POWER AND DEMOCRACY Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto - A2i Open Journals

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ISSN 2724-0177                       N. 1 (2020)

     POWER AND DEMOCRACY

     Rivista internazionale di
     Politica, Filosofia e Diritto
Periodicità: semestrale
Modalità di raccolta degli articoli: comitato scientifico e call for paper
Tipo di selezione e valutazione degli articoli: single-blind review

Edizione on line e progetto grafico a cura di
A2i Open Journals, divisione e-publishing di A2i Srl

Contatti
Direzione Generale
TOCQUEVILLE-ACTON Centro Studi e Ricerche
Via Giosuè Carducci 12 – 20123 Milano
e-mail: redazione@poweranddemocracy.it

Website
www.poweranddemocracy.it

POWER AND DEMOCRACY è una rivista online a carattere scientifico promossa dal
Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche. Lo sviluppo e la manutenzione
dell’installazione di OJS sono forniti da A2i Open Journals, divisione e-publishing
di A2i Srl.

ISSN 2724-0177
La rivista è registrata presso il Tribunale di Milano
(Aut. n. 1901 del 19 ottobre 2020. Reg. Stampa n. 136).
POWER AND DEMOCRACY
         Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto
                       www.poweranddemocracy.it

DIRETTORE

Flavio Felice, Università degli Studi del Molise

COMITATO EDITORIALE

Fabio Giuseppe Angelini, Università Uninettuno di Roma
Antonio Campati, Università Cattolica del Sacro Cuore
Maurizio Serio, Università degli Studi Guglielmo Marconi

COMITATO SCIENTIFICO INTERNAZIONALE

Andrew A. Abela, Catholic University of America (USA)
Angelo Abignente, Università degli Studi di Napoli Federico II
Brian Anderson, Manhattan Institute (USA)
Dario Antiseri, LUISS Guido Carli
Nicola Antonetti, Università degli Studi di Parma
Angelo Arciero, Università degli Studi Guglielmo Marconi
Mauro Barberis, Università degli Studi di Trieste
Marco Bassani, Università degli Studi di Milano
Léonce Bekemans, Università degli Studi di Padova
Giovanni Belardelli, Università degli Studi di Perugia
Arthur C. Brooks, Harvard University (USA)
Rocco Buttiglione, Instituto de Filosofia Edith Stein Granada (Spagna)
Davide Cadeddu, Università degli Studi di Milano
Alejandro Chafuen, Acton Institute (USA)
Alessandro Campi, Università degli Studi di Perugia
Josepf E. Capizzi, Catholic University of America (USA)
Paolo Carozza, University of Notre Dame (USA)
Fabio Ciaramelli, Università degli Studi di Napoli Federico II
Riccardo Crespo, Universidad Austral, Buenos Aires (Argentina)
Lorenzo Cuocolo, Università degli Studi di Genova
Attilio Danese, Centro Ricerche Personaliste di Teramo
Stefano De Luca, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
Gianni Dessì, Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Giulia Paola Di Nicola, Centro Ricerche Personalistiche di Teramo
Enzo Di Nuoscio, Università degli Studi del Molise
Franco Maria Di Sciullo, Università di Messina
Jude P. Dougherty, Catholic University of America (USA)
Federica Fabrizzi, Università Telematica Internazionale Uninettuno
Damiano Florenzano, Università di Trento
Francesco Forte, Università degli Studi di Roma “La Sapienza’
Lothar Funk, University of Applied Sciences di Duesseldorf (Germania)
George Garvey, Catholic University of America (USA)
Mary Ann Glendon, Harvard University (USA)
Nils Goldschmidt, University of Siegen (Germania)
Maurizio Griffo, Università degli Studi di Napoli Federico II
André Habisch, Katholische Universität Eichstätt-Ingolstadt (Germania)
Stefan Kolev, Hamburg Institute of International Economics e Wilhelm Röpke
Institute (Germania)
Antonio Masala, Università di Pisa
Guido Meloni, Università degli Studi del Molise
Roberta Modugno, Università degli Studi Roma Tre
Flavia Monceri, Università degli Studi del Molise
Michele Nicoletti, Università di Trento
Lorenzo Ornaghi, Università Cattolica del Sacro Cuore
Damiano Palano, Università Cattolica del Sacro Cuore
Claudio Palazzolo, Università di Pisa
Luca Raffaello Perfetti, Università degli Studi di Bari
Rocco Pezzimenti, LUMSA Università
Aristide Police, LUISS Guido Carli
Giovanni Puglisi, Università degli Studi di Enna ‘Kore’
Marcelo F. Resico, Univesidad Católica Argentina (Argentina)
James Robinson, University of Chicago (USA)
Eugenio Yanez Rojas, Universidad San Sebastian, Santiago (Cile)
Robert Royal, Faith and Reason Institute di Washington DC (USA)
Mónica Rubio García, Universidad Popular Autónoma del Estado de Puebla
(Messico)
Giulio Maria Salerno, Università degli Studi di Macerata
Paolo Savarese, Università degli Studi di Teramo
Lorenzo Scillitani, Università degli Studi del Molise
Stefano Salvatore Scoca, Università per Stranieri ‘Dante Alighieri’ di Reggio
Calabria
Mario Tesini, Università degli Studi di Parma
Tommaso Valentini, Università degli Studi Guglielmo Marconi
Dario Velo, Università di Pavia
Andreas Widmer, Catholic University of America (USA)
Alfred Wierzbicki, Catholic Univerity of Lublin (Polonia)
Michael Wohlgemuth, Walter Eucken Institut di Freiburg (Germania)
Gabriel Zanotti, Universidad Austral di Buenos Aires (Argentina)
Todd Zywicki, George Mason University (USA)

REDAZIONE

Giusy Conza, Università degli Studi Federico II di Napoli (Capo Redattore)
Mauro Bontempi, Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche
Daniele Di Paolo (Segreteria di Redazione)

DIRETTORE RESPONSABILE

Nancy Squitieri, Ordine dei Giornalisti di Milano
POWER AND DEMOCRACY
Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto
                                                          anno I, fascicolo n. 1/2020

                                               INDICE

 Flavio Felice                                                                    4
 Editoriale

SEZIONE MONOGRAFICA - Pensare la politica, la filosofia, il diritto
 Dario Antiseri                                                                   7
 Considerazioni epistemologiche sul “confine” tra
 “società aperta” e “società chiusa”

