OVERTURN STORIES: How Europe can create good practices of migrants' inclusion - FOCUS AFRICA: NIGERIA, ERITREA E TUNISIA-COMPLESSITÀ GEOPOLITICA ...

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OVERTURN STORIES: How Europe can create good practices of migrants' inclusion - FOCUS AFRICA: NIGERIA, ERITREA E TUNISIA-COMPLESSITÀ GEOPOLITICA ...
OVERTURN STORIES:
How Europe can create good practices of
        migrants’ inclusion

                 Seminar on Africa

  FOCUS AFRICA: NIGERIA, ERITREA E TUNISIA-
COMPLESSITÀ GEOPOLITICA, PROCESSI POLITICI E
          MUTAMENTI CULTURALI

     Ortygia Business School, February 16th 2019
OVERTURN STORIES: How Europe can create good practices of migrants' inclusion - FOCUS AFRICA: NIGERIA, ERITREA E TUNISIA-COMPLESSITÀ GEOPOLITICA ...
Contents

ABSTRACT ................................................................................ 1

Processi Politici e Mutamenti Culturali in Tunisia:
Complessità ................................................................................ 2
Adel Chehida
Presidente Associazione Tunisini in Italia

Perché i Nigeriani emigrano? ................................................... 3
Richard Prince
Mediatore Culturale

Il dramma dimenticato in Eritrea .............................................. 4
Emilio Drudi
Giornalista fondatore del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos del
Mediterraneo

Conclusioni ................................................................................. 8
OVERTURN STORIES: How Europe can create good practices of migrants' inclusion - FOCUS AFRICA: NIGERIA, ERITREA E TUNISIA-COMPLESSITÀ GEOPOLITICA ...
Focus Africa: Nigeria, Eritrea e Tunisia- Complessità
        geopolitica, processi politici e mutamenti culturali

                                             ABSTRACT
The seminar offered an overview of the situation in three different African countries: Tunisia, Niger, and
Eritrea. The analysis shows a “critical” situation in all countries, even if the highlighted aspects are
different.
Tunisia is facing a particular geopolitical situation, with difficulties in re-starting the economic life of the
nation. This has generated a sense of discontent and disillusionment in the young generation, one of the
leading actor of the previous revolution. These aspects are linked with the lack of meritocracy as a driver
of development and social growth.
On the other side, the causes that lead so many people to leave from Niger must be connected with the
social, cultural and economic conditions. The country presents contradictions: it is poor and it shows
strong economic growth because of the presence of oil fields. However, despite this dynamic, the
population does not have enough working know-how and skills to use this wealth. In addition, the main
issue is represented by human trafficking, especially women trafficking, that develops on the same
channel of migration. Criminal organizations focus their strategy on the animist roots (voodoo or ju-ju
rites) as an instrument of “spiritual” control to terrorize the victims.
Understanding the history and the actual situation of Eritrea is the first step to have an overview of the
phenomenon of migration from this country. Media presents Eritrea as a country in evolution, open to
reach a rapid path towards democracy. However, the continuous arrests and the escape of thousands of
refugees show how Eritrea was and remains a “prison-state”.
European politicians should maintain a relationship with these countries and try to create investments,
ensuring protection, stability and fundamental rights, also in the host nations.
Also, the media and information, in general, should spread a positive culture about the phenomenon of
migration, without any political optic.

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Processi Politici e Mutamenti Culturali in Tunisia: Complessità
Adel Chehida, Presidente della Associazione Tunisini in Italia

