NOTIZIE DAL 16 FEBBRAIO AL 22 FEBBRAIO

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NOTIZIE DAL 16 FEBBRAIO AL 22 FEBBRAIO
HDIG ONLUS
HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
  Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
               C.F.97191910583

                                                  ANNO 2019
                  Notizie dal 16 febbraio al 22 febbraio
 notizie e informazioni SULL’africa e, in particoLare, sui paesi del corno d’africa,
   raccolte da agenzie, gruppi, istituzioni,CON pareri, considerazioni e pareri

SOMMARIO

Pag. 02 - 16 Feb. Somalia: 12 miliziani al Shabaab uccisi in due raid Usa nella regione del Basso Scebeli
Pag. 02 - 16 Feb. Le Ong finanziate dall’Unione europea dall’Unioneeuropea
Pag. 06 - 16 Feb. Somalia: prime licenze di esplorazione petrolifera entro la fine dell’anno
Pag. 06 - 16 Feb. Angola. Il mondo dei bambini di strada
Pag. 10 - 17 Feb. Mattarella: "L'Italia vuole dialogare con tutta l'Africa"
Pag. 11 - 18 Feb. Scontro diplomatico tra Nairobi e Mogadiscio, via ambasciatori
Pag. 12 - 18 Feb. Etiopia/ Gibuti. Firmato accordo per costruire gasdotto
Pag. 12 - 18 Feb. India e Pakistan, scenario da “guerra dell’acqua”
Pag. 13 - 19 Feb. Raid aereo francese in Ciad. Ennesimo salvataggio di Idriss Deby
Pag. 13 - 19 Feb. Burundi-Somalia: presidente Nkurunziza riceve omologo Farmajo, focus su sicurezza e
                  commercio
Pag. 14 - 19 Feb. Il Kenya all’Onu: chiudere Dadaab
Pag. 14 - 20 Feb. Gibuti-Somalia: presidente Guelleh incontra omologo Farmajo, focus su questioni
                  bilaterali e integrazione regionale
Pag. 14 - 20 Feb. Etiopia-Somaliland: premier Ahmed riceve presidente Somaliland, assente Farmajo
Pag. 15 - 21 Feb. Africa, un continente minato dalla corruzione
Pag. 16 - 22 Feb. Da Cremona al Kenya per salvare il rinoceronte bianco
Pag. 16 - 22 Feb. Terrorismo in Kenya è il prezzo pagato l’intervento in Somalia: turismo in panico

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             IBAN Banca Friuladria (ag.Thiene-VI): IT43 M 053 3660 7900 0004 6284703
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16 Feb. Somalia: 12 miliziani al Shabaab uccisi in due raid Usa nella regione del Basso
Scebeli
Le forze speciali degli Stati Uniti hanno condotto lo scorso 11 febbraio due raid aerei nei pressi di Genale, nella
regione somala del Basso Scebeli, uccidendo 12 miliziani jihadisti di al Shabaab. Lo riferisce il Comando Usa
per l’Africa (Africom) in una nota diffusa oggi, secondo cui i raid sono stati condotti mentre l’esercito somalo
stava conducendo un’offensiva contro al Shabaab.
Parlando la scorsa settimana nel corso di un’audizione alla Commissione per i servizi armati del Senato di
Washington, il comandante di Africom, Thomas Waldhauser, ha dichiarato che i raid aerei condotti dagli Stati
Uniti contro le postazioni di al Shabaab in Somalia non sconfiggeranno le milizie jihadiste. “La linea di fondo è
che l'esercito nazionale somalo ha bisogno di crescere, deve rafforzarsi e assumersi la responsabilità della
propria sicurezza”, ha detto Waldhauser, citato dai media statunitensi. Dall'inizio del 2017, ha aggiunto il
generale, gli Stati Uniti hanno intensificato il numero di raid condotti in Somalia, passati dai 35 di quell’anno ai
47 nel 2018, mentre dall’inizio del 2019 gli attacchi sono stati 12.

16 Feb. Tutte le Ong finanziate dall’Unione europea dall’Unioneeuropea
Qui di seguito un report tratto
da una segnalazione di un
giornale web sulle risultanze
di una indagine della Corte
dei Conti europea sulle ong
che ha sostanziato, in una
dettagliata relazione
depositata nel dicembre 2018,
come debbano essere più
trasparenti le modalità con le
quali vengono elargiti i
finanziamenti dall’Unione
europea alle Ong
(organizzazioni non
governative).
La Corte ha altresì affermato
che il sistema attualmente
utilizzato per classificare le
organizzazioni come Ong non
è affidabile e che la
Commissione Europea non
dispone di informazioni
sufficientemente dettagliate riguardo alla destinazione dei fondi assegnati.
Abbiamo analizzato le 19 Ong umanitarie maggiormente finanziate dall’Unione europea. Nel complesso, queste
organizzazioni non governative hanno beneficiato di oltre 900 milioni di euro di fondi derivanti dai contributi
versati dai cittadini europei, operano nei Paesi di origine e transito dei migranti diretti verso l’Italia, e molte di
loro hanno violato, senza autorizzazione, la sovranità territoriale in Siria con la scusante degli aiuti umanitari,
spesso destinati ai cosiddetti “ribelli moderati”.
Un appunto: proprio a causa della mancanza di trasparenza, l’Europa non ha pubblicato i nominativi delle
rimanenti 73mila organizzazioni accreditate negli elenchi del Direttorato Generale. Per questo motivo, non si
conosce nemmeno l’esborso totale di fondi pubblici elargito alle Ong.