 Lorenzo Ornaghi                                                                15
 Democrazia, politica e nuovi poteri: una frontiera
 comune per gli studi politici

 Enzo Di Nuoscio                                                                31
 L’“interpretative turn” in economia. Spiegare e
 interpretare i fatti economici

SAGGI E CONTRIBUTI
 Flavia Monceri                                                                 47
 Costruzioni dell’‘identità europea’: la paneuropa di
 Coudenhove-Kalergi

 Lorenzo Scillitani                                                             65
 Il pensiero giuridico allo stato mitico: un’epopea
 tragica

TEORIA E ARGOMENTAZIONE
 Giusy Conza                                                                    77
 Verso un diritto costituzionale del terzo settore?
 Considerazioni argomentative a margine della
 sentenza n. 131 del 26 giugno 2020 della Corte
 Costituzionale
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Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto
                                                               anno I, fascicolo n. 1/2020

                                            FLAVIO FELICE
                                                                                             4
                                            EDITORIALE

   POWER AND DEMOCRACY | Rivista internazionale di Politica,
Filosofia e Diritto è una rivista on-line internazionale peer-reviewed e
open access che nasce dal percorso di ricerca avviato nel 2007 con la
costituzione del Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, ente di
ricerca privato senza scopo di lucro riconosciuto dal Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica.
   La rivista intende caratterizzarsi per l’attenzione alle dinamiche
politico-economiche e all’evoluzione scientifica e tecnologica che,
impattando sugli assetti istituzionali, influenzano gli equilibri di
potere in un ordine democratico. La rivista promuove una visione
inclusiva dei poteri e delle voci emergenti dalla società, che nel campo
della politica, del diritto e dell’economia superi i paradigmi di rigida
distinzione e di reciproca indifferenza-diffidenza tra sfera pubblica e
sfera privata.
   L’aspirazione della rivista è fornire strumenti adeguati ad osservare
la genesi, la manutenzione e il cambiamento dell’ordine politico-
giuridico-economico, e così rendere ragione delle cause e delle
modalità attraverso le quali le istituzioni emergono e producono
effetti, anche al di là delle intenzioni di coloro che con le loro azioni
volontarie hanno contribuito a porle in essere e che le guidano nella
contingenza. Scopo della rivista è, altresì, di arricchire il dibattito in
tema di diritti fondamentali della persona, con particolare riferimento
al ruolo delle istituzioni nelle dinamiche di potere negli ordinamenti
democratici.
   Siamo consapevoli del fatto che nelle scienze sociali, con particolare
riferimento al pensiero politico e a quello giuridico, il “valore
aggiunto” risieda in una epistemologia aperta all’incontro tra i valori
della coscienza individuale, propri della tradizione liberale, e una
visione antropologica ancorata ai principi di dignità della persona,
entro una concezione plurarchica dell’organizzazione sociale.
   L’identità e il programma della rivista sono perciò il frutto di un
dialogo a più voci, intenso e continuo nel tempo, di un confronto
costante, anche in chiave transdisciplinare, e di una progressiva messa
a fuoco dei problemi che la realtà pone. Essi, pur restando aperti alla


  Flavio Felice è direttore editoriale delle riviste “Power and Democracy” e “Prospettiva
Persona”. È professore di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise
(Campobasso) e Presidente del Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche.
flavio.felice@unimol.it
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                                                        anno I, fascicolo n. 1/2020

possibilità di successive evoluzioni e, finanche, di mutare direzione in
funzione dell’evolversi del confronto scientifico, costituiscono nello
stesso tempo il punto di arrivo dell’intenso lavoro di ricerca sin qui
svolto e un punto di partenza di questo nuovo progetto editoriale.
  La rivista avrà periodicità semestrale. Essa è articolata in tre
Sezioni:
   (I) “Sezione Monografica” (con referaggio anonimo);
  (II) “Saggi e Contributi” (con referaggio anonimo);
  (III) “Teoria e Argomentazione” (con referaggio anonimo);

    La “Sezione Monografica” ospiterà riflessioni dedicate
all’approfondimento di un tema specifico in una triplice prospettiva:
storico-politologica, filosofico-politica, giusfilosofica-giusteorica-
giuspubblicistica. In questa sezione si intendono pubblicare – dopo il
vaglio degli organi della rivista e di referee anonimi – gli studi in grado
di contribuire al dialogo scientifico, a livello nazionale e
internazionale, sui temi che saranno di volta individuati quale filo
conduttore di ciascun fascicolo della rivista.
    Nelle Sezioni “Saggi e Contributi” saranno accolti saggi, contributi
e commenti sottoposti da studiosi italiani e stranieri o sollecitati dagli
organi della rivista.
    Nella Sezione “Teoria e Argomentazione” saranno accolte le
riflessioni e i contributi che, partendo dall’analisi dei fatti e
dall’osservazione della realtà che ci circonda, intendano contribuire a
spiegare le ragioni che rendono legittimi (o meno) taluni
comportamenti, rendendo esplicito ciò che spesso è implicito
nell’ordine politico-giuridico-economico. La Sezione ospiterà, altresì,
riflessioni, commenti, analisi e note a sentenza che si propongano di
contribuire alla ricostruzione del fondamento logico-razionale e della
razionalità dei processi argomentativi che sono la base dell’adozione
di taluni provvedimenti legislativi, amministrativi e giurisdizionali.
    La rivista, oltre ai numeri ordinari con cadenza semestrale,
pubblicherà anche, con periodicità variabile, numeri speciali destinati
ad ospitare, una volta selezionati, sottoposti a referaggio anonimo ed
organizzati per nuclei tematici, gli studi che derivino dai risultati di
gruppi di ricerca nazionali e internazionali che di tempo in tempo si
aggreghino intorno alla rivista.
    La rivista si caratterizza per (i) apertura internazionale: la rivista
pubblica saggi redatti da autori italiani e stranieri; i membri del
comitato scientifico e i referees della rivista sono autorevoli studiosi
della politica, del diritto e dell’economia, provenienti da diversi paesi
europei ed extra-europei; (ii) multilinguismo: la rivista accetta saggi
redatti in italiano, francese, inglese, spagnolo, tedesco o portoghese,

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purché corredati da un doppio abstract nella lingua originale e in
inglese; (iii) valutazione anonima: tutti i contributi sono sottoposti
(salvi gli eccezionali casi tassativamente indicati nelle norme sulla
procedura di referaggio pubblicate nel sito della rivista) a blind peer
review da parte di valutatori, scelti tra coloro che compongono il
comitato scientifico e di referaggio pubblicato nella rivista; (iv)
consultazione telematica open access da parte degli utenti; (v)
pubblicazione telematica.

