OSɹƎɅUI RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA - RACCONTI DALLA 1R - IIS ALBERT EINSTEIN

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OSɹƎɅUI RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA - RACCONTI DALLA 1R - IIS ALBERT EINSTEIN
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RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA

    RACCONTI DALLA 1R
OSɹƎɅUI RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA - RACCONTI DALLA 1R - IIS ALBERT EINSTEIN
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OSɹƎɅUI RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA - RACCONTI DALLA 1R - IIS ALBERT EINSTEIN
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RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA

     RACCONTI DALLA 1R
         a.s. 2019/2020

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OSɹƎɅUI RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA - RACCONTI DALLA 1R - IIS ALBERT EINSTEIN
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I Edizione giugno 2020

Immagine di copertina di Giorgia Edgecombe
Immagine di seconda copertina e illustrazione finale di Federico Boscherini

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OSɹƎɅUI RIBALTARE IL PUNTO DI VISTA - RACCONTI DALLA 1R - IIS ALBERT EINSTEIN
Indice

5.    C’È QUALCUNO NELLA CANTINA di Susanna Angelica
      Ventura
6.    MAGARI SIAMO UGUALI di Laura Vanzulli
7.    CAPODANNO di Andrea Valtolina
9.    DUE GEMELLE INSEPARABILI di Carlotta Stoccoro
11.   BASTA ASPETTARE... di Giorgia Schiavone
12.   UN ESSERE SCONOSCIUTO di Marta Redaelli
13.   IL MOSTRO di Francesco Ravastini
15.   DIVERSI MA NON TROPPO di Eleonora Pometti
16.   NATO SBAGLIATO di Matilde Pellegrini
17.   L’ASSALTO ALLE SENTINELLE di Elisa Nitro
18.   L’AMICO GATTO di Aishabibi Naregeyeva
20.   IL LEONCINO di Cesare Ariberto Maria Mignoli
21.   IL PRATO di Iulia Maria Matei
22.   L’INTRUSO di Elisa Guntri
24.   PRIMA DI CHIUDERE GLI OCCHI PER SEMPRE… di Giada
      Granatino
25.   IL GIRASOLE di Laura Giovani
26.   NOSTALGIA di Giorgia Edgecombe
28.   PER UN LITRO DI LATTE di Gabriele Durante
30.   LO SPECCHIO INNAMORATO di Miriam Di Natale
33.   IN SCENA di Adele Diamante Colombo
35.   IL FIORE ROSSO di Leonardo Cazzaniga
37.   UN PO’ DA SOLO di Rebecca Brambilla
39.   NON LO POTRÒ MAI CAPIRE di Tommaso Brambilla
40.   IL GIUDIZIO di Federico Boscherini
42.   TEMPESTA DI NEVE di Aurora Balconi
43.   LA SENTINELLA di Fredric Brown
45.   Antefatto

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C’È QUALCUNO NELLA CANTINA

  Era da un po’ che si parlavano.
  Non di persona, certo.
  Quel bambino aveva lasciato un walkie-talkie nella cantina. Era così
che si parlavano. Discorsi superficiali erano i loro, si parlavano del più e
del meno.
  Ma un giorno il bambino volle conoscerlo. Voleva parlare di persona
con colui con il quale condivideva i suoi discorsi.
  Scese in cantina. Era un locale piccolo, non c’erano porte: doveva per
forza vederlo, subito appena sceso.
  E così fu.
  Vide una creatura orribile, così diversa da lui. Descriverlo e
descrivere le loro differenze non basterebbe.
  Cacciò un urlo che lo fece svegliare e rotolare giù dal letto.
  Era tutto un sogno, sì, ma anche adesso, quando è solo in cantina, ha
ancora paura che quel bambino, con il corpo così definito, senza
neanche un po’ di melma addosso, con solo due occhi e solo quei due
tentacoli che usava per camminare, stando perfettamente in piedi,
venisse a fargli visita.

  Susanna Angelica Ventura

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MAGARI SIAMO UGUALI

  Sono sempre qui. Giro, giro e rigiro. Tutto il giorno, e anche quello
dopo.
   Sono ricoperto da una strana sostanza che mi penetra attraverso due
tagli che sento aprirsi e chiudersi, ma non vedo. Se mi scopro da questa
sostanza mi affanno, divento tutto secco, e ho paura; mi conviene non
uscirne.
   Non ho il tatto, non capisco quindi cosa sia questa parete; ma riesco a
vedere cosa c’è fuori: l’esterno è diverso da dove sono io, c’è
arredamento e tutto è più in grande.
   Non ho bisogno di tanto, niente primo e secondo, mangio quattro
pezzetti di non so cosa al giorno. Me li portano delle figure spaventose
grandi almeno cinquanta volte me. Mi fanno tanta paura. L’unica cosa
che posso fare è nascondermi dietro questa graziosa pianta.
   Ogni tanto, quando inizia a diventare opaca e giallina, mi cambiano
la strana sostanza dentro la quale vivo.
   Ora vedo altra sostanza rovesciarsi dall’alto. Dentro c’è qualcos’altro.
Oh, è caduto dentro con me. Come è strano: è rosso e ha gli occhi a
palla. Ha i tagli sui lati che forse ho io. Più in basso ha delle “cose”
come piccoli veli graziosi. Il più grande si trova opposto al volto, dietro.
Li muove e lui si muove. Su tutto il corpo ha dei triangolini lucidi.
   È molto bello! Mi sta guardando con la stessa espressione che credo
di avere io. Magari siamo simili d’aspetto. Magari siamo uguali.

  Laura Vanzulli

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CAPODANNO

  Lì, sdraiato sul divano, immerso nei miei pensieri, mi auguravo che
quella tortura luminosa finisse presto.
   Straordinari razzi luminosi di ogni tipo e colore partivano dal terreno
scagliandosi nel cielo e, appena erano abbastanza alti, esplodevano
nell’oscurità scagliando da ogni parte piccoli frammenti colorati.
   Con la coda in mezzo alle gambe mi rannicchiai tra i cuscini mentre le
orecchie mi esplodevano con tutto quel frastuono, tutto quel rumore.
   Ogni anno si ripeteva la stessa storia: razzi colorati. Rumori, scoppi,
frastuoni e la mia solita paura.
   Ma lì, sdraiato sul divano, immerso nella paura, sentii una calda e
soffice zampa accarezzarmi la schiena. Non era come la mia, era rosa,
senza peli e con cinque dita simili a salsicce. Mi lasciai coccolare. I miei
peli marroni tornarono morbidi e setosi, la coda incominciò a muoversi,
le orecchie mi si rizzarono in piedi e in un gigante spettacolo di luci
tutto quel dolore svanì, mentre leccavo la faccia del mio padrone.

