Omelia del Mercoledì delle Ceneri 2021

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Omelia del Mercoledì delle Ceneri 2021
Omelia del Mercoledì delle
Ceneri 2021
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              Omelia delle Ceneri

Omelia per la festa di S.
Biagio: IL MARTIRIO DELLA
PAROLA
                   IL MARTIRIO DELLA PAROLA
               Omelia per la festa di S. Biagio
             Biagio Saracinisco, 3 febbraio 2020

Permettetemi di condividere insieme con la comunità, con voi
confratelli presbiteri e Sindaci qui presenti una riflessione,
una meditazione non frettolosa, un po’ articolata, su alcune
considerazioni che afferiscono immediatamente alla liturgia in
onore di san Biagio. La celebrazione del suo martirio e il
racconto della liberazione di un bambino dal soffocamento
causato da una spina rimasta in gola, con il grave pericolo di
morte, permette di meditare in particolare sul “martirio della
parola”. Anche attraverso il martirio della parola, come per
ogni forma di martirio, passa la testimonianza della fede e il
coraggio della libertà interiore, fino al sacrificio di sè. Il
miracolo della gola fa pensare alla necessaria e urgente
liberazione della parola da ogni forma di “soffocamento” che
rischia di porta alla morte l’intera esistenza dell’anima
cristiana.

Il martirio della parola è innanzitutto testimonianza della
bellezza “sacra” di ogni parola. Il parlare del credente deve
conformarsi e lasciarsi educare dalla forza e potenza che Dio
dà alla sua parola. La prima lettura di oggi, dal libro del
Siracide cap. 51, fa cenno all’uso improprio, degradato, della
parola. Dice il testo “ti glorificherò Signore perché mi hai
liberato dal laccio della lingua calunniatrice, dalle labbra
che proferiscono menzogna”; e ancora più avanti: “Mi hai
liberato dal profondo seno degli inferi, dalla lingua impura
mi hai liberato”. Il testo parla di una parola “liberata”,
perché pulita, purificata e guarita da ogni forma di
cattiveria che danneggia e distrugge. Gli accerchiamenti degli
istinti umani e peccaminosi, inquinano la parola e spesso la
avvelenano: “Una calunnia di lingua ingiusta … la mia anima
era vicina alla morte”.

Gesù ci promette che nella nostra vita di discepoli sarà lo
Spirito del Padre a parlare in noi: cosa significa? Lo Spirito
ci educa, educa il cuore, e ci aiuta a parlare nel modo in cui
Dio parla, da sempre. E com’è il parlare di Dio da cui noi
dobbiamo imparare? La Sua è una parola di bene, di gioia, di
fiducia, di grazia, di benedizione, di creazione, quindi di
vita e di amore. Ecco il parlare di Dio, è un parlare
creativo, è un parlare che genera la vita. Quanto è bella la
prima parola con cui Dio parla nella Bibbia: “Sia la luce”. Il
parlare di Dio diffonde luce, genera la vita, e la sua parola
è vita per il mondo. Come il parlare di Dio, anche le nostre
parole devono “creare” e non distruggere, dare luce e non
gettare nelle tenebre, dare vita e non morte, dare esistenza e
non negare la vita dell’altro. E’ la sfida di tutti i giorni
sui nostri social, è la sfida di tutti i giorni nel modo di
interloquire con gli altri, di confrontarsi, di discutere e
dibattere rispettando le differenze e le divergenze, per non
cadere nell’abisso di parole che danno morte. Il libro di
Genesi ci regala una verità ancora più bella, quando lascia
intendere che il parlare di Dio è un’azione sacra. E’ tanto
sacra questa azione del parlare, che il libro di Genesi la
presenta secondo una struttura liturgica, una struttura sacra;
il parlare con cui Dio crea la luce e poi gli astri, poi il
sole, poi le acque, poi il cielo, poi gli uccelli e il mare, i
pesci, ecc… è come pregare nel tempio; quindi il parlare di
Dio è sacro, è liturgico, è solenne. Di conseguenza anche il
parlare del cristiano è un’azione sacra se ci avvicina alla
qualità spirituale della parola di Dio. La parola nutre, nella
Bibbia è paragonata al cibo. Anche noi compiamo un’azione
sacra quando apriamo la bocca e le nostre parole “celebrano”
un’azione liturgica di benedizione, di lode, di gratitudine,
di stupore, di vita. Avrei molto da dire, avrei piacere di
dire, ma questa prima parte basta così. E un po’ questo il
“martirio della parola”, la buona testimonianza della parola
che “crea”.

Il martirio della parola riguarda anche il coraggio e la
libertà del cuore: “Sia invece il vostro parlare: «Sì, sì»,
«No, no»; il di più viene dal Maligno” (Mt 5, 37). Il
“martirio della parola” richiede il coraggio nel parlare, e il
coraggio nel tacere. A volte abbiamo voglia di parlare e
dobbiamo stare zitti. Altre volte dobbiamo parlare e invece
stiamo zitti. Allora il martirio della parola significa che il
nostro parlare non deve essere schiavizzato, sottomesso a
logiche di interessi, di furbizia, di scaltrezza, di raggiri,
di scuse, di bugie, di alibi. I martiri davanti alla minaccia
delle torture hanno avuto il coraggio di parlare chiaro, in
tutta verità. La forza del coraggio veniva anche dalla
consapevolezza che la loro forza e audacia nel professare la
fede e nel parlare con verità rafforzava anche la vita
cristiana degli altri che li vedevano morire in maniera così
coraggiosa. Quando il martire offre la propria vita nel
dolore, non si dimostra coraggioso soltanto nell’ amare il
Signore, e di restare sino alla fine a Lui fedele. Dimostra
anche l’amore per i suoi fratelli, rafforzati da questo loro
sublime esempio. Morivano nella fermezza della verità
cristiana, professata ad alta voce davanti all’autorità
minacciosa, consapevoli che altri cristiani potevano essere
consolati e rafforzati nella loro fede. Dunque, il martirio
della parola testimonia l’amore per Gesù Cristo e l’amore per
il prossimo.

Allora cari amici, oggi credo che il Signore, attraverso il
martirio di San Biagio ci chieda di dare molto valore al
nostro parlare di ogni giorno, come azione sacra che
testimonia la bontà della parola Dio; lo stesso martirio di s.
Biagio ci chiede di parlare con la libertà del cuore, per
testimoniare con coraggio e coerenza la verità della fede
davanti a chiunque e in qualunque condizione.

Testo da registrazione

Gerardo Antonazzo

CARNELLO – ‘Chi ci separerà
dall’amore di cristo?’
            CHI CI SEPARERA’ DALL’AMORE DI CRISTO?

        Omelia per il rito dell’Unzione degli infermi
         Carnello, Visita pastorale, 15 gennaio 2020

Cari anziani, cari ammalati,

san Paolo raccontando della sua vita e di alcune sue
esperienze molte dure e difficili mette, come in elenco, tutte
le prove che in più riprese e fino all’ultimo ha dovuto
sostenere, affrontare, superare: punizioni, frustate, digiuni,
lacrime, incomprensioni, abbandoni, veglie, naufragi,
persecuzioni: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada?” (Rm 8, 35ss). Sono esempi di prove
concrete che l’apostolo Paolo in prima persona aveva dovuto
affrontare. San Paolo non ha difficoltà a parlare della sua
sofferenza, e per essa sa spendere parole importanti perché
lui ha subito ripetutamente situazioni estreme che sono state
causa di grande angustia e di grande desolazione.

Quando ci troviamo accanto a qualche situazione di malattia
dura o di prova dolorosa, noi abbiamo difficoltà a dire una
parola di senso e di “buon gusto” spirituale. A volte sembra
scontato, forse anche banale, dire ad una persona afflitta a
malattia: “Fidati di Dio, affidati al Signore”. Sembrano
parole rituali, come di prassi, e chi le ascolta fa fatica ad
accettarle, perché nella stagione della sofferenza si crea
molta confusione nel cuore e nella mente; c’è molta solitudine
interiore, proprio perchè non posso capire il dolore di chi è
in uno stato di sofferenza e che, proprio per questo, rischio
di non comprendere e di” profanare”. San Paolo rende
testimonianza alla forza della sua fede con la quale ha saputo
affrontare le prove confidando decisamente in quell’amore di
Cristo che non abbandona mai chi è partecipe della sua Croce.

Chi ci potrà separare dall’amore di Cristo? In tutte queste
cose: tribolazioni, angosce, persecuzioni… noi siamo stati più
che vincitori; cioè: abbiamo saputo affrontare fino a superare
ogni difficoltà. L’apostolo non lo dice per vantarsi, quasi
fosse per lui motivo di orgoglio e di ostentazione, ma solo
per incoraggiare chi lo ascolta. E conferma ancora con più
forza: io sono persuaso – cioè profondamente convinto – che
niente, e lo dimostra con alcuni esempi, potrà mai separarci
dall’amore di Dio! È questa la forza della sua convinzione, è
questa la forza della sua persuasione: nulla potrà mai
separarci dall’amore di Dio! E’grazie a Lui, grazie a questa
certezza del suo amore che mai ci abbandona che noi possiamo
superare ogni prova ed ogni difficile momento.

Miei cari amici, qualunque cosa accada nella nostra vita,
nulla può allontanare Dio da noi; noi a volte lamentiamo che
le sofferenze tocchino soltanto poche persone, soprattutto
quelle più buone o innocenti, ma basta guardarci introno per
vedere quanta gente, quanti fratelli e sorelle sono
attraversati da esperienze dure, da prove difficili di dolore
e sofferenza derivanti da malattie fisiche, spirituali, morali
e psicologiche. Non è così! Noi soffriamo di uno sguardo
miope, quasi cieco. La sofferenza non guarda in faccia a
nessuno, può riguardare chiunque e toccare in qualsiasi
momento della vita. La differenza la fa la nostra persuasione,
quindi la certezza indiscussa, circa l’amore di Dio; quando
siamo veramente messi a nudo di ogni forza e di ogni energia,
resta la certezza dell’amore di Dio quale unica forza che ci
continua a sostenere. Non è così invece per chi la propria
sofferenza la vive senza nessun riferimento al Signore, perché
non ha fede o forse perché proprio in quel momento perde lo
sguardo della fede, smarrendo l’unico sostegno che potrebbe
aiutare.

Celebrando oggi il Sacramento dell’Unzione degli infermi,
celebriamo il mistero della nostra fede. Non pratichiamo un
rito magico che ci guarisca o ci prevenga da ogni possibile
danno fisico. Nel Sacramento dell’unzione noi celebriamo la
fede nella potenza dell’amore di Dio che guarisce con la
consolazione, guarisce con la forza della speranza, guarisce
con la forza della fiducia, può anche guarire dalla stessa
malattia quando Lui vuole. Ma la guarigione fisica non è
l’unica forma e possibilità di guarigione. A volte la vita ci
chiede di continuare ad accogliere, ad accettare una
condizione fisica di sofferenza, senza mai dimenticare che la
sofferenza non viene da Dio! Anche in questo dobbiamo cercare
di essere buoni testimoni e maestri, perché tanti fratelli e
sorelle nel momento di qualche sofferenza particolare sono
attraversati dalla rabbia nell’attribuire a Dio la causa del
dolore. Questo si riscontra anche nelle tante conversazioni
del genere: se Dio ti ha mandato questa croce, devi
accettarla. Così riversiamo la colpa su Dio quale capro
espiatorio di ciò di cui non è assolutamente colpevole; Dio
non si diverte a far soffrire la gente, nemmeno con suo Figlio
sulla Croce. Dio non si diverte con nessuno, non è lui a
tirare a sorte su chi deve capitare una disgrazia. Il male che
accade nella nostra vita non può venire da Dio: non si può
addebitare al sommo bene una decisione di male, è
impossibile.   Il male viene invece dalla nostra condizione
limitata, difettosa, perché siamo creature ferite dal peccato,
siamo fatti male e ci facciamo del male.

Quanto è bello far incontrare la nostra natura malata con
l’amore di Dio per non disperarci mai, ma anzi poter dare un
significato positivo al dolore e alla sofferenza. Quale? Il
grido di Gesù sulla Croce non si è mai spento, il dolore di
Gesù sulla croce non è mai finito. Quando Gesù risorto appare
agli Apostoli, in particolare a Tommaso il quale dice di non
credere, invita proprio lui a mettere le sue mani nel segno
dei chiodi e nella ferita del costato. Gesù appare risorto, ma
conserva i segni e le piaghe della sua passione. Perché? Per
dirci che anche dopo la sua resurrezione il suo dolore e le
sue piaghe continuano nelle atrocità di coloro che sono
provati dalla sofferenza. Il suo grido sulla Croce continua
nel grido di chi è disperato, il suo abbandono e la sua
solitudine continua nella disperazione e nella solitudine di
chi si sente abbandonato da tutto e da tutti, soprattutto da
Dio. Anche Gesù grida sulla Croce la sua disperazione: “Padre
perché mi hai abbandonato?”. Capite? Dice: abbandonato! Quel
grido continua nella gente, continua nella voce e nella
coscienza di chi si sente solo e abbandonato. Gesù che appare
con le sue piaghe agli apostoli vuole dire: anche tu
risorgerai da questo momento difficile; non avere timore,
perchè il tuo grido è il mio, le tue pieghe sono le mie, il
tuo dolore è il mio dolore, la tua croce è la mia croce, e
anche la mia risurrezione è la tua.

È questa la grazia più bella e più grande per il nostro essere
cristiani! Se il mio dolore continua il suo dolore, allora
anche il mio con il suo dolore diventa motivo di speranza, di
benedizione, di redenzione, di liberazione.       Gesù non ha
sofferto per se stesso, ha sofferto per noi. Anche noi
possiamo vivere la sofferenza a favore di qualcuno; per cui
sento di non soffrire per niente, e che quel dolore non è
assurdo, né inutile; sapere che questa mia croce può portare
benedizione nel mondo, la mia sofferenza può diventare la più
grande missione! Potrò non essere guarito fisicamente, però mi
sentirò guarito per il fatto che il mio dolore, continuando il
dolore di Cristo, continua ad essere salvezza per il mondo.
Divento grazie a Cristo benefattore dell’umanità!

Cari amici, ci fa bene familiarizzare molto con queste
riflessioni perché quando stiamo bene non pensiamo a tutto
questo; siamo chiamati a riflettere e familiarizzare con
queste verità che Cristo ci ha testimoniato e l’Apostolo ha
vissuto, così che trovandoci a contatto con situazioni di
sofferenza, invece di spendere parole sciocche per le quali
faremo meglio a stare zitti, potremmo valorizzare parole di
Verità con le quali accompagnare per mano ogni fratello e
sorella in condizioni di disperazione e di solitudine.
Concludo riferendo quella bella e difficile frase di San Paolo
quando afferma: “Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto
per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo,
manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa”
(Col 1,24). Dice: completo nella mia carne che soffre, quindi
nelle mie prove, nella mia malattia… ciò che manca ai
patimenti di Cristo a favore… Non che la sofferenza di Cristo
fosse imperfetta o incompiuta; Gesù ha sofferto in modo pieno
e perfetto. Ma quando l’Apostolo dice “completo ciò che
manca…”, lo dice riferito a se stesso, non a Cristo. Cioè: in
me manca ancora la partecipazione ai patimenti di Cristo;
mentre, quando sono nella sofferenza, sono associato a quei
patimenti di Cristo. La sofferenza di Cristo è compiuta, è
perfetta, ma chiunque soffre, nella fede, con Gesù, soffre con
Lui sulla sua Croce. Lui ha sofferto: manca la mia
partecipazione alla sofferenza perfetta di Cristo, che può
dare senso ad ogni forma di sofferenza. Questa mia
partecipazione migliora la vita di coloro su cui la mia
sofferenza ricade come benedizione, come salvezza che si
realizza nelle forme più diverse su persone che io non
conoscerò mai.

Cari fratelli e sorelle, credo che con questa riflessione ci
collochiamo al vertice della fede cristiana, perché tocca la
più grande e più bella comunione con Cristo, che in alcuni
santi è diventata mistica autentica. Allora chiediamo al
Signore di non disperdere il patrimonio della nostra fede
proprio in quei momenti in cui siamo invitati da Gesù, e
insieme con Lui, a scalare la montagna della fede per
ritrovarci con Lui al vertice del Calvario e diffondere
insieme con Lui una luce di speranza dove questa sembra ormai
spenta. La domanda più giusta che dobbiamo porre non è “perché
sto soffrendo?”, ma piuttosto “per chi sto soffrendo?” sapendo
quel “per chi” Dio lo conosce. Non dobbiamo mai dimenticare
che il bene di cui noi godiamo è frutto di chi sta soffrendo
per gli altri. Ogni forma di bene è sempre frutto della Croce,
e noi lo riceviamo senza mai dire grazie né a Dio né a chi,
senza conoscerlo, sta offrendo per gli altri la propria
esistenza crocifissa.

*Trascrizione da registrazione

X Gerardo Antonazzo
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