Per un'educazione speciale dell'alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo.
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G. Farci — Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo. Riflessioni relative al contesto scolastico italiano Giuseppe Farci Psicopedagogista presso il secondo circolo didattico di Quartu S.E. (CA) giusfarci@katamail.com Sommario In attesa di una riforma, ormai improcrastinabile, che ripensi i modi di inserimento degli alunni disabili nella scuola di tutti, si ritiene possibile garantire, anche nell’immediato, concrete opportunità di educazione e di integrazione nella realtà scolastica italiana agli alunni con disturbi dello spettro autistico. Questa possibilità è però condizionata dall’attivazione di pro- cedure che specializzino gli interventi. La formazione dei docenti, una valutazione costante, il coinvolgimento dei genitori e degli operatori sociosanitari e, soprat- tutto, la programmazione dell’azione educativo-didat- tica orientata verso i principi di un insegnamento strut- turato, possono assicurare un esito positivo del per- corso formativo rivolto a questi alunni. Edizioni Erickson – Trento AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 (pp. 9-22) 9
AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 Il processo di integrazione degli alunni disabili all’interno della scuola, che nel nostro Paese è iniziato con la Legge 517/77, e che successivamente è stato riaffermato con altri strumenti normativi e la Legge-quadro 104/92 per l’assistenza, l’integrazione e i diritti delle persone «handicappate», si è sviluppato in questi anni evidenziando punti di forza e di debolezza, sui quali non intendiamo addentrarci in questo lavoro. Riteniamo, tuttavia, che i punti di forza dell’esperienza italiana superino i limiti (che pure sono ben conosciuti da chi opera all’interno della scuola), considerato che il nostro modello innovativo è studiato con interesse e, in qualche caso, applicato anche in altri Paesi. Scopo del nostro lavoro è invece mostrare come, nel «qui e ora», sia possibile garantire ad alunni affetti da disturbi pervasivi dello sviluppo (DPS) reali opportunità di educazione e di integrazione. Diversi autori hanno sollevato forti perplessità sull’opportunità di inse- rimento di soggetti autistici o con disturbi pervasivi dello sviluppo all’inter- no di una classe composta da coetanei normodotati. Queste perplessità (Peeters, 1998; Micheli, 2004), per niente mosse da preconcetti ideologici, né tantomeno da preoccupazioni protettive, hanno la loro ragione d’essere. La ragione è strettamente connessa alle caratteristiche di tutti i DPS, che si contraddistinguono per una compromissione genera- lizzata della comunicazione, specie nella sfera sociale, e delle abilità sociali (Volkmar, Klin e Cohen, 2004). Tali compromissioni richiedono necessariamente tratta- Necessità menti speciali. E se l’educazione speciale è proprio il campo di trattamenti relativo alle azioni formative rivolte ai bambini portatori di speciali difficoltà di varia origine e tipologia, l’intervento scolastico rivolto ad alunni con DPS richiede ulteriori specificità ope- rative, senza le quali non si può parlare né di attivazione di processi di apprendimento, né di attivazione di processi di integrazione. Il funzionamento cognitivo (ci riferiamo allo sviluppo tipico della teoria della mente, della comunicazione, del linguaggio, del pensiero, dell’imma- ginazione, delle metarappresentazioni) è talmente particolare che esige di essere trattato in maniera speciale. Non ci troviamo, infatti, davanti a una condizione genericamente deficitaria, a ritardi che riguardano le diverse aree di sviluppo, ma davanti a situazioni dove abilità carenti o assenti si trovano accomunate ad aree integre o iperfunzionanti. Tutti abbiamo ancora viva l’immagine, frutto di una certa letteratura psicoanalitica che ha dato la denominazione alla patologia, del soggetto autistico che «rifiuta» l’interazione relazionale «isolandosi» dal contesto so- ciale. L’aver ormai stabilito che questo atteggiamento, lungi dall’essere vo- lontariamente scelto, è la naturale conseguenza delle difficoltà connesse alla patologia dello sviluppo, non ci deve far dimenticare che l’interazione sociale nel gruppo, e quindi anche nel gruppo classe, è per l’individuo autistico non solo una modalità comportamentale non naturale e, quindi, di difficile ac- cesso, ma anche fonte di disagio espresso o con manifestazioni che definiamo 10