  Andrea Valtolina

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Elaborazione grafica di Andrea Valtolina

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DUE GEMELLE INSEPARABILI

  Siamo due sorelle gemelle uguali in tutto per tutto, inseparabili fin
dalla nascita, abbiamo trascorso tutta la nostra vita insieme l’una a
fianco all’altra. Abbiamo vissuto mille avventure, scalato montagne e
macinato chilometri, nulla sembrava fermarci. Ci siamo godute in pieno
tutte le stagioni, sfidato il freddo e la pioggia in autunno, il gelo in
inverno e le roventi giornate d’estate, quando anche l’asfalto sembra
liquefarsi sotto i piedi. Abbiamo viaggiato molto, visto paesaggi
incantevoli che mai avremmo pensato di vedere.
   Ora gli anni si fanno sentire. È brutto ammetterlo, ma purtroppo
siamo diventate vecchie e malconce. Trascorriamo le nostre giornate
relegate al chiuso insieme ad altre gemelle ‘‘destra’’ e ‘‘sinistra’’ che
hanno preso il nostro posto.
   Con malinconia ripensiamo al giorno in cui è iniziata la nostra
avventura, lo ricordiamo come fosse ora. Eravamo chiuse al buio da
giorni, forse mesi, in una scatola di cartone, quando all’improvviso ci
svegliammo dal nostro torpore: due enormi occhi blu ci stavano
scrutano desiderosi di comprarci e così fu!
   Diventammo le compagne di viaggio di Tommy, un ragazzo di bella
apparenza e appassionato di trekking e di sport in generale.
   I primi tempi si prendeva ossessivamente cura di noi, aveva speso
tutte le sue paghette pur di averci ai suoi piedi e ci teneva molto a
mantenerci pulite e in ordine, anche perché sapeva che i suoi genitori
non gliene avrebbero comprate di nuove. Poi con il passare degli anni e
nonostante le mille attenzioni di Tommy, l’usura ha avuto il
sopravvento e siamo state sostituite da delle scarpe di ultima
generazione, quelle che tutti vorrebbero avere. Nonostante ciò, il nostro
giovane padrone non ci ha abbandonato,ci ha tenute con sé per
affezione: siamo state le sue prime scarpe, quelle che ha desiderato
tanto e che ha comprato con i suoi piccoli risparmi, quelle che gli hanno
fatto muovere i suoi primi passi nel mondo.

  Carlotta Stoccoro

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Disegno di Carlotta Stoccoro

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BASTA ASPETTARE...

  Sono qui, ormai sola, dalla stagione passata. Tutte le mie compagne
sono state scelte, prese, provate, approvate e portate via.
   L’unica che è rimasta qui con me è Betty. Lei non è come me, ha un
colore diverso e qualche taglia in più.
   Perché a noi nessuno ci sceglie? Cosa abbiamo di sbagliato? Abbiamo
qualcosa che non va? Nessuno ancora ci ha visto?
   Ho sentito dire che chi era qui dalla stagione passata veniva sostituito
e non ho idea di dove sia finito...
   Betty mi rassicura. Dice sempre di non preoccuparmi, che prima o
poi ce ne andremo da qui... Arrivano quelli nuovi e se ne vanno subito.
Io sono qui da parecchio tempo e nessuno mi sceglie.
   ... Poi, non so quale santo abbia ascoltato le mie preghiere, vengo
notata e portata via, come tutte le mie socie e i nuovi arrivati. Mi sento
finalmente come tutti, piaccio alla gente e tutte le mie paranoie sono
diventate semplicemente paranoie.
   Vado con la mia nuova amica a casa, sono felice, non so cosa mi
aspetti, ma sono felice lo stesso.
   Mi prende, fa un sorriso e mi mette in un posto. Sono stretta, al buio,
e con altri mille miei coetanei sconosciuti a me.
   Forse, dopotutto, stare dov’ero prima non era poi tanto male. Certo,
ero sempre in un angolo, ma non ero al buio e comunque con me c’era
Betty... Chissà dov’è... chissà se è ancora lì, o l’hanno scelta, o è stata
sostituita... Intanto io sono sempre al solito posto.
   Ma, improvvisamente, mi tira fuori e mi indossa.
   Aspettava di indossarmi per qualche evento speciale. Perciò io di
conseguenza sono speciale, e neanche lo sapevo.

  Giorgia Schiavone

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UN ESSERE SCONOSCIUTO

  Sono andata alla ricerca di una gigantesca scatola che potesse darmi
del cibo, me ne aveva parlato mio padre.
   Nel tragitto iniziai a vedere un’altra persona, così pensai di
avvicinarmi per chiedere se avesse visto quella gigantesca scatola, ma
vidi solo un essere che camminava a quattro zampe ricoperto di tessuto
morbidoso. Sembrava amichevole e sembrava quasi essere in giro con il
mio migliore amico.
   Andai lì per salutarlo e, come segno di gentilezza, mi abbassai per
dargli un bacio, ma lui non me lo diede, anzi, incominciò a leccarmi e a
ricoprirmi di un liquido appiccicoso. Pensai che magari fosse il suo
modo per salutare.
   Aveva delle piccole orecchie, così alzai un po’ la voce, ma lui si
spaventò e si mise dietro un cespuglio. Sembrava in cerca di aiuto, così
gli chiesi con calma di cosa avesse bisogno, ma lui mi saltò addosso
parlando una lingua sconosciuta, forse mai scoperta del nostro pianeta.
   Iniziò a dare segnali di amicizia e non so come ma lo chiamai cane,
ovvero cucciolo, amico, nano ed euforico, quattro aggettivi che gli si
addicevano.
   Mi sorse un dubbio però: forse era proprio lui l’amico di cui
parlavano tutti... a lui dai tu il cibo e sei tu a prendertene cura... per
l’uomo è un amico con cui in ogni senso si riesce a capire.

  Marta Redaelli

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IL MOSTRO

  Dovevo correre come non avevo mai corso. Tutto era contro di me: il
vento, il freddo, la stanchezza, il tempo.
   La fitta nebbia che mi circondava non mi permetteva di vedere bene e
di conseguenza continuavo a inciampare e cadere, ma la paura che
impregnava la mia mente mi permetteva di rialzarmi ogni volta... ma
per quanto ancora? per quanto ancora sarei riuscito a correre?
   Ogni singolo rumore, ogni singolo fruscio d’erba mi faceva
sobbalzare dalla paura. Perfino i miei stessi passi durante la corsa mi
mettevano un senso di ansia e inquietudine. Sapevo di essere in
pericolo, sapevo che ciò che stavo facendo era molto pericoloso e
sapevo che se mi avesse preso mi avrebbe sventrato e che poi si sarebbe
nutrito di me.
   La foresta era buia, sembrava quasi volermi avvolgere nella sua
candida oscurità senza lasciarmi via di uscita, ma io ero forte e avevo
con me la mia fedele spada, l’unica arma in grado di luccicare persino
nell’inferno più nero.
   Ormai ero alle strette, non avevo più forze per correre. I muscoli delle
gambe cominciavano a intorpidirsi e a cedere e lui era troppo veloce per
via di quelle mostruose gambe lunghe. Non avevo scelta, dovevo
combatterlo prima di essere troppo stanco per farlo.
   Mi fermai e mi voltai di scatto impugnando l’elsa della mia spada con
entrambe le mani. Lo udii avvicinarsi a me, alla portata di un metro...
tentai un ultimo atto, tra la speranza e la rassegnazione, utilizzai le
ultime forze rimanenti per balzare in aria con un solo scatto. In quel
momento sapevo che se il colpo non fosse andato a segno non avrei più
avuto la forza sufficiente per correre via o semplicemente schivare il
suo contrattacco.
   Mentre ero in aria non sentivo letteralmente più le gambe, ormai
avevano perso sensibilità e anche i muscoli delle braccia erano allo
stremo, avevo un solo colpo disponibile, ma ne ero certo... sarebbe stato
quello vincente!
   Presi un gran respiro guardando con la coda dell’occhio la mia spada
che rifletteva l’unica fievole luce data da uno spiraglio che sembrava

