibilità” cogliendo l’individuo come un fulmine a “ciel sereno”. Nella maggior parte dei casi tende a manifestarsi in situazioni specifiche, ad esempio in luoghi pubblici, come al cinema, supermercati, autobus, oppure mentre si è alla guida, innescando così nel soggetto la paura e l’evitamento di tali luoghi (Agorafobia) ,in quanto subentra il timore di non poter ricevere aiuto se si viene colti da un attacco, con la conseguenza, dunque, di non riuscire più ad uscire di casa e di isolarsi, compromettendo così la vita sociale, lavorativa e sentimentale. Fortunatamente, gli attacchi di panico non mettono a rischio la vita delle persone, ma in genere dopo il primo attacco si possono sviluppare altre convinzioni e cioè quello di essere affetto da una malattia fisica, sottoponendosi ad una serie di visite mediche che hanno si un effetto rassicurante, ma solo momentaneamente, in quanto
il soggetto, continuando a star male, penserà che prima o poi gli verrà un infarto o qualche altra malattia. L’età di esordio degli attacchi di panico in genere si colloca tra i 16 e i 35 anni , con un picco massimo intorno ai 25 anni e difficilmente dopo i 45 anni, anche se un esordio tardivo dovrebbe far sospettare un disturbo organico come l’ipertiroidismo. Il disturbo da attacchi di panico oggi è sempre più diffuso e si calcola che circa il 2-4% della popolazione in Italia soffra di tale disturbo e sono colpite in prevalenza le donne rispetto agli uomini. Prima di diagnosticare un attacco di panico, è bene che il soggetto si sottoponga ad accertamenti diagnostici, in quanto causa di disturbi di panico possono essere un mal funzionamento della tiroide o un difetto cardiaco come il prolasso della valvola mitrale. Una volta escluso una componente organica, allora possiamo parlare di attacchi di panico derivati da una componente psicologica. Tra le cause scatenanti di un attacco di panico vi è senza dubbio una radice biologica e gioca un ruolo significativo la predisposizione familiare o l’uso di sostanze stupefacenti, ma nella storia delle persone che soffrono di tale disturbo spesso sono presenti eventi stressanti, la separazione da figure significative , instabilità economica, sensazione di insicurezza, lutti importanti, un evento traumatico o grandi cambiamenti di vita. Gli attacchi di panico generano notevole sofferenza nelle persone che li sperimentano. Ma cosa fare e come comportarsi se un nostro amico o parente soffre di tale disturbo e come comportarci se ci troviamo con loro in quei momenti?. Sicuramente assistere ad un episodio di crisi allarmerebbe chiunque , ma è bene che dall’altra parte vedano almeno in voi una rassicurazione. Prima di tutto, se la persona è la prima volta che sperimenta un attacco di panico, è bene accertarsi che si tratti proprio di quello. Se il soggetto manifesta alcuni dei sintomi elencati, in caso di dubbio è bene recarsi al pronto soccorso, anche perché i sintomi di un attacco di panico possono mimare o esser simili a quelli di un attacco di cuore. Se invece non è la sua prima volta, allora bisogna ricordarsi che i sintomi non mettono a rischio la vita della persona e che durano meno di mezz’ora, quindi è bene mettere la persona in un posto tranquillo in quanto il soggetto vorrà sicuramente andar via dal luogo in cui si è scatenato l’attacco. Cerchiamo di evitare frasi del tipo: “stai calmo, non è niente” perché in questo modo stiamo sottovalutando la sua paura. Cerchiamo invece di parlargli in modo deciso, ma rassicurante, in maniera calma prendendo sul serio la sua situazione e le sue paure senza giudicare e chiediamo se riesce a capire come mai sta vivendo una situazione del genere, senza fare troppe pressioni se non vuol rispondere. Aspettiamo che i sintomi si attenuino, dopodiché aiutiamo