G. Farci — Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo di comportamenti problema o con atteggiamenti di passivizzazione e di ritiro in rituali ossessivamente reiterati. Un certo tipo di inserimento degli alunni autistici e con DPS «nella scuola di tutti» (Cottini, 2002a) denunciato da Micheli (2004) è un modo riduttivo e semplicistico di intendere l’integrazione, spinto da motivazioni che si av- vicinano a convinzioni squisitamente demagogiche e che nulla hanno a che fare con reali e concreti processi di inclusione. La tentazione forte è quella di omologare la diversità, nel tentativo (illusorio e pretenzioso) di annullarla at- traverso un fare che richiede al soggetto in difficoltà un Effetti negativi adeguamento al contesto così com’è. Grazie alle consa- derivanti dai tentativi pevoli descrizioni di alcuni autori con autismo (Gran- di omologare din, 1995; Gerland, 1999), sappiamo come questo tipo di richieste, anche da un punto di vista emotivo, siano la diversità frustranti a tal punto da far sentire le persone con DPS ancora di più estranee, straniere, «aliene» in un mondo che non riescono a decodificare. Chiedere a un alunno con DPS di partecipare alle attività previste per il gruppo perché, così facendo, si crede di compiere integrazione è quindi fondamentalmente sbagliato. E occorre ribadire con forza il fatto che sia un errore grave e talvolta fatale rispetto all’esito atteso, perché fare integrazione è un’operazione impegnativa, maledettamente seria, per nulla agevole. Non sono sufficienti le buone intenzioni. Sono necessarie, invece, solide compe- tenze professionali e approcci operativi sistematicamente determinati. Gli autori che sollevano dubbi sulla possibilità concreta che tali alunni possano beneficiare di sviluppi importanti del livello quanti-qualitativo delle abilità apprese in un ambiente sociale tipico ritengono che l’alunno autistico neces- siti di un ambiente di lavoro adeguatamente strutturato, nel quale i segnali di riconoscimento e di orientamento siano facilmente individuabili e preve- dibili per una persona che funziona leggendo percettivamente la realtà cir- costante. L’inserimento forzato nella classe, pensata per lo svolgimento di un deter- minato tipo di attività didattica, per la focalizzazione dei livelli di attenzione e di partecipazione degli alunni, con i suoi rumori, con la sua classica, e un po’ rigida, disposizione dell’attrezzatura e degli oggetti, con la sua lumino- sità, con i suoi odori, con le prossimità tattili, è decisamente un ambiente nel quale gli stimoli in entrata (percettiva) sono così molteplici e diversificati da rendere disagevole l’elaborazione delle informazioni in entrata, per un sog- getto che utilizza un processamento in «mono» tipico dell’autismo. C’è, quindi, del vero nel convincimento che questa forzatura sia, oltre che inutile e inefficace in relazione agli obiettivi di integrazione e di formazione, anche pericolosamente rischiosa. Tuttavia, chi ha un po’ di esperienza di frequen- tazioni delle classi dove sono inseriti alunni con autismo non può non notare l’interesse, l’intenzionalità espressa, la volontà comunicata (anche in modi non adeguati o inusuali) per lo stare con gli altri, o stare dove stanno gli altri 11
AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 compagni, anche per svolgere attività differenziate. Del resto una cosa è avere delle difficoltà nell’interazione sociale comunemente intesa, un’altra è l’at- trazione per la relazione (Raffin, 2004), anche se non si sa bene come espli- citarla. C’è, comunque, quasi sempre da considerare l’esigenza di stare in am- bienti conosciuti, ipostimolanti, silenziosi, che sembra contrastare decisa- mente con la pretesa di inserimento in classe «tout court» del bambino con disabilità dello spettro autistico. In definitiva, la domanda che soprattutto gli esperti stranieri si pongono è se sia opportuno inserire il soggetto autistico in una condizione sociale e ambientale nella quale le sue difficoltà di comu- nicazione e di interazione sociale potrebbero solo acuirsi. In questo senso, un’applicazione scriteriata