L'ENIGMA DEL DOLORE PERCHE SI SOFFRE IN MODO DIVERSO?

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L'ENIGMA DEL DOLORE
                            PERCHE SI SOFFRE IN MODO DIVERSO?

                                                       Napoli
                                                caffè Gambrinus
                                                 29 aprile 2010
                                            Elisabetta Zamarchi

     Il dolore è universale? E' universalmente vissuto e letto allo stesso modo?
 Ciò che è universale nel dolore è il danno, danni materiali e morali quali sono quelli
 causati da malattie, perdite affettive, handicap o dissesti economici... certo non è
 universalmente condivisibile il modo in cui quel danno è vissuto. Infatti il danno, anche se
 è recepito da tutti e tutte come tale, è interpretato in modo singolare a seconda della
 cultura, dell'orizzonte di appartenenze e credenze a cui quei tutti fanno riferimento: nel
 mondo orientale il dolore è letto e vissuto diversamente da chi appartiene all'occidente
 cristiano e un credente patisce il dolore in modo completamente diverso rispetto a chi si
 professa ateo o agnostico.
Questo vuol dire che, ci insegna Salvatore Natoli, l'esperienza effettiva del soffrire è data
dalla circolarità tra danno e senso, o meglio dalla tensione tra il senso – che normalmente
attribuiamo alla nostra vita – e il non senso che il dolore produce.1
La nostre parole registrano il dolore o per eccesso o per difetto. Poiché il dolore è
un'esperienza limite, sono poche le parole realmente efficaci a renderla comunicabile;
forse per questo chi soffre perde il desiderio e la capacità di parlare di sè e del suo stare.
Ma il dolore costringe anche ad interrogarsi e a interrogare il senso del mondo, così dal
suo patire si genera spesso un turbinio di parole che tentano di dar ragione del male e di
dare un senso all'insensato
Le parole efficaci con cui uomini e donne si sforzano di arginare il non senso, non sono
episodiche o solipsisitiche, ma nascono entro gli scenari di senso in cui quegli uomini e
quelle donne sono nati e cresciuti, scenari che perciò li precedono e danno loro il
linguaggio per divenire interpreti del loro soffrire. Parole efficaci si sono trovate nelle
credenze religiose, nella relazione con un TU che dona speranza. Queste parole non
hanno cancellato il dolore umano ma lo hanno reso sostenibile, vivibile.
Oggi l'unica parola che sembra avere efficacia contro il dolore è quella della tecnica poiché
essa trova rimedi tali da poter allontanare il dolore finché esso non diventa estremo.
Percorrendo gli scenari del dolore, dall'antichità al nostro tempo, appare chiaro che nei
vari passaggi di civiltà si attiva una diversa circolarità tra danno e senso.

                                    Gli scenari del dolore
L’umanità, in tutta la sua storia, ha patito l’esperienza del dolore cercando di trovarvi un
senso all’interno delle immagini della sofferenza entro cui ogni singola esperienza è stata
vissuta.
.2
In quelle che Natoli definisce  si coniugano l’esperienza
soggettiva della sofferenza e l’oggettività della sua espressione: il dolore si manifesta,
infatti, entro una particolare fenomenologia di segni, fisici, morali, sociali che si implicano
e si condizionano reciprocamente.