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Germania e… Soros
Il berlinese Max Planck Institut ha beneficiato di 164.485.070 euro elargiti dall’Unione europea, e nel 2017 ha
raggiunto un giro d’affari di quasi 3,5 milioni di euro. Gli istituti, con sedi in Europa (anche in Italia, Firenze e
Roma), Asia e America Latina, si occupano di ricerche riguardanti scienze naturali, sociali e umane.
Il Max Planck Institut e la Open Society Foundations di George Soros sono tra i firmatari della Dichiarazione di
Berlino del 2004, redatta «per realizzare la rappresentazione di un mondo globale e accessibile alla
conoscenza, perché il futuro web deve essere sostenibile, interattivo e trasparente.
Le nostre organizzazioni sono interessate alla promozione di un nuovo open access paradigm (paradigma di
accesso aperto) per ottenere il massimo beneficio della scienza e della società».
Dalla Dichiarazione, grazie ai fondi della Open Society, è nata la Directory of Open Access, ovvero un «modello
di pubblicazione e distribuzione che rende la letteratura per la ricerca accademica liberamente accessibile al
pubblico online, senza restrizioni», ma ovviamente approvato dalla filosofia «società aperta» di Soros.

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Le Ong scandinave
Il Danish Refugee Council (DRC) assiste rifugiati e immigrati in tutto il mondo, fornendo aiuti di emergenza,
combattendo per i loro diritti e per la possibilità di avere un futuro migliore. L’organizzazione opera in aree
colpite da conflitti, lungo le rotte dell’immigrazione e nei Paesi in cui gli immigrati si stabiliscono. Autorizzata
nel 2012 dal governo di Damasco, il DRC è la più grande Ong operante in Siria.
I fondi necessari per la missione sono stati elargiti dal governo danese, da quello svedese, da quello americano
Usaid e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), nonché dall’Unione europea
(Echo).
Questi finanziamenti hanno trasformato l’entrata in territorio siriano del DRC in palese invasione territoriale dei
governi suddetti. Il Danish Refugee Council è attivo anche nella maggioranza dei Paesi di origine dei migranti
che si sono riversati nei porti italiani in questi ultimi anni: Bangladesh, Pakistan, Nigeria, Mali, Cameroon,
Tunisia, Congo, Sudan, Etiopia e Somalia.
In Europa, l’organizzazione opera nell’Ucraina post-golpe (con finanziamenti dei governi americano, tedesco e
inglese e della Ue), in Georgia, in Kosovo, in Serbia e Macedonia. Nel 2017, il DRC ha sottoscritto una
dichiarazione contro le politiche migratorie dell’Unione europea perché ritenute miopi, insostenibili e lesive dei
diritti degli immigrati. Tra i firmatari: Amnesty International, Care International, Médecins du Monde, Save The
Children, Oxfam e, ovviamente, Open Society European Policy Institute.
Il Norwegian Refugee Council (NRC) si definisce «organizzazione umanitaria indipendente che aiuta le
persone costrette a fuggire» dal proprio Paese di origine, operante in 31 Stati dove gestisce campi, assistenza
alimentare, acqua pulita, riparo, assistenza legale e istruzione. Come DRC, anche NRC è attiva nei Paesi da cui
partono la maggioranza dei migranti diretti in Europa e Italia, come Eritrea, Etiopia, Mali, Nigeria, Cameroon,
Sudan, Somalia Afghanistan, e ovviamente non possono mancare Siria (40 milioni di dollari stanziati nel 2018)
e Ucraina. L’organizzazione norvegese è quasi interamente finanziata da fondi governativi e dagli organismi
sovranazionali: Norad (Agenzia Norvegese per la Cooperazione allo Sviluppo), Sida (Agenzia Svedese per la
Cooperazione allo Sviluppo), Echo dell’Unione europea, Uk Aid (Dipartimento Britannico per lo Sviluppo
Internazionale), Unhct, Unicef, Usaid e i governi francese, tedesco, belga e spagnolo. Decisamente una Ong ben
poco “non governativa”.
La International Rescue Committee (IRC) è un’organizzazione umanitaria internazionale non governativa con
sede negli Stati Uniti. Il presidente è il britannico David Miliband, ex segretario di Stato per gli Affari Esteri e
del Commonwealth del governo Blair. Come le precedenti Ong, IRC opera nei principali Paesi di origine dei
migranti (Bangladesh, Pakistan, Mali, Nigeria, Etiopia, Costa d’Avorio, Sudan e Somalia), nei Paesi di transito
(Niger e Libia), in quelli di arrivo (Grecia e Italia), e ovviamente in Siria dal 2012.
L’organizzazione è copiosamente sostenuta dalle agenzie governative statunitensi, dall’Unione europea e dalle
Nazioni Unite.
Tra i principali donatori privati, troviamo la Open Society Foundations di George Soros (più di 500 milioni di
dollari nel 2017). Nell’inchiesta del Times pubblicata nel maggio 2018, oltre a Unhcr e Save The Children,
compaiono sia l’International Rescue Committee sia il Norwegian Refugee Council, tra le «organizzazioni non
governative che hanno sfruttato bambini e donne rifugiati nell’Africa occidentale scambiando cibo per sesso,
secondo una rapporto consegnato alle Nazioni Unite 16 anni fa» e mai divulgato dall’Onu.
Oxfam: un pezzo da 90
Oxfam Uk (sede britannica) e Oxfam Novib (sede olandese) fanno parte di Oxfam International, una delle più
grandi e influenti tra le Ong internazionali, operante negli aiuti umanitari e nella lotta contro la povertà globale
in 90 Paesi. Sul miliardo di euro di fondi raccolti complessivamente da Oxfam nel 2017, ben 782 milioni sono
di provenienza istituzionale, ovvero il 73 per cento dei finanziamenti provengono dai governi occidentali in cui
è presente con le proprie sedi (americano, inglese, tedesco, francese, svedese, olandese e italiano), dall’Unione
Europea e dalle Nazioni Unite. Tra le fondazioni che sostengono Oxfam, troviamo la Open Society Foundations
che finanzia direttamente le sedi della Ong in Gran Bretagna e Stati Uniti.