e ideologica della normativa italiana in merito alle modalità di integrazione dei soggetti disabili può produrre più danni (e che danni!) che benefici. Pensare che stare in classe equivalga automaticamente a realizzare l’integrazione è una falsità epistemo- logica e, talvolta, rappresenta un comodo alibi che nasconde determinate approssimazioni progettuali e operative. Troppo spesso si tenta di misurare il livello di integrazione facendo riferimento alla quantità di tempo che l’alunno disabile trascorre in classe. Forse, prima di fare integrazione con operazioni di pura facciata, gli operatori della scuola dovrebbero misurare la reale qualità dei processi realmente inclusivi posti in essere. Tuttavia, l’espe- rienza italiana possiede degli indiscutibili punti di forza che possono miglio- rare il grado di integrazione e di formazione dell’alunno con autismo o con DPS, a condizione che si adottino dei procedimenti specifici di tipo sia operativo che strutturale. Procedure operative che facilitano l’implementazio- ne dei processi di educazione e di integrazione La domanda a cui occorre rispondere è se sia concretamente possibile fare educazione e integrazione per questi bambini davvero speciali, nella realtà scolastica italiana, e se sia possibile, in attesa di una riforma, di un radicale ripensamento delle procedure finalizzate a realizzare l’integrazione e l’inclu- sione dei soggetti disabili, divenuta ormai esigenza improcrastinabile, acco- gliere e offrire un servizio di «formazione pervasiva» agli alunni con DPS. La nostra convinzione è che, malgrado i limiti insiti nella nostra esperien- za (ma esistono esperienze di efficacia non discutibile?), ciò sia possibile, se si programmano prima e si attuano poi alcune procedure operative, che non richiedono di snaturare repertori professionali consolidati nel tempo e nep- pure di rivoltare radicalmente l’impianto organizzativo. Di seguito sono elencati alcuni indispensabili accorgimenti procedurali attuabili nell’immediato all’interno della realtà scolastica italiana, accorgi- menti che possano (e possono) garantire un’integrazione di qualità degli alunni con DPS. 12
G. Farci — Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo Docenti che operano con alunni con DPS Ciò che appare scontato (ma poi tanto scontato non è) è la competenza specifica dei docenti che operano con alunni con DPS. È inammissibile che i docenti che hanno in classe un alunno con DPS abbiano una formazione approssimativa su tale disabilità. I docenti vanno quindi opportunamente formati, prima dell’ingresso in classe dell’alunno, su alcune tematiche che nell’essenziale facciano riferi- mento: – alla classificazione dei DPS secondo i manuali diagnostici (APA, 1996; OMS, 1992); – alle cause dell’autismo (epidemiologia e presentazione delle ipotesi eziologiche genetiche e neurobiologiche più recenti); – alle caratteristiche cognitive, comportamentali, sociali, comunicative di un bambino con DPS; – alle spiegazioni del funzionamento cognitivo nell’autismo (deficit della teoria della mente, della coerenza centrale, delle funzioni esecutive); – ai principali programmi di intervento (TEACCH, comportamentale, teoria della mente, comunicazione aumentativa-alternativa); – all’integrazione scolastica del bambino autistico attraverso l’insegna- mento strutturato. I docenti vanno accompagnati nell’applicazione delle modalità di inter- vento che si sono rivelate più efficaci nel trattamento di questi particolari alunni, tenendo nel debito conto le scelte metodologiche operate dal singolo insegnante, senza imposizioni dall’alto di modi non conosciuti e conseguen- temente non apprezzati e inefficaci. La socializzazione delle modalità espe- rite da altri, compreso l’uso di materiali e di adattamento dei curricoli, oltre naturalmente alla formazione specifica, può consentire la maturazione di scelte maggiormente consapevoli, quindi più produttive. Valutazione continua Per un insegnante l’importanza di valutare i processi di apprendimento è cosa nota e acquisita. Tuttavia è innegabile che le routine, l’esperienza, l’abitudine alla classe e alle sue dinamiche favoriscano un orientamento valutativo che, più che soggettivo, potrebbe essere definito improvvisato e decisamente lontano dai più elementari principi docimologici. Per essere ancora più chiari: ci si fida troppo (o soltanto) del proprio intuito, del proprio «occhio clinico». Questo atteggiamento è, almeno in parte, giusti- ficabile, tanto da poter essere considerato una risorsa preziosa del bagaglio esperienziale di un insegnante, ma appare insensato e azzardato affidarsi al proprio «naso» per determinare le scelte e le tappe di un’educazione speciale, oltretutto per un alunno, come quello autistico, che presenta un numero molto accentuato di variabili individuali da considerare. 13
AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 È per questa ragione che, nel fare educazione speciale a scuola, si deve fare ricorso a una valutazione puntuale e continua. E gli strumenti non mancano. Ci sono test che valutano il livello cognitivo (Wisc-R, Leiter), la cui sommi- nistrazione è propria di altre figure professionali (psicologi, neuropsichiatri), alle quali occorre fare riferimento. In questo senso è opportuno e fortemente raccomandabile confrontarsi con lo specialista per stabilire le abilità acqui- site e i limiti presunti. Non dimentichiamo, infatti, che il fine della valuta- zione non è solo quello di misurare nel dettaglio il livello di sviluppo delle competenze, ma anche quello di orientare il percorso formativo (o educati- vo-didattico), dotandoci di una bussola che ci confermi o ci allerti sul nostro modo di procedere. Lo strumento elettivo in questo senso ci pare debba essere il PEP-R (Scho- pler et al., 1995), in quanto è uno strumento di valutazione costruito, a differenza di altri, solo per il soggetto autistico, che indaga su piani di com- promissione tipici (ad esempio, percezione e imitazione), e che, soprattutto, cerca di individuare le «abilità emergenti», le abilità che necessitano e «aspet- tano» di essere sviluppate. Dal momento che il «che fare», il come costruire e ordinare le tappe (unità di apprendimento, se si dà per scontato l’uso di una programmazione per obiettivi), è la preoccupazione prima dell’insegnante, ecco che si ha a disposizione uno strumento (se non lo si possiede, si chieda allo specialista: è decisamente preferibile discutere di abilità che di quoziente intellettivo!) che permette di disporre di una corsia preferenziale nel processo abilitativo, anche in ambito scolastico. Anche la Scala di Sviluppo LAP (San- ford e Zelman, 1984) si presta bene a individuare e costruire percorsi prati- cabili nella realtà italiana. La gerarchia degli obiettivi dovrebbe procedere secondo il principio del- l’assicurazione del massimo grado di autonomia, senza perdere di vista tutti gli apprendimenti più squisitamente scolastici relativi alle strumentalità della letto-scrittura e del calcolo. In questo senso si possono sfruttare alcuni punti di forza, presenti in molti di questi alunni, come la facilità e l’interesse per i grafemi, l’iperlessia, il gradimento verso attività (ripetitive) di copiatura. Sul programma di lavoro, come si spiegherà più avanti, è di fondamentale im- portanza raccordarsi con la famiglia e con i terapisti. Accoglienza del bambino (e dei genitori) Se ricevere un alunno disabile in classe è un’operazione che richiede accortezza e disponibilità professionale, accogliere un alunno con DPS ri- chiede l’attivazione di una procedura che vada aldilà del mero inserimento in classe. L’accoglienza di un alunno con DPS è un momento delicato e critico rispetto all’intero processo di integrazione e di educazione, e non solo perché è il primo in termini di tempo. L’accoglienza del genitore precede il ricevi- mento del bambino. Ricordiamoci che il genitore di un bambino disabile è 14
G. Farci — Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo spesso una persona provata che necessita di un approccio capace di ascoltare vissuti di fatica e di ansia, di dare contenimento realistico alle aspettative, di fornire supporto verso una visione progettuale sul futuro del proprio figlio. La raccolta di informazioni sulla storia del bambino, pur importantissima e fondamentale nella pianificazione degli interventi, viene dopo, rimane in secondo piano nella fase dell’accoglienza. Laddove le condizioni lo permettano, si può pensare a una fase nella quale si predisponga un ingresso anticipato, ad esempio nell’ultimo periodo del- l’anno scolastico precedente la frequenza, per