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                                                              anno I, fascicolo n. 1/2020

                                           DARIO ANTISERI

      CONSIDERAZIONI EPISTEMOLOGICHE SUL “CONFINE”                                          7
         TRA “SOCIETÀ APERTA” E “SOCIETÀ CHIUSA”

ABSTRACT: The essay defines the Open Society, according to Popperian teaching, as
a genuinely free model of coexistence because it is pluralist and organized
according to the democratic rules of political dialectics and checks-and-balances
mechanisms. The foundation of a society of free individuals is the principle of
epistemological fallibilism which, if defended, constitutes an embankment against
any totalitarian, corporatist and massifying drift.

KEYWORDS: Open Society, Epistemological Fallibilism, Democracy, Popper, Plato

SOMMARIO: 1. Tratti caratterizzanti della “società aperta” e della “società chiusa”. 2.
Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. 3. La fallibilità della
conoscenza umana quale presupposto della società aperta. 4. Platone: il “Giuda di
Socrate”. 5. La “convivenza umana” e le sue regole.

1. Tratti caratterizzanti della “società aperta” e della “società
chiusa”

   La società aperta è la società aperta a più valori, a più visioni del
mondo filosofiche e religiose, a più proposte politiche, e quindi a più
partiti, alle critiche incessanti e severe dei diversi punti di vista, delle
differenti proposte. La società aperta è aperta al maggior numero
possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti. Al maggior
numero possibile, ma non a tutte le idee, proposte ed ideali. La
società aperta è chiusa ai violenti e agli intolleranti – solo ai violenti e
agli intolleranti. La società aperta non è una società spalancata.
   «Con l’espressione “società aperta” designo – precisa Popper –
non tanto un tipo di Stato o una forma di governo, quanto piuttosto
un modo di convivenza umana in cui la libertà degli individui, la
non-violenza, la protezione delle minoranze, la difesa dei deboli sono
valori importanti. Nelle nostre democrazie occidentali questi valori
sono per la maggior parte degli uomini cose ovvie. Il fatto che questi
valori siano per noi tanto ovvi è uno dei pericoli che minacciano la
democrazia. Pochi uomini, infatti, hanno abbastanza fantasia per
potersi rappresentare la vita in una società moderna non
democratica» (Popper, 1989: 176). La società aperta è «la società nella
quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali» mentre
«la società magica o tribale o collettivistica sarà chiamata anche
società chiusa» (Popper, 1973: I, 216). Società, quest’ultima, che «può

 Dario Antiseri è uno dei maggiori filosofi italiani e attualmente membro del Comitato
scientifico della Scuola Superiore di Alti Studi del Collegio San Carlo di Modena.
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essere giustamente paragonata ad un organismo. La teoria organica o
biologica dello Stato può essere applicata in larga misura ad essa.
   Una società chiusa assomiglia a un gregge o a una tribù per il fatto
che è un’unità semiorganica i cui membri sono tenuti insieme da
vincoli semibiologici: parentela, vita in comune, partecipazione agli
sforzi comuni, ai pericoli comuni, alle gioie comuni e ai disagi
comuni» (ibid.). Diversamente, «una delle caratteristiche della società
aperta consiste nel tenere in gran conto, oltre alla forma democratica
di governo, la libertà di associazione, e di proteggere ed anche di
incoraggiare la formazione di sottosocietà libere, ciascuna delle quali
possa sostenere differenti opinioni e credenze» (Popper, 1975: 280-
281). In sintesi, «la società chiusa è caratterizzata dalla fede nei tabù
magici, mentre la società aperta è quella nella quale gli uomini hanno
imparato ad assumere un atteggiamento in qualche misura critico nei
confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull’autorità della
propria intelligenza (dopo discussione)» (Popper, 1973: I, 249). E se
questa è la situazione, ne consegue che «noi dovremo sempre vivere
in una società imperfetta, e ciò non solo perché anche le persone
migliori sono assai imperfette; e neanche perché, come è naturale, noi
facciamo spesso degli errori per il fatto di non sapere abbastanza.
Ancor più importante di queste due ragioni è il fatto che esistono
sempre insolubili conflitti di valori: ci sono molti problemi morali
insolubili perché i princìpi morali possono entrare fra loro in
conflitto. Non può esistere alcuna società umana senza conflitti, una
siffatta società sarebbe una società non di amici ma di formiche»
(Popper, 1997: 119). La società perfetta è la negazione della società aperta.

2. Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale

   Pericle, nella sua orazione funebre – così come ci è stata
tramandata da Tucidide – dichiarò Atene «Scuola dell’Ellade». «La
nostra città – egli disse – è aperta al mondo; noi non cacciamo mai
uno straniero [...]. Un uomo che non si interessa dello Stato non lo
consideriamo innocuo, ma inutile; e, benché soltanto pochi siano in
grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi
non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada
dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire
saggiamente» (Tucidide, 1984).
   Ma chi è colui che considererà la discussione come indispensabile
premessa ad agire saggiamente e non, invece, come un ostacolo sulla
strada dell’azione politica? Costui, fuor d’ogni dubbio, sarà un uomo
che, sapendo di non essere onnisciente, tramite la discussione, il
confronto tra le diverse proposte e la più severa critica di tali
proposte, va alla ricerca delle migliori soluzioni dei problemi

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affrontati. E la consapevolezza della nostra fallibilità, della fallibilità
della conoscenza umana è esattamente il grande insegnamento
dell’epistemologia contemporanea.
   La ricerca scientifica, ovunque essa venga praticata – in fisica e in
storiografia, in economia e in biologia, in chimica come in sociologia
o in filologia – consiste sempre in tentativi di soluzione di problemi
(Popper, 1969: 146). E per risolvere i problemi c’è bisogno di idee.
Certo, di idee nuove ce ne sono e ce ne possono essere tante; non
troppe sono, invece, le idee nuove e buone per la soluzione dei
problemi. Ed esiste un’unica via per selezionare le idee buone tra le
idee nuove (e vecchie) avanzate in vista della spiegazione di «fatti
sorprendenti» – questa via consiste nel controllo delle teorie
effettuato sulla base delle loro conseguenze “osservative”. Una teoria
è il suo contenuto; il contenuto di una teoria sono le sue
conseguenze; per cui, data una ipotesi o teoria, noi ne spremiamo le
conseguenze logiche, e controlliamo se queste conseguenze
combaciano o meno con quelli che di volta in volta sono i «fatti» che
esse spiegano o prevedono. Se una teoria ottiene conferme, essa
viene accettata sino a prova contraria; se, invece, qualche sua
conseguenza urta con quelli che all’epoca vengono ritenuti (per
quanto se ne possa sapere) i «fatti», la teoria viene respinta – in
quanto mostrata falsa, falsificata. Come sempre: contra factum non
valet argumentum – nella consapevolezza, però, che i fatti non sono
sacri, in quanto un fatto nella scienza è pur sempre una proposizione,
un’ipotesi interpretativa di qualche pezzo o aspetto della realtà. E va
da sé che ogni autentico controllo di una teoria si risolve in un
tentativo di falsificarla. Nella scienza, come nella vita, la prova si ha
dove si rischia: dove si rischia di fare fallimento. In effetti, c’è una
asimmetria logica tra conferma e smentita di una teoria: miliardi di
conferme non rendono certa una teoria, un solo fatto contrario
logicamente la distrugge. Per questo, siccome non possiamo
dimostrare la certezza assoluta di una teoria, anche della meglio
consolidata, andiamo a cercarne le crepe, a vedere se è errata – e
prima scopriamo in essa un errore, tanto prima la comunità
scientifica sarà posta nella urgente necessità di inventare e mettere a
prova una teoria migliore della precedente, vale a dire una teoria con
maggiore potere esplicativo e previsivo.
   È per ragioni logico-matematiche che non ci è possibile verificare,
fare vera, cioè dimostrare assolutamente vera una teoria, mentre ci è
possibile mostrarne la falsità, falsificarla (sapendo, tuttavia, che una
falsificazione può essere fallibile). Una teoria è scientifica se è
fattualmente controllabile, vale a dire falsificabile (Popper, 1970).
Tutta la ricerca scientifica procede per congetture e confutazioni, per
trial and error, e cresce sul «gran tesoro degli errori». «Evitare l’errore

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è un ideale meschino». Se ci confrontiamo con problemi difficili, è
facile che sbaglieremo. «Nessuno può evitare di fare errori; la cosa
grande è imparare da essi» (Popper, 1965: 242). Così Popper, il quale
con Oscar Wilde è persuaso che «esperienza è il nome che ciascuno
di noi dà ai propri errori» (Popper, 1996: 489). In conclusione: «Tutta
la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. Non esiste
nessuna giustificazione, compresa, nessuna giustificazione definitiva,
di una confutazione. Tuttavia, noi impariamo attraverso
confutazioni, cioè attraverso l’eliminazione degli errori» (Popper,
1984: 24). E su questa stessa linea troviamo Albert Einstein: «Nel
campo di coloro che cercano la verità non esiste autorità umana; e
chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli
dèi» (Hoffmann, 1977: 274-275).

3. La fallibilità della conoscenza umana quale presupposto della
società aperta

    Il fallibilismo epistemologico – cioè la consapevolezza che le nostre
conoscenze sono e restano smentibili, e che anche le teorie meglio
consolidate sono sempre sotto assedio – costituisce il primo e
fondamentale presupposto della società aperta – anche se non è
l’unico. Basti, infatti, pensare: a) a quel fondamento logico della
libertà di coscienza che è la «legge di Hume», dove si specifica che è
impossibile derivare logicamente asserti prescrittivi, come le leggi
morali e le norme giuridiche, da proposizioni descrittive – per cui da
tutta la scienza non sarà possibile estrarre un grammo di morale, con
la conseguenza che, per dirla J.P. Sartre, «siamo condannati ad essere
liberi», a scegliere, sperabilmente ad occhi aperti, quei valori per i
quali valga la pena spendere la vita; b) al fatto che economia libera e
società aperta vivono e muoiono insieme – in quanto è la proprietà
privata dei mezzi di produzione a garantire, nel modo più sicuro le
libertà politiche e i diritti individuali. Da non dimenticare è quanto su
questi nevralgici argomenti afferma F.A. von Hayek, e cioè che «chi
possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini»; c) a quello che è
l’argomento che sta a base di tutte le ragioni della libertà, cioè al fatto
che «solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo
l’individuo agisce» – concezione, questa dell’individualismo
metodologico, che mentre da una parte devasta la mitologia di realtà
sostanziali indicate da concetti collettivi (Stato, società, sindacato,
classe, partito, ecc.), dall’altra indica, quale compito principale (così
pensano, per esempio, C. Menger e K.R. Popper) o addirittura
esclusivo (così sostiene Hayek) delle scienze sociali, l’analisi della
inevitabile insorgenza di conseguenze inintenzionali delle azioni
umane intenzionali (Antiseri-Pellicani, 1992).

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   Ma torniamo al problema del nesso tra fallibilità della conoscenza
e società aperta. Nessuno può presumere di essere in possesso di una
verità razionale ed assoluta da imporre agli altri. Razionalmente
possiamo soltanto collaborare – attraverso la critica alle teorie vigenti
e le proposte alternative ad esse – per il conseguimento di teorie
sempre migliori. Se io so di essere fallibile e se tu sei consapevole
della tua fallibilità, allora – se ci sta davvero a cuore risolvere i
problemi – io aspetterò con ansia le tue alternative e le tue critiche; e
tu sarai grato delle mie alternative alle tue proposte e delle mie
critiche. Insomma: discuteremo. E la discussione è l’anima della
democrazia. Non ci sarà, invece, nessuna democrazia dove è negata la
discussione, e la via verso la società aperta sarà sbarrata dalla
presunzione di esseri possessori di verità assolute da imporre agli
altri, anche a costo di lacrime e sangue.
   Dunque: liberi perché fallibili. E Friedrich A. von Hayek farebbe,
inoltre, presente: sì, liberi perché fallibili, ma anche perché ignoranti
di quelle conoscenze di situazioni particolari di tempo e di luogo, le
quali, diffuse tra milioni e milioni di uomini, sono necessarie per la
soluzione di miriadi di problemi (Hayek, 1988: 280-281). Ignoranti
tutti di conoscenze “disperse”, “all’istante” e “non centralizzabili”,
siamo fallibili laddove conosciamo. In breve: fallibili ed ignoranti.
   Sulla base delle considerazioni sin qui sviluppate, risulta chiaro
che il confine tra una democrazia e una dittatura è istituito dal
seguente criterio: «Si vive in una democrazia quando esistono
istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere
alla violenza, cioè senza giungere alla soppressione fisica dei suoi
componenti. È questa la caratteristica di una democrazia» (Popper-
Marcuse, 1977: 46). In altri termini: «La differenza fra una
democrazia e una tirannide è che nella prima il governo può essere
sostituito senza spargimenti di sangue, nella seconda no» (Popper,
1977: 595). È la ragione intesa come discussione critica che sta a
fondamento di una società democratica. «Credo – dice Popper – in
quella che si potrebbe chiamare battaglia delle idee. È questa una
scoperta dei Greci e si tratta di una delle più importanti invenzioni
mai compiute. In effetti, la possibilità di combattere con le parole,
invece che con le armi, è la base stessa della nostra civiltà, e in modo
particolare di tutte le istituzioni legali e parlamentari» (Popper, 1972:
63). Per questo, «il dominio della maggioranza, caratteristico della
democrazia, si distingue da ogni altro tipo di dominio perché,
secondo la sua più intima essenza, non soltanto presuppone, per
definizione stessa, un’opposizione – la minoranza –, ma perché
riconosce politicamente tale opposizione e la protegge nei diritti
fondamentali e con le libertà fondamentali» (Kelsen, 1982: 141-142).

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4. Platone: il “Giuda di Socrate”

         D’accordo con Arthur Zimmern, Popper sostiene che le idee di
Hegel costituiscono «l’arsenale d’armi dei movimenti autoritari»
(Popper, 1974: II, 72); aggiunge che esse costituiscono «antichi tesori
di guerra della rivolta contro la ragione» (ibid.); e che «lo storicismo
hegeliano è la filosofia del totalitarismo» (Popper, 1974: II, 92).
D’altra parte – è sempre Popper a parlare – sebbene «non si possano
avere dubbi sulla carica umanitaria del marxismo» (ivi: II, 97), il
marxismo «è stata la più pura, la più elaborata e la più pericolosa
forma di storicismo» (ibid.), cioè di determinismo storico-sociale.
Dunque: Hegel e Marx falsi profeti, nemici della società aperta.
    All’opposto di Hegel e Marx sta la figura di Socrate, il fallibilista
che dà la vita per «non distruggere tutta la città» (Crit., XI, a-b). Ma
Socrate «ebbe soltanto un successore degno di lui, il suo vecchio
amico Antistene» (Popper, 1973: I, 231). Platone, «il suo discepolo più
dotato» (ibid.), tradì Socrate. «Platone fu il Giuda di Socrate e la
Repubblica fu per lui non soltanto Il Capitale ma anche il suo Mein
Kampf» (Ryle, 1948: 169). Anche per Popper Platone è il più grande
filosofo che l’umanità abbia mai avuto. Solo che grandi uomini
possono commettere grandi errori. La lotta di Platone contro il
movimento egualitario (Popper, 1973: I, 128); la sua erronea
identificazione di «individualismo» con «egoismo» (ivi: I, 137); l’idea
che il governo deve essere affidato al «filosofo pienamente
qualificato» e il modo in cui egli intende selezionare i leader politici
(ivi: I, 171); la sua legittimazione della menzogna e del razzismo (ivi:
I, 205) ; e il suo utopismo e perfettismo (ivi: I, 207) sono tutti elementi
che rendono il programma politico di Platone «semplicemente
totalitario». Per questo, afferma Popper, «la lezione che noi [...]
dovremmo apprendere da Platone è l’opposto di quanto egli
vorrebbe insegnarci. È una lezione che non deve essere dimenticata.
Per quanto eccellente fosse la sua diagnosi sociologica, lo sviluppo
stesso di Platone dimostra che la terapia che raccomandava è
peggiore del male che tentava di combattere [...] Il nostro sogno del
cielo non può essere realizzato sulla terra» (ivi: I, 245). E ancora:
«Cominciando con la soppressione della ragione e della verità,
dobbiamo finire con la più brutale e violenta distruzione di tutto ciò
che è umano. Non c'è possibilità di ritorno a un armonioso stato di
natura. Se torniamo indietro, dobbiamo percorrere tutt’intera la
strada, dobbiamo tornare allo stato ferino [...]. Ma se vogliamo
restare umani, ebbene, allora, c’è una strada sola da percorrere: la via
che porta alla società aperta. Noi dobbiamo procedere verso l’ignoto,
l’incertezza e l’insicurezza, usando quel po’ di ragione che abbiamo
per realizzare nella migliore maniera possibile entrambi questi fini: la

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sicurezza e la libertà» (ivi: I, 246). Platone: un grande uomo che
commise un grande errore. Il suo fu un errore gigantesco – quello di
«chiudere la porta che era stata aperta e arrestare la società facendo
aleggiare su di essa l’incantesimo di una seducente filosofia, di
profondità e ricchezza impareggiabili» (ivi: I, 244).

5. La “convivenza umana” e le sue regole

   Platone ha inquinato l’intera teoria politica dell’Occidente. E l’ha
fatto ponendosi una domanda all’apparenza scontata, intuitiva: «Chi
deve comandare?». Tutta la storia delle teorie dello Stato potrebbe
venir scritta inseguendo le risposte a tale domanda. Devono coman-
dare i filosofi, rispose Platone: il re deve essere filosofo e il filosofo
deve essere re. Ma ecco altre risposte: deve comandare la casta dei
sacerdoti; no, deve comandare un principe figlio di una dea e di un
uomo ovvero un principe figlio di un dio e di una donna; deve
comandare un principe armato; devono comandare i militari; no:
deve comandare un re per grazia di Dio e volontà della nazione;
forse è meglio: un re per sola volontà della nazione; devono
comandare gli industriali, gli esperti... e così via. E poi venne il secolo
XX con le sue risposte e le sue conseguenti tragedie: deve comandare
questa razza; no, deve comandare questa classe, quella dei proletari.
Ebbene, tutte queste risposte – ed altre ancora – sono risposte
insostenibili ad una domanda irrazionale. La domanda di Platone
«Chi deve comandare?» presuppone l’esistenza – che non si dà – di
qualcuno, di qualche gruppo, di qualche razza o qualche classe che
sarebbero venuti al mondo con l’attributo della sovranità sugli altri.
La domanda è, dunque, semplicemente irrazionale perché ci manda
alla ricerca di ciò che non esiste. Razionale, invece, è – secondo
Popper – quest’altro interrogativo: «Come possiamo organizzare le
istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o
incompetenti facciano troppo danno?» (Popper, 1973: I, 156). Non chi
deve comandare?; ma come controllare chi comanda?: questo
vogliono sapere uomini fallibili i quali costruiscono, perfezionano e
difendono quelle istituzioni (le «regole della democrazia») che ci
consentono di convivere con altri uomini portatori di idee ed ideali
diversi e magari contrastanti. Le regole della democrazia sono il
primo vero «bene comune», un bene di tutti, di ogni singola persona;
sono convenienti – e per tutti. Sono le regole della convivenza.
   Dunque: «La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il
potere politico. È questa la sua caratteristica essenziale. Non ci
dovrebbe essere alcun potere politico incontrollato in una
democrazia» (Popper-Condry, 1994: 24). Conseguentemente, «al
potere economico non si deve permettere di dominare il potere

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politico; se necessario, esso deve essere combattuto dal potere
politico e ricondotto sotto il suo controllo» (Popper, 1974: II, 148).

BIBLIOGRAFIA

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POWER AND DEMOCRACY
Rivista internazionale di Politica, Filosofia e Diritto
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                                                    LORENZO ORNAGHI

               DEMOCRAZIA, POLITICA E NUOVI POTERI:
            UNA FRONTIERA COMUNE PER GLI STUDI POLITICI                                              15

ABSTRACT: Political phenomena and processes are the key subject of study in a
number of disciplines. Nowadays, however, there often seems to be a growing lack
of interest in specifying whether the definition or idea of politics typical of each of
these disciplines be identical (or at least still closely related) to that of the others. In
addition to specific methodological developments in political studies since the
1960s, such a situation results from certain transformations, both in politics itself and
in its more widespread social and cultural representations. The essay mainly focuses
on the transformations that are determining an ‘excess’ of politics. Tolerated and
often favoured by democratic regimes, this excess of politics is in fact increasing the
risks of deconsolidation of democracies. The strengthening of oligarchic powers in
domestic politics and the emergence of new powers in the areas of interference
between domestic and global politics, thus, come to indicate an important frontier
of research for all political studies

KEYWORDS: Politics, Democracy, Power, Social Representations of Politics, Political
Studies

SOMMARIO: 1. La politica come oggetto di più discipline. 2. Le discipline politiche e i
'centri di gravità' della politica odierna. 3. Democrazia e politica: da un’alleanza
incerta a un antagonismo crescente. 4. I processi vitali della popolazione e l’eccesso
di politica. 5. Brevi considerazioni finali

1. La politica come oggetto di più discipline
    Nel presentare la versione italiana dell’opera di Ludwik Fleck
Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, pubblicata per la prima volta nel
1935, Pietro Rossi agli inizi degli anni Ottanta osservava che “la
‘tendenza a persistere’ dei sistemi di credenze” è propria della
“fisiologia della conoscenza”. E di una tale tendenza la manifestazione
evidente, oltre che più consueta, gli sembrava quella per cui, non
appena una comunità di studiosi incominci a coltivare diffusamente
la persuasione che il proprio “campo del sapere” gode ormai di una
“strutturazione sistematica forte”, il sapere non solo acquisisce “un
‘potere incoraggiante’”, ma sempre più si rivela costituito
necessariamente di “connessioni di idee plausibili (radicate nel
tempo), concluse (limitate), propagandabili (conformi allo stile)”
(Rossi, 1983: 20).
    Com’è noto, la politica è al centro di numerosi e fra loro distinti
campi del sapere. Precisamente in questo senso, essa costituisce
l’‘oggetto’ particolare – di riflessione teorica o analisi empirica, ovvero


  Lorenzo Ornaghi ha insegnato Scienza politica e Storia del pensiero politico. È presidente
onorario dell'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI) dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore.
lorenzo.ornaghi@unicatt.it
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entrambe – di più discipline. Anzi, in tutt’uno con il metodo grazie al
quale viene studiata in quanto ‘oggetto’ centrale e particolare, la
politica quasi sempre rappresenta la ‘ragion d’essere’ di discipline che,
strutturandosi in modo sistematico e rivelandosi in grado di far
nascere e articolare al proprio interno ulteriori ambiti disciplinari, si
sono via via istituzionalizzate quali campi autonomi del sapere e fonti
di un auspicato incremento della conoscenza della politica. Il
Novecento        è    profondamente          debitore     di     una     tale
istituzionalizzazione, la quale contrassegna il ‘pensiero’ e scandisce lo
svolgimento della ‘cultura’ del secolo (in specie di quella elaborata e
diffusa dalle università), sin da quando, appena nato, esso ancora si
sente prosecutore del secolo che lo ha preceduto, ma già suo vittorioso
competitore riguardo alle capacità di avanzamento di tutte le scienze.
   Il novero relativamente ristretto delle principali discipline che
collocano la politica e ogni fenomeno o processo in cui prenda forma
ciò che è politico nella posizione centrale del proprio campo del sapere
può essere compilato con relativa facilità, se non ci si preoccupa
eccessivamente delle insoddisfazioni, dei dubbi più o meno
argomentati, o di alcune rigidità intellettuali (spesso determinate dallo
spirito di appartenenza accademica, oltre che dalla biografia
personale) con cui simili elencazioni vengono di solito accolte. E sono,
queste discipline: la filosofia politica e la scienza politica (Bobbio, 1999:
5-24), dentro la quale si situa, ancora per il momento, lo studio delle
relazioni internazionali, la sociologia politica, l’antropologia politica e
la psicologia politica, la storia del pensiero politico, la storia delle
relazioni internazionali, la storia delle istituzioni politiche e –
soprattutto se si pensa alla sua diffusione nelle università inglesi o
americane – la teoria politica (Ornaghi, 2009). Assai più numerosi sono
invece i campi del sapere in cui, direttamente o indirettamente, la
politica entra in gioco in modo nient’affatto occasionale. Per evocare,
senza nessun ordine prestabilito, soltanto alcune fra le principali
famiglie di discipline accademiche che dissodano tali campi
(quantunque anche quest’elenco, non molto diversamente dal primo,
risulti esposto alle osservazioni – presumibilmente meno accalorate o
interessate delle precedenti – di chi richiede cancellazioni o, viceversa,
consiglia necessarie integrazioni): la quasi totalità delle scienze sociali,
gran parte di quelle storiche, le scienze economiche (dalla tradizionale
economia politica e dalla scienza delle finanze sino alle più recenti
economia dell’ambiente ed economia della pace), una quota assai
rilevante delle scienze giuridiche.
   Con un paradosso che tale sino in fondo forse non è, la centralità
della politica quale oggetto di una pluralità di discipline richiama alla
mente l’immagine della Gesamtwissenschaft, ossia di quella ‘scienza
generale’ che la cultura accademica tedesca continuò a coltivare sino