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All’inizio del febbraio 2018, Oxfam è stata travolta da uno scandalo relativo ad abusi sessuali, svelato da
un’inchiesta del Times . Lo scandalo ha riguardato principalmente Roland van Hauwermeiren, allora
responsabile dell’intervento di emergenza ad Haiti, e altri sei membri dello staff presenti nel post-terremoto del
2010. Un’inchiesta interna di Oxfam verificò che i sette componenti della Ong pagavano, con i soldi dei
donatori, diverse minorenni haitiane in cambio di prestazioni sessuali. L’organizzazione, invece di denunciare
alle autorità competenti i 7 membri, preferì allontanarli “in via amichevole”, mettendo tutto a tacere.
Mercy Corps è una Ong internazionale «di operatori umanitari che collaborano con le comunità, le aziende e i
governi per trasformare le vite in tutto il mondo», operante in più di 40 Paesi (la maggioranza dei Paesi di
origine dei migranti). L’organizzazione era già presente in Siria nel 2008. Dopo lo scoppio della guerra del
2011, ha continuato a percepire finanziamenti dalla Gran Bretagna, uno dei Paesi alleati, che più ha spinto per
un intervento armato per sovvertire la presidenza di Bashar al-Assad.
Nell’aprile 2018, in seguito al poi smentito attacco con gas sarin a Duma, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna
hanno bombardato un centro di ricerca, un sito di stoccaggio e un posto di comando nella regione di Homs. La
premier Theresa May, all’indomani dell’attacco, dichiarò che «non c’erano alternative all’uso della forza» e di
aver ordinato «alle forze britanniche di condurre attacchi coordinati e mirati per ridurre il potenziale
dell’armamento chimico del regime siriano e dissuaderne l’uso».
La May, inoltre, collegò il bombardamento in territorio siriano al caso di Sergei Skripal, l’ex spia russa
avvelenata a Salisbury: «L’uso recente di un agente nervino nelle strade del Regno Unito è parte di uno stesso
cammino, e i bombardamenti sulla Siria manderanno anche un chiaro segnale a chiunque creda di poter usare
armi chimiche con impunità», riferendosi alla Russia, alleata di Damasco, nella guerra ai terroristi dell’Isis.
Oltre al governo della Gran Bretagna, Mercy Corps è finanziata dai governi francese, tedesco, danese,
norvegese, svedese, austriaco, olandese e svizzero, dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea, per un totale di
85 milioni di euro su un totale di fondi raccolti nel 2018 pari a 100 milioni. Difficile parlare di organizzazione
“non governativa” con una percentuale così elevata di finanziamenti, appunto, governativi.

Le ONG ricevono e gestiscono in tutto il mondo circa 1100 Miliardi di dollari,una cifra spaventosa dove Stati,
ricconi e industrie promuovono i loro interessi, mascherati di filantropia. Decine di migliaia di ex dirigenti e ex
politici continuano, pagati profumatamente, le loro carriere in quei carrozzoni immacolati.

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E questo è soltanto piccola luce che dà comunque
sentore della situazione.
Molte altre cose sono nascoste negli accordi politici agli
alti livelli, nelle procedure di assegnazione dei
finanziamenti, nei rendiconti, nelle verifiche dei risultati.
Più sono resi complessi, incomprensibili, variabili e
interpretabili solo dagli addetti ai lavori più sono
manovrabili per mi pochi che così possono assicurarsi la
necessità o l’obbligo di essere i tenutari dello scibile
dell‘aiuto e della assistenza.
E l’Italia non è da meno. La strada è sempre la stessa.
Qui addiritttura, poiché siamo più intelligenti le cose
sono ancor più complicate. E’ comprensibile quindi ma
non giustificabile quella pioggia di risorse concesse alle
istituzioni internazionali per tirarsi fuori dalle
responsabilità delle verifiche e delle rendicontazioni che
vengono sostituite, dagli organismi riceventi, da semplici
dichiarazione di attuazione dei programmi o progetti.
Così però si raggiunge un altro pessimo risultato, oltre al
danno anche la beffa: cioè la donazione a tali organismi
non assicura l’attuazione da parte delle organizzazioni o
società italiane, lasciando loro l’arbitrio di utilizzo a
proprio uso e consumo.

Non sarebbe male che anche la corte dei conti italiana
faccia una bella indagine in tal senso ed in particolare sul
comitato interno del Ministero Esteri che approva
programmi e progetti, molte volte campati in aria e
ripetitivi senza un criterio di valutazione attento ma sulla
semplice lettura della relazione di presentazione senza rilevarne però i risultati finali.