permettere al bambino di orientarsi in un ambiente nuovo e per lui totalmente sconosciuto. Recarsi a maggio e giugno del precedente anno scolastico per almeno una volta alla settimana nella nuova scuola consente al bambino autistico di cogliere gli «odori» e sentire i «rumori», di valutare l’ampiezza degli spazi, di familiariz- zare con la luminosità degli ambienti, di individuare «segnali» di riconosci- mento e di orientamento, di sincronizzare il proprio apparato percettivo alle novità dell’ambiente non conosciuto. Questo tipo di rodaggio, se da una parte richiede al bambino la fatica di trovare modi di adattamento alla realtà (per una volta è proprio necessario richiederglielo), dall’altra sintonizza l’ap- parato emotivo e cognitivo del bambino alle caratteristiche ambientali della scuola, prevenendo manifestazioni di disagio e di fastidiosi (per il bambino) comportamenti problema. È preferibile predisporre questa prova di frequenza a scuola con la presen- za dell’insegnante di sostegno conosciuta (ad esempio, nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla primaria, l’insegnante della scuola dell’infanzia), che guida questi primi momenti verso la conoscenza degli insegnanti e dell’in- segnante di sostegno che lo seguirà nella nuova esperienza scolastica, che gli presenta un’attività conosciuta e gradita, in una classe scelta sulla base della prossimità d’età. Al bambino viene così permesso di sperimentarsi in azione in un contesto nuovo, ma secondo modi e volti, almeno in parte, conosciuti. Rapporti con i genitori Qualsiasi progetto di intervento deve prevedere come interlocutori prin- cipali e privilegiati i genitori. Questa scelta non risponde solo a ragioni di opportunità. L’esperienza ci ha confermato che il genitore è davvero l’«esperto» più qualificato del proprio figlio, il migliore conoscitore dei suoi bisogni, l’interprete più fine delle espressioni comportamentali, l’orientatore delle scelte opportune in ambito di programmazione delle attività. Nessun programma di lavoro potrà essere svolto, quindi, sopra la testa dei genitori, i quali devono non solo essere informati sui contenuti e sulle attività scelte, ma anche operativamente coinvolti nel processo formativo. 15
AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 Raccordo con i servizi di terapia e riabilitazione È uno degli aspetti che maggiormente debbono essere curati dalla scuola. Spesso, purtroppo, è assente una figura di sistema che si occupi di governare le collaborazioni. Per questo è opportuno che i collegi dei docenti si dotino di figure come l’operatore psicopedagogico (l’organico funzionale permette alla scuola autonoma di destinare risorse professionali in questo senso) o come il docente «funzione strumentale» che si faccia carico della cura di queste azioni fondamentali per la riuscita di un’integrazione di qualità. Incontri periodici, che prevedano sempre la presenza dei genitori, con- sentono di raccordare gli interventi relativi ai diversi contesti di vita del bambino: casa, scuola, terapia, riabilitazione, attività sportiva, ecc., al fine di discutere gli obiettivi educativi, i contenuti, le modalità di presentazione e di verifica utilizzate, per indirizzare i diversi interventi verso mete comuni e per condividere una filosofia progettuale di fondo. Chi ha realizzato con regolarità incontri di questo genere ha potuto con- statare una progressione più rapida e significativa delle abilità comunicative, intersoggettive, sociali e comportamentali sviluppate dal bambino. Inoltre, la condivisione del progetto complessivo da parte dei soggetti coinvolti a diversi livelli diventa motivo non solo di monitoraggio, ma anche di suppor- to reciproco e di ulteriore motivazione nei confronti di un’impresa di cui nessuno deve dimenticare le difficoltà. L’insegnamento strutturato nella realtà scolastica italiana Negli ultimi decenni diversi autori e clinici (Lovaas, 1990; Schopler, Reichler e Lansing, 1991; Peeters, 1998; Schopler e Mesibov, 1998) hanno affermato e dimostrato la necessità di operare con i soggetti autistici strut- turando l’ambiente e le attività, cioè ordinando in maniera routinaria i tem- pi, i luoghi e, soprattutto, i modi di fare formazione e abilitazione. Tale convinzione nasce dalla constatazione, dimostratasi valida in un