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quasi voler far respirare la luna. Attaccai con tutta la mia forza. Dentro
quel colpo che fendeva l’aria vi era anche tutta la mia speranza, la mia
paura e la mia voglia di vedere sorgere un nuovo giorno...
  Ma di colpo, nel preciso istante nel quale la punta della mia lama
impattò con la tempia del mostro...
  “Ahia Matteo, per poco non mi prendevi nell’occhio, ma ora ti ho
preso, muhahaha...”
  ”No dai, papà, lasciami! Ti ho detto che i broccoli non li mangio!”
  “Dai su, ora metti a posto quel bastone che hai in mano e torna a
tavola.”
  “Uff... va bene, ma la prossima volta ti sconfiggerò chiaro?!”
  “Su dai, da bravo, ora vai... piccolo ometto.”
  “Ti ho detto mille volte di non chiamarmi ometto… Uff, sempre a
chiamarmi ometto, ma quando imparerete voi adulti poi cosa diavolo
vuol dire?”

  Matteo entra in casa borbottando tra sé e sé.

   “Mhmm, chissà dove pensava di nascondersi in giardino… ma
comunque ora sarà meglio mandarlo a letto, quel bambino ha un po’
troppa fantasia.”

  Francesco Ravastini

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DIVERSI MA NON TROPPO

  La Nasa dopo varie ricerche scoprì un pianeta somigliante alla terra,
su cui la vita è possibile.
   Data la quasi devastazione della terra causata dall’uomo, bisognava
trovare un altro pianeta in cui trasferirsi, così una squadra di astronauti
era pronta per dirigersi verso l’esplorazione di quel pianeta.
   La sua scoperta fu la più grandiosa mai fatta dai tempi della scoperta
di tutti i segreti e le meraviglie della fisionomia delle scimmie e la loro
somiglianza con la specie umana, che aveva poi utilizzato le scimmie
come cavie per esperimenti o addirittura come schiave.
   Partita e atterrata su quel lontano pianeta, la squadra di astronauti
rimase esterrefatta da ciò che aveva davanti agli occhi: un’enorme
civiltà tale e quale a quella umana, con macchine, grattacieli e
addirittura una base spaziale...
   Rimasti stupiti, gli astronauti decisero di addentrarsi nella città per
poter capire da chi e come era stato creato tutto ciò. Ma proprio nel
momento in cui arrivarono alle porte della metropoli, due enormi
gorilla li catturarono e li portarono nel palazzo reale, dove il capo di
quella monarchia li osservò e li fece imprigionare.
   Poi, come tutti gli altri esseri umani per loro ripugnanti, vennero resi
schiavi e cavie della loro civiltà, così come gli umani avevano reso
schiave le scimmie sulla terra.

  Eleonora Pometti

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NATO SBAGLIATO

  Eravamo lì, come sempre, io e la mia famiglia, rinchiusi ormai dentro
quei quattro vetri a guardare il tempo che ci passava davanti.
   Non si stava male, eravamo al caldo e con altri di noi, ma il desiderio
di uscire e di vedere il mondo continuava a frullarmi nella testa.
   Papà diceva sempre che dovevamo rimanere lì, nascosti, che non
dovevamo assolutamente interagire con il mondo esterno e con gli
estranei. Lo ripeteva ogni giorno a me e alle mie sorelle.
   Che noia, pensavo, chissà che fine avevano fatto i miei amici che
erano riusciti a uscire, la mia migliore amica Anna, mio zio e i miei
cugini. Chissà. Mi mancavano tanto, volevo rivederli.
   Quel giorno sembrava passare come tutti gli altri, lento e noioso. A
un certo punto però si aprì la porta di casa nostra e qualcosa di enorme
mi afferrò e mi mise dentro uno spazio che non avevo mai visto.
   Mi accorsi subito che i miei genitori non c’erano, ero solo in mezzo a
gente che non conoscevo. Provavo paura, sì, ma allo stesso tempo ero
felice e pieno di adrenalina. Ero riuscito a uscire, finalmente. Urlavano
tutti, non si capiva nulla e nessuno sapeva dove ci stessero portando.
   A un certo punto ci fermammo e vidi che ci trovavamo in una stanza
buia, senza neanche una luce. Ci furono dei minuti di silenzio assoluto
fino a quando una luce gigantesca si accese e una voce esterna iniziò a
parlare. Aveva un tono alto. Tanto alto. Ero incantato, lo eravamo tutti e
per un attimo fummo felici.
   A un tratto però quella cosa gigante prese un paio di noi e po’ alla
volta ci prese tutti.
   Buio.
   Che ingiustizia, pensavo, che ingiustizia nascere pop-corn.

  Matilde Pellegrini

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L’ASSALTO ALLE SENTINELLE

  Arrivato sul nuovo pianeta da conquistare, si era subito accorto che
c’era qualcun altro oltre a lui: era il nemico da sconfiggere per
impossessarsi di quella terra.
   L’aviazione aveva già fatto il suo dovere e ora mancava l’unico
grande sforzo, lo scontro con i soldati di terra. Gli ordini dei superiori
erano chiari: non accordarsi con il nemico armato, è troppo diverso da
noi.
   Questa diversità era vista come segno di pericolosità del nostro
avversario. Una razza intelligente della nostra galassia, ai nostri occhi
mostruosa, che aveva preso possesso già di migliaia di pianeti,
lasciando sentinelle a loro guardia.
   In una giornata fredda e grigia ne avvistai uno, strisciai verso di lui
con la mia arma per cercare di avvicinarmi e rendere così il successo del
mio tiro più sicuro. Iniziai a prendere la mira per eliminarlo, ma nel
frattempo lui si accorse di me. Esitai un attimo perché pensai che forse
non era giusto combatterci. Magari, anche solo da due semplici soldati
che si scontrano poteva nascere un’intesa, e da qui anche un accordo di
pace tra due razze completamente diverse...
   Questi pensieri e questi attimi però mi furono fatali, perché il nemico,
alla mia vista, spaventato esplose un colpo verso di me: capii che tra i
due ero io quello che non sarebbe più tornato a casa.