 Dr Adel Chehida nasce a Hammamet in Tunisia nel 1967, si Laurea in
 Medicina e Chirurgia e si specializza in Anestesia Rianimazione. Ha esercitato
 a Parigi, in Francia e a Ginevra, in Svizzera. Dal 2000 vive in Italia.
 Attualmente è il Coordinatore degli Anestesisti della casa di cura
 convenzionata Villa dei Pini a Civitanova Marche. Il Dr Chehida è impegnato
 nel mondo associativo e del volontariato ed è Presidente della Associazione
 Tunisini in Italia.
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una particolare situazione geopolitica: da un lato è caratterizzata da un processo di democratizzazione
avviato dopo la caduta del regime di Ben Ali nel 2011; dall’altro lato, sta affrontando oggettive difficoltà
nel modernizzare e far ripartire la vita economica della nazione. Questa situazione ha generato nel corso
del tempo, per più di sette anni, un senso di disillusione e malcontento in una parte dei cittadini, causando
varie forme di rivolta in quanto non hanno trovato risposta alle richieste della rivoluzione, sintetizzate
nello slogan del 2011 “lavoro, libertà, dignità”. Le manifestazioni di dissidenti sono molto frequenti. Al
riguardo si rende evidente il senso di disillusione che la società tunisina sta vivendo nei confronti del
processo di transizione politica. In particolare, il senso di sconforto dei giovani acuisce la distanza tra i
cittadini e il mondo della politica. Ciò che i giovani richiedono si basa sul concetto di meritocrazia perché
rilevano uno stallo dell’ascensore sociale, in quanto la classe politica è rimasta arroccata nel suo elitarismo
e clientelismo con il conseguente blocco del talento e scatto sociale.
Le difficoltà che, i diversi governi susseguitisi dal 2011 in poi, hanno dovuto affrontare derivano dalla
mancanza di un esecutivo con condivise visioni e una maggioranza che consenta di governare, limitando
così l’azione operativa. All’interno dell’apparato burocratico ci sono diverse pressioni reazionarie
contrarie a drastiche riforme (specialmente nei settori economico e sociale), limitando il processo di
modernizzazione e democratizzazione. Le due maggiori forze politiche, il partito di ispirazione islamica
Nahdha e il blocco secolare Nida, sono i due partiti più influenti sulla scena politica, ma in assenza di una
maggioranza assoluta si sono trovati, nel 2014, nella condizione di dover governare in coalizione. Alcuni
problemi strutturali quali il livello di disoccupazione, l’alto debito pubblico, divergenze in termini di
sviluppo e accesso ai servizi base, l’inflazione con la conseguente perdita di ricchezza e della capacità di
acquisto, rappresentano un peso importante per il recupero socio-economico della nazione. I deboli
equilibri politici hanno determinato che dalle ultime elezioni del 2014 (Nida si è spaccato e l’ARP
Assemblea rappresentante del Popolo si è trovata sotto il dominio di Nahdha) ad oggi, si sono susseguite
crisi istituzionali con rimpasti di governo, minando la possibilità di pianificazioni a lungo termine.
Il peggioramento delle condizioni economiche e la mancanza di positive visioni per il futuro economico,
sta portando migliaia di tunisini a voler emigrare verso l’Europa. La ripresa di questi flussi migratori verso
l’Italia e il fenomeno dell’immigrazione illegale deve essere oggetto di discussione nelle agende dei
governi europei, mirando a trovare una soluzione di lungo termine. Al riguardo, i politici europei pongono
l’attenzione sulle riforme del sistema pensionistico, sanità, scuola e amministrazione, al fine di
incoraggiare il processo (economico e politico) di transizione del Paese.
La Tunisia che ha saputo far fronte al suo destino nei momenti più difficili, è stata premiata con il premio
Nobel per la pace nel 2015. La Tunisia è ricca di giovani e capacità, loro rappresentano il presente e
sapranno guidare la Tunisia verso un futuro migliore.
Sul fronte internazionale, il paese dovrà continuare a mantenere saldi i rapporti con i vicini e dovrà riuscire
ad attrarre investimenti e attenzioni politiche da parte dei partner europei in primis, il cui sostegno è di

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fondamentale importanza per la continuazione del processo di democratizzazione. Al tal fine si dovrà
aprire un canale specifico per rafforzare i rapporti bilaterali con la Tunisia.
Un aumento della quota dei flussi regolari aiuterebbe tanto la Tunisia quanto l’Europa. Ugualmente si
dovrà accordare una maggior attenzione alla stabilità dei Tunisini residenti all’estero, che danno grande
aiuto economico al paese di origine e, nello stesso tempo, contribuiscono a prevenire la possibile
deviazione delle seconde generazioni, alla ricerca di una identità stabile, redendoli attori pure loro del
futuro del paese dove sono nati.