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alla parte finale dell’Ottocento. La richiama però in forma, almeno alle
prime apparenze, rovesciata. Per la Gesamtwissenschaft, spettava al
metodo il compito o il privilegio di ‘contenere’ efficacemente la
pluralità e varietà degli oggetti identificativi di ogni disciplina,
portandone alla luce l’autentico significato per la conoscenza e
conferendo alla ‘scienza generale’ l’indispensabile carattere
dell’unitarietà. Significativamente, l’ambizione o l’illusione di poter
conservare, accrescere e irrobustire la ‘scienza generale’ viene
inizialmente incrinata, e poi con rapidità mandata in frantumi, non già
dalla moltiplicazione degli oggetti, ovvero dalla specializzazione e
autonomizzazione delle discipline, bensì da quelle nuove ricerche sul
‘metodo’ (si pensi soltanto a Max Weber), che fioriscono mentre
appassisce il Methodenstreit e si rivela ormai infragilito lo storicismo
economico. Nel caso dell’attuale ‘oggetto-politica’, invece, è la sua
unicità a far considerare ancora apparentate discipline che, per la
specificità (e talvolta per la rilevante diversità) del rispettivo metodo
di analisi, parrebbero destinate a diventare sempre più estranee l’una
rispetto a ogni altra: ovviamente salvaguardando il rispetto, formale o
sentito, delle reciproche e potenzialmente vantaggiose relazioni di
prossimità, le quali sembrano persino in grado di far risuonare ancora,
e in qualche caso non del tutto a vuoto, il reiterato e di solito
scarsamente ascoltato richiamo alla cosiddetta interdisciplinarità.
   Nasce però spontanea, a questo punto, una domanda: siamo sicuri
che l’oggetto collocato al centro delle varie discipline politiche sia il
medesimo, identico per tutte? E la domanda, pur apparentemente
bizzarra, trascina subito con sé un secondo quesito: non sarà invece
che le diverse posizioni da cui si osserva la politica (e le differenti
tecniche applicate per illuminarla e meglio comprenderla) ne stiano
privilegiando e cristallizzando l’attuale ‘multiformità’, a danno – se
realmente c’è, e davvero risulta definibile una volta per tutte – della
sua ‘unicità’?

2. Le discipline politiche e i ‘centri di gravità’ della politica odierna
   Che l’unicità dell’‘oggetto-politica’ appaia oggi poco sostanziale e
assai più formale (cioè, per essere precisi, prevalentemente
convenzionale, poiché riconosciuta o accettata per una convenzione
stipulata tacitamente e talvolta con minimo impegno), non dovrebbe
risultare una constatazione nuova o sorprendente. Le cause sono
molte; e due, fondamentali, già ce le hanno indicate Giovanni Sartori
e Gianfranco Miglio, proprio ragionando sull’‘identità' della politica.
Il primo insegnava che, stante “l’ubiquità e, per essa, la diffusione
della politica nel mondo contemporaneo”, “la parola è sulle bocche di
tutti; ma non sappiamo più pensare la cosa” (Sartori, 1987: 259, 252). Il
secondo, al fine di indagare le ‘regolarità’ manifestate nella storia da

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quei rapporti politici “che sono speciali rispetto alla totalità dei
rapporti interindividuali”, prendeva avvio dalla necessaria
distinzione fra “la politica come realtà particolare e come realtà
generale” (Miglio, 2011: 143, 137): solo in tal modo, difatti, diventa
enucleabile – “alla radice della ‘politicità’ e delle sue autonome
‘categorie’” – quel “tipo di obbligazione irrimediabilmente distinto da
quello della ‘obbligazione-contratto’”, su cui poggiano le altre
relazioni inter-umane e in particolare i rapporti giuridici (Miglio, 1972:
11).
    Del resto, è l’istituzionalizzazione stessa di ciascuna delle discipline
politiche a non farci troppo stupire del fatto che l’oggetto collocato al
loro centro possa non essere il medesimo, o che, se ancora lo è, esso
ricopra tale posizione in virtù di alcuni aspetti specifici della sua
multiformità e a scapito (o comunque con minore cura) di altri. Dagli
anni Sessanta del secolo scorso sino a oggi, in tali discipline
l’attenzione e l’interesse per l’identità della politica sono andati
scemando con progressione crescente. O sono sembrati soddisfatti una
volta per tutte da quelle originarie definizioni, la cui stipulazione ha
costituito uno dei primi e più significativi risultati della
“strutturazione sistematica forte” – per ripetere la formula impiegata
da Pietro Rossi – del proprio campo del sapere.
    Certo, la suddivisione sempre più specialistica del campo del
sapere (per limitarci a due esempi concreti: l’analisi delle politiche
pubbliche e la comunicazione politica) è apparsa non solo utile, ma
anche indispensabile e urgente. A mano a mano che avanzavano la
specializzazione e la (relativa) autonomizzazione sub-disciplinare,
non è tuttavia cresciuta la preoccupazione per la definizione
identificativa del comune ‘oggetto-politica’. La quale definizione,
quando non sia avvolta da un completo disinteresse, è ormai
prevalentemente affidata, come compito doveroso, alle pagine di
apertura dei manuali universitari (oltre che, naturalmente, ai regesti o
dizionari da cui è suggellata l’avvenuta istituzionalizzazione di una
disciplina). Ancora più evidente è il ruolo giocato in un simile
processo dalla necessità, avvertita da molte delle discipline politiche,
di poter disporre finalmente di un ‘metodo scientifico’. Acuta
soprattutto per quelle che, alla metà del secolo scorso, erano protese a
una diversa auto-fondazione scientifica e si presentavano come
scansione rivoluzionariamente innovativa rispetto alla loro
protostoria, una tale necessità ha finito con il relegare fra le quinte la
‘riflessione sull’oggetto-politica’ quale possibile, opportuno e magari
essenziale ‘oggetto’ esso stesso di riflessione (Ornaghi, 1990: 89-105).
O, in più di un caso, ha talmente stretto il legame tra la definizione
dell’‘oggetto-politica’ e il metodo specifico della disciplina, da far alla
fine considerare poco produttiva, quando non superflua, ogni

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considerazione di ciò che di questo stesso oggetto viene messo in luce
non solo da discipline attrezzate con un metodo differente, ma anche
e soprattutto dalla ricostruzione della sua stessa genealogia (Galli,
1988).
   Dopo gli anni frenetici dell’entusiasmo metodologico ed
epistemologico, che accompagnò e favorì la nascita o la nuova età della
strutturazione scientificamente sistematica di alcuni campi della
conoscenza della politica (Fisichella, 1985; Sola, 1996), sono poi arrivati
i decenni dell’assopimento. Il quale però, è opportuno ricordarlo,
dopo un po’ di tempo diventa il più eloquente segnale che lo ‘stile’ di
una disciplina – ossia la tecnica delle sue indagini e riflessioni, la
diffusione dei risultati, la formazione di coloro che sono intenzionati
a coltivarla – sta rischiosamente scivolando verso un’imbrigliante
retorica di tipo scolastico, oltrepassabile o tollerabile soltanto
mediante la ricerca di innovazioni (o ‘rotture’) analitiche e
metodologiche.
   Nemmeno la storia recente delle discipline politiche, ricostruita e
valutata guardando soprattutto agli avanzamenti o agli eventuali
rallentamenti interni a ciascuna di esse, può tuttavia bastare, da sola,
a dare conto del diminuito interesse a considerare che cosa del loro
comune ‘oggetto’ sia ancora davvero (e significativamente) identico.
Altrettanto necessario, o necessario in misura addirittura maggiore, è
infatti cercare di capire se, come e per quali principali fattori la ‘realtà’
attuale della politica sia diventata – per riallacciarci a ciò che già
registravano, dai loro pur differenti punti di osservazione, Sartori e
Miglio – sempre più pervasivamente ‘ubiqua’, sempre più
funzionante (e rappresentata, oltre che ‘immaginata’, nelle prevalenti
opinioni collettive) come se la tendenza a risultare egemonicamente
‘generale’ abbia definitivamente oscurato, o persino azzerato, ogni sua
costitutiva ‘particolarità’.
   L’ipotesi è che i ‘centri di gravità’ (per dire così) della realtà attuale
della politica si siano moltiplicati a dismisura. E che, di conseguenza,
ciascuna delle discipline politiche, anziché interessata a verificare
l’effettiva collocazione centrale dell’ubiquo e generale ‘oggetto-
politica’ e a riconoscere quanto di esso rimanga ancora in comune ai
vari campi della conoscenza della politica, sia particolarmente o
esclusivamente attratta da uno, o da un ristrettissimo numero, di
questi centri di gravità. I quali, oltretutto, sembrano oggi godere
ognuno di una propria forza. O comunque di una forza che è o sembra
esercitata in modo relativamente autonomo, senza interdipendenze
necessarie o interferenze non occasionali con altri centri di gravità.
   Nella realtà della politica, la presenza e il grado di relativa
autonomia o indipendenza di una molteplicità di centri di gravità, così
come le condizioni di una loro coesistenza più o meno tranquilla o

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viceversa antagonistica, sono fenomeni – lo documenta tutta
l’esperienza storica – da non trascurare o sottovalutare. Di regola,
infatti, essi segnalano in modo eloquente se una specifica
organizzazione del potere, da cui per gran parte dipendono l’‘ordine’
e la ‘stabilità’ di una convivenza politica, si stia lentamente
trasformando (magari così lentamente da rendere quasi inavvertibile
ogni mutamento e da illudere che gli assetti formali di potere non
siano ancora usurati dallo scorrere del tempo), o se invece già si sia
aperta un’età più o meno lunga di cambiamenti e, talvolta, di
inarrestabile deperimento. Proprio per questo motivo, la
moltiplicazione attuale dei centri di gravità della politica, mentre
ripropone in termini parzialmente differenti l’antica questione delle
correlazioni (o degli inestricabili viluppi) fra ‘potere’ e ‘sapere’, fra
‘politica’ e ‘conoscenza della politica’, chiama anche in causa
direttamente lo stato odierno della democrazia, ossia, in concreto, di
quei regimi democratici che sono derivazione diretta ed estensione
legittima della ‘democrazia dei moderni’.

3. Democrazia e politica: da un’alleanza incerta a un antagonismo
crescente
    Prima di considerare quali siano i principali effetti che la
moltiplicazione dei centri di gravità della politica sta producendo sui
cambiamenti palesi o ancora sotterranei dei regimi democratici attuali,
è utile porre attenzione a un aspetto ricorrente nelle analisi e riflessioni
sui rapporti fra ‘politica’ e ‘democrazia’. Mentre a lungo gli studiosi
hanno dibattuto non solo sul grado di equiparabilità dottrinale (o
addirittura di equivalenza ideologica) fra ‘Stato’ e ‘politica’, ma anche
sui rischi di rinchiudere dentro una visione angustamente statale
l’‘oggetto’ comune alle discipline politiche, con minore intensità o
passione ci si è interrogati sulle esplicite o implicite equiparazioni ed
equivalenze fra democrazia e politica, oltre che sui pericoli – assai più
numerosi e subdoli, in questo caso – di circoscrivere quasi per intero
la seconda nel perimetro concettuale della prima (il quasi è doveroso,
pensando soprattutto o soltanto alla realtà della politica
internazionale).
    La spiegazione di un tale fatto può apparire semplice e abbastanza
persuasiva, se la si argomenta – anche in questo caso – sulla base di
una ricostruzione esclusivamente o prevalentemente interna delle
discipline e dei loro specifici sviluppi dal secolo scorso a oggi. A
occuparsi (e preoccuparsi) dei fluttuanti e spesso ambigui rapporti fra
Stato e politica furono soprattutto i giuristi, declinando
frequentemente la questione nei più generali termini di ‘diritto’ e
‘politica’. Certamente meno esteso e intenso, nonostante alcune
riflessioni tuttora capitali (quelle di Hans Kelsen, di Gerhard Leibholz,

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