16 Feb. Somalia, prime licenze di esplorazione petrolifera entro la fine dell’anno
Il governo somalo assegnerà le prime licenze di esplorazione petrolifera alle compagnie straniere entro la fine di
quest’anno. Lo ha annunciato il ministro del Petrolio somalo Abdirashid Mohamed Ahmed, aggiungendo che il
governo di Mogadiscio assegnerà licenze di esplorazione il prossimo 7 novembre, mentre il 9 dicembre saranno
firmati gli accordi di condivisione della produzione che entreranno in vigore a partire dall' 1 gennaio 2020.
“Abbiamo presentato il nostro potenziale alle compagnie. Abbiamo tenuto un ‘roadshow’ a Londra (la scorsa
settimana) e ne faremo altri due nelle prossime settimane per far conoscere ancora meglio il contesto della
Somalia”, ha detto il ministro in un’intervista all’emittente “Voa Somali”. Le indagini sismiche condotte dalle
compagnie britanniche Somal Oil&Gas e Spectrum Geo hanno rilevato che la Somalia dispone di ampie riserve
di petrolio lungo le coste dell’Oceano Indiano, tra le città di Garad e Chisimaio, tuttavia diversi parlamentari
dell’opposizione sostengono che il governo abbia agito in maniera troppo affrettata, accusandolo persino di aver
violato la Costituzione. L’opposizione chiede in particolare di approvare una legge di regolamentazione del
settore petrolifero, ancora inesistente.

16 Feb. Angola. Il mondo dei bambini di strada
Quando c’erano i soldi. Quando c’erano i soldi a Luanda si alzavano grattacieli. Quando c’erano i soldi si
progettavano grandi complessi residenziali fuori città. Quando c’erano i soldi gli stipendi dell’élite arrivavano a
diecimila dollari al mese, e un appartamento non ne costava meno di quattrocentomila. Luanda si piazzava nelle

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classifiche internazionali come la città più cara del mondo. “Quando c’erano i soldi” è un ritornello frequente
nella capitale angolana.
In effetti negli ultimi anni molto è cambiato, lo si vede prima di tutto nelle strade. I grattacieli avviati nell’era
delle vacche grasse sono rimasti a metà e sembrano destinati a restare ricoperti di teloni e circondati da altissime
gru nell’ottimistica attesa che i soldi ritornino: le auto passano indifferenti accanto a questi cantieri che
sembrano dire “fine lavori mai”, e che ormai fanno parte dell’arredo urbano.

          Un cantiere abbandonato in un quartiere povero di Luanda, Angola (dicembre 2018).
Anche il traffico è cambiato. Fino al 2014, quando la crisi del prezzo del petrolio ha cominciato a farsi sentire,
le famiglie della nuova classe media angolana potevano permettersi più di un’automobile: oggi le quattro ruote
sono diminuite, e il traffico nella capitale ha ritmi più scorrevoli. Anche se c’è ancora qualcuno che la mattina
esce da casa alle quattro e mezza per arrivare in ufficio, dove si rimette a dormire per un po’ in attesa di
cominciare a lavorare.
Proprio la classe media è stata la più colpita dalla crisi. Fino all’estate del 2014 il prezzo del greggio era salito
inesorabilmente, arrivando a superare i cento dollari al barile. Oggi è sceso intorno ai 60. Il paese, che è tra i
primi dieci produttori di petrolio al mondo, non ha saputo approfittare della pace, arrivata nel 2002. Dal 1975,
anno dell’indipendenza dal Portogallo, l’economia del paese è rimasta ancorata all’oro nero, che ha arricchito
chi è riuscito ad accaparrarsene i profitti ma non ha creato fonti di guadagni alternative: metà del prodotto
interno lordo si basa sul petrolio, mentre il paese è costretto a importare il 90 per cento del cibo che consuma.
Solo da qualche anno si sta provando a recuperare la produzione agricola, prima di tutto banane, mais, canna da
zucchero e caffè: l’attività agricola era stata gravemente danneggiata dalla guerra civile, le incursioni dei ribelli
dell’Unita (Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola, finanziata dalla Cina e dal Sudafrica)
soprattutto nelle zone rurali avevano danneggiato i campi e costretto migliaia di persone ad abbandonare tutto e
a rifugiarsi in città. Ma ora si punta a diversificare l’economia per riconquistare il mercato interno e quello del
continente intero.