Perché i Nigeriani emigrano?
Richard Prince, Mediatore Culturale

Richard Prince: Mediatore culturale dal 2005, ha lavorato presso CARA,
CPA, SPRAR ordinari e minori non accompagnati. Attualmente lavora
come interprete per ITC e CIES presso la Commissione Territoriale di
Siracusa, Catania e Palermo. La sua ultima esperienza lavorativa con
Intersos e Unicef è stata in un progetto rivolto ai MSNA. Socio ARCI e
volontario in diverse realtà.

La Nigeria presenta profonde problematiche da cui molte donne e uomini cercano di fuggire. Tuttavia,
non è solo terra di emigrazione, ma è un paese di grande interesse per la configurazione presente e futura
del mondo globalizzato. Perché i nigeriani emigrano? Quali sono le condizioni sociali, culturali ed
economiche che portano così tante persone a lasciare un paese pure così dinamico?
Un primo problema di cruciale importanza è rappresentato dalla tratta e dal traffico di essere umani che
si sviluppano sui medesimi canali della migrazione. In particolare, il fenomeno è costituito da ragazze
giovani, a volte minorenni, che per ragioni economiche sono alla ricerca di un futuro migliore e cercano
di raggiungere l’Europa. Tuttavia, il viaggio e l’organizzazione si svolgono però in maniera diversa dalle
aspettative: a volte le donne seguono l’itinerario “classico” che le porta in Europa passando per il
Mediterraneo, ma molto più spesso il viaggio viene organizzato da reti specializzate via aereo. Lo
sfruttamento sessuale avviene “sotto il controllo di falsi mariti/fidanzati” o di veri e propri sfruttatori e
sfruttatrici come i “boss”, le “mommi” o “madam” o “ogah” o “ anti”.
Le ragazze vivono storie molto simili, desiderose di raggiungere l’Europa con la speranza di una vita
migliore, fanno affidamento a dei passeur, con la promessa di un lavoro come colf o come cameriere.
Scopriranno che la realtà è ben diversa: contraggono un debito dai 30 agli 80 mila euro (se vanno in
aereo) – che dovrebbero teoricamente pagare con una parte dei soldi guadagnati con il lavoro promesso
– e una volta portate in Italia sono costrette a prostituirsi. Se si rifiutano mettono in pericolo la famiglia
rimasta in Nigeria, che rischia di subire minacce da parte dei membri della mafia nigeriana, attiva nella
tratta di esseri umani. Un aspetto sottovalutato di queste organizzazioni criminali nigeriane riguarda la
matrice religiosa, animista, attraverso la quale agiscono. Per reclutare e incidere sull’operato delle vittime,
puntano sull’aspetto magico-esoterico (riti voodoo o ju-ju), che viene usato come strumento di controllo
e di legame “spirituale” per terrorizzare le vittime. I riti, praticati con capelli o sacrifici su parti intime,
mediante la pronuncia di un giuramento, inducono le vittime a cedere a qualsiasi genere di attività,
spaventate da quello che potrebbe accadere loro o ai loro cari. Per tale ragione, gli operatori che lavorano
in tale settore incontrano difficoltà oggettive nel comprendere e aiutare le vittime di tratta.

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Un’ulteriore problematica è costituita da ragazzi, spesso minori e orfani, con scarsa formazione e basse
probabilità di impiego, che si trovano in gravi situazioni familiari e pensano che l’Europa sia il solo
orizzonte di sopravvivenza possibile. Inoltre, il ruolo dello Stato risulta pressoché assente, incrementando
la corruzione. A causa di questa situazione economicamente sfavorevole, le famiglie spingono uno dei figli
ad andare in Europa, nella speranza che trovi un lavoro e che possa poi sostenerle economicamente con
le rimesse.
Infine, l’ultima osservazione riguarda gli abitanti del Delta State. Si tratta di un’area ricchissima di petrolio,
ma la cui estrazione ha conseguenze devastanti per l’ecosistema e per le popolazioni che vivono
principalmente di agricoltura e pesca. In questo contesto così impoverito si innesta la pratica delle
espropriazioni forzate da parte delle compagnie petrolifere in accordo con lo Stato, che aumenta
ulteriormente la povertà e l’emarginazione sociale. Le compagnie straniere insediano propri stabilimenti
con i propri team, non garantendo il trasferimento di know-how necessario per sfruttare la ricchezza
dell’industria petrolifera.

Il dramma dimenticato in Eritrea
Emilio Drudi, Giornalista

 Emilio Drudi: giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo
 redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i
 problemi dell’immigrazione occupandosi in particolare della tragedia dei
 profughi provenienti dal Sud del mondo, con una serie di servizi giornalistici
 e collaborando con l’agenzia Habeshia. È tra i fondatori del Comitato Verità
 e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos. Scrive per la rivista online Tempi
 Moderni e saltuariamente per altre testate. Sul problema dei rifugiati e dei
 migranti e le politiche migratorie italiana ed europea ha pubblicato Fuga per      La fine della guerra
 la Vita, Edizioni Simple (2018). Insieme a Marco Omizzolo ha scritto Ciò che
                                                                                    ventennale             con
 mi spezza il cuore. Eritrea: dalla grande speranza alla grande delusione, un
 saggio pubblicato nella collettanea Migranti e Territori (Ediesse, 2015); e        l’Etiopia, sancita dal
 Etnografia della nuova diaspora eritrea: origini, sviluppo e lotta contro la       trattato di pace firmato
 dittatura, nella collettanea Migranti e Diritti (Edizioni Simple, gennaio 2017).   nel luglio 2018, ha
 Con la Giuntina di Firenze ha pubblicato due libri legati alla persecuzione        posto l’Eritrea al centro
 antisemita e alla Shoah: nel 2012, Un Cammino lungo un anno, Gli ebrei             dell’attenzione della
 salvati dal primo italiano Giusto tra le Nazioni; nel 2014, Non ha dato prova      politica internazionale
 di serio ravvedimento. Gli ebrei perseguitati nella provincia del duce. E’
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 autore di studi e pubblicazioni di storia locale, soprattutto su Latina, l’Agro
 Pontino e le bonifiche effettuate negli anni trenta del 900.                       soprattutto italiana. Il
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presentato da Emilio Drudi parte da qui. Sulla scia dei nuovi rapporti tra Asmara ed Addis Abeba l’Unione
Europea ma in particolare il governo italiano e gran parte del sistema dei media presentano l’Eritrea come
un paese nel quale è iniziato un profondo processo di cambiamento, aperto a un progressivo, rapido
cammino verso la democrazia. Talvolta, addirittura come un paese ormai “normale”, anzi, vittima per anni
di accuse infondate e, in definitiva, di denigrazione. Vengono giustificate in questo modo tutta una serie
di iniziative, a cominciare dalla visita ufficiale ad Asmara del presidente del consiglio Giuseppe Conte
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(ottobre 2018), premessa per una serie di impegni di sostegno, investimento e cooperazione, inclusi i
finanziamenti per la realizzazione di varie infrastrutture. Ma è davvero cambiata l’Eritrea dopo la pace?
Drudi ritiene di no: “Il problema, in Eritrea, non era la guerra – ha detto – Il vero problema era la dittatura.
E la dittatura è rimasta quella di prima, come dimostra il fatto, ad esempio, che non sia stato liberato un
solo prigioniero politico (alcuni ne sono morti in carcere anche recentemente) ed anzi che gli arresti siano
continuati, così come è continuata la fuga di migliaia di giovani profughi”. “In poche parole – ha insistito
– l’Eritrea era e resta uno stato-prigione”. Ma come si è arrivati a questo “stato-prigione”? Per analizzare
questo aspetto Drudi è partito da una rapida analisi storica sulle origini dell’Eritrea, sottolineando che,
come” nazione”, l’Eritrea è nata in realtà dalla ex colonia italiana, che ha mosso i primi passi nel 1869 con
l’insediamento della compagnia di navigazione Rubattino nella baia di Assab. Insediamento
successivamente passato allo Stato e via via ampliato con l’acquisizione di una serie di possedimenti,
riuniti infine in una colonia nel 1890, con decreto reale di Umberto I. I confini sono esattamente quelli
coloniali e lo stesso nome, “Eritrea” (dal greco erythros: rosso, dal Mar Rosso) è una invenzione italiana:
lo ha scelto l’allora capo del Governo, Francesco Crispi, ma il nome originario della regione era Bahr
Negash, cioè Mare del Negus. Da questa “colonia primigenia” si è poi fatto strada il “sogno africano”
italiano, con il programma di espansione e dominio sull’Etiopia, bruscamente interrotto dalla sconfitta di
Adua (1896) ad opera del negus Menelik II e ripreso poi dal fascismo con la conquista dell’Africa Orientale
(1935-36). Caduto l’impero fascista (1941) con la sconfitta nella seconda guerra mondiale, a conclusione
di un lungo periodo di governo provvisorio britannico, nel 1952 le Nazioni Unite hanno riunificato l’Eritrea
all’Etiopia ma come regione “federata”, dotata di ampie autonomie. Il progressivo soffocamento di queste
autonomie da parte del negus Hailé Selassié, fino all’inclusione tout court dell’ex colonia, come una
normale provincia, nell’impero negussita (1960) ha gettato le basi della rivolta indipendentista che –
condotta prima contro Hailé Selassié e poi, dopo la sua destituzione ad opera del colpo di stato del Derg,
contro il nuovo presidente, colonnello Menghistu Haile Mariam – si è conclusa dopo trent’anni di guerra,
nel 1991, con la vittoria del Fronte popolare di liberazione guidato da Isaias Afewerki (l’attuale presidente-
padrone) e degli alleati del Fronte di liberazione del Tigrai, che hanno preso il potere ad Addis Abeba, con
a capo Meles Zenawi. Due anni dopo, nel 1993, un referendum ha sancito l’indipendenza dell’Eritrea con
oltre il 90 per cento dei voti. Sembrava la nascita di una “nuova Eritrea”, libera e democratica, con a capo
il presidente neo eletto Isaias Afewerki. E’ stato invece l’inizio della dittatura: Afewerki ha mantenuto il
paese militarizzato, trascinandolo via via in una serie di guerre (Sudan 1994, Yemen 1995, Gibuti 1996,
anno in cui sono state istituite anche le Corti Militari che hanno sostituito di fatto la magistratura) fino a
quella contro l’Etiopia nel 1998 (all’indomani dell’approvazione della nuova, avanzatissima Costituzione
democratica del 1997, che così non entrerà mai in funzione) scatenata da una controversia di confine
intorno al piccolissimo villaggio di Badmè e durata appunto vent’anni. Ben vent’anni di guerra, con un
bilancio tremendo: da 80 a 100 mila morti, quasi tutti nel primo biennio, sino al cessate il fuoco firmato
ad Algeri nel dicembre 2000, ma mai diventato una vera e propria pace, perché l’Etiopia non ha mai
accettato la risoluzione delle Nazioni Unite del 2002, che assegnava Badmè all’Eritrea, se non nel trattato
firmato nel luglio 2018. In tutti questi anni di guerra, dal 1994 in poi, Afewerki si è progressivamente
affermato come presidente-padrone, accantonando la Costituzione e basando il suo potere su un partito
unico, il Fronte popolare per la giustizia democratica (Pfdj), nato dal Fronte Popolare di Liberazione. A
parte alcune frange (subito perseguitate) che hanno denunciato fin dall’inizio questa deriva, nel corso
dell’ultima fase della sanguinosissima guerra contro l’Etiopia si è formata una consistente forza di
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opposizione, che all’indomani del cessate il fuoco ha cominciato a chiedere conto della gestione dello
Stato e, in particolare, della guerra in sé e della sua “conduzione”, sia militare che politica. Punta avanzata
di questa contestazione era il cosiddetto G-15, un gruppo di quindici personaggi estremamente in vista
dell’apparato statale e militare, quasi tutti eroi della guerra di liberazione, che hanno invitato Afewerki a
rendere conto delle sue scelte di fronte all’Assemblea generale. La risposta è stato un vero e proprio golpe,
attuato il 18 settembre 2011 – mentre l’attenzione internazionale era ovviamente tutta concentrata sugli
attacchi di Al Qaeda agli Stati Uniti, segnati dagli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al
Pentagono – con l’arresto di 11 dei 15 “congiurati” (tre sono sfuggiti alla cattura perché erano all’estero
e il quindicesimo è tornato ad allinearsi con Afewerki), seguiti da una repressione feroce di tutte le forme
di opposizione e dissenso: arresti in massa di parlamentari, leader politici, giornalisti, editori, docenti,
insegnanti, chiusura di tutti i giornali indipendenti, chiusura dell’Università di Asmara e carcerazione di
centinaia di studenti, parecchi dei quali morti poi in stato di detenzione. È stato l’inizio di quello che i
commissari dell’Onu hanno definito il “terrore eretto a sistema di potere”. Lo stato di guerra mai
interrotto (anche se di fatto, dopo il 2002, si è trattato solo di scontri sporadici di confine, sia pure talvolta
sanguinosi ed estesi, come nel giugno del 2016) ha consentito ad Afewerki di mantenere il paese
totalmente militarizzato, istituendo un servizio di leva che inizia a 17 anni ed ha durata pressoché
indefinita, con interi reparti dell’esercito impiegati in lavori obbligatori per conto dello Stato e un
compenso pressoché irrisorio per ogni singolo soldato. In questo contesto, basta anche il minimo dissenso
per finire in carcere, in condizioni di detenzione descritte come terribili, inclusa la pratica diffusa della
tortura, la segregazione in prigioni segrete, l’impossibilità di difendersi da eventuali accuse, la totale
mancanza di notizie sulla sorte dei detenuti anche per i familiari più stretti, le morti in carcere. Secondo
gli oppositori della diaspora eritrea, sarebbero circa 300, tra grandi e piccole, le carceri disseminate nel
paese: una ogni 16/17 mila abitanti, tenendo conto che gli eritrei sono in totale appena 5 milioni. E poi,
libertà di religione negata (sono ammessi solo 4 culti), libera stampa inesistente dal 2001 (tanto che il
paese figura costantemente agli ultimissimi posti nella graduatoria internazionale redatta annualmente
da Reporter Senza Frontiere) e, a causa proprio di questa politica repressiva e militarizzata, una situazione
economica disastrosa, nonostante le cospicue potenziali risorse del paese. Tutto questo è stato
ampiamente denunciato dai rapporti presentati a più riprese dalle principali Ong internazionali ed ha
trovato conferma in documenti come la lettera pastorale firmata dai vescovi cattolici di tutta l’Eritrea in
occasione della Pasqua del 2014 e, soprattutto, in ben due inchieste della Commissione per i diritti umani
dell’Onu, pubblicate a Ginevra nel 2015 e nel 2016. Ed è tutto questo, appunto, che fa dell’Eritrea uno
stato-prigione dal quale migliaia di giovani tentano ogni giorno una vera e propria “fuga per la vita”. È
eloquente, per illustrare i motivi che inducono a scappare, quanto ha dichiarato tempo fa una profuga
appena diciottenne, rifugiata in Italia: “Siamo scappati per avere dei figli che siano nostri e non da usurare
nelle mani del regime”. Quella ragazza ha anticipato con una sintesi perfetta le conclusioni delle due
Commissione d’inchiesta dell’Onu, che parlano di violazione sistematica dei diritti umani fino alla
riduzione in schiavitù, tanto da ritenere che ci siano fondati elementi per deferire l’Eritrea di fronte alla
Corte Penale Internazionale. E ora non risulta che sia cambiato qualcosa con la fine della guerra. Lo stesso
accordo di pace è stato interamente voluto e costruito dall’Etiopia, nel contesto delle grandi riforme
promosse, sia nella politica interna che internazionale di Addis Abeba, dal nuovo capo di governo, Abiy
Ahmed. È stata l’Etiopia, cioè, a trascinare l’Eritrea alla firma della pace, grazie alla decisione di far cadere
tutte le pregiudiziali che avevano impedito ad Addis Abeba di avallare la risoluzione della Commissione
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Onu del 2002: accettando in blocco questa risoluzione, infatti, Abiy ha posto Afewerki nelle condizioni di
non potersi a sua volta tirare indietro. Anche dopo la pace, però, l’Eritrea è rimasta quella degli ultimi
vent’anni. È eloquente, ad esempio, che i prigionieri politici restino in carcere e anzi – benché il regime
neghi che ci siano “prigionieri politici” – che proprio poco dopo l’accordo di pace ci sia stato un altro
“arresto eccellente”, quello dell’ex ministro alle finanze ed ex delegato all’Onu, Berahe Abrehe,
“colpevole” di aver scritto un libro in cui spiega i motivi del suo progressivo dissenso con il regime e di
aver invitato Afewerki a un confronto alla televisione di stato per discuterne. E non a caso chi può continua
a scappare: secondo l’UNHCR negli ultimi sei mesi del 2018, a pace conclusa, si contano almeno 27 mila
nuove fughe di giovani solo verso l’Etiopia. I gruppi di opposizione interni e quelli della diaspora (riuniti in
Italia nel Coordinamento Eritrea Democratica) non mancano di denunciare in ogni occasione che in realtà
non c’è alcun passo verso la democrazia da parte di Asmara, chiedendo con forza di essere ascoltati come
“soggetto politico” alternativo al regime, in modo che davvero la pace segni il primo passo verso il
superamento della dittatura e non uno strumento di propaganda utilizzato dal governo di Asmara per
rafforzarsi e acquisire una “credibilità” che non ha ragione di essere. Ciononostante l’Unione Europea e
in particolare l’Italia proseguono ed anzi hanno accelerato la politica di “apertura” al regime iniziata da
almeno 5/6 anni, promettendo aiuti, finanziamenti, partenariato politico ed economico e stimolando
decine di aziende, grandi e piccole, ad allacciare rapporti con l’Eritrea. Senza chiedere alcuna garanzia, ad
esempio, almeno sulle condizioni di lavoro, in modo che nei “progetti europei” non venga impiegata
manodopera forzata. E, soprattutto, più in generale, senza chiedere alcuna garanzia sul rispetto
inderogabile di quei fondamentali diritti umani che ben due inchieste dell’Onu hanno descritto come
violati sistematicamente, da Asmara, ormai da anni. “E’ un momento decisivo – ha concluso Drudi –
Nessuno può dire di non sapere cos’è l’Eritrea da oltre vent’anni. Mai come adesso, allora, si tratta di
scegliere: di decidere se chiudere gli occhi di fronte alla realtà e favorire di fatto la permanenza della
dittatura, in nome di interessi geopolitici ed economici magari inconfessabili, oppure se fare della pace
lo strumento per costruire una nuova Eritrea, libera, democratica, aperta a tutti, passando attraverso
quella resa dei conti che chiede la diaspora: una resa dei conti assolutamente pacifica ma radicale, che
faccia emergere tutte le responsabilità di quanto è accaduto dall’indipendenza in poi”.

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Conclusioni

Il processo di migrazione in Italia e nell’area Europea è un tema molto politicizzato, prima ancora di essere
analizzato. Il progetto, organizzato dall’Ortigya Business School, mira a offrire l’opportunità per pensare il
fenomeno migratorio con un’altra prospettiva, libero dai pre-condizionamenti politici. Le decisioni
sottostanti la gestione del processo migratorio devono essere orientate ad un’ottica di lungo periodo e
non avere il carattere emergenziale attuale. La sessione ha offerto una panoramica sulla situazione
economica, culturale e politico-sociale di tre nazioni del continente africano: Tunisia, Nigeria e Eritrea.
L’analisi presentata ha mostrato come i delicati meccanismi istituzionali e il sentimento di delusione dei
giovani in Tunisia, la democrazia soffocata in Eritrea e il retaggio religioso-culturale, insieme alle difficoltà
economiche della popolazione, in Nigeria sono solo una parte del complesso fenomeno dell’immigrazione.

La società civile deve pretendere di ricevere un’informazione migliore per essere consapevole ed
informata sul fenomeno, distinguendo le fake news e l’informazione poco accurata che ogni giorno viene
veicolata. Quindi, gli stessi media nazionali ed internazionali devono attivarsi per abbattere il muro di
ipocrisia che avvolge la “questione africana e migratoria”. A livello politico, bisogna invece ripensare il
concetto di “aiuto e cooperazione internazionale” verso una visione orientata al rispetto dei diritti umani.
L’Unione Europea non deve solo fornire l’aiuto economico essenziale, ma deve vigilare attentamente sulla
gestione dei flussi di denaro, rimettendo al centro i diritti.

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