Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista - Liberazioni
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43 territori delle pratiche Stefania Cappellini e Marco Reggio Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista Gli animali hanno sempre fatto parte della nostra storia e delle nostre storie; ora si tratta di cercare appassionatamente come fare storia con loro.1 «Il movimento di liberazione animale è lʼunico che agisce per puro altruismo». Abbiamo sentito così tante volte frasi come questa che ormai ci sembrano ovvie. Effettivamente, possono essere vere, dipende dai punti di vista e dalla risposta alla domanda: «Da chi è composto il “movimento di liberazione animale”?» Pensare allʼanimalismo come lotta altruistica presuppone infatti che gli animali non fac- ciano parte del movimento di liberazione animale. E questo presupposto poggia sullʼidea, altrettanto diffusa, che gli animali non siano in grado di protestare, di ribellarsi, di desiderare la fine del loro sfruttamento. «Siamo la voce dei senza voce». «Gli animali non possono protestare, noi sì». Anche queste sono afferma- zioni che abbiamo sentito (e sostenuto) innumerevoli volte, tanto che ci sembrano costituire lʼunica narrazione possibile della questione animale e della lotta contro lo sfruttamento dei non umani. Scopo del presente saggio è quello di mettere in di- scussione lʼinevitabilità di questa narrazione, mostrando che gli animali si ribella- no, svolgendo il ruolo di soggetti attivi più che di semplici vittime o di beneficiari passivi della “buona coscienza” animalista. Inoltre, cercheremo di mostrare come lo sforzo di mettersi in posizione di ascolto delle istanze espresse dai soggetti non umani possa aprire nuove strade per la lotta di liberazione animale. Lʼadozione di uno sguardo di questo tipo pone una serie di quesiti di natura teorica, che non verranno qui approfonditi, ma che sono comunque centrali per sviluppare un nuovo ambito di ricerca e di azione: qual è la possibilità di comuni- cazione del dissenso fra specie diverse? Quali modelli è necessario inventare per rendere possibile lʼespressione del disagio di altre specie come disagio politico? Come dovrebbero modificarsi alcuni concetti elaborati in ambito umano, come quelli di “consensoˮ, di “ribellioneˮ, di “organizzazioneˮ, di “atto politicoˮ, di 1 Vinciane Despret, Quando il lupo vivrà con l’agnello. Sguardo umano e comportamenti animali, trad. it. di G. Regoli, Elèuthera, Milano 2010, p. 213.
44 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche agency, e così via2? Gli animali resistono Torello abbattuto dopo sei mesi di latitanza [...]. Il vitello aveva ancora al collo il laccio, incarnito, che ne indicava la provenienza, un allevamento di Castelminio di Resana. In tanti mesi passati allo stato brado si era inselvatichito e non è stato facile scovarlo. È stato sorpreso dopo una battuta di ore da parte della Polizia provinciale e dei vigili. Una fucilata alla testa, sparata da 20 metri lo ha fermato per sempre. Per la popolazione è come la fine di un incubo. Il fuggitivo era diventato un po’ una leggen- da metropolitana, per il suo continuo apparire e sparire da una parte all’altra del terri- torio piombinese. Per tutti questi mesi la povera bestia ha vagato per le campagne del paese, segnalata dall’intera cittadinanza. Dormiva e mangiava all’interno dei campi incolti di mais. Parecchi avevano tentato di prenderlo, finché il primo cittadino gio- vedì ha emesso un’ordinanza di cattura e abbattimento [...]. La carcassa dell’animale è stata recuperata e portata in un macello, fatto aprire appositamente per riceverla3. Probabilmente, nelle intenzioni dellʼautrice di questo articolo di cronaca, parole come «latitanza» hanno un sapore folkloristico. Sarebbero una specie di metafo- ra di una situazione umana, quella del prigioniero che evade dal carcere o dello schiavo fuggiasco. In realtà, esse non sono altro che la descrizione letterale degli avvenimenti, tanto che le autorità locali hanno emesso unʼordinanza di cattura. Ma perché, ogni volta che un animale evade da uno zoo, da un circo o da un alleva- mento, le parole che meglio descrivono quanto accaduto suonano folkloristiche? Sembra quasi che, anziché dei fatti di cronaca, vengano descritti degli aneddoti. A dispetto delle parole usate, nessuno prende sul serio questi atti di ribellione: del resto, lʼesito è quasi sempre fallimentare. E non potrebbe essere altrimenti, in un 2 Oltre ai testi citati nel seguito dell'articolo, può essere utile consultare la pagina dei materiali del blog «Resistenza Animale», http://resistenzanimale.noblogs.org/materiali/, in particolare: Melanie Bujok, «La resistenza contro lo sfruttamento animale», in Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’Albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, pp. 239-261; Matthew Calarco, «Di fronte al volto animale», in M. Filippi e F. Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo, cit. pp. 105-128; M. Filippi e F. Trasatti, «Toc toc», in Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera, Milano 2013, pp. 242-251; Jason C. Hribal, «Animals Are Part of the Working Class: a Challenge to Labor History», in «Labor History», vol. 44, n. 4, 2003, pp. 435-453; Id., «Animal, Agency, and Class», in «Human Ecology Review», vol. 14, n. 1, 2007, pp. 101-112; Eva Meijer, «La comunicazione politica con gli animali», in que- sto stesso numero della rivista; Agnese Pignataro, «La question animale: un débat à ouvrir dans le mouvement anticapitaliste», in «Contretemps» (http://www.contretemps.eu/interventions/question- animale-debat-ouvrir-dans-mouvement-anticapitaliste). 3 Giusy Andreoli, «Torello abbattuto dopo sei mesi di latitanza», ne «Il Mattino di Padova», 27 marzo 2010.
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 45 contesto in cui gli umani e le loro istituzioni si schierano compatti a sedare ogni tentativo di ribellione che maturi laddove il controllo sui corpi talvolta si allenta. Nei grandi allevamenti intensivi, infatti, non cʼè generalmente spazio per l’op- posizione: i corpi sono disciplinati strettamente sul piano fisico e psicologico, a partire dalla selezione genetica come mezzo per “promuovereˮ nella produzione gli individui più docili. La resistenza, come vedremo, si esprime in questi casi soprattutto come resistenza passiva, come inazione, come non collaborazione: gli schiavi si lasciano morire, si colpiscono fra loro, talvolta uccidono i propri cuccio- li. Nei piccoli allevamenti, quando si apre qualche falla, come nel caso citato, è il contesto generale a incaricarsi di decretare non solo l'insuccesso, ma addirittura la non esistenza della rivolta animale. Diversi dispositivi operano in tal senso, al di là delle intenzioni coscienti di noi umani. Chi, grazie a un incidente, riesce a scappare dal camion che lo sta portando al macello, trova intorno a sé, per prima cosa, un territorio a misura dʼuomo, ina- datto alla sua sopravvivenza, un territorio esclusivamente funzionale alla comunità umana in ogni suo metro quadro, dalle strade asfaltate con tutte le loro barriere e le automobili lanciate ad alta velocità allʼinacessibilità delle risorse primarie come le fonti di acqua e di cibo, recintate, privatizzate, cementificate. Dovrà poi fare i conti con la densità abitativa umana, talmente elevata da implicare un potenziale di vigilanza e controllo capillare (pressoché assoluto) sui latitanti. Senza contare la selezione genetica e lʼabitudine alla cattività... Gli animali “da redditoˮ sono di norma meno adatti dei loro progenitori alla vita selvatica e, al di fuori delle struttu- re gestite dagli umani, raramente sono in grado di sopravvivere: oltre i loro recinti non troveranno libere comunità di membri della loro specie, poiché la loro specie esiste soltanto negli allevamenti; troveranno, anche fuori dalle città, un ambiente inadatto alle loro caratteristiche motorie, sensoriali, cognitive ed etologiche. Se questi dispositivi non funzionano o funzionano in modo insufficiente, interviene la repressione delle istituzioni umane, un meccanismo che si innesca a partire dalla necessità di tutelare lʼincolumità pubblica nell'immediato (pericoli di incidenti stradali, danni alle colture, allarme sociale, ecc.), ma che di fatto agisce ricaccian- do nella sfera dell'inesistenza i tentativi di evasione. USA: elefantessa confinata allo zoo da 23 anni uccide il suo custode. Si chiama Patience e ha 41 anni l’elefantessa che alcuni giorni fa ha ucciso il suo custode allo zoo di Springfield, nel Missouri. Patience era stata catturata in natura nel 1990 e strap- pata a suo figlio che all’epoca aveva soltanto diciotto mesi di età [...]. Patience ha uc- ciso il suo trainer mentre questi cercava di spingerla lungo il corridoio che l’avrebbe portata all’esterno del suo recinto. L’elefantessa ha dapprima tentato una opposizione passiva, fermandosi e rifiutandosi di camminare, divenendo infine aggressiva quando Bradford ha cercato di forzarla. A quel punto, il pachiderma ha colpito l’uomo con
46 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche la sua proboscide e lo ha schiacciato al suolo, uccidendolo all’istante prima di essere allontanata da altri dipendenti della struttura4. Negli zoo e nei circhi, gli episodi di evasione e di aggressione ai danni di guar- diani e addestratori sono molto frequenti. La selezione genetica non opera come negli allevamenti alimentari: qui i reclusi sono spesso nati nel loro habitat e cat- turati successivamente e pertanto, conservano la loro cultura di selvatici. Anche quando nascono in cattività non sono stati selezionati per essere docili. Se così non fosse, circhi e zoo perderebbero il fascino della pornografia e della dominazione della belva. Non a caso, nei circhi gli animali svolgono i propri compiti dopo uno specifico addestramento, ed è appunto a questo addestramento, oltre che alla pri- gionia in sé, che si ribellano. Alcuni di questi schiavi si ribellano a più riprese, spesso fino allʼabbattimento da parte dei proprietari o delle autorità. È il caso di Tatiana, una tigre siberiana pri- gioniera dello zoo di San Francisco che nel 2006 ha aggredito un custode, nel 2007 alcuni visitatori che lʼavevano provocata; dopo essere stata uccisa dalla polizia, è diventata un simbolo della lotta contro gli zoo. L’artista Jon Engdahl le ha dedicato una scultura, collocata in città senza il permesso delle autorità, mentre i quattro ufficiali della squadra di polizia che hanno ucciso Tatiana sono stati premiati per il coraggio da parte della Commissione di Polizia di San Francisco5. Un caso altrettanto celebre è quello di Tyke, elefantessa detenuta nel circo in- ternazionale di Honolulu. Tyke, sottoposta ad addestramento per anni, evade una prima volta nellʼaprile del 1993. Due mesi dopo si ribella e calpesta il suo adde- stratore. Nell'agosto del 1994, durante uno spettacolo, lo aggredisce a morte e ferisce altre due persone mentre si dà alla fuga. Viene giustiziata dalla polizia con 86 colpi: muore dopo due ore di agonia. Anche Tyke è diventata un simbolo dei diritti animali; in seguito alla sua uccisione, sono state aperte diverse cause legali contro i proprietari del circo per maltrattamento e al suo caso si sono ispirate di- verse proposte di regolamentazione delle attività circensi nelle Hawaii e in altri Stati americani6. Questi episodi sono quelli che, a volte, raggiungono il grande pubblico, perché creano pericoli concreti alla popolazione umana o perché presentano dei caratteri insoliti - folkloristici, appunto - che richiamano lʼinteresse della stampa. Ma è 4 «All4animals», 30 ottobre 2013, http://www.all4animals.it/2013/10/30/usa-elefantessa-confina- ta-allo-zoo-da-23-anni-uccide-il-suo-custode/. 5 «S.Francisco: tigre fugge da zoo, un morto», in «Corriere.it», 26 dicembre 2007; Jordan Ro- bertson, «San Francisco Zoo Closed After Tiger Killed Visitor», in «National Geographic», 26 di- cembre 2007; https://resistenzanimale.noblogs.org/post/2013/12/21/un-falo-in-riva-alloceano-per- ricordare-tatiana/. 6 http://en.wikipedia.org/wiki/Tyke_(elephant).