la persona a calmarsi proponendogli degli esercizi di respirazione. Dobbiamo aiutare la persona a controllare la respirazione facendolo inspirare dal naso ed espirando dalla bocca per alcuni minuti in quanto durante gli attacchi di panico la persona entra in iperventilazione, ossia un eccesso di respirazione e dunque il soggetto respira con una frequenza maggiore rispetto alla necessità effettiva del corpo che crea squilibrio fra ossigeno e anidride carbonica. Il panico rappresenta un campanello d’allarme ma non dobbiamo pensare che sia un nostro nemico, anzi è arrivato proprio perché vuole comunicarci qualcosa, avvertirci che forse è arrivato il momento di fermarsi e di capire che c’è qualcosa nella nostra vita che non sta procedendo come dovrebbe e cominciare dunque a cambiarla, prima che gli attacchi si cronicizzino. E’ bene dunque diagnosticare in tempo il disturbo e impostare un percorso mirato, ricorrendo ad una terapia farmacologica ,nei casi particolarmente gravi, che aiuti a ridurre la sintomatologia legata agli attacchi. C’è da aggiungere però che da soli i farmaci non sono sufficienti perché attenuano i sintomi ma non la causa scatenante ed è dunque importante abbinare ai farmaci anche un percorso di psicoterapia che aiuterà la persona a capire l’origine degli attacchi individuando il modo per superarli, operando così un cambiamento della realtà minacciosa. * Psicologa e specializzanda in piscoterapia La carbossiterapia, una preziosa alleata L’ infiltrazione di anidride carbonica per via sottocutanea o intradermica, oggi nota come carbossiterapia, è conosciuta dagli anni ’30, quando a Royat in Francia si osservarono i benefici effetti di trattamenti termali con somministrazione transdermica di CO2 su pazienti affetti da arteriopatie periferiche. L’utilizzo in medicina estetica viene sviluppato in Italia intorno agli anni ’90 e sempre italiano è lo sviluppo delle prime apparecchiature per le applicazioni in sede sottocutanea. Clelia Cassano, medico di medicina estetica a Lecce ed a Taranto si è diplomata presso la Scuola internazionale di medicina estetica Fondazione Fatebenefratelli di Roma, ci offre una disamina delle indicazioni e risultati della carbossiterapia in medicina estetica e dermatologia.
nella foto, la dottoressa Cassano ed il prof. Bartoletti La carbossiterapia è nota per essere particolarmente indicata nel trattamento della cellulite: quale è il razionale di efficacia? Nella PEFS esiste una indubbia diminuzione della vasomotion, flowmotion e del letto vascolare, con ipossia e alterazione della regolazione del flusso ematico al tessuto adiposo. L’infiltrazione di CO2 provoca un rilascio massivo di ossigeno, con benefici immediati. Gli effetti a lungo termine sono determinati da un aumento della vasomotion, vasocostrizione alternata a vasodilatazione, con onde che da 15/min passano a 50/min dopo appena 150 cc di anidride carbonica iniettata, attestato dalla videocapillaroscopia a sonda ottica. L’aumento della disponibilità di O2 , determinato dalla vasomotion, viene esaltato dall’accresciuta velocità del flusso ematico ai tessuti, flowmotion, determinata dall’aumentata deformabilità eritrocitaria che diminuisce la viscosità ematica. La CO2 provoca in aggiunta apertura e canalizzazione di capillari preesistenti ed AVA, con conseguente maggiore quantità di flusso ematico tissutale Quali risultati ha riscontrato sulla cellulite? Eccellenti. Oltre alla sensazione di benessere e leggerezza che segue la seduta nell’immediato, si riscontra, nel prosieguo, un benessere più stabile e protratto nel tempo (pesantezza, crampi, formicolii) nonché un miglioramento dell’aspetto estetico con riduzione dei volumi, aumentata tonicità e una chiara attenuazione delle caratteristiche ondulazioni. La cellulite è una condizione cronica come il diabete, che regredisce e va in remissione grazie a terapie, alimentazione e corretto stile di vita, ma è difficile pensare a una vera guarigione senza che tali condizioni sussistano; pertanto il richiamo terapeutico a fine ciclo risulta indispensabile, seppure personalizzabile. Più tardi si instaura il trattamento, più risulta difficile, naturalmente, ottenere risultati ottimali a causa di aggravamenti anatomofunzionali irreversibili. La risposta alla carbossiterapia c’è sempre, ma l’entità, la velocità e la durata del risultato dipendono, oltre che dallo stadio evolutivo – edema, fibrosi e sclerosi – da fattori individuali. Ho notato che il persistere nel trattamento, con più cicli terapeutici, migliora la qualità e la durata del risultato. Come si pone la carbossiterapia rispetto alla liposuzione?