1
    S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli UE, Milano 2002
2
    S. Natoli, L’esperienza del dolore, cit., pp.14/15
2
 Tristezza, speranza, pianto, rassegnazione, paura, disperazione o sarcasmo scettico
 sono i moti dell’anima e gli umori che designano l’esperienza quotidiana del dolore, ma
 quest’esperienza mostra anche le tonalità affettive del patire, i criteri morali secondo cui la
 sofferenza è vissuta e concepita dall’immaginario sociale, entro le credenze e le
 metafisiche che orientano gli uomini nel dolore. Una riflessione sul dolore può prendere
 forma e trovare linguaggio comunicabile solo all’interno di questi orizzonti, poiché è
 l’orientamento dello sguardo che produce un ordine di senso ed un codice di segni,
 decifrabili entro quell’orientamento.
Dato che il dolore è ciò che si prova senza possibilità di sottrazione, mette anche alla
prova, nel senso che è una sfida alla vita, costringe ad una domanda sulla validità di tutto
ciò che esiste, che ci contorna, e sul valore dell’esistenza stessa; mette alla prova in
quanto diviene motivo di richiesta di una giustificazione totale del mondo: sia esso fisico,
psichico, morale è una circostanza entro cui matura il sentimento dell’angoscia che fa
tutt’uno col sentimento della precarietà, dell’essere esposti.
L’esperienza del dolore diviene una prova perché la domanda di giustificazione della sua
insensatezza impone una complessità di interrogazioni che si possono compendiare in
una: in che consiste veramente il dolore al di là del patire?
Il timbro e il tono della domanda sono tali da farci capire perché, nei secoli, la riflessione
sul dolore è appartenuta alla religione e alla filosofia; solo tali saperi, infatti, cercano le
cause non effettuali, lo scopo e il senso delle esperienze limite che si incontrano nel
vivere. Le religioni e le filosofie, però, attuano spesso una alterazione decisiva
dell’esperienza del dolore, dando ad essa un peso oggettivo che va ben oltre la
dimensione psicologica del soffrire: il dolore diventa male, è espressione del male come
principio della dissoluzione, rimanda cioè all’oggettività del negativo.
Diverse sono le risposte al senso del patire all'interno dei tre grandi scenari che hanno
caratterizzato la riflessione filosofica sul dolore in oriente e in occidente: oggi stiamo in un
quarto scenario, quello della tecnica, ove però non v'è risposta a questa domanda, anzi la
domanda non si pone neppure

                          La lettura greca: la concezione tragica del dolore

La cultura greca concepisce la natura come quell’ordine immutabile che nessuna azione
umana può violare, ordine vincolato dalla necessità che regola il ciclo di vita e morte, dove
l’una si dà solo se accade anche l’altra. La visione tragica del mondo sorge insieme alla
scoperta della crudeltà dell’esistenza che si apre e chiude nel grembo della 789:;, dove si
origina e si dissolve tutto ciò che è. La tragedia attica, come genere letterario, è metafora
di questo farsi e disfarsi delle opposizioni nell’eterno fluire del tutto.3
L’esistenza è tragica perché in essa la crudeltà non è separabile dalla felicità: tutto ciò che
vive, finché vive, non solo resiste alla morte, ma produce morte per preservarsi ed
accrescersi. All’interno di quest’ordine necessario l’uomo ha la possibilità di giocarsi il suo
destino e di prendere consapevolezza – secondo il famoso 
dell’oracolo di Delfi – che il fato non è qualcosa che proviene dall’esterno, ma anche
qualcosa che ognuno si costruisce e definisce attraverso i modi in cui vive.
Il soffrire è quindi un’esperienza dotata di senso, come ben mostrato dalla tragedia,
perché il punto di vista tragico impone l’equilibrio nel dolore e la necessità di trovare il
giusto mezzo nel soffrire; soprattutto chiede di saper sopportare ciò che nuoce e di saper
affrontare ciò che si teme.

3
    M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico. Dalla preistoria ad Eschilo, Einaudi, Torino 1955
3

                                      La lettura cristiana
Nella dimensione del cristianesimo il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta ad
una colpa che chiede riparazione e redenzione; non è soltanto disperazione, ma anche
radicamento nella certezza dell'amore di Dio che fa prevalere la dolcezza sul terrore. In
questo scenario, infatti, una delle più antiche motivazioni per spiegare la sofferenza è
quella che sostiene che tutto – il bene e il male e ciò che è indifferente – è volontà di Dio.
L'argomento a cui si ricorre spesso per dare una risposta al problema della sofferenza è
che Dio usa la sofferenza per istruirci: il fine della sofferenza è quello di insegnarci qualche
cosa. La sfida consiste nello scoprire la lezione da imparare e nell'accoglierla senza
riserve. Questo perché la sofferenza è in grado di ridimensionare le pretese e le
meschinità che facilmente influenzano la vita: nei momenti di sofferenza ci si rende conto
di come la propria vita sia distorta, perché l'esperienza della sofferenza costringe a
riconsiderare la vita in modo radicale.
Nella cultura cristiana, quindi, l'esperienza del dolore vivo è letta nella dimensione della
redenzione: il danno è visto in modo molto diverso rispetto all'immagine che può averne
un non credente.

                                      La lettura orientale
Mentre l’occidente è convinto che la caducità dell’esistenza sia una realtà (e tale
convinzione attraversa orizzontalmente sia la visione greca che quella giudaico cristiana),
l’oriente sostiene che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua
realtà ma è solo apparenza.
In queste due inconciliabili metafisiche, quella occidentale e quella orientale, dolore e
sofferenza si disgiungono, perché il dolore è un dato che suppone passività, e quindi
qualcosa di moralmente neutrale. In quanto sofferenza è invece già un atto umano,
qualcosa di attivo e moralmente rilevante che appartiene al senso o al non senso
dell’esistenza umana.

                      Il dolore nell'orizzonte scientifico tecnologico
Una delle grandi realizzazioni dell'età della tecnica consiste nella possibilità di rimuovere il
dolore
“Nella società contemporanea abbiamo a che fare con un neopaganesimo senza tragedia
e con una soteriologia senza fede. Ma un paganesimo che si sviluppa attraverso la
rimozione del dolore non può mai essere tragico e una salvezza senza fede non può mai
essere garantita” 4
Il dolore oggi è spiegato e poi compreso come qualche cosa che può essere dominato e
che si deve affrontare come dominabile. Ciò fa sì che nella coscienza collettiva il dolore
sia percepito come un disturbo, come un impedimento rispetto alle possibilità di relazione
con il mondo. In questo quadro semantico il corpo diventa allora non più il medium di
comunicazione con il mondo, ma un luogo opaco in cui tale comunicazione si interrompe.
Ciò è sempre accaduto in tutte le culture e in tutti i tempi; oggi tuttavia, poiché domina
soltanto la neurofisiologia del dolore, poiché altre esperienze del dolore sono occultate, il
dolore è definito in termini clinici, psicologici, psicoanalitici, sociali, religiosi,
comportamentali...In tutte queste definizioni l'esperienza del dolore viene smembrata,
perché compresa in corpi disciplinari separati: in questo modo però la familiarità che può
accomunare diversi tipi di dolore e la particolarità della sofferenza individuale perde ogni
tipo di significazione.

4
    S. Natoli, op. cit. p 374
4

Ciò che caratterizza l'esperienza contemporanea del dolore è l'idea che l'uomo possa
tecnicamente dominarlo e che comunque la tecnica sia la forma oggettiva per contenere e
contrastare il dolore. Infatti la società attuale associa sempre il dolore a una proposta
terapeutica; ogni risposta che non sia pratica è quasi patetica, perché il progresso tecnico
consente la fuga da e il nascondimento del dolore attraverso la competenza: il costo della
sofferenza è sopportato in termini di denaro che consente la speranza di acquisire
benessere attraverso soluzioni tecnologiche.
Tutto ciò corrisponde alla medicalizzazione in voga nella società contemporanea che viene
incontro al diffuso bisogno di neutralizzare l'ansia, attraverso il dominio del discorso
competente che funziona da rituale di assistenza e consolazione.
In tal modo la società tecnologizzata ha prodotto una modificazione fondamentale
nell'esperienza del dolore, sia in relazione alla modalità di percepirlo che a quelle di
comunicarlo. “E' venuta meno la circolarità diretta tra dolore e vita: la sofferenza non entra
immediatamente e continuativamente nella quotidianità dell'esistenza.” 5
 Quando la sofferenza è troppo grande per poter esser criptata o circoscritta, quando cioè
 vi è un dilagare sociale della sofferenza, allora l'esperienza di chi soffre è allontanata
 attraverso la spettacolarizzazione, come nel caso delle vittime del terremoto di L'Aquila o
 di Haiti. Lo spettacolo, infatti, trasforma il disastro in racconto mediatico, rende tutti
 partecipi di quel dolore, senza che però vi sia immedesimazione. In altre parole le
 strategie della contemporaneità sono quelle di non fare incontrare mai il dolore, fino a che
 esso non irrompe nella propria vita. Allora subentra, in molti, una specie di pudore perché
 si teme l'abbandono degli altri, visto che la sofferenza impoedisce di stare al passo col
 ritmo della vita di tutti.

                              Che cosa comporta il soffrire?

 A) separazione e individuazione
 Uno dei tratti comuni della sofferenza è il fatto che essa divide, separa chi soffre dal
 mondo, traccia un cerchio delimitante intorno al sofferente perché, come già detto sopra,
 costringe a patire, senza possibilità di sottrazione, il limite della propria insostituibile
 individualità e soggettività.
L’io del soggetto si percepisce in modo particolare nell’esperienza del dolore che non è
omologabile alle altre esperienze esistenziali perché ad essa non ci si può sottrarre: non si
può decidere se farla o meno; nel momento in cui colpisce comprime ed obbliga, inchioda
al rapporto con se stessi e condiziona totalmente il campo esperienziale. Chi è colpito dal
dolore entra in un cerchio di estraniazione, non solo perché il dolore restringe la vita, ma
anche perché si percepisce diverso e staccato dagli altri, più fragile e debole.
 L’esperienza del dolore individualizza in quanto vincola, tiene sospesi sul nulla e ci
 costringe a patire la precarietà del nostro stare al mondo. Per questa sua precipuità riduce
 le possibilità di realizzazione, restringe l’orizzonte dell’espansione di sé. Qualunque sia la
 sua eziologia e la sua natura, l’esperienza dolorosa si configura come male perché
 rallenta l’interazione io-mondo, implica un ritrarsi dell’attività e un crescere della passività,
 indipendentemente dal fatto che dipenda da una disfunzione organica o da una difficoltà o
 patologia della vita di relazione.
 In entrambi le evenienze il soggetto umano diviene, in qualche modo, cosa, e sperimenta
 l’oggettività del corpo.La salute ignora l’oggettività del corpo, nel senso che non ne
 percepisce il peso, dato che la corporeità è una sola cosa con la vita ed è sperimentata

5
         Ivi, p. 381
come capacità di espansione, come forza, come piacere, ovvero nella sua istanza prima
di apertura al mondo.
                                          5

Il corpo fisico proprio è percepito come oggetto quando è sperimentato come barriera tra
l’intenzione e la realizzazione, quando da apertura al mondo si tramuta in ostacolo verso il
mondo: il dolore è la situazione in cui ognuno si aliena dal proprio corpo, percependolo
come limite e peso.

B) L'esperienza della sofferenza nella relazione paziente medico e nei contesti di
cura
Il carattere individuativo della sofferenza affiora e si patisce anche nella relazione di cura,
sia all'interno delle strutture cliniche che nel rapporto con i medici.
I soggetti in causa nella relazione clinica e terapeutica parlano ed agiscono da due luoghi
ben diversi: gli uni da un luogo di autorità riconosciuta, e soprattutto dall'universo dei sani;
gli altri da una situazione di fragilità, di destabilizzazione rispetto al ruolo o alla posizione in
cui essi si identificano normalmente.
Quando si è costretti a divenire pazienti, si avverte come la costruzione di concetti, ovvero
il linguaggio terminologico entro cui i sintomi acquistano significato, certo consente di
accrescere la precisione della diagnosi, e quindi dell'intervento terapeutico, ma al tempo
stesso si avverte lo scarso peso del racconto biografico rispetto alla formulazione della
diagnosi o all'individuazione di una strategia di cura.
Il dolore è, come detto sopra, un'esperienza di separazione. Separazione dal mondo e
dagli altri, perché inchioda a se stessi, fa perdere la progettualità e anche il senso di
appartenenza a un certo universo sociale e affettivo.
Se i progressi della medicina, potenziati dalla tecnologia, hanno fatto sì che si possa
convivere a lungo con l'esperienza del dolore, questo progresso però non dà comunque
alcun senso al dolore. Chi soffre si ritrova sempre solo con se stesso e quindi le
terminologie del razionalismo biomedico non bastano ad oggettivare l'esperienza
soggettiva del sofferente, proprio perché il luogo del soggetto non può essere occupato da
nessun altro.
La riduzione del dolore ad un evento fisico, misurabile e osservabile attraverso esami
clinici, ne annulla la portata semantica, e forse maschera anche il fatto che ogni traduzione
clinica dal sintomo alla malattia, è sempre un'operazione ermeneutica.
Il paradosso creato dalla disgiunzione tra termini e parole, (i termini appartengono al
vocabolario degli scambi economici e scientifici e rimandano a un referente concettuale; le
parole hanno la funzione di legare un io e un tu nel rimando a un referente; ad esse è
perciò affidata la funzione di mediazione del linguaggio) si ripercuote su i soggetti in
causa in una relazione terapeutica: i termini proteggono chi li usa perché universalizzano
la malattia, e schermano dalla sofferenza di chi si incontra.
Credo tuttavia che il vero problema stia nella disgiunzione tra dolore e sofferenza, che non
sono la stessa cosa, ma che vengono registrati mentalmente nello stesso modo anche da
parte di chi soffre. Il dolore è oggettivo, rientra in un quadro clinico.
La sofferenza è soggettiva, come abbiamo visto, è il modo in cui ognuno ed ognuna di noi
vive e recepisce il dolore, sia esso fisico o psichico. In tale ricezione entra prima di tutto la
biografia, l'esperienza privata e singolare di ognuno; in secondo luogo la ricezione sociale
di un certo tipo di dolore; in terzo luogo la rappresentazione culturale del dolore.
Il paradosso, che nasce dalla confusione tra termini e parole fa sì che dolore e sofferenza
non siano disgiunti, ma vengano registrati mentalmente come indifferenti perché, se si
possiedono i termini per dire ad altri da che cosa si è
 affetti o da che cosa il tal paziente è affetto, la mancanza di un'educazione relazionale, in
cui entra in gioco la parola creativa, che non rimanda solo a concetti ma anche a vissuti e
porta, sempre più frequentemente ormai, ad una specie di incompetenza verbale, per cui è
difficile trasmettere come questa affezione dolorosa viene vissuta e patita.
                                              6
                                          CONCLUSIONE

Dolore e sofferenza sono parole tematiche che sconfinano l'una nell'altra nella loro
apparente equivalenza semantica e esistenziale: in ogni caso è necessario distinguere
l'esperienza del dolore dalla sofferenza. 6
Il dolore nasce dalla ferita del corpo o della mente ed è in parte modificabile o curabile; la
sofferenza non è sempre modificabile e curabile: la possibilità della sofferenza è
costitutiva della condizione umana. Può accadere che un'esistenza scorra al di fuori di
ogni espereinza di malattia, ma non è possibile che a un'esistenza sia sottratta
l'esperienza della sofferenza come dolore morale, che nasca dalla perdita o dalla
dissolvenza degli orizzonti di senso su cui si fonda il divenire della vita.
Se la sofferenza è un'esperienza comune a ciascuno di noi come umana possibilità, le
forme concrete con cui la sofferenza viene vissuta, nei suoi aspetti psiocologici e nei suoi
aspetti somato-psichici, cambiano in ciascuno di noi, sulla scia delle nostre attitudini e
abitudini culturali a accettare e elaborare l'esperienza del dolore e della sofferenza.
E' perciò evidente l'impossibilità di obiettivare mediante scale psicometriche o biochimiche
la sofferenza nelle sue molteplici espressioni e modalità, intime e sociali. Ciò che è
generalizzabile è il fatto che ogni esperienza di sofferenza e di dolre si accompagna al
distacco dalle cose, che può essere la ricerca di una solitudine interiore, o la sconsolata
solitudine, meglio definita come isolamento, fino ai tragici confini dell'isolamento autistico.
Non ci sono farmaci che possano lenire un'esperienza di sofferenza; essa è un fenomeno
dell'esistenza che determina una discontinuità, un intervallo, una sospensione nella
continuità della vita che distacca dalle sequenze quotidiane e banali dell'esistenza.
L’esperienza contemporanea del dolore si svolge entro la scena della società
tecnologizzata, che circoscrive il dolore come qualche cosa che può essere dominato: la
tecnica allevia il dolore dato che molte malattie sono gestibili, controllabili. La scienza ha
certamente ottimizzato la vita ed è stata, nel contrasto con il dolore, una parola potente.
Tuttavia non ha sconfitto il dolore, anzi ha esposto uomini e donne a nuove e diverse
forme di sofferenza, come quella derivante dal prolungamento della malattia, che mette
l'esistenza del malato nelle condizioni di essere sotto un'ipoteca di morte per lungo tempo.
C'è un'ulteriore considerazione da fare: in questo scenario emerge una particolare
tendenza della coscienza, avvalorata dall'idea che il dolore sia rimovibile perché
dominabile, quella “di regredire ad un illusorio stato edenico […] operando un
allontanamento apotropaico del male attraverso la negazione della sua stessa esistenza” 7
L'esito di tale processo è, nelle vite dei molti, l'incapacità del cambiamento: rimuovendo il
turbamento e criptando l'angoscia del dolore, si diventa inabili a qualsiasi modificazione di
se stessi di fronte alla sofferenza, proprio perché “l'uomo è spinto al cambiamento dalla
necessità di sfuggire l'angoscia, via dall'angoscia, via da”. 8

6
    E. Borgna, L'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2002, pp.128/135
7
    D. Squilloni, La Trinità, riflessioni su un archetipo respinto, in AA.VV, Fra Cristo e il Sé, saggi su psicologia
    analitica e cristianesimo, Vivarium Edizioni, Milano 2009, p. 190
8
    Ivi, p. 197
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