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 47 presumibile che queste e altre forme di resistenza si verifichino quotidianamente allʼinterno dei luoghi di sfruttamento. Ad esempio, mucche e maiali si rifiutano di essere trascinati verso il mattatoio: tirando nella direzione opposta agli opera- tori umani attuano non solo quella che viene comunemente chiamata resistenza passiva, ma comunicano anche in modo inequivocabile la comprensione, almeno parziale, della situazione, il terrore e lʼopposizione al destino che li attende. È probabile inoltre che la storia degli allevamenti sia costellata da atti di resistenza più o meno efficaci alle sue pratiche quotidiane, come la separazione dei figli dalle madri, la fecondazione (stupro) delle femmine, lʼalimentazione forzata. [Le mucche] lavoravano e producevano. Resistevano e lottavano. Negoziavano con gli umani le modalità e i limiti del loro sfruttamento. Gli animali stessi erano una forza nel processo di cambiamento sociale. Simulare incapacità, disobbedire agli or- dini, rallentare, trascinare i piedi, rifiutare di lavorare senza ricevere un’adeguata alimentazione, rifiutarsi di lavorare nelle ore più calde, prendersi delle pause senza permesso, opporsi agli straordinari, protestare facendo sentire la propria voce, com- piere apertamente o di nascosto piccoli furti, rifiutare seccamente di eseguire compiti nuovi, fingere obbedienza, distruggere le macchine del sistema produttivo, fuggire, scontrarsi apertamente: queste sono tutte azioni che fanno parte di quelle che l’an- tropologo James C. Scott ha chiamato «le armi dei deboli». Anche se raramente si trattava di azioni organizzate da un punto di vista progettuale ed esecutivo, tali azioni erano comunque molto conflittuali e, occasionalmente, potevano avere successo [...]. Storicamente, queste forme quotidiane di resistenza non sono state prerogativa della specie umana, dato che ciascuno dei metodi di cui si è detto è stato utilizzato anche da altri animali. Gli asini ignoravano gli ordini. I muli trascinavano gli zoccoli. I buoi ri- fiutavano di lavorare. I cavalli distruggevano l’equipaggiamento. I polli beccavano le mani degli addetti. Le mucche prendevano gli allevatori a calci nei denti. I maiali fug- givano dai recinti. I cani rubavano il cibo. Le pecore saltavano le recinzioni. Inoltre, tutti questi atti di resistenza sono stati pienamente riconosciuti dagli allevatori, dai proprietari, dai supervisori o dai gestori come tali: atti di resistenza7. Nei laboratori, lʼevasione o la ribellione da parte delle cavie sono difficilissime, ma nonostante questo esistono forme anche molto sofisticate di vero e proprio sa- botaggio dei dispositivi violenti di ricerca, talvolta persino coronate dal successo: Qualche anno fa gli skinneriani americani, che avevano vagamente appreso l’esisten- za di altri uccelli oltre all'eterno piccione, hanno cercato di sostituirlo con il corvo imperiale. Senza successo. Il corvo imperiale, che trovava la situazione nella scatola 7 J. C. Hribal, «Animals, Agency, and Class», cit., p. 103.
48 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche di Skinner profondamente assurda, non voleva assolutamente premere le leve al co- mando di lampadine che si accendevano o di qualsiasi altro segnale. Invece, con il suo enorme becco, si dedicava con successo a smantellare lʼapparecchiatura. Questo comportamento fu giudicato unamerican e tutti tornarono ai piccioni8. Rivoluzione, fra virgolette Per anni costretti a terribili sofferenze. Rinchiusi in gabbie strette, senza potersi muo- vere, tenuti in vita per vedere estratta la propria bile ritenuta utile per la medicina tra- dizionale locale. È quanto capita in Cina a circa 12mila orsi, anche per ventʼanni, sin quando la morte non li libera da quell'inferno voluto e gestito dallʼuomo. Una soffe- renza troppo grande per permettere che accada al proprio cucciolo. Così unʼorsa deci- de per il gesto estremo: uccidere il proprio piccolo per poi togliersi la vita. Lʼepisodio è raccontato, in anonimato, da uno degli operai di queste “fabbriche della bileˮ: «Il cucciolo stava piangendo - riporta il portale cinese Reminbao.com - mentre gli stava- mo inserendo la cannula da cui estraiamo la bile, quando la madre è riuscita a liberar- si dalla gabbia in cui era tenuta». Pochi istanti, ma sufficienti allʼorsa per raggiungere il proprio piccolo e tentare di liberarlo dalla catena. Non riuscendoci, la madre decide così di soffocarlo con un abbraccio. Dopo quel gesto estremo, lʼanimale adulto si è scagliato a testa bassa contro un muro ponendo fine anche al suo inferno. Un gesto dʼamore, un gesto di disperazione, che da solo spiega, meglio di tante immagini, questa pratica che continua a persistere nonostante le proteste internazionali. Una battaglia che dura da molto tempo: in passato gli orsi venivano catturati e uccisi, poi, di fronte a una legge che ne vietava la soppressione, la terribile decisione di tenerli in vita nelle gabbie. Molti orsi, sottoposti ai terribili dolori, dovuti alle infezioni e ai tu- mori che derivano dalle condizioni in cui vivono, impazziscono, tentano di uccidersi o di strapparsi via quel tubo9. In questo caso, non cʼè molto da aggiungere: persino i giornalisti hanno usato espressioni adeguate. Di norma, però, nelle “fabbriche della bileˮ non è data agli orsi neppure l'occasione di togliersi la vita in modo attivo. Lʼunica cosa che resta loro è quindi scegliere di non mangiare, fino a lasciarsi morire: «Meglio morire che vivere in gabbia»: e gli animali, costretti in condizioni terribili, si ribellano come possono. In Cina alcuni orsi hanno iniziato uno “sciopero della fame” 8 Remy Chauvin, Le Modèle animal, Hachette, Parigi 1982, p. 138, cit. in V. Despret, Quando il lupo vivrà con l’agnello, cit., p. 169 (traduzione lievemente modificata). 9 Fulvio Cerutti, «Cina, una “orsa della bileˮ uccide il proprio cucciolo e poi si suicida», in «La- stampa.it», 15 agosto 2011.
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 49 per protestare contro le torture a cui sono sottoposti ogni giorno. Ne parla il Daily Mail [...]. Visto le dimensioni della loro prigione, praticamente non si muovono, e passano quasi tutta la loro esistenza sul dorso. Per questo motivo gli animali hanno scelto di fare uno “sciopero della fame”. Meglio il suicidio per loro che continuare con questa esistenza: e così alcuni esemplari, come denunciano gli animalisti, hanno “deciso” di lasciarsi morire10. Nonostante la profusione di virgolette, a ricordarci che gli animali non fan- no scioperi della fame e non prendono decisioni in senso stretto, chiunque può comprendere il significato di azioni come questa, anche grazie all'analogia con le forme di lotta più estreme che si verificano nelle carceri o nei centri di permanenza per migranti. Certamente, in questi ambiti lo sciopero della fame si caratterizza per la propria natura rivendicativa: è preceduto da richieste esplicite e termina o con il loro accoglimento o con una negoziazione. La richiesta degli orsi della bile non è formulata nel linguaggio umano, ma è facilmente comprensibile. Gli orsi chiedono la liberazione e sono evidentemente pronti a interrompere la lotta qualora questa venisse loro concessa. Si potrebbe dire che esiste una differenza decisiva fra chie- dere e "chiedere", fra rivendicare e "rivendicare", fra scioperare e "scioperare". Ma quanto è decisiva questa differenza? E in che cosa consiste? La differenza più macroscopica riguarda il linguaggio con cui le richieste sono formulate, ma questo aspetto, a ben vedere, non è poi così rilevante: almeno in molti casi, è possibile comprendere chiaramente le richieste formulate anche in linguaggi che non sono il nostro. Le differenze più significative sono in realtà altre. Quando si pensa a una rivendicazione politica, si pensa solitamente a un soggetto individuale ben definito e che sia consapevole di fare una richiesta intenzionale diretta a un interlocutore preciso. Si pensa anche qualcosa d’altro e cioè che questo soggetto abbia un'idea, magari vaga, del processo che la sua richiesta attiverà, di alcuni dei suoi possibili sviluppi ed esiti. Ma la natura rivendicativa di un'azione dovrebbe essere giudicata dagli effetti che è potenzialmente in grado di produrre sugli interlocutori esistenti, non solo su quelli che il soggetto è intenzionato a raggiungere. Le proteste umane, del resto, possono smuovere forze ben al di là degli intenti originari e non per que- sto cambiamo idea sul loro carattere rivendicativo. Così, anche ammettendo che il disagio degli orsi della bile non sia coscientemente rivolto a qualcuno, esso costi- tuisce una richiesta che può essere accolta come tale dai soggetti capaci di porsi in ascolto, come ad esempio le associazioni per i diritti animali. A ben vedere, pensiamo sempre al movimento animalista come alla 10 Maghdi Abo Abia, «Gli orsi torturati che fanno lo sciopero della fame», in, «Giornalettismo. com», 3 febbraio 2012; cfr. Suzannah Hills, «Bears Kept in Tiny Cages by Chinese for their Bile 'Commit Suicide' with Hunger Strikes to Escape Barbaric Torture», in «Daily Mail», 3 febbraio 2012.
50 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche manifestazione di una sensibilità che si è sviluppata e cresciuta negli ultimi due secoli, ignorando però il ruolo giocato dalle proteste degli animali nello sviluppo di tale sensibilità. Eppure le richieste di mobilitazione formulate dagli animali vengono continuamente riprodotte e diffuse dalla propaganda animalista. Molti video e molti siti web mostrano visoni detenuti negli allevamenti da pelliccia che si procurano lesioni e che girano incessantemente in tondo nelle gabbie. Lasciano cioè che siano gli stessi animali a raccontarci come si sentono, con lʼunico stru- mento a disposizione: il loro corpo e in alcuni casi addirittura la malattia. Tuttavia, nel fare questo, raramente il movimento animalista è consapevole di dare visibilità alle proteste degli animali; spesso, al contrario, utilizza queste immagini come semplici elementi di denuncia delle condizioni di vita negli allevamenti. I detenuti di altre specie, come quelli umani, non si limitano a comunicare la propria sofferenza e a richiedere ai membri della società umana di attivarsi insieme a loro. Come abbiamo visto, si ribellano, lottano, evadono. Anche le liberazioni ALF sono solitamente raccontate come situazioni in cui lʼumano fa la parte del liberatore attivo mentre lʼanimale è la vittima che, come ha subito passivamente la tortura, così accetta altrettanto passivamente la libertà. In realtà, il ruolo giocato ad esempio dai visoni nelle azioni dell’ALF è tuttʼaltro che passivo. Si può dire anzi che le liberazioni dei visoni altro non sono che la creazione di una situazione favo- revole alla fuga degli stessi. Il ruolo attivo degli animali può sorprendere, talvolta, gli stessi membri dell’ALF. Molto interessante, a tal proposito, è la storia di Birba, un cane che si è tenace- mente opposta a tutte le situazioni di vita in cui si è trovata (sempre alla catena) finché non ha indotto alcune persone a liberarla e a trovarle un’adozione. Birba è molto emotiva, abbaia molto, ma nonostante ciò quando sta per essere liberata comprende che sta accadendo qualcosa di positivo per lei e collabora: Birba ci sente, ci vede nel buio. Riconosce Emma e me. Capisce al volo. Anche se non conosce gli altri due amici sa che può fidarsi (incredibile perché Birba si rivelerà un cane molto diffidente e tutt’ora abbaia a chiunque: di piacere se conosce bene la persona, di paura se diffida. È davvero eccessivamente rumorosa). Il signore con un filo di ferro aveva stretto il suo collare così che non potesse più sfilarselo. Noi ci avviciniamo a lei, la sleghiamo, e lei, silenziosissima e scodinzolante, come in punta di piedi e come fosse la cosa più ovvia del mondo seguire quattro sconosciuti alle quattro di notte, senza un gemito, senza un rumore, ci viene dietro nella neve alta11. 11 «Birba, un cane che ha collaborato alla propria liberazione», in «Resistenzanimale.noblogs.org», 15 gennaio 2014, http://resistenzanimale.noblogs.org/post/2014/01/15/birba-un-cane-che-ha-colla- borato-alla-propria-liberazione/.
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 51 Ribellione o rivoluzione? Eppure, gli animali […] resistono. La resistenza animale all’annientamento non con- siste tanto, o non solo, nelle concrete ribellioni, fughe, o morti per inedia, di cui sono protagonisti alcuni degli animali a noi sottomessi. Gli animali resistono anche, o soprattutto, nella loro intatta ed insistente capacità di ispirare in noi - in una società che ci ha alienati da loro al massimo grado - interesse, sollecitudine nei loro con- fronti, desiderio di creare spazi di condivisione. Questi animali ci accompagnano dagli albori della nostra storia in modi e forme che non si limitano all’annullamento dell’animale in nome di una cieca «volontà di dominio» umana, ma racchiudono anche un senso di prossimità profondo nel comune essere al mondo, nel respirare, percepire, tessere legami affettivi con i propri simili; nell’essere infine consegnati ad un comune destino di caducità. Animali e umani formano insieme una comunità multispecifica. Inoltre, a quegli umani che sono oppressi da altri umani, gli animali ispirano solidarietà sulla base di comuni esperienze di sofferenza e costrizione (nel caso delle donne, ad esempio, la riduzione del Sé al proprio corpo organico operata dalla società, la denigrazione ontologica, la manipolazione scientifica)12. Molte persone - anche animaliste - quando si parla degli atti di resistenza ani- male, tendono a riprodurre alcune dicotomie tipiche della politica umana: insurre- zione/rivoluzione, spontaneismo/organizzazione, e così via. Solo la specie umana sembra poter entrare in questa dialettica, poiché le altre paiono essere inchiodate a una natura immutabile in cui non cʼè spazio per nulla di più di qualche moto di ribellione individuale ed estemporaneo. Come sempre, la dimensione culturale è «roba da uomini». Non è corretto, in realtà, parlare di capacità organizzative degli “animali non umani”, mettendo in un unico calderone tutte le specie diverse dalla nostra. Le caratteristiche cognitive e comportamentali variano notevolmente da specie a specie e da individuo a individuo, e così le capacità di organizzare la resistenza al dominio: Che gli animali non amino la vita in cattività non è un mistero; che la loro avversione arrivi al punto di spingerli a pianificare, progettare e organizzare la fuga da uno zoo è, invece, una novità. Il fatto è accaduto a qualche migliaio di chilometri dal nostro Paese, in Cina. Come ogni giorno il custode era entrato nella gabbia degli animali per le pulizie quotidiane mentre una folla di curiosi si accalcava contro i vetri del recin- to. Scene di ordinaria cattività: gli animali che si aggirano, ciondolanti e sconsolati, 12 A. Pignataro, «Chi sono le donne? Chi sono gli animali? Economie dei corpi e politiche degli affetti», abstract dell’intervento al Blog feminist camp il 29 ottobre 2011, http://www.womenews. net/spip3/spip.php?article9336.
52 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche tra i pochi metri quadrati del loro box; il vociare confuso e indistinto dei visitatori; l'incedere guardingo del custode. Poi accade lʼimprevedibile. Un panda lentamente si avvicina all'uomo, si sdraia sulla schiena e attira lʼattenzione del guardiano che, intimorito, lo allontana allungando una mano e abbozzando una carezza. Un altro animale, accortosi della manovra diversiva del suo “compliceˮ, si avvicina allʼentrata della gabbia, allunga una zampa, apre la porta e si dà alla fuga. Una veloce occhiata allʼingresso del recinto, un sornione scatto di reni e anche il “compliceˮ guadagna la via dellʼuscita. Lʼincedere, dapprima lento e goffo, diventa una vera e propria corsa quando lʼanimale capisce di essere inseguito dal custode. Unʼaltra zampata… e, tra lo stupore di tutti i presenti, anche il secondo panda esce dalla prigione13. Con ciò non si deve pensare che si tratti di un mero fatto biologico o di diffe- renze etologiche fra una specie e l'altra, senza considerare il ruolo giocato dalle diverse culture allʼinterno della stessa specie: Pochi giorni dopo che una loro simile era rimasta uccisa dal laccio di un bracconie- re, due giovani gorilla di montagna si sono coalizzati per individuare e distruggere le trappole piazzate nella foresta ruandese dove vivono: lo rivelano gli studiosi del Karisoke Research Center della fondazione Dian Fossey, che hanno assistito alla sce- na, riferendo un comportamento mai osservato prima [...]. Qualche giorno fa, rac- conta Vecellio, il battitore John Ndayambaje aveva individuato una trappola molto vicina al clan di gorilla Kuryama; si è avvicinato per disattivarla ma un silverback di nome Vubu gli ha fatto capire che era meglio stare alla larga. A un certo punto due gorilla, Rwema, un maschio, e Dukore, una femmina, entrambi sui quattro anni, si sono messi a correre verso la trappola. Sotto gli occhi di Ndayambaje e di alcuni turisti, Rwema è saltato sul ramo piegato e lʼha spezzato, mentre Dukore liberava il cappio. I due hanno poi individuato nelle vicinanze unʼaltra trappola, sfuggita anche al battitore, e ci si sono fiondati sopra assieme a un terzo gorilla, un giovane di nome Tetero, distruggendo anche quella [...]. La rapidità con cui è accaduto il tutto ha fatto pensare a Vecellio che non fosse la prima volta che i gorilla superavano in astuzia i bracconieri. «Sembravano molto sicuri del fatto loro», racconta. «Hanno visto cosa cʼera da fare, lʼhanno fatto e se ne sono andati»14. Ad ogni modo, non si capisce perché, quando si tratta di animali, contrapposi- zioni come quella fra pianificazione rivoluzionaria e spontaneismo debbano essere riproposte in termini ottocenteschi, così dogmatici da risultare superati da tempo 13 ENPA Catania, «Archivio generale notizie 2009», http://www.enpacatania.it/archivio_notizie_ naz09.htm. 14 Ker Than, « Due piccoli gorilla distruggono le trappole dei bracconieri», in «National Geogra- phic Italia», 23 luglio 2012.
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 53 anche nelle pratiche di resistenza umana: Si crede facilmente che chiedere a delle esperienze, a delle azioni, strategie, progetti di tener conto dellʼ“insieme della societàˮ sia chiedere loro il minimo; il minimo richiesto per esistere. Io penso al contrario che sia chiedere loro il massimo; che sia anzi imporre loro una condizione impossibile: poiché lʼ“insieme della societàˮ fun- ziona precisamente in modo e perché essi non possano né aver luogo, né riuscire, né perpetuarsi15. Le definizioni classiche di cosa sia “rivoluzione”, di cosa sia un “processo ri- voluzionario” o di cosa sia una “strategia rivoluzionaria” sono formulate in modo da escludere gli animali e, in realtà, anche in modo da escludere la possibilità di uno stravolgimento profondo e reale che si affranchi dallʼesigenza di tenere conto dellʼinsieme monolitico della società. Questo significa partire dalla resistenza ani- male considerata come atto politico e, al tempo stesso, lavorare per lʼampliamento dellʼambito della critica al di là delle intenzioni dei singoli ribelli. Nel concetto stesso di “resistenza” si nasconde una tautologia. Dato che la re- sistenza viene considerata un fenomeno umano - anzi, di alcune categorie umane in alcune situazioni -, viene definito in modo da implicare delle precise caratteri- stiche: intenzionalità, consapevolezza, consapevolezza degli obiettivi della lotta, consapevolezza di ciò che si va a colpire, individuazione di un interlocutore nel conflitto e, in molti casi, perfino organizzazione collettiva e pianificazione stra- tegica. Qualora ci si chiedesse se un atto compiuto da un animale non umano (o anche da un umano che non fa parte dei potenziali ribelli) sia un atto di resistenza, mancherebbero sempre alcune di quelle caratteristiche. Siccome certe forme di sfruttamento hanno raggiunto un tale livello di controllo da non lasciare spazio alla consapevolezza di ciò che sta accadendo, esistono ambiti di sfruttamento a cui per definizione non è possibile resistere (si tratta peraltro delle condizioni più dure). In sostanza, la resistenza è per definizione appannaggio di alcuni e sostenere che gli animali non possono ribellarsi diventa una mera tautologia. In quanto tautologia, riveste un interesse prettamente lessicale, ma non ha rilevanza politica: o ci si in- venta un'altra parola per definire la resistenza - che pure esiste - di tutti coloro che non sono ammessi nella “resistenza”, oppure si ridefinisce la resistenza in modo meno ristretto. La prima soluzione ha come unica utilità quella di riconfermare il nostro posto al centro del mondo. 15 Michel Foucault, «Al di là del bene e del male», in Microfisica del potere, trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino Einaudi, Torino 1977, p. 69.
54 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche Ribellione e biopotere Ogni forma di resistenza genera delle contromosse e questo vale evidentemente anche per la resistenza che gli animali hanno opposto allo sfruttamento umano. Lʼaffinarsi delle tecniche di irreggimentazione, di reclusione e di riproduzione forzata va considerato principalmente come una risposta, o una serie di risposte, allʼinsubordinazione quotidiana dei non umani, analogamente a quanto è accaduto nellʼambito della schiavitù e del lavoro salariato16. Secondo Jason Hribal, la nasci- ta e lo sviluppo del capitalismo si intrecciano strettamente con questa dialettica fra resistenza animale e progresso della zootecnia: In risposta a questa resistenza, i proprietari e i gestori degli allevamenti, delle fattorie e di altre aziende del diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo svilupparo- no, perfezionarono e standardizzarono diversi strumenti e metodi. Vennero eretti recinti e siepi per impedire le fughe. Gioghi di legno triangolari vennero posizionati sul collo per ostacolare il movimento. Vennero legati zoccoli rigidi intorno alle zampe posteriori per impedire il salto o la corsa. Alcuni allevatori recidevano addirittura i tendini di que- sti lavoratori. Altri tagliavano le ali dei polli, dei tacchini e delle oche per impedirne il volo e altri ancora accecavano gli animali con un “ferro da maglia roventeˮ. Se queste misure fallivano, ce n’erano di ulteriori. Vennero costruiti dei luoghi di detenzione per gli animali catturati. Le marchiature all'orecchio e i tatuaggi vennero usati sempre più come mezzi di identificazione e gli anelli al naso impedivano ai fuggiaschi, soprattutto maiali, di scavare nei campi. È significativo che verso la fine del Settecento la maggior parte delle circoscrizioni e delle municipalità coloniali approvarono leggi che prescri- vevano l'uso di molte di queste tecniche. Per controllare comportamenti più perico- losi, vennero sviluppati ulteriori strumenti preventivi. Vennero migliorati dispositivi rozzi, come lo sperone, le briglie e il morso, il frustino o la frusta per i buoi. A metà del Seicento ebbero grande diffusione i manuali di addestramento all’arte di domare i cavalli. Anche le pratiche del gelding (castrazione) e dello spaying (ovariectomia) acquisirono popolarità in questo periodo e, a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, sarebbero diventate procedure standard. Significativamente, queste operazioni chirurgiche non si limitavano a privare gli animali delle loro capacità riproduttive ma, come sottolineavano sempre i loro promotori, riducevano la forza e il vigore dei lavo- ratori “problematici”. Analogamente, la rimozione delle corna (o “umiliazione”, come veniva pubblicizzata) sarebbe diventata un’operazione standard a partire dalla metà del diciannovesimo secolo. E ancora: se queste misure ulteriori fallivano, esisteva una 16 Anche se, ovviamente, altri fattori hanno giocato un ruolo importante (ad es., la ricerca di una maggiore produttività).
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 55 soluzione definitiva, e cioè la pena capitale17. Anche la selezione genetica è stata un mezzo per piegare la propensione alla fuga o alla ribellione: storicamente, tramite lʼincrocio controllato; più recentemen- te, tramite le tecniche di ingegneria genetica. Se diamo uno sguardo, ad esempio, alle caratteristiche delle razze di cavalli commercializzati, troviamo una ricorrente enfasi sulla loro docilità e affidabilità. Ma questo vale anche per altri animali “da reddito”, come i bovini e i suini. Per quanto riguarda le razze canine, sembra quasi una banalità ricordare come siano state selezionate con un occhio, fra le altre cose, alla loro propensione all'obbedienza. Quello che gli industriali di oggi trovano in alcuni Paesi in termini di debolezza della forza contrattuale della manodopera, gli allevatori l'hanno trovato nel DNA. Lo spettacolo della rivolta Le loro fughe dal macello non erano solo fughe fisiche, ma anche concettuali, mo- menti di rottura della routine in un sistema di uccisione altrimenti automatizzato e normalizzato. Lo sterminio e l’elevazione a celebrità (non dissimile dal rituale della grazia presidenziale al tacchino del Giorno del Ringraziamento) sono entrambi modi per contenere la minaccia rappresentata da questi momenti di rottura concettuale18. Nonostante tutto ciò, gli animali si ribellano ancora oggi, come abbiamo visto. Per i settori legati alle produzioni animali è importante che nessuno si renda conto del carattere di resistenza di questi atti. Del dissenso prodotto dagli animali non si deve parlare. Quando, però, si è costretti a parlarne pubblicamente è spesso possibile offrire una descrizione dei fatti in grado di stravolgerne il senso. Lʼuccisione dei propri cuccioli da parte dei genitori viene trattata come una forma di grave malattia men- tale, che sfocia nell'infanticidio, mentre in molti casi si tratta di una vera e propria eutanasia che rappresenta una risposta sana a un trattamento malato. Quando si dice che un cavallo è «imbizzarrito» si sta dicendo che è diventato bizzarro, strano, deviante. Anche in questo caso, non cʼè nulla di più sano di questa protesta. A ben vedere, anche i comportamenti aggressivi e autolesionisti delle galline ovaiole sono risposte a una situazione patologica. Certamente, si tratta di vere e proprie malattie 17 J. C. Hribal, «Animals are Part of the Working Class», cit., pp. 449-450. 18 Avi Solomon, «Working Undercover in a Slaughterhouse: an Interview with Timothy Pachirat», in «Boingboing.net», 8 marzo 2012, trad. it. in «Lavorando in incognito in un macello: un’intervista con Timothy Pachirat», http://neuroneproteso.wordpress.com/2012/03/10/lavorando-in-incognito- in-un-macello-un-intervista-con-timothy-pachirat/.
56 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche mentali, ma non si vede perché questo debba annullarne il portato di resistenza, tanto più che nella pratica esse sono spesso antagoniste rispetto alla produttività, al punto da generare la necessità di tecniche biopolitiche (zootecniche) ad hoc, come, nel caso specifico, il debeccaggio delle galline. Volendo fare un passo oltre, anche nelle malattie considerate strettamente fisiche è possibile rintracciare aspetti di re- sistenza. Ad esempio, le mucche separate dai figli e munte a ritmi serrati tendono, come è noto, a sviluppare diversi disturbi, anche gravi, come le mastiti, che vanno a interferire con la produzione stessa. Anche in questo caso, una protesta che non viene riconosciuta come tale per la mancanza di intenzionalità e di autocoscienza può nella realtà produrre effetti che sono tipici delle forme di resistenza: la zoo- tecnia, pur senza ammetterlo esplicitamente, è costretta a negoziare dei limiti a una produttività che vorrebbe invece illimitata, riducendo i cicli riproduttivi e la mungitura e, in generale, migliorando le condizioni di reclusione quanto basta per preservare la vita della “merce”. Infine, gli episodi di resistenza possono in alcuni casi essere addirittura amplifi- cati. La sovraesposizione, unita alla spettacolarizzazione degli atti di rivolta, pro- prio nel momento in cui fornisce loro il massimo della visibilità, li rende invisibili sul piano del significato politico. Il caso di Yvonne è esemplare: Continua la fuga della mucca Yvonne scappata a maggio da una piccola fattoria in Germania. La ricerca del bovino bavarese amante della libertà ha ammaliato i tede- schi, che seguono la vicenda con passione. Da maggio Yvonne riesce a nascondersi con successo nelle foreste del sud della Germania e ogni tentativo di catturarla è finora andato in fumo. Diversi residenti locali hanno detto di averla vista più volte, ma quando le squadre impegnate a cercarla si recano sul luogo dell'avvistamento il bovino marrone e bianco è già scomparso. Probabilmente la mucca non avrebbe mai conquistato le prime pagine dei giornali nazionali se non fosse stato per un incidente sventato. A pochi giorni dalla fuga, infatti, una macchina della polizia ha rischiato di investirla su una stradina di campagna [...]. Da quando ha scelto la strada della libertà [...] la mucca fuggiasca pascola leopardianamente sotto le stelle e si nasconde di giorno19. La “sempliceˮ fuga non fa notizia. È necessario un avvenimento bizzarro che scateni la ricerca della latitante. E ancora non basta: cʼè bisogno di una caccia al tesoro per far muovere la stampa; e una volta che la stampa si muove non è per raccontare una storia di ribellione e di repressione, la storia di una lotta dagli esiti incerti. I giornali parleranno invece di un divertente gioco infantile, in cui le guar- die cercano rocambolescamente di acciuffare i ladri (solo che non si tratta di un 19 « Lʼincredibile avventura di Yvonne», in «L’unità.it», 22 agosto 2011.
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 57 gioco, ma di una fuga per salvarsi la vita). Yvonne verrà catturata dopo tre mesi di latitanza e una strenua resistenza. Anche se la fine della storia sembra positiva, poiché Yvonne viene condotta in un rifugio, la sua fama produce unʼulteriore oc- casione di spettacolarizzazione della vicenda: da mucca evasa diventerà erede del polpo Paul, impiegata nellʼassurda mansione di prevedere lʼesito delle partite dei campionati europei di calcio20. È però intorno agli zoo e, soprattutto, ai circhi, che la resistenza animale diventa più facilmente spettacolo. Alcuni motivi sono abbastanza evidenti, altri forse un po' meno. In molti casi le evasioni e le aggressioni nei circhi e negli zoo hanno come protagonisti animali pericolosi, perché feroci o perché totalmente inadatti allʼambiente urbano. Il grave turbamento dellʼordine pubblico è di per sé una ga- ranzia di far notizia. Vi si aggiunga il fatto che i ribelli sono animali esotici, non per caso, ma perché le stesse regole di ingaggio lo prevedono: lo stesso esotismo che contribuisce a interessare lo spettatore dentro il tendone gioca un ruolo importante nellʼappassionarlo alla vista delle immagini della rivolta. Tuttavia, lʼelemento più importante e degno di riflessione è un altro. Le evasioni, gli sfondamenti delle transenne, gli sbranamenti dei domatori, le corse folli per le strade sono tutti atti di proseguimento dello spettacolo circense al di là del copione previsto. Si tratta, in fondo, di fuori programma che in qualche modo vengono prefigurati allo spet- tatore, come se lʼesibizione di una tigre che salta nel fuoco fosse già inserita in un patto implicito fra lʼaddestratore e il pubblico: «Questa belva è domata, potete sta- re tranquilli, ma non troppo, poiché è necessario che vi sia un brivido, che almeno potenzialmente possa uccidere o manifestare la sua indole selvatica nella fuga». Di fatto, questo si verifica raramente, ma quando accade viene riconfermata la possibilità dellʼevento; anzi, è necessario che talvolta accada. Chi andrebbe ancora a vedere una corrida se ogni tanto un toro non riuscisse a incornare il torero? Ma il circo non si riduce a uno spettacolo generico. È piuttosto la messa in sce- na del controllo dell'umano sul selvatico, che viene domato e dominato. Anche in questo consiste il suo fascino: nel rappresentare la sovranità della nostra specie. Se non ci fosse una resistenza, però, non si tratterebbe di dominio, bensì di semplice utilizzo. Come insegna Foucault, perché si abbia potere deve esserci la possibilità che l’oppresso si ribelli; le sporadiche situazioni in cui il potere fallisce sono lì a ricordarci (e a valorizzare) tutte le volte in cui si esercita in modo efficace. 20 Cfr. http://calciomalato.blogosfere.it/2012/06/euro-2012-mucca-yvonne-ecco-lerede-del-polpo- paul.html.
58 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche Lessico e nuvole Gli oppressi lottano contro la lingua per riprendere possesso di se stessi, per ricono- scersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza21. Che cosa significa prendere sul serio la resistenza animale? E che cosa significa, concretamente, per il movimento di liberazione animale, lavorare insieme agli ani- mali? Questo è, ovviamente, un territorio ancora tutto da esplorare, ma proveremo comunque a fornire qualche spunto e a formulare qualche esempio a nostro avviso utili alla prassi politica. In primo luogo, si tratta di compiere uno sforzo per superare il paternalismo che finora ha contraddistinto gran parte del movimento antispecista. Tale paternalismo, come abbiamo visto, si è espresso soprattutto al livello della retorica: è dunque dal cambiamento del modo di esprimersi che dovremmo iniziare. Ad esempio, anzi- ché dire che «siamo la voce dei senza voce» dovremmo parlare in termini di «far sentire la loro voce»; dovremmo fare molta attenzione anche a definire gli animali come «i più deboli». Quando si parla dei comportamenti stereotipati e autolesio- nisti dei reclusi dovremmo sottolineare lʼaspetto di resistenza, di dissenso in essi contenuto. Nelle rivendicazioni ALF è importante che emerga la collaborazione da parte degli animali, quando è presente. Di più: alcuni atti di ribellione senza il concorso umano dovrebbero comparire fra le azioni ALF, poiché ne rispettano le linee guida22. Un diverso modo di esprimersi dovrebbe portarci a superare quellʼatteggiamento per cui chi conduce la lotta animalista si sente moralmente superiore a chi si inte- ressa di altre lotte e altri soggetti, secondo il luogo comune che fa della prima una lotta completamente altruistica e di tutte le altre delle lotte “interessateˮ, poiché chi le conduce lo farebbe per se stesso, mentre noi lo faremmo soltanto per loro. Un linguaggio non paternalista potrebbe inoltre facilitare il riconoscimento delle intersezioni fra le diverse lotte, aiutandoci a comprendere più profondamente la nostra animalità e a evidenziare forme di solidarietà basate sul riconoscimento di una oppressione comune23. Il paternalismo è però anche unʼincapacità di cogliere i messaggi che arrivano 21 bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, trad. it. di M. Nadotti, Feltri- nelli, Milano 1998, p. 64. 22 Le linee guida che definiscono unʼazione come riconducibile allʼAnimal Liberation Front non specificano se il liberatore debba appartenere alla specie umana o meno, né se il soggetto e lʼ“oggettoˮ della liberazione debbano essere due persone diverse. 23 Un esempio utile può essere quello proposto da Barbara X in «Fuga per la sconfitta», maggio 2011 (http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=89:fugaperlasconfit ta), circa la possibilità per una donna trans di riconoscere la sofferenza e la ribellione degli animali da macello a partire dalla propria condizione.