È una questione di indicazioni terapeutiche. L’atto chirurgico andrebbe riservato elettivamente all’adiposità localizzata, tessuto adiposo in eccesso, ma normale dal punto di vista anatomo-funzionale. Nel caso di liposuzioni effettuate su pannicolopatia non è infrequente, infatti, osservare, effetti collaterali legati al traumatismo tissutale, in un ambiente già compromesso dal punto di vista vascolare e microcircolatorio. La CO2 si affianca alla chirurgia per ridurre l’incidenza degli antiestetici dimpling post-lipo, accelerare il post-operatorio e nel trattamento della lipomatosi multipla simmetrica. Per quei pazienti che non possono/vogliono affrontare una liposuzione, accontentandosi di un risultato meno eclatante, l’utilizzo della CO2 potrebbe costituire un’alternativa. L’azione riduttiva della CO2 sul grasso, infatti, è dovuta sia a un’azione sia clasica che litica sugli adipociti. Studi istologici hanno dimostrato la clasi di membrana e la totale indennità a carico del connettivo, delle strutture vascolari e nervose. Il meccanismo lipolitico, invece, riconosce l’attivazione del recettore beta adrenergico adipocitario, con attivazione successiva dell’adenilatociclasi, che catalizza la trasformazione dell’ATP in AMPc, responsabile dell’attivazione della PKA, che stimola la lipasi intradipocitaria, quest’ultima responsabile dell’idrolisi dei trigliceridi a glicerolo e acidi grassi. L’aumentato apporto di ossigeno e flusso ematico poi, favorisce i processi ossidativi degli acidi grassi con un incremento metabolico del tessuto adiposo. Nell’invecchiamento cutaneo, a chi riservare questo trattamento? A tutti i casi in cui l’apporto vascolare risulta insufficiente per estrogeni in calo, tabagismo o per terapie mediche che comportino una battuta d’arresto inevitabile sul supporto vascolare come i farmaci target in oncologia. Utile nell’aging fisiologico di viso, collo, décolletè, dorso delle mani e interno coscia, come pure nel trattamento di occhiaie, ptosi della palpebra superiore e borse, quando l’atto chirurgico è ancora sconsigliabile, ma l’inestetismo comincia a comparire; inoltre, la carbossiterapia, potenzia i risultati di trattamenti come biostimolazione, fattori di crescita piastrinici, luci pulsate, laser, peeling e filler. Gli impieghi più recenti sono il trattamento dell’invecchiamento dei genitali femminili e l’alopecia. In ambito dermatologico quali sono le indicazioni? Nella patologia dermatologica, si fa strada per il trattamento della psoriasi. In poche sedute si assiste a un netto miglioramento e a volte persino alla scomparsa delle lesioni. Il meccanismo non è del tutto chiaro, ma sembra coinvolgere la stimolazione recettoriale beta, la cui diminuita sensibilità è dichiarata nella psoriasi.
L’attivazione recettoriale supererebbe l’inibizione della fosfodiesterasi che attiva la PKA, capace di fosforilare svariati enzimi intracellulari preposti alla biosintesi. La psoriasi è caratterizzata dal punto di vista istopatologico da una situazione microangiopatica e dal punto di vista fisiopatologico microcircolatorio da una situazione di stasi microcircolatoria, condizioni su cui la carbossiterapia svolge funzione riabilitativa. E le controindicazioni? Insufficienza respiratoria, cardiaca, renale, epatica gravi; terapia con acetazolamide, diclofenamide o altri inibitori dell’anidrasi carbonica; ipertensione arteriosa grave; pregresso ictus cerebrale; tachiaritmie cardiache; trombosi arteriose; tromboflebiti; flebotrombosi; embolie; gangrena gassosa. Inoltre è da evitare in gravidanza. Lei utilizza la carbossiterapia per ridurre l’impatto sulla cute delle terapie oncologiche… Gli agenti chemioterapici sono farmaci citotossici a scarsa selettività, inducono morte o arresto della crescita cellulare bloccando il DNA con legami stabili e colpiscono soprattutto le cellule in rapido ricambio come la cute e gli annessi. La tossicità quindi non si limita solo alle strutture cosiddette “vitali”, come il midollo, tanto da provocare una senescenza dell’aspetto nella sua globalità. L’introduzione dei farmaci target, poi, se da un lato ha rappresentato una nuova vincente frontiera terapeutica, dall’altro ha causato un nuovo fronte di complicanze, prevalentemente cutanee, con una percentuale più elevata rispetto al passato, spesso con grado di tossicità tale da alterare la QDV o da richiedere la sospensione della terapia stessa. Infatti tali farmaci agiscono come inibitori dei fattori di crescita (EGF, FGF, VEGF, PDGF, IGF…), dalla cui integrità funzionale dipendono crescita, proliferazione, mobilità, differenziazione, difese e vascolarizzazione. Tutto ciò gioca a svantaggio della cute, le cui complicanze ‒ follicoliti, nasovestiboliti, rush, secchezza, desquamazione, ragadi, sindrome mano piede, alterazioni ungueali ‒ sono una conseguenza dell’alterato equilibrio nella fisiologia cutanea. Tali farmaci vengono spesso utilizzati in associazione con chemioterapici classici e radioterapia, che incrementano la tossicità cutanea in modo esponenziale al punto tale da costringere l’oncologo a sospendere temporaneamente il trattamento per gradi 3 e 4 di tossicità. Utilizzando la carbossiterapia prima e durante la terapia oncologica in questi pazienti, ho potuto osservare come gli effetti collaterali a carico della pelle risultino fortemente attenuati o addirittura
assenti, in virtù del miglioramento della circolazione e del più rapido allontanamento del farmaco dal distretto cutaneo trattato. Vede uno sviluppo dell’uso della carbossiterapia contestualmente alla terapia oncologica? Nell’immaginario collettivo e individuale il cancro continua ad associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, morte ineluttabile, stigma, diversità, colpa e vergogna. La paura della sofferenza indotta dai trattamenti può prevalere sulla paura della malattia stessa, impedendo al paziente di raggiungere quell’adattamento psicologico necessario per combattere e sopravvivere. La medicina estetica, con i suoi trattamenti come la carbossiterapia, può impedire al malato di vedere alterata la sua immagine corporea, espressione profonda del nostro esistere, del modo personale di essere al mondo, la nostra espressione sociale e professionale. Tutelare l’immagine di un paziente oncologico permette di tutelare il dialogo con se stesso e la sua qualità di vita. Da qui l’importanza di disporre di una terapia veramente efficace e innocua, accettata dall’oncologo perché completamente scevra da effetti deleteri sulla malattia di fondo, facilmente praticabile e con elevatissima tollerabilità. Inoltre, per tutte quelle malattie in cui potrebbe essere dubbioso agire con soluzioni di medicina estetica a elevato impatto sul sistema immunitario o patologie a elevato carico farmacologico per il paziente, vedo certamente ampie possibilità di ricorrere alla carbossiterapia con enorme soddisfazione. L’anidride carbonica, iniettata nei tessuti in dosi largamente al di sotto di quelle prodotte dal nostro corpo, viene dismessa pressocché immediatamente, impedendo reattività dovute alla permanenza tissutale di materiali, tutti potenzialmente non scevri da effetti collaterali legati a reattività immunitarie imprevedibili e proprie, sostanze chimiche utilizzate per la loro preparazione/estrazione o contaminanti. La cute fragile del paziente che effettua terapie di questo tipo mal tollera poi l’aggressione di laser, luci pulsate e peeling e, accanto alla carbossiterapia, solo le luci LED potrebbero dare un grande contributo nel trattamento riparativo-rigenerativoantiaging di queste condizioni. Va considerato che accanto alla regolazione del flusso ematico, la CO2 apporta nutrienti, ioni, ormoni, drena le tossine e incrementa il metabolismo locale, cosa ottimale per una cute bersagliata da polichemioterapia e radioterapia. Chi è Clelia Cassano. Laureata in medicina e chirurgia presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma nel 1990, ha avviato nel 1991 il proprio ambulatorio di medicina estetica a Martina Franca
(TA) . Consegue il Diploma di formazione in medicina estetica presso la Scuola internazionale Fatebenefratelli di Roma e il Diploma di formazione specifica in medicina generale. E’ responsabile dal 2005 dell’Ambulatorio di medicina estetica presso la Casa di Cura Prof. Petrucciani di Lecce. si interessa di molteplici tecniche di medicina estetica ai fini del ringiovanimento, in particolare filler a base di acido ialuronico, utilizzo di fattori di crescita piastrinici e carbossiterapia, quest’ultima anche a fini terapeutici. Tra i suoi interessi clinici e scientifici lo studio della genesi della cellulite. Si occupa inoltre di prevenzione e cura dell’invecchiamento cutaneo conseguente alle terapie nei malati oncologici, che tratta nel proprio ambulatorio a titolo gratuito. Relatrice in workshop e convegni organizzati da diverse società scientifiche, è referente per la Scuola internazionale di medicina estetica Fondazione Fatebenefratelli di Roma e del Master di secondo livello in medicina estetica e del benessere dell’Università di Pavia La clinica dei denti mix di didattica e solidarietà: lezioni agli studenti e controlli ai bambini L’ Orthodontic Clinic di Taranto diretta dal dottor Andrea Masciandaro, ha inaugurato la stagione dei suoi nuovi di corsi di formazione professionale, in campo odontoiatrico e ortodontico, che si svolgeranno sino a fine 2015 , affiancati da numerose iniziative a sfondo solidale e sociale, con la presentazione di una nuova alternativa terapeutica in ortodonzia svolta dal professore colombiano Santiago Isaza Penco. Ma sopratutto lodevole l’ accordo raggiunto con il Tribunale dei minori di Taranto, con il quale i bambini disagiati con problemi ai denti godranno di assistenza gratuita una volta al mese presso la struttura medica tarantina del dr. Masciandaro . Numerosi gli appuntamenti programmati, con altrettante lezioni che vedranno all’opera alcuni tra i nomi più importanti dell’odontoiatria e dell’ortodonzia italiane e internazionali. Dal 25 al 29 maggio 2005 è prevista a Taranto presso l’Orthodontic
Clinic , la presenza sempre del dottor Marcos Nadler Gribel, brasiliano, uno “specialista” che può essere identificato come un “luminare” nella sua disciplina professionale . Specialista in ortodonzia, ortopedia, ortopedia funzionale e disfunzioni dell’articolazione, docente e visiting professor in Brasile, Sud America, Stati Uniti e Europa, è il numero uno al mondo nella cura delle disfunzioni sui bambini. Gribel svilupperà assieme al dottore colombiano Santiago Isaza Penco, un corso di cinque giornate aperto a odontoiatri e odontotecnici su “Prevenzione e il trattamento delle malocclusioni nei bambini mediante Ortopedia Funzionale dei Mascellari”. Oltre a costituire un evento particolarmente atteso dagli specialisti della materia, l’obiettivo del fitto calendario di corsi in programma è quello di fare diventare dell’ Orthodontic Clinic a Taranto, il principale punto di riferimento formativo nelSud Italia nel campo dell’odontoiatria e dell’ortodonzia. Un progetto sicuramente ambizioso, le cui fondamenta sono state già poste nei mesi passati con una serie di sessioni che hanno portato corsisti provenienti da Puglia, Campania, Sicilia e Basilicata, oltre che docenti di riconosciuto valore internazionale a Taranto I corsi dopo il battesimo tenuto nei giorni scorsi dal corso del dottor Santiago Isaza Penco, consulente scientifico della Dentaurum Group ed editor review di Progress in Orthodontics, si svolgeranno il 17 e 18 ottobre prossimi. Il 17 il dottor Gianluigi Fiorillo terrà una relazione dal titolo accattivante: “Se Steve Jobs fosse stato un ortodontista“. Durante il corso di questa lezione verranno rese note ed illustrate le nuove procedure di ortodonzia fissa tentendi ad ottimizzare i risultati clinici e diminuire la durata del trattamento e quindi dei costi per il paziente. Il giorno dopo, cioè 18 ottobre , si svolgerà un seminario su Semeiotica occluso posturale in ambito clinico e strumentale a cura del professor Sergio Zanfrini e del dottor Tullio Toti . I corsi organizzati dal’ Orthodontic Clinic di Taranto continueranno nei mesi successivi e permetteranno previa prenotazione telefonica, anche a un numero “chiuso” di studenti universitari del quarto e quinto anno, di poter assistere gratuitamente ai seminari ed affiancare alla propria conoscenza universitaria la preparazione ed i consigli provenienti dalle esperienze di docenti di fama internazionale.
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