  Elisa Nitro

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L’AMICO GATTO

  C’era una ragazza di nome Maria. Un giorno Maria arrivò a casa sua
e vide una grande scatola. La aprì e vide un gatto che aveva corpo di
uomo. Il gatto disse che veniva da un altro universo e che lui era un
principe nel suo pianeta e che si chiamava Ota.
   Ota chiese a Maria se lei potesse aiutarlo a tornare sul suo pianeta. In
cambio avrebbe esaudito tre suoi desideri. Maria non sapeva come
aiutare Ota per farlo tornare a casa sua, ed era preoccupata per lui.
Chiese al gatto se conosceva delle magie per aiutarlo tornare. Ota disse
di sì, ma aggiunse che quando era arrivato sulla Terra aveva speso tante
energie: le chiese allora di procurargli degli ingredienti che servivano
per ricaricare la sua energia.
   Erano tre oggetti: del corallo rosso, un’orchidea e la piuma di un
cigno nero.
   Maria ne prese due su tre, in un negozio. Pensò poi dove prendere la
piuma di cigno nero. Andò nel parco e vide dei cigni, ma erano bianchi.
Prese comunque qualche piuma trovata in terra e tornò a casa.
   Diede i tre oggetti al gatto e gli disse: “Non ho trovato le piume di
cigno nero, ma solo bianche”. Ota le rispose: “Grazie comunque per il
tuo aiuto, ma a causa della piuma bianca devo diminuire i tuoi desideri
da tre a uno’’.
   Quando il gatto, ritrovata la sua energia, stava per andare via, chiese
a Maria: “Il tuo desiderio?’’
   Maria chiese al gatto una sola cosa: “Non dimenticarmi...”

  Aishabibi Naregeyeva

                                    18
Disegno di Aishabibi Naregeyeva

             19
IL LEONCINO

  Una mattina un leoncino si era svegliato nella savana. Mentre il sole
tendeva a sorgere e la notte a calare, il leoncino cercando di non
svegliare i suoi familiari iniziò a incamminarsi nell’immensa prateria.
  Camminò per molto tempo fino ad arrivare a una grande pozza
d’acqua, alzò lo sguardo e vide una miriade di specie di animali.
  La sua famiglia lo raggiunse. Sua madre e suo padre erano molto
arrabbiati all’idea che il proprio figlio si era avventurato da solo nella
savana, perché era un luogo pericoloso per un cucciolo piccolo come
lui.
  Il cucciolo si avvicinò alla pozza per bere...
  Ma si svegliò e capì che era stato solo un sogno e si ritrovò tra le
sbarre dello zoo dove era stato portato da piccolo.

  Cesare Ariberto Maria Mignoli

                                   20
IL PRATO

  Era ormai da un po’, da quando quel giorno quella forza ci aveva
letteralmente spazzati via dal cibo che avevamo trovato, che
continuavamo a vagare in quell’enorme prato rosso, alquanto insolito.
Di prati ne avevo visti molti da quando viaggiavo con Giglio, ma
nessuno così.
   Un prato molto alto. Tutti i filamenti erano più o meno della stessa
altezza e ogni filamento sembrava fatto di più filetti attorcigliati fra
loro. In più, questo prato era abitato da giganti.
   Io e Giglio quando siamo atterrati qui ci siamo fatti molto male,
quindi l’unica opzione era camminare lentamente fino a trovare una via
d’uscita.
   Stavamo facendo una pausa, quando sentimmo tremare il suolo. Uno
dei giganti si stava avvicinando e d’un tratto si sentì gridare: “Tesoro, è
da una settimana che continui a rimandare, ora prendi e vai fuori a
sbatterlo!”
   Tutto iniziò a tremare ancora di più. Si stava avvicinando un gigante,
ma ancora più grande e forse anche più vecchio, e all’improvviso era
come se il prato su cui eravamo posati si staccasse dal suolo e dopo
poco tutto iniziò a scuotersi. Io e Giglio ci aggrappammo forte ai
filamenti, ma non ce la facevamo a resistere, quindi, aggrappati l’uno
all’altro, saltammo giù.
   Non so perché o come mi sia venuta quell’idea, ma mentre stavamo
cadendo, dissi a Giglio: “Sbatti le ali Giglio! Sbattile più forte che puoi!”
   Magicamente, nonostante i dolori e le ferite, insieme riuscimmo ad
atterrare sani e salvi, ma stavolta su un prato verde e normale, di quelli
che per noi sono la nostra vera casa.

  Iulia Maria Matei

                                     21
L’INTRUSO

  Roger, come tutte le sere, è sdraiato sulla sua branda e fissa il soffitto
con aria malinconica, ricordando la sua famiglia.
   Ormai sono passati più di cinque anni da quando è partito alla ricerca
di nuovi pianeti, imbarcandosi su una navicella spaziale insieme ad
altri volontari.
   Il loro obiettivo è quello di atterrare sui pianeti e studiare
pacificamente le varie forme di vita.
   A un certo punto suona l’allarme intrusi: durante l’ultima
esplorazione, qualcosa o qualcuno si è intrufolato nell’astronave.
   Roger si alza di scatto, prende un’arma per difendersi ed è pronto a
entrare in azione.
   Conosce perfettamente la navicella. L’intruso potrebbe essere
ovunque.
   Cerca in ogni stanza, ogni corridoio e ogni angolo della navicella,
senza successo.
   L’intruso deve sicuramente trovarsi nella sala motori.
   Scende, è buio, molto buio; probabilmente l’essere ha manomesso le
luci.
   Roger, con l’arma in mano, avanza.
   Si sente osservato, sente dei rumori ovunque ma non capisce da dove
provengono.
   All’improvviso, davanti a lui ci sono due occhi grandi, gialli e
luminosi che lo fissano.
   Quegli occhi minacciosi e misteriosi non smettono un secondo di
fissarlo.
   Ha tanta paura, non sa cosa fare.
   L’essere si muove, va verso di lui.
   Roger è pietrificato dalla paura.
   Qualcuno accende le luci; dell’essere nessuna traccia.
   Come ha fatto a sparire così velocemente?
   Quali armi segrete possiede?
   Un suono terribile, un “miao” rimbomba in tutta la navicella...

                                    22
La caccia è finita; circondato dai soldati che hanno sparato, giace un
gigantesco e terribile essere con quattro zampe, una coda, artigli affilati,
due orecchie appuntite e un compagno di Roger in bocca.

  Elisa Guntri

                         Fotografia di Elisa Guntri

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PRIMA DI CHIUDERE GLI OCCHI PER SEMPRE…

  Ero disteso lì, a terra, avevo molte ferite.
   Io, un possente cavallo, ammirato da molte creature, ora ero
inseguito, non sapevo dove andare, non sapevo cosa fare. Volevano far
di me carne da mangiare la sera.
   Loro: creature mai viste fino a oggi, sono sbarcate sul nostro territorio
e hanno devastato il nostro mondo. Non era rimasto nulla. Solo fuoco.
   Volevano far di noi, piccole creature dall’anima buona, cibo per la
sera: ci volevano uccidere.
   “Ma cosa abbiamo fatto per meritarci questo?!”, pensai mentre
correvo.
   Io, inseguito da queste strane creature, a un certo punto mi sentii
perforare l’anima da una freccia appuntita e dolorosa. Caddi a terra.
   Ero disteso lì, a terra, avevo molte ferite, ero spaventato, stavo
morendo. Avevano vinto loro, io stavo diventando semplicemente un
pezzo di nulla, ero solo cibo per loro.
   Non avevo mai visto una cosa del genere fino a oggi: si era scatenata
una vera e propria guerra.
   Queste creature alte, su due zampe, molto cattive, se la stavano
prendendo con noi, stavano infuocando il nostro mondo, ci stavano
uccidendo!
   “Ma loro che cosa vogliono? Perché sono arrivati e ci hanno distrutto
il mondo? Chi sono?”, pensai prima di chiudere gli occhi per sempre...

  Giada Granatino

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IL GIRASOLE

  Era piccolo e tremante, come un ramoscello sotto il temporale a
soffrire. Le sue foglie gocciolavano. I suoi petali dorati cadevano uno a
uno strappati dalla grandine. Il fratello a fianco, in fin di vita, attendeva
il suo destino.
   Mentre i soldati combattevano contro i nemici, i fiori sotto di loro
venivano calpestati. La guerra continuava imperterrita. Sembrava un
inferno, con mille esplosioni e caduti. Una raffica di vento portava via il
fratello, lontano da lui, scomparso dalla sua visuale. Si sentiva solo,
senza nessuno a fianco. Assisteva alla lotta dell’uomo.
   Il cielo al tramonto si tinse di rosso, liberandosi delle nuvole. Calò un
silenzio irreale. Tutti si fermarono.
   Venne notte e il tenero girasole riuscì finalmente ad addormentarsi.
Una luce lo svegliò, aprì gli occhi e vide tutto bianco, come il latte. Un
girasole nel vuoto... come poteva essere possibile?!?! Davanti a lui
appariva suo fratello che sembrava spaventato. Era tutto diverso, i
colori cambiavano, si sentiva girare la testa e a un tratto si risvegliava e
tornava normale.
   Il campo di girasoli con il mulino brillava nell’alba. L’aria era pulita e
fresca. Gli uccellini cinguettavano e i bambini correvano felici. Accanto
a lui la presenza del fratello in forma smagliante lo rassicurava. E,
finalmente, un sospiro di sollievo.

  Laura Giovani

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NOSTALGIA

  Sono stufo di questa vita. Tutti i giorni accadono le solite cose, o
meglio, non accade nulla.
   Lui entra nella stanza, attacca lo spinotto della cassa al telefono e fa
partire musica vecchia. Dopo pochi minuti di quella musica, inizia a
‘cantare’ e ‘ballare’ nella stanza. Più che cantare, urla credendosi un
vincitore di San Remo, e per ‘ballare’ si intendono delle giravolte senza
senso, ma lui sembra convinto di essere Roberto Bolle.
   Bah. A lui, di me e di tutti i miei simili appoggiati su questa sorta di
alveare quadrato fatto di legno, non importa niente. Siamo abbandonati
qui da anni, fermi e impolverati a osservare il letto della sua camera
dalle pareti gialle. Se davvero preferisce mettersi sui libri a studiare o
perdere tempo come fa a suo solito, non poteva lasciarci dove
eravamo?
   Torna sempre tardi e nonostante ciò non ci degna nemmeno di uno
sguardo.
   Eppure, quando ci aveva presi al negozio era così felice di tenerci tra
le mani, di ottenere degli esseri carini come noi. Giocava con noi tutti i
giorni, si divertiva a lanciarci e a riprenderci in mano per poi offrirci
quei suoi calorosi abbracci. Ma la situazione a un certo punto è
cambiata. Tornava sempre più tardi, fino a quando, dopo alcuni mesi,
non siamo più stati presi in considerazione. Preferisce giocherellare con
la sua tavoletta metallica su cui digita sempre qualcosa con le sue dita.
   Da anni non ci guarda nemmeno, noi esseri di pezza, così carini, con i
nostri occhioni di vetro, alcuni diversi dagli altri. Molti di noi sono
rappresentazioni di animali, solo uno è diverso, rappresenta un frutto.
   Ma anche se siamo così morbidi e coccolosi, a lui non gliene frega
niente, siamo solo destinati a prendere la polvere su questi scaffali.

  Giorgia Edgecombe

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Disegno di Giorgia Edgecombe

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PER UN LITRO DI LATTE

  Era un giorno qualunque, uno come tanti altri. Il sole splendeva in
alto nel cielo e con poca voglia mi stavo recando a comprare il latte per
mia madre.
   Non era affatto giusto, i miei amici erano già al campo a giocare a
calcio.
   Non era affatto giusto che la mamma dovesse chiederlo a me e non a
mio fratello Giovanni, che era sul divano a non fare niente.
   La strada sembrava interminabile, anche se il negozio era distante
solo qualche centinaio di metri da casa. Ricordo bene le parole di mia
mamma: “Giorgio, stai attento, ricordati di guardare la strada prima di
attraversare e, semmai ci fosse il semaforo dei pedoni rosso, aspetta che
scatti il verde.”
   Non era affatto giusto perdere del tempo anche dietro a un semaforo,
considerando che quel giorno c’era la finale del campionato scolastico
di calcio. Indossavo già la divisa con la maglia numero 10 e non potevo
perdere quella partita che aspettavo da un anno intero. Anche mio
fratello Giovanni aveva vinto il campionato scolastico di calcio qualche
anno prima e io non volevo esser da meno.
   Entrai nel negozio, presi immediatamente il latte e dopo aver pagato
mi misi a correre verso casa.
   Nel tornare a casa fui attratto da un gruppo di persone che stavano
intorno a una persona giacente a terra all’altezza del semaforo che poco
prima avevo attraversato per andare al negozio. Incuriosito, mi
avvicinai e mi accorsi che mia mamma era lì presente.
   “Ottimo”, esclamai, “in questo modo posso lasciarle il latte e correre
subito al campo.”
   Porsi il latte a mia mamma, ma mi accorsi immediatamente che stava
piangendo.
   Le chiesi: “Mamma, perché piangi? Per caso conoscevi quella
persona?”
   Lei non mi rispose e in quel momento mi cadde il latte dalle mani. Il
liquido si sparse a terra e vidi quel ragazzo che lì giaceva. Mi accorsi
che era in divisa anche lui e come me aveva la maglia numero 10.

                                   28
Sembrava uguale alla mia, ma non era possibile, perché di numero 10 in
una squadra ce n’è uno solo. Gli spostai con la mia mano il ciuffo che gli
copriva la faccia e solo in quel momento capii il motivo per cui mia
mamma piangeva.
   Ero proprio io, giacevo a terra.
   Non era affatto giusto perdere la vita, perdere la finale del
campionato scolastico semplicemente perché avevo attraversato la
strada con il rosso.

  Gabriele Durante

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LO SPECCHIO INNAMORATO

  Un viavai di gente questa mattina, forse nessuno è riuscito a dormire
bene, proprio come me.
   Ci pensavo già da ieri sera. Ogni tanto passava la piccola di casa, di
ritorno dalla sua consueta passeggiata. Stanca e accaldata, si
stiracchiava, facendo i suoi consueti esercizi di stretching e rimirandosi
mi faceva le linguacce: “Ma che occhiaie che ho! e che capelli
spettinati... se mi facessi una treccia, riuscirei a contenere questi riccioli
ribelli!”, e tornava a farmi le linguacce.
   Sinceramente avrei voluto dirglielo che mi stava dando un po’
fastidio, ma forse potevo aspettare ancora, tanto a cosa sarebbe servito?
Lei sarebbe tornata e avrebbe continuato. Io, in fondo, sono da tutta la
vita paziente.
   Il sole è spuntato presto oggi, siamo già quasi in primavera, mi sento
leggermente opaco, ho bisogno di rinfrescarmi con il suo sorriso. Oggi
non ho ancora visto il suo viso, forse non ha voglia di salutarmi, ma no,
forse dovrò ancora aspettare.
   Un saluto frettoloso lo fa l’uomo bruno, talmente alto che per
guardarmi si deve chinare parecchio, poiché credo di non essere alla
sua altezza, però con me è sempre stato gentile, accomodante, a volte
mi ha fatto qualche frettolosa carezza, alla quale io ho sorriso fra me. Lo
guardo mentre si prepara la colazione, troppo presto persino per me
che non dormo mai e poi lo guardo ancora mentre apre l’uscio di casa,
lanciandomi ancora una volta uno sguardo distratto, perso nei suoi
pensieri. Vorrei aiutarlo, ma i miei pensieri vanno sempre e solo a lei,
che mi riempie il cuore di gioia, mi sta vicina tante ore al giorno e mi
coccola con i suoi sorrisi.
   La porta del bagno si apre lentamente, mentre esce la donna. In testa
porta un asciugamano legato a mo’ di turbante, la faccia gocciolante...
capisco che è appena uscita dalla doccia e che, come sempre, ha fretta di
sbrigare tutte le sue mille occupazioni. Sicuramente andrà in cucina, lo
so, la sto guardando dal riflesso di fronte a me che tante volte mi
permette di vedere tutto quello che da solo non riesco a scorgere. Spero

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solo che non si fermi a salutarmi proprio adesso, ho un po’ paura,
perché so già cosa mi aspetta.
   Infatti, non ho fatto nemmeno in tempo a formulare il pensiero, che la
donna si avvicina e si allontana. Penso che sia un suo gioco, lo fa ogni
volta che mi vede e non ho ancora saputo spiegarmi il motivo. Torna
ancora ad avvicinarsi e sgrana gli occhi, pulendosi quelle narici che
sono costretto a osservare ogni santo giorno e toccandosi gli occhi e la
fronte, come a farsi un massaggio per alleviare la tensione che credo già
senta. Mi fa vedere anche le braccia, le tira su, le tira giù, la sua
ginnastica veloce ormai la conosco a memoria, ma sono costretto a
rivederla, poi ha anche il coraggio di girarsi e darmi le spalle, per poi
tornare a guardarmi velocemente.
   Ecco, adesso mi lascerà in questo stato, con mille goccioline. Sto
sudando copiosamente, ma che importa, di certo la donna non si
occuperà di me finché non avrà finito quello che ha da fare. Ricordo che
a volte sono stato costretto a sbrigarmela da solo, e ci ho messo
parecchio tempo a tornare limpido e pulito, poi forse la donna
ripassava e mi accarezzava con un panno e quel profumo di lavanda mi
riempiva le narici. Ma, a pensarci bene, preferisco sbrigarmela da
solo!!!
   Mentre questi tristi pensieri si accavallano nella mia mente, ecco, sto
udendo la sua bellissima voce, ancora prima di vederla. Credo che il
mio povero cuore vada in mille pezzi, ecco il suo luminoso sorriso:
“Buongiorno bellezza, come siamo belli oggi, che bel sorriso che hai”,
ecco quella sua voce, me la porterò dietro per tutta la giornata. Anche
oggi si sofferma a lungo, prende una sedia e la pone accanto a sé,
prende i suoi trucchi dalla borsetta e mi lancia uno sguardo
ammaliatore, mi manda un bacio a fior di labbra. Sono confuso,
disorientato, non riesco a connettere, sono molto emozionato, mentre lei
continua imperterrita a ritoccarsi il viso, che già di per sé è bellissimo.
   La osservo come ogni giorno, felice e spensierato come solo un cuore
innamorato può essere, lei e il suo splendido sorriso rimangono con me
parecchie ore al giorno: anche quando si allontana, io continuo a
rivederla nei ricordi. Mi tocca il viso, mi accarezza lentamente e ripete
le sue belle parole: “Come siamo belli questa mattina”. E mi racconta
della sua serata di ieri sera.

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Non mi stanco mai di ascoltarla. A volte si distrae, perché la donna in
cucina la chiama, ma poi torna a farmi l’occhiolino e riprende il suo
monologo e io, rapito, la ascolterei all’infinito. Ma oggi, ora che la
osservo bene, forse vedo uno sguardo un po’ triste. Vorrei poterla
consolare e invece mi accontento delle sue smorfie birichine, so che
presto si allontanerà, già è passato un po’ di tempo, anche se a me
sembrano solo secondi. Lanciandomi un’ultima occhiata di sfuggita, mi
manda un bacio con la mano e si allontana, richiamata dalla voce della
donna in cucina.
  E all’improvviso e in silenzio, mi lasciano da solo. E io aspetto, con il
cuore in mille pezzi...

  Miriam Di Natale

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IN SCENA

  Luci, ombre. Ecco cosa vedeva. Eppure i suoi genitori si erano
raccomandati, a lei e alle sue sorelle, di non andare mai troppo in
superficie. Era pericoloso, potevano essere catturate da quegli strani
rottami di ferro.
   Sua madre le raccontava da sempre mitiche storie su cosa si potesse
trovare sulla meraviglia, ovvero il mondo esattamente opposto al suo.
Sua nonna un giorno le raccontò cosa facevano gli “esseri” alla loro
razza una volta catturato un esemplare, come il rinchiuderlo e farci
strani giochi di intrattenimento.
   Nonostante queste raccomandazioni, lei volle comunque vedere la
meraviglia che la affascinava tanto. Provò ad arrivare in superficie
avvicinandosi così a quel mondo fantastico e pieno di luci, ma si
impigliò in una rete, quella dei rottami con cui venne catturata. Così
venne trovata da uno degli esseri e da quel momento una serie di
trasporti tra altri rottami di ferro più piccoli la portarono fino a lì.
   Si svegliò e vide luci, ombre nere e percepì molta gioia nei confronti
di chi la guardava. Voleva scappare, ma era rinchiusa in una vasca,
piena d’acqua. Si girò in cerca d’aiuto, ma l’unica cosa che vide erano
altri, altri come lei, rinchiusi in vasche e con aria triste.
   Alzò lo sguardo e vide una platea, piena di quegli strani esseri con
due gambe e due braccia che la guardavano indicandola stupiti.
   Proveniente dalla platea si sentì una voce: “Benvenuti a tutti, ecco a
voi lo spettacolo che tutti vogliono vedere, ecco a voi Kala il delfino”.
   Non sapeva cosa fare, si aprì il cancello di fronte a lei che l’avrebbe
proiettata in una vasca più grande davanti al pubblico.
   Conta fino a tre... uno, due, tre e poi... in scena!

  Adele Diamante Colombo

                                   33
Elaborazione grafica di Adele Diamante Colombo

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IL FIORE ROSSO

  Eccomi, io abito qui con mia mamma, mio padre e tutti i miei parenti.
Abitiamo tutti vicini e in famiglia siamo davvero tantissimi. La
comunità in cui vivo si estende per chilometri e chilometri. Questo
clima a me piace definirlo tropicale: di giorno fa molto caldo e c’è molta
umidità, invece di notte la temperatura si abbassa un po’.
   Le giornate qui sono piene di pace e tranquillità, però è da un po’ di
giorni che sentiamo strani rumori e non riusciamo a capire che cosa sia.
I miei genitori sono molto allarmati perché i miei nonni hanno
raccontato loro di una strana sagoma rossa che devasta tutto.
   Oggi mi sono svegliato e ho sentito i vicini urlare. L’aria è nera, fatico
a respirare...
   C’è odore di morte. Appena riesco a riaprire gli occhi, vedo mia
mamma sdraiata per terra: non ha più neanche una foglia e il tronco è
tutto nero.
   Capisco che da qui a poco quella minacciosa sagoma di diverse forme
ridurrà così anche me.

  Leonardo Cazzaniga

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Disegno di Leonardo Cazzaniga

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UN PO’ DA SOLO

  Ultimamente, sempre più spesso, vedevo questa sorta di aereo che
fluttuava sopra di noi; si spostava poco, al massimo di qualche metro,
ma per la maggior parte del tempo se ne stava lì, fermo immobile.
   Chiesi un po’ di volte alla mamma cosa fosse: lei stava sempre sul
vago, si vedeva che non mi voleva rispondere.
   Un giorno stavo andando a prendere Lara, come ogni mattina, per
andare insieme a scuola. Lara si fermò un secondo e disse: “Scusami ho
troppa fame”. Poi scosse la testa, mi indicò qualcosa di piccolo e disse:
“Fa proprio al caso mio”. Io annuii.
   La vidi allontanarsi e arrivare vicino a quella sorta di puntino,
proprio sotto l’aereo. Si mosse un po’ ma poi smise di farlo. Allora io
urlai: “Dai, Lara, muoviti che arriviamo tardi a scuola!”.
   Nessuna risposta.
   Decisi di andare più vicino. Vedendola muoversi pensai: “Finalmente
Lara si muove ma... Perché sta andando verso l’alto?”
   Poi arrivai così vicino da capire una cosa: gli occhi di Lara erano
spenti, senza vita... era stata presa da una sorta di uncino e tirata su
verso l’aereo.
   Ero sconcertato, non avevo ancora elaborato quello che era appena
accaduto quando vidi mia madre corrermi incontro e dire: “Dobbiamo
andarcene, non ho tempo di spiegarti, papà ci viene incontro”.
   Detto questo mi prese la mano e ci affrettammo ad andarcene. Mi
girai, senza fermarmi. Stavano venendo verso di noi, vedevo i miei
amici, i miei parenti, i miei conoscenti: ”Perché stanno venendo tutti
verso di noi?”
   Mi guardai intorno, c’era qualcosa dietro di loro che li spingeva, una
rete. Fu un attimo: io e mia madre fummo travolti, non riuscivo
respirare, mi uscì un debole: “Mamma…”.
   Poi, il buio più totale.
   Mi risvegliai, ero da solo.
   Guardai sotto di me. Solo caos, non riuscivo più a riconoscere la mia
bellissima città, la mia casa, le altre, non c’era nessun edificio intatto, o

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almeno riconoscibile. Rimanevo solo io, con qualche graffio, ma
comunque ero io.
  Da solo, nell’oceano, però, cosa mi restava da fare?

  Rebecca Brambilla

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NON LO POTRÒ MAI CAPIRE

  Improvvisamente arrivarono loro.
   Così, di soprassalto, si avvicinarono a noi e ci catturarono, uno dopo
l’altro.
   Eravamo spaventati: alcuni di noi riuscirono a scappare, compreso
me, però essi riuscirono a prendere alcuni dei nostri bambini. Io non
capivo, non capivo come si potesse arrivare a uccidere solo per ricavare
dalla nostra pelle inutili borsette o scarpe, oppure altri oggetti di
decoro.
   Riuscii a scappare, però quando vidi tutti i miei compagni venire
catturati mi arrivò un senso di coraggio. Arrivai vicino a uno di loro, gli
presi la gamba e riuscii a liberare due miei amici… però venni
catturato.
   Pensai.
   Pensai a come un essere può diventare così malvagio e senza cuore.
   La cosa più brutta è che non succedeva soltanto a noi coccodrilli, ma
anche ad altri animali come elefanti o animali da pelliccia. Io non
capisco e, purtroppo, non lo potrò mai capire.

  Tommaso Brambilla

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IL GIUDIZIO

  Ero sotto il fuoco incrociato della fanteria. I colpi di mortaio e di
artiglieria rimbombavano fendendo l’aria           per    poi   scoppiare
frammentandosi.
   Però sarebbe meglio cominciare dall’inizio...

   Ero in cerca dell’arma che avrebbe posto fine alla guerra, ormai
durata vent’anni. Giravano molte voci sul dove si potesse trovare, le più
attendibili riguardavano un’isola lontana...
   Erano passate già due settimane da quando mi ero imbarcato per
trovarla ed erano due giorni che non c’era altro che oceano intorno a
me, finché a un tratto la corrente mi spinse sempre di più velocemente.
Sentivo il rumore di cascate. Calai l’ancora per fermarmi e il
contraccolpo mi scaraventò su una spiaggia di sabbia nera sulla quale vi
erano delle impronte che si dirigevano verso delle vecchie fortificazioni.
   All’interno delle mura c’era un piccolo villaggio con un’armeria, sei o
sette case e una piccola piazza. Mi mossi per entrare nell’armeria
quando un fischio assordante, un’esplosione di luce e fiamme si diresse
verso il villaggio non colpendomi per poco.
   Una volta uscito vidi che vi erano cannoni di artiglieria e mortai a
perdita d’occhio. Al centro della conformazione vi era una nave con
sopra un colosso (unità armata e corazzata pesantemente) con in mano
un cannone a ioni. Il suo sguardo parlava da solo, sicuramente non era
un alleato.
   Scese dalla barca con un balzo e con il cannone carico puntato contro
di me. Presi frettolosamente in mano il fucile: stavo per sparare ma, ad
un tratto, ci furono una luce e un boato. Davanti a me lentamente
apparve un essere demoniaco che sembrava stesse giudicando. Mosse la
sua coda aprendo un buco nel pavimento, dove sono caduto.
   Una volta atterrato mi trovai in un posto umido e caldo come una
palude. Nell’acqua si poteva notare, specchiata, la mia figura, con un
buco di dieci centimetri di diametro nel lato sinistro del mio petto.

  Federico Boscherini

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Disegno di Federico Boscherini

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TEMPESTA DI NEVE

  Quella mattina gelida e oscura la città era completamente deserta.
Era tutta circondata da un’enorme e spaventosa tempesta di neve.
   Questa volta, però, toccava proprio a me. Ero davvero io quel piccolo
essere che la mattina è dovuto uscire a prendere del cibo per sfamare la
sua povera famiglia.
   Uscita di casa ero impaurita e infreddolita anche se avevo indosso il
regalo di mia mamma, una meravigliosa pelliccia bianca. Ma questa
non bastava per proteggermi dal freddo.
   Non si vedeva nulla, era tutto scuro. A un certo punto cominciai a
intravedere una piccola macchia nera che si avvicinava lentamente e si
mischiava con la tempesta.
   Dal freddo e dalla paura mi accovacciai sulla gelida neve.
   Non sapevo più cosa fare, non riuscivo più a muovermi, allora rimasi
ferma lì e aspettai.
   La macchia era sempre più vicina a me e a un certo punto vidi un
bambino, con un piccolo giubbino nero e con del pelo sul cappuccio,
che camminava a piccoli passi e dopo poco cadeva a terra. Arrivato
vicino a me si sedette e mi abbracciò. Io non sapevo cosa fare perché
mia mamma e mio papà avevano detto, a me e ai miei fratelli, che gli
umani, anche se hanno paura di noi, sono pericolosi.
   Rimasi ferma, immobile, ma il bambino non si staccava, non aveva
per niente paura di me. Siamo rimasti lì insieme e abbiamo aspettato la
fine di quella maledetta tempesta di neve.

  Aurora Balconi

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LA SENTINELLA

  Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era
lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una
gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva
d’ogni movimento una agonia di fatica.
   Ma dopo decine di migliaia d’anni quest’angolo di guerra non era
cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi
tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque,
toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere posizione e
tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una
stella mai sentita nominare, finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso
era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica
altra razza intelligente della Galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti
mostri.
   Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la
lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era
stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza
nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
   E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con
le unghie.
   Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il
giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male
agli occhi. Ma i nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni avamposto era
vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce
dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce
l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
   E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece
fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro
facevano, poi non si mosse più.
   Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col
passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no.

                                    43
Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe,
quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame.

  Fredric Brown
  (in L’ora di fantascienza, a cura di C. Fruttero, F. Lucentini, Einaudi, Torino 1982)

                                                   44
Antefatto

                              L’immaginazione è una funzione dell’esperienza
                                                            Gianni Rodari

  Osservare l’altro, l’alieno, il nemico. Il mostro. E scoprire che l’altro
altri non è che Io. “Je est un autre”, “Io è un altro” scriveva Arthur
Rimbaud. Chi è davvero, allora, il mostro?
   La Sentinella (The Sentry, 1954) è un racconto dello statunitense
Fredric Brown assurto a classico della fantascienza e della novellistica
breve in genere, presente oggi nella maggior parte delle antologie
scolastiche di ogni ordine e grado. A cosa è dovuta tanta fortuna?
   Il racconto di Brown induce il lettore a identificarsi
inconsapevolmente con un punto di vista inatteso, estraneo, alieno.
Quello di The Sentry è un esercizio di straniamento che ci costringe a
mettere in crisi i nostri pregiudizi, un ribaltamento prospettico che ci
porta a scrostare i nostri sedimenti percettivi. The Sentry genera uno
shock che, se inizialmente può instupidire, poi, dopo che l’intuizione
ha rimestato nella nostra mente con il suo rapido lavorio, genera
stupore, quello stesso stupore da cui nasce ogni sguardo autentico e
rinnovato sul mondo, quello stupore da cui sgorga ogni forma di
immaginazione in grado di agire sulla realtà...

   Quella che avete tra le mani è una raccolta di racconti scritti dagli
alunni della classe IR del Liceo Artistico Albert Einstein di Vimercate
all’interno di un percorso didattico e formativo di avvicinamento al
testo narrativo svoltosi nell’accidentato anno scolastico 2019-20. Una
raccolta di racconti nati dall’incontro (ma verrebbe da dire dallo
scontro) con il testo di Fredric Brown e con lo studio delle tecniche
narrative a esso sottese. Inoltre, alcuni studenti hanno generosamente
messo a disposizione il loro talento artistico per illustrare la raccolta e le
proprie novelle.

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Le tecniche della narrazione, della letteratura e dell’arte sanno essere
utili, necessarie e belle solo se funzionali a esprimere e arricchire
contenuti vivi, intensi e veri, solo se sanno metterci a contatto con
l’unica “materia” che la scuola, la vita e l’arte, in fondo, insegnano: la
realtà. Realtà di cui è parte integrante, ci piaccia o no, il nostro punto di
vista sul reale e la nostra coscienza.
   Scrivere (e leggere, e fare arte, e discutere il proprio punto di vista sul
mondo...) è allora un modo privilegiato per amplificare la nostra
coscienza della realtà, nel suo senso più ampio e pieno. Se poi quest’atto
avviene dopo aver patito un ribaltamento di prospettiva, dopo aver
messo in crisi le basi solo apparentemente solide su cui affondano le
nostre certezze sull’io, allora abbiamo fatto un piccolo passo verso la
libertà.
   Dopo avervi augurato buona lettura, chiudo come Gianni Rodari
chiudeva l’Antefatto della sua Grammatica della Fantasia: «“Tutti gli usi
della parola a tutti” mi sembra un bel motto, dal bel suono democratico.
Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo».

  Prof. Giuseppe Imperatore

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