Quando i maiali fanno la rivoluzione Proposte per un movimento antispecista non paternalista 59 dagli schiavi e, al tempo stesso, il proposito di mantenere saldamente in mano lʼagenda politica da parte degli umani. Dal primo dei due aspetti forse derivano anche alcune caratteristiche deleterie della zoofilia e del protezionismo: è perché non li si è voluti ascoltare realmente che si è potuto sostenere, come è il caso di Michela Vittoria Brambilla, che ogni cane ha diritto a un divano. Il fatto che un movimento a prevalenza femminile esprima una visione paterna- listica è qualcosa di interessante. La mobilitazione femminile nell’ambito dell’an- tispecismo si può interpretare almeno in due modi. Il primo fa riferimento alla visione che vuole le donne martiri, dotate di altruismo e spirito di sacrificio quasi innati, tutti caratteri che si esprimerebbero in una marcata sensibilità ed emotività, in una tendenza all'ascolto empatico, in una particolare attenzione ai più deboli e alle loro sofferenze. Il secondo fa invece riferimento alla capacità di immedesi- marsi nella condizione di oggetti di sfruttamento vissuta dagli animali, a partire dalla propria condizione di subalternità. Si tratta di due spiegazioni molto diverse, ma sembra che sia all'interno del movimento animalista che fra i suoi detrattori prevalga la prima. Se ci chiediamo il perché di quanto appena detto, unʼipotesi da approfondire potrebbe essere la seguente: la prima visione si impone perché la narrazione dominante è connotata in senso maschile, indipendentemente da chi la elabora. Interpretare la mobilitazione femminile come intrinsecamente altruistica sostiene proprio una visione paternalistica: agli animali ci si dedica perché si è votati all'amore disinteressato. La seconda interpretazione invece contrasta aper- tamente un paternalismo che ha cause più lontane: le difficoltà di comunicazione fra la specie umana e le altre specie; la volontà degli umani di mantenere una posizione di privilegio rispetto agli animali anche allʼinterno di una lotta in loro favore; le condizioni di controllo biopolitico degli animali che come abbiamo visto ne rendono estremamente difficile la ribellione. Un progetto politico per la resistenza animale Se il socialismo scientifico ha preso il via dalle utopie [...], forse la socializzazione reale emanerà dalle esperienze24. In ciò che segue proviamo a proporre un progetto concreto che non si limiti a modificare la retorica che accompagna le importanti attività già messe in campo dagli attivisti e a suggerire alcuni punti su cui lavorare e mobilitarsi, a partire dalla realizzazione di un osservatorio sulla resistenza animale, come strumento per ren- dere evidente che gli animali sono soggetti attivi e che gli atti di rivolta sono molto 24 M. Foucault, «Al di là del bene e del male», in Microfisica del potere, cit., p. 68.
60 liberazioni n. 16 | Territori delle pratiche più frequenti di quanto si pensi. Un osservatorio permanente permetterebbe di dare a ognuna di queste azioni di ribellione il significato che merita e di lasciar esprimere gli animali su ciò che li ri- guarda. L’osservatorio permetterebbe inoltre agli umani che intendono raccogliere la richiesta di alleanza politica avanzata dagli animali di mobilitarsi a più livelli, sulla spinta delle loro stesse azioni, sviluppando: 1. una rete di sostegno per dare asilo politico agli evasi; 2. un ambito di mobilitazione per solidarizzare con il singolo ribelle; 3. un’articolazione di rivendicazioni politiche più generali a partire dalle ri- chieste degli animali. La costituzione di una rete di sostegno mira a creare piccole sacche di possibilità per il successo delle evasioni. Si tratta quindi di erodere l’efficacia dei dispositivi descritti, che di norma impediscono agli animali di scampare alla morte e di ren- dere visibile la loro volontà di ribellione. L’idea di una rete di sostegno è anche un appello ai rifugi per animali, agli spazi liberati (come i centri sociali, laddove compatibile con le esigenze etologiche degli evasi), ai singoli solidali, affinché i latitanti possano ricevere asilo politico (definitivo o anche solo temporaneo), al- meno nei casi in cui il “riscatto” può avvenire in modo pubblico e legale. La solidarietà verso il singolo dovrebbe manifestarsi anche come mobilitazione pubblica. Diventa necessario scendere in piazza, o attivarsi in altro modo, quando viene data notizia di una ribellione. Ci rendiamo conto che questa proposta presen- ta diversi problemi organizzativi, poiché gli atti di rivolta sono continui e numerosi e poichè spesso vengono resi noti soltanto una volta conclusi o le informazioni che vengono messe a disposizione sono frammentarie. Tuttavia, se solo lo si volesse, in molti casi sarebbe possibile mobilitarsi. Scendere in piazza non dovrebbe avere un significato meramente simbolico, di denuncia o di generica solidarietà, ma do- vrebbe supportare richieste esplicite, come ad esempio il collocamento del ribelle presso un rifugio o il suo rilascio in libertà. Anche le azioni dirette, oltre che partire dalla volontà degli umani che le compiono, possono essere intraprese sulla scorta di un invito degli animali alla mobilitazione. Avanzare rivendicazioni a partire dagli animali stessi significa iniziare a costru- ire insieme l’agenda politica. Il paternalismo si è espresso finora anche come il to- tale controllo di tale agenda da parte degli animalisti umani, anche se non mancano i casi in cui si è verificato qualcosa di diverso: Storicamente, ci sono stati tre tipi di offerta fatte dai proprietari e dai gestori ai propri animali lavoratori per ottenere produzione e obbedienza. La prima era l’offerta di un trattamento migliore, di cibo e condizioni migliori, talvolta anche di amicizia [...]. Il secondo tipo di offerta era l’opposto. Siepi e recinzioni vennero erette per impedire la fuga. Strumenti crudeli, come i gioghi di legno e gli zoccoli, cercavano ridurre le
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