numero rilevante di studi, dell’efficacia dell’adattamento degli elementi di contesto, e anche l’insegnamento vi rientra appieno, alle peculiarità cognitive e di «visione del mondo» del soggetto con DPS. L’interpretazione della realtà e il rapporto con essa risente, come si può evincere dalle consapevoli e, per noi, chiarificatrici descrizioni degli autori che soffrono del disturbo, della pesan- tezza dei sintomi. Per troppo tempo si è chiesto (e purtroppo ancora si chiede) agli individui con disabilità mentale lo sforzo di adattarsi alle esigen- ze della «nostra» realtà, in un’operazione allo stesso tempo direttiva e sem- plicistica, imponendo uno snaturamento degli elementi costitutivi dell’iden- tità personale, con costi accentuati, inutili e, talvolta, insopportabili che rinforzano, anziché attenuarli, atteggiamenti di allontanamento dalla realtà. 16
G. Farci — Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo Un approccio ecologico (Loddo, 2002), al contrario, non solo è garanzia di rispetto degli elementi distintivi Attuazione di un della personalità del soggetto disabile, ma soprattutto approccio ecologico consente di inserire consequenzialmente i processi di generalizzazione, vero scoglio per tutti gli operatori che lavorano con questi soggetti. È fondamentale programmare un’azione definita in tutti i suoi aspetti: didattici, cognitivi, sociali, ludici, intersoggettivi, ambientali e relazionali. Insegnamento strutturato è innanzitutto sistematicità e strategicità dell’im- pianto programmatorio. Questa precisazione è utile per non rischiare di spacciare per approccio ecologico, che mira a presentare il processo di abi- litazione entro ambiti naturali per il bambino, modalità connotate da sterile attendismo. Una programmazione per obiettivi si adatta meglio a un approccio stra- tegico dell’intervento scolastico, che riguarda sia l’insegnante di sostegno che gli insegnanti curricolari. Come abbiamo già detto, crediamo possibile rispondere puntualmente ai bisogni di un alunno autistico o con DPS senza pensare di dover stravolgere né l’identità, né la «mission» della scuola, e neppure modi conosciuti e consueti di fare scuola. A nostro parere è sufficiente adottare alcune proce- dure metodologiche e strutturali per raggiungere obiettivi di efficienza della proposta educativa. Dopo aver parlato del preingresso, che è già una modalità che richiede un minimo di adattamento di prassi organizzativa, ecco in sintesi la descrizione di alcuni sistemi praticabili al fine di strutturare l’insegnamento: 1. Uso sistematico di supporti visivi. Favoriamo a tutti i livelli degli «orien- tatori» visivi attraverso l’uso di foto, immagini, icone, simboli stiliz- zati, che facilitino il livello della comunicazione sia ricettiva che espres- siva del bambino. Per questo facciamo uso di agende visive (vedi la descrizione di Peeters, 1998) delle attività previste nella giornata/ mattinata scolastica, di agende visive di task analysis di compiti parti- colari (ad esempio, affiggere nel bagno usato dal bambino un cartel- lone con la sequenza dei comportamenti necessari al suo uso), di sequenze visive di attività di pianificazione, di etichette visive di am- bienti e oggetti, di PECS (sistema di comunicazione attraverso lo scambio di immagini), se il bambino ne fa uso. 2. Gruppo scuola. Lo sviluppo di abilità sociali congrue alle richieste ambientali, e non solo scolastiche, deve essere una delle finalità prio- ritarie di un progetto formativo rivolto a bambini autistici o con DPS. Per questo è necessario prevedere sempre attività ludiche e didattiche in piccolo gruppo che, gradualmente e progressivamente, espongano il bambino a prestazioni sostenibili e significanti. Per agevolare il bambino al riconoscimento delle regole (non scritte) di comportamento richieste dalla scuola primaria, nell’ultimo anno della scuola dell’infanzia si può predisporre l’attività del «gruppo scuola» 17
AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 (Doneddu, Cabras e Fadda, 2002). Il gruppo scuola è un’attività di simulazione del contesto classe (nell’esperienza citata la frequenza alla simulazione è settimanale, per non più di un’ora). A un piccolo gruppo di bambini (non più di quattro/cinque), viene chiesto di partecipare a un’attività tipo, nella quale è necessario svolgere in modo ordinato alcune prestazioni prettamente scolastiche: stare seduti, prestare attenzione alla maestra (che sta in piedi davanti alla lavagna), rispondere all’appello, prendere l’occorrente per scrivere, svolgere un semplice compito secondo la consegna della maestra, mostrare il compito terminato alla maestra e ai compagni. I suddetti comporta- menti sociali sono guidati da un facilitatore, che può essere l’inse- gnante di sostegno. Questa attività è un esempio pratico di come si possa aiutare l’alunno con DPS a collocarsi socialmente all’interno di una classe, dandogli la possibilità di acquisire dimestichezza con ri- chieste ambientali per lui assolutamente prive o carenti di significato. Perché queste richieste acquisiscano significato è necessario insegnare le abilità sociali e comunicative concernenti le richieste di una classe, generalmente assenti nel repertorio comportamentale di un indivi- duo con DPS (Xaiz, 2004). 3. Adattamento degli ambienti. Studiamo l’adattamento degli spazi dove si svolgeranno le attività, a cominciare dall’aula nella quale è ospitata la classe. Adattare l’aula significa tener conto delle particolari esigenze del bambino, del suo personalissimo modo di rapportarsi a cose e persone. Rendiamo lo spazio fisico facilmente riconoscibile e prevedibile, conno- tandolo con segnali ipostimolanti (quanti armadi e cattedre sono colmi di oggetti posati alla rinfusa!), eliminando i pos- Modalità sibili distrattori ed evitando inutili e fastidiose modificazioni di adattamento (anche lo spazio fisico ha bisogno di ordine che crei routine). Ciò vale anche per il materiale utilizzato e, ovviamente, per le degli ambienti persone che compongono il gruppo di lavoro. La stabilità del gruppo di lavoro è sicuramente uno dei punti più deboli della proposta formativa italiana. Tuttavia, occorre che si usino tutti gli strumenti normativi (che esistono) per avvicinarsi il più possi- bile a questa irrinunciabile esigenza operativa. 4. Gerarchizzazione degli obiettivi. In una programmazione per obiettivi cerchiamo di elaborare un’attenta gerarchia degli obiettivi didattici e educativi relativi a quel determinato bambino (Canevaro, 2000), dando priorità a quelli che migliorano i livelli di autonomia personale. Inter- soggettività e abilità comunicative, ma anche abilità sociali, sono gli ambiti entro cui occorre muoversi prioritariamente. 5. Gestione dei comportamenti problema. Già il semplice adattamento dell’ambiente ha dimostrato di favorire una ridotta emissione di com- portamenti problema (stereotipie, autolesionismo, eteroaggressività, ecc.). Quando è necessario effettuiamo, anche con l’ausilio di opera- tori esterni come gli assistenti educativi, l’analisi funzionale del com- 18
G. Farci — Per un’educazione speciale dell’alunno con disturbi pervasivi dello sviluppo portamento (Meazzini e Fedeli, 2004), misuran- do la frequenza e l’intensità e, soprattutto, indi- Realizzazione viduando lo scopo del comportamento, per con- dell’analisi funzionale trollare e modificare gli antecedenti e le conse- guenze o per sostituire il comportamento inade- del comportamento guato con un altro maggiormente adattivo (Lar- son e Maag, 1999). Ci rendiamo conto che, per eseguire interventi di questo tipo, sono necessarie, oltre a una specifica formazione dei docenti, anche l’apporto di professionalità congrue all’intervento sia interne (operatore psicopedagogico) che esterne (psi- cologo, pedagogista) alla scuola. Risultano deleteri e sconfortanti l’ac- cettazione e la tolleranza del comportamento problema «perché è così…» e «fa parte della malattia». Atteggiamenti di questo genere non consentono né letture adeguate di questi comportamenti — pensia- mo, ad esempio, ai comportamenti problema come veicolo comuni- cativo (Carr, 1998) —, né una loro attenuazione o modificazione (Scattone et al., 2003), assolutamente possibile, anche per comporta- menti problema particolarmente gravi (Foxx, 1993; Ianes e Cramerot- ti, 2002). 6. Classe come risorsa. Nella ricognizione delle risorse a disposizione nel- l’ambito scolastico si tende a non considerare per niente, oppure in maniera marginale, il capitale preziosissimo rappresentato dai compa- gni di classe. I compagni sono visti come coloro che devono essere invitati a tollerare passivamente la presenza di un coetaneo «diverso» e, sotto alcuni punti di vista, estraneo alla realtà della classe. Riteniamo invece che sia non solo possibile, ma anche fortemente auspicabile un coinvolgimento attivo dei compagni nella realizzazione di parti fon- damentali del programma di lavoro, specie per ciò che concerne l’abi- litazione alla comunicazione relazionale. I compagni sono una risorsa sia di sollecitazione naturale alle richieste di un contesto sociale strut- turato come la classe, sia di sperimentazione «in vivo» delle abilità apprese negli interventi intensivi e individualizzati extrascolastici. Niente può favorire il difficile e faticoso processo di generalizzazione come il gruppo dei coetanei, specie se questi coetanei sono bambini. Sfruttiamo le naturali simpatie espresse (spesso in modo non consue- to, ma comunque espresse) dai bambini autistici per individuare com- pagni che possano sostenerlo sia a fronteggiare situazioni per lui dif- ficili (ad esempio, stare nel gruppo, spostarsi negli ambienti scolastici, partecipare a determinate attività e manifestazioni) sia nello svolgi- mento dei compiti, anche di quelli «speciali» (ad esempio, giochi sim- bolici, giochi di turno, giochi di ruolo) (Xaiz e Micheli, 2001). Inoltre, coinvolgiamo i compagni di classe nel processo di integrazione predi- sponendo programmi di abilitazione sociale (Lord, 1998), di sensibi- lizzazione e di sostegno alle difficoltà del compagno disabile. Non dimentichiamo, infine, il potere del modeling spontaneo che avviene 19
AUTISMO e disturbi dello sviluppo Vol. 3, n. 1, gennaio 2005 in classe. Chi ha esperienza della classe sa che anche l’alunno con autismo «passivo» è influenzato (anche in negativo purtroppo) dalle dinamiche che si instaurano in essa. 7. Materiale didattico. Pur essendo creativi e professionalmente attivi, gli insegnanti spesso sono alla spasmodica ricerca di materiale educativo e didattico che concretizzi la loro azione. A nostro parere esistono in lingua italiana strumenti e percorsi sufficientemente pertinenti alle esigenze di alunni dello spettro autistico (vedi bibliografia). Racco- mandiamo, tuttavia, un uso accorto e ponderato di questi strumenti, sia perché vanno modulati al bambino col quale si opera, sia, e soprat- tutto, perché non possono mai sostituire la mediazione relazionale e educativa del docente. 8. Coordinamento. Riteniamo che il grado di efficacia degli interventi messi in campo aumenti se si individuano ruoli differenziati e definiti tra gli operatori coinvolti, non tanto per determinare gerarchie, quan- to per ottimizzare la funzionalità dei diversi apporti. In particolare ci sembra importante stabilire chi si deve occupare di coordinare i diversi livelli di intervento in ambito scolastico quali la progettazione, l’acco- glienza, la consulenza ai docenti e ai genitori, il raccordo con le altre agenzie; e, se nella scuola non è presente un operatore psicopedagogi- co, è bene che del coordinamento si occupi direttamente l’insegnante di sostegno. In conclusione, si auspica che l’intervento speciale diventi prassi normale nella realtà scolastica italiana, abbandonando approcci generalisti o sponta- neistici, dei quali è impossibile valutare l’efficacia, e scegliendo, al contrario, una metodologia rigorosa. Aspettando una riforma, urgente e ineluttabile se non si vogliono vani- ficare o banalizzare decenni di esperienze in ogni caso valide, è doveroso lavorare con gli strumenti didattici, strutturali, professionali e organizzativi già disponibili, con l’obiettivo di assicurare livelli di crescita personale del bambino con DPS rispondenti alle sue peculiari necessità. Ma questo è possibile solo se si opera prima riconoscendo queste peculiari necessità e poi orientando l’azione educativa verso peculiari risposte operative. Bibliografia AA.VV. (1997), Autismo. Le nuove frontiere della riabilitazione, Roma, Phoenix. AA.VV. (1998), L’autistico a scuola, Reggio Calabria, Laruffa. American Psychiatric Association/APA (1996), DSM-IV/Manuale diagnostico e sta- tistico dei disturbi mentali, Milano, Masson. Baldi P. (1999), Educare al ragionamento, Trento, Erickson. Baron-Cohen S. e Bolton P. (1998), Autismo. La conoscenza del problema, Roma, Phoenix. 20
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