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Le persone arrivate in città durante la guerra, però, ci sono rimaste e per sopravvivere si arrangiano. I venditori
ambulanti propongono grucce e arance, schede telefoniche e profumatori per auto, ma sono pronti alla fuga
quando intravedono l’arrivo di un poliziotto. Anche i bambini di strada, i meninos da rua, sono veloci ad
allontanarsi dalle piazze, dove si radunano in gruppi sin dal mattino.
Qualcuno più temerario – o più stordito dalla droga dei poveri, la colla da inalare – si diverte a stuzzicare i
poliziotti, ma la maggior parte si sposta solo un po’, pronta a tornare appena possibile. Lo stesso accade sulla
Ilha, la lingua di terra che si estende davanti al lungomare della città, dove i locali notturni frequentati
soprattutto dai dipendenti delle numerose aziende petrolifere attive nel paese attirano giovani donne e meninos
da rua in cerca di opportunità per guadagnare qualcosa.
Anche il mondo dei bambini di strada è cambiato. Durante la guerra si trattava soprattutto di orfani arrivati in
città dopo essersi messi in marcia da soli o con la famiglia che per motivi vari era andata perduta: i genitori
uccisi, i nonni rimasti al villaggio, fratelli o zii spariti nelle vicende del conflitto.
La morte del capo dell’UNITA, Jonas Savimbi sembrava aver aperto una fase di pace, invece era cominciata la
grande spoliazione.
Gruppi di bambini vivevano nelle gallerie dei servizi cittadini destinate alle condotte fognarie ed ai collegamenti
idrici ed elettrici, e si aggiravano tra le macerie aiutandosi tra di loro per sopravvivere. Era impressionante, al
mattino vederli uscire dai tombini delle condotte sotterranee ove avevano passato la notte. Oppure vedere questi
ragazzini di 8-9-10 anni aggirarsi tra le bancarelle dei mercati barcollanti e stralunati per l’inalazione dei fumi
della colla. Una visione straziante che è rimasta impressa nei nostri occhi. Con la pace, però, i meninos da rua
non sono scomparsi. Me lo spiega fratel Massimo, un salesiano che si occupa di questo mondo a Luanda dagli
anni novanta. Nel 1994, quando gli scontri tra forze governative e i ribelli dell’Unita erano particolarmente
violenti, i religiosi avevano messo in piedi una tendopoli per affrontare l’emergenza dei profughi arrivati in città
dalle campagne, e ospitavano almeno 700 bambini. L’emergenza è durata fino alla fine della guerra, quando la
morte del leader dell’Unita, Jonas Savimbi – oppositore dei portoghesi prima, e del governo angolano
filosovietico poi – sembrava aver aperto un nuovo capitolo per il paese. Un futuro di libere elezioni, tranquillità
e benessere. Invece si è aperta l’era della grande spoliazione.
Nel 1979, dopo la morte del primo presidente dell’Angola indipendente, il medico e poeta Agostinho Neto, era
salito al potere José Eduardo dos Santos: Dos Santos ha governato con pugno di ferro per i cittadini e manica
larga per i suoi fedelissimi, soprattutto i familiari.
Il nuovo presidente angolano João Lourenço ha lanciato la sua battaglia “mani pulite” e ha cominciato con delle
azioni simboliche, e dopo il suo insediamento la famiglia Dos Santos è stata duramente ridimensionata: il figlio
dell’ex presidente, José Filomeno, è stato arrestato nel settembre del 2018 per riciclaggio e abuso nella gestione
del fondo sovrano dell’Angola (cinque miliardi di dollari); la figlia Isabel, anche detta la “principessa”, la donna
più ricca d’Africa, ha dovuto lasciare la presidenza della Sonangol, la compagnia petrolifera statale.
Oggi, la residenza Dos Santos, sulla collina Miramar di Luanda, migliaia di metri quadrati affacciati sul porto e
sulla Ilha, guarda arroccata e un po’ dimenticata le pendici della collina su cui fino a poco tempo fa sorgeva
un’enorme baraccopoli. Lourenço invece porta avanti le sue azioni revisioniste.
A novembre del 2018 il governo ha avviato l’Operação resgate, con la quale si voleva riportare “ordine,
disciplina e rispetto” nel paese. Tra gli obiettivi primari c’era la lotta ai venditori ambulanti, ai tassisti abusivi, ai
mendicanti, all’immigrazione illegale. Ovviamente i meninos da rua erano gli obiettivi più facili.
Oggi quelli che vivono in strada sono soprattutto figli della povertà: famiglie sfasciate, secondi mariti o seconde
mogli che non ne vogliono sapere dei figli nati dal primo matrimonio e che quindi li maltrattano, famiglie che
non riescono a mantenere tutti, bambini accusati di essere feticeiros, stregoni, fonte di ogni sfortuna del nucleo
familiare e che quindi sono sottoposti a riti violenti oppure direttamente messi alla porta.
Con loro la sfida più grande è quella di farli tornare a casa, e il percorso può essere davvero lungo. In Angola ci
provano varie ong, cercando di fare rete per proporre un’alternativa ai minori che vivono in strada. La prima
mossa è stata creare delle équipe di strada che hanno individuato i punti dove i meninos da rua passano le loro
giornate e le loro notti.

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               IBAN Banca Friuladria (ag.Thiene-VI): IT43 M 053 3660 7900 0004 6284703
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NOTIZIE DAL 16 FEBBRAIO AL 22 FEBBRAIO
HDIG ONLUS
HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
  Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
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Si parte la sera, quando i ragazzi lasciano il centro della città e si rifugiano in edifici abbandonati. Qui i meninos
si sono dati una forma di organizzazione interna: uno di loro, più grande o comunque più forte, controlla chi
entra, mantiene una certa pulizia del luogo e difende il gruppo da intromissioni esterne. In uno di questi luoghi,
nascosto dietro ai locali della Ilha, si entra varcando un cancello divelto e appoggiato al muro. Prima di farlo gli
operatori chiedono il permesso: il terreno non è neutrale. Qui ci vivono una quindicina di adolescenti, anche
delle giovani ragazze, le più vulnerabili e le più difficili da riportare verso la “normalità”. Lo stigma su di loro è
ormai forte e il rientro in famiglia davvero difficile.

                           Adolescenti nel quartiere di Viana a Luanda, Angola,
A Luanda sono almeno una dozzina i luoghi del genere, e il progetto ha l’ambizione di censire tutti i bambini,
avendone già identificati più di trecento. Per ognuno di loro l’obiettivo è il rientro in famiglia, e per questo si
seguono varie fasi: una prima accoglienza temporanea, anche saltuaria, che consente agli operatori di conoscerli
meglio; poi, in una seconda fase, un centro più stabile, in cui si cerca di riannodare i fili con i familiari, si tenta
un reinserimento scolastico, si incoraggia l’abbandono delle abitudini della strada; per chi non potrà tornare in
famiglia, o per chi è già ormai adulto, c’è la possibilità di seguire corsi di formazione professionali, anche grazie
alla residenza in una casa protetta ma indipendente, dove cominciare a costruirsi una propria autonomia.
Il punto non è imporre loro un cambiamento, spiega fratel Massimo. Ma aiutarli a valorizzare quello che già
hanno in se stessi. Non è una missione impossibile: una cinquantina ce l’ha fatta. Alcuni di loro lo raccontano in
occasione del forum organizzato il 7 dicembre 2018 dal progetto Vamos juntos. “Siamo quello che siamo. Non
possiamo dimenticare la nostra storia”, dice Domingos. “La famiglia ci ha abbandonato? Ok, ora andiamo
avanti”. Anche João Antonio ci tiene a precisarlo: “Io sono un successo perché ho voluto essere un successo. Il
mio orgoglio è essere quello che sono ora nonostante quello che sono stato in passato”.
Sono ex ragazzi di strada che ce l’hanno fatta a costruirsi una loro famiglia e ne sono fieri: lo raccontano a una
platea di ragazzini che stanno seguendo il loro stesso percorso e durante il forum raccontano con ironia le loro
esperienze di strada con scenette e canzoni. Allegri e generosi nonostante il loro passato: “Siamo stati
abbracciati, ora tocca a noi abbracciare. Aiutare i giovani che oggi sono nella strada è il mio impegno per il
futuro”, conclude Tiago dopo aver raccontato gli anni della sua vita di menino da rua.

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17 Feb. Mattarella: "L'Italia vuole dialogare con tutta l'Africa"
L'Italia "vuole un dialogo con tutta l'Africa". Questo il messaggio con cui il Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella, primo Capo di Stato italiano a visitare l'Angola, si congeda dal Paese africano al temine della visita
effettuata dal 5 al 7 febbraio.
                                                       Al centro del colloquio la volontà reciproca di
                                                       approfondire i rapporti bilaterali. In particolare, il
                                                       governo di Luanda sta cercando di attrarre investimenti
                                                       stranieri per sostenere un processo di diversificazione
                                                       dell'economia che, dopo anni di crescita tumultuosa, sta
                                                       registrando un preoccupante rallentamento dovuto alla
                                                       caduta del prezzo del petrolio. L'Angola è infatti uno
                                                       dei principali Paesi produttori di idrocarburi dell'Africa
                                                       e può contare sull'estrazione mineraria, come i
                                                       diamanti. Al di là della presenza decennale dell'Eni nel
                                                       Paese dell'Africa occidentale, il governo di Luanda è
oggi alla ricerca del settore pubblico e privato italiano, con particolare attenzione alle grandi infrastrutture
e all'alta tecnologia.
Una missione di tre giorni per rafforzare la cooperazione tra i due Stati, sancita da un memorandum di
collaborazione economica e politica firmato con il Presidente João Lourenço.
 “Abbiamo concordato che c'è ampio margine di collaborazione tra le imprese angolane e italiane in diversi
settori, con particolare interesse per l'agroalimentare, le infrastrutture e l'energia”. Ha detto Sergio Mattarella
Mentre il presidente dell'Angola João Lourenço ha chiesto che gli investimenti nel Paese africano vengano
incrementati, ggiungendo: “Nel nostro incontro abbiamo parlato delle relazioni, di amicizia ed economiche, che
legano i due Paesi. Pensiamo che queste ottimi risultati possano essere ulteriormente rinforzati, soprattutto per
quanto riguarda la cooperazione economica.
Con specifico riferimento all'agroalimentare, Cassa Depositi e Prestiti ha firmato un accordo con il ministero
delle Finanze angolano per un valore di 300 milioni di euro. E' il settore petrolifero a trainare le relazioni
economiche: Eni, Saipem Finmeccanica e Cremonini sono consolidate nel Paese, che ha una produzione annuale
di 1,4 milioni di barili di greggio e l'estrazione prevista di 14 milioni di carati di diamanti entro il 2022.
Il governo cerca la diversificazione economica e - ha evidenziato Mattarella - l'esperienza delle piccole e medie
imprese italiane potrebbe essere una preziosa risorsa in questo processo.
L'Angola è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, il che può rappresentare una benedizione o uno
svantaggio, a seconda della situazione dei mercati dell'energia. Ecco perché il paese punta a diversificare la
propria economia, corteggiando investitori internazionali per espandersi in altri settori.
L’Angola sta tentando di dotarsi di un a industria tecnologicamente avanzata. Infatti è stata realizzata la soc. LP
Eletronica, nei pressi di Luanda, con una nuova fabbrica dove vengono assemblati telefoni cellulari con parti
provenienti dalla Cina. Il prodotto finito viene poi testato, pulito e confezionato. Il direttore commerciale Marco
Tavares spiega: "In Angola Oltre il 70 per cento della popolazione non può permettersi uno smartphone, quindi
abbiamo progettato questo telefono per questo mercato". LP Eletronica è un'azienda di proprietà familiare con
azionisti privati. Ad avvantaggiarla rispetto ai concorrenti sono le tasse doganali al 3 per cento sulle parti
anziché il 23 per cento sui telefoni assemblati. "Questo ci permette di avere ottimi prezzi e competere sul
mercato", conferma Tavares. La previsione per quest'anno è di produrre 30 mila telefonini al mese, e di
espandersi agli smartphone e ai televisori. 180 i posti di lavoro occupati da angolani. Di opportunità e di
occasioni per gli investitori in Angola ce ne sono parecchie, secondo il presidente di Ceeia, l'associazione che
riunisce le imprese internazionalizzate dell'Angola: "Investire nell'agricoltura e nell'industria può essere una
buona opportunità per le imprese, anche per le esportazioni in futuro", dice Agostinho Kapaia. E a meno di
vent'anni dalla guerra civile, c'è ancora molto da fare, spiega: "Dobbiamo ricostruire tutto, le strade, le reti
energetiche e idriche..."

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L'Angola inoltre, un tempo era uno dei granai dell'Africa, e ora sta cercando di tornare agli antichi splendori.
Fazenda Girassol vende 60 diversi tipi di frutta e verdura, coltivati o acquistati da altri agricoltori. In una delle
serre crescono cetrioli, coltivati con il sistema dell'irrigazione a goccia. Per regolare la miscela di acqua
purificata e sostanze nutritive si usano dei sensori. Constantino César, direttore delle vendite, afferma con
orgoglio: "Noi siamo diversi perché usiamo tecnologie del mondo intero per ottenere la qualità richiesta dal
mercato, e non solo il mercato nazionale ma anche internazionale. Il nostro primo obiettivo infattgi è di rifornire
il mercato locale, nazionale e, man mano che cresciamo, anche quello internazionale". Girassol conta oltre 1.100
dipendenti, in una fattoria fuori da Luanda e in una più grande in campagna. Frutta e verdura vengono pulite e
confezionate per supermercati, ristoranti e catering per compagnie aeree. È anche possibile ordinare online con
consegna a domicilio.

18 Feb. Scontro diplomatico tra Nairobi e Mogadiscio, via ambasciatori
                                                                             E’ scontro diplomatico tra la Somalia e
                                                                             il Kenya. Il governo di Nairobi (nella
                                                                             foto una via centrale di Nairobi) ha
                                                                             deciso l’espulsione dell’ambasciatore
                                                                             somalo in Kenya, Mohamoud Ahmed
                                                                             Nur (alias Tarzan) e ha
                                                                             contemporaneamente richiamato il
                                                                             proprio rappresentante a Mogadiscio,
                                                                             il generale in pensione Lucas Tumbo.
                                                                             E’ crisi diplomatica tra Kenya e
                                                                             Somalia.
                                                                             A causare il contrasto tra i due Paesi
                                                                             africani è stata la decisione del governo
                                                                             somalo di mettere all’asta le zone di
                                                                             esplorazione dei giacimenti petroliferi e
                                                                             gas nell’Oceano Indiano. Lo ha spiegato
                                                                             il ministro degli esteri kenyano
                                                                             all’agenzia Reuters. Entrambi gli Stati
                                                                             rivendicano da anni la sovranità
                                                                             sull’area marittima in cui si trovano i
                                                                             blocchi di esplorazione. Intanto, la Corte
                                                                             Internazionale di Giustizia dell’Aja ha
                                                                             preso in carico un’istanza sui confini
                                                                             marittimi tra i due Paesi. A presentarla
                                                                             era stata la Somalia nel 2014 dopo la
                                                                             rottura dei negoziati per definire la
                                                                             sovranità sui 100.000 km quadrati di
                                                                             fondale marino.
                                                                             Così il Kenya ha ritirato il proprio
                                                                             ambasciatore in Somalia, Lucas Tumbo,
                                                                             e ha invitato l’ambasciatore somalo a
                                                                             Nairobi, Mohammed Muhamud Nur, di
                                                                             rientrare in patria per consultazioni con
                                                                             il suo governo. Il Kenya accusa la
                                                                             Somalia di avere messo all’asta a Londra
                                                                             lo scorso 7 febbraio le zone di
                                                                             esplorazione marittima. Il governo
                                                                             somalo nega di avere messo all’asta i

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blocchi. I funzionari e politici di Mogadiscio contano di risolvere finalmente la disputa territoriale con il processo
legale davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. La crisi tra Kenya e Somalia rischia di mettere a rischio la
cooperazione condotta finora insieme tra i due Paesi nella lotta contro al-Shaabab, il gruppo integralista islamico
affiliato di al-Qaida e autore di diversi attentati terroristici.
Il controllo di riserve di idrocarburi individuate al largo della costa africana dell’Oceano Indiano ha innescato
quindi uno scontro politico-diplomatico tra il Kenya e la Somalia.
Il governo di Mogadiscio è stato accusato nel fine-settimana di aver assegnato concessioni a società straniere in
un’area contesa, situata a ridosso del confine, rispetto alla quale era già stata chiamata a pronunciarsi la Corte
internazionale di giustizia dell’Aja.
Il Kenya nel richiamare il proprio ambasciatore ha denunciato la rottura di un rapporto che sarebbe stato finora
fondato, dalla parte di Nairobi, sulla “generosità” e “l’accoglienza di centinaia di migliaia di rifugiati” somali.
Mogadiscio ha risposto negando che le concessioni riguardino l’area contesa, estesa per 100mila chilometri
quadrati. Proprio a ridosso di questa zona il Kenya aveva già assegnato all’italiana Eni permessi che sarebbero
ora contestati dalla Somalia.

18 Feb. Etiopia/ Gibuti. Firmato accordo per costruire gasdotto
Secondo fonti ufficiali, l’Etiopia e Gibuti hanno firmato un accordo per la costruzione di un gasdotto, lungo
circa 760 chilometri, che porterà il gas estratto dalla regione etiopica dell’Ogaden al terminal per l’esportazione
che si troverà a Gibuti, vicino al confine con la Somalia.
Enormi giacimenti di gas sono stati trovati nell’Ogaden dagli anni Settanta. Solo nel 2013, però, la cinese Poly-
Gcl Petroleum Investments (nata dalla joint venture della compagnia statale China Poly Group Corporation con
la compagnia privata Golden Concord Group di Hong Kong) ha raggiunto un accordo con il governo di Addis
Abeba per sviluppare i campi di estrazione di Calub e Hilala.
La firma per la costruzione del gasdotto arriva tre anni dopo la stesura di un memorandum del governo di
Gibuti con la Poly-Gcl Petroleum Investments per investimenti pari a 4 miliardi di dollari per la costruzione del
gasdotto, dell’impianto di liquefazione e del terminal per l’esportazione. La produzione dovrebbe cominciare il
prossimo anno.
Questo progetto è il più costoso mai realizzato nel Corno d’Africa, ha dichiarato il ministro gibutiano
dell’energia, Yonis Ali Guedi. Con la realizzazione di simili progetti in Tanzania e in Mozambico, la costa
orientale dell’Africa si candida a diventare il più importante polo di produzione di gas naturale al mondo.
Prevede un investimento pari a 3,2 miliardi di dollari l’accordo siglato da Etiopia e Gibuti per costruire un
gasdotto lungo 760 chilometri tra i due Paesi.

18 Feb. India e Pakistan, scenario da “guerra dell’acqua”
Il mondo ha scoperto da tempo il binomio tra cambiamenti climatici e conflitti. Ma ora si profila una guerra, ben
più pericolosa, legata all’acqua che potrebbe coinvolgere India e Pakistan. Ed entrambi i paesi hanno armi
nucleari
Cambiamento climatico e guerra. Un binomio che il mondo ha già avuto modo di conoscere. Yemen, Somalia e
Siria sono tra i paesi in cui il surriscaldamento del Pianeta è da molti considerato come la principale causa di
brutali conflitti. E, sebbene l’attenzione mediatica sulle guerre scatenate dal “climate change” sia concentrata in
Africa e Medio Oriente, uno scontro sulle risorse idriche potenzialmente ancora più pericoloso potrebbe
profilarsi tra India e Pakistan perché si tratta di due stati in possesso dell’arma nucleare..

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19 Feb. Raid aereo francese in Ciad. Ennesimo salvataggio di Idriss Deby
I militari francesi hanno reso l’ennesimo servizio al presidente ciadiano Idriss Deby Itno. Con una operazione
aerea lanciata con apparecchi Mirage 2000 partiti dalla base di Njamena hanno sterminato una colonna di
almeno quaranta pickup armati di mitragliatrici e cariche di guerriglieri. La colonna è stata intercettata mentre
dalla frontiera con Libia e Sudan tentava di dirigersi sulla capitale. La colonna era una formazione dell’Unione
delle Forze di Resistenza, gli stessi ribelli che nel 2008 tentarono di rovesciare Deby ma vennero fermati, ancora
una volta dalla Francia, anche in quel caso con una operazione aerea, alle porte del palazzo presidenziale di
Ndjamena.
L’operazione congiunta dell’aviazione
francese e dell’esercito del Ciad
sarebbe ancora in corso ma lo Stato
maggiore ciadiano ha già trasmesso alla
France presse la notizia che “Più di una
quarantina di veicoli” sono stati
distrutti e “diverse centinaia” di armi
sequestrate in una operazione nella
regione di Ennedi, nel Nord-Est del
Paese. Nel comunicato si riferisce
anche del ritrovamento di “numerosi
documenti compromettenti”. Due
giorni fa Idriss Déby Itno, ha detto al
consiglio dei ministri che una colonna
di mercenari era in viaggio in direzione
della capitale ma che i soldati delle forze di sicurezza l’avevano completamente distrutta con il sostegno della
Francia.
Una fonte dei guerriglieri dell’Unione delle Forze di Resistenza ha riferito degli attacchi aerei ma ha respinto il
fatto che la colonna sia stata distrutta. Ha parlato di una decina di vittime ma del grosso della forza rifugiato in
una località sicura.
Nel giro di dieci anni il regime di Idriss Deby Itno ha subito almeno tre tentativi di golpe o attacchi. Quello già
citato del 2008, quello di questi giorni e,secondo molte fonti, ce ne sarebbe stato un’altro partito dall’interno del
palazzo presidenziale da una fazione ribelle. In tutti i casi la Francia è intervenuta per mantenere al potere Idriss
Deby che è in carica dal 1990, quindi da ben 28 anni.

19 Feb. Burundi-Somalia: presidente Nkurunziza riceve omologo Farmajo, focus su
sicurezza e commercio
Il presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza, ha ospitato a Bujumbura l’omologo somalo Mohamed Abdullahi
“Farmajo”, in visita ufficiale nel paese. Secondo quanto riferisce un comunicato della presidenza somala, i due
capi di Stato hanno avuto dei colloqui bilaterali incentrati sul rafforzamento della cooperazione in materia di
sicurezza, commercio e partnership economica. La visita di Farmajo arriva in un momento in cui al Burundi è
stato chiesto di ritirare entro la fine di febbraio mille dei suoi uomini impiegati nella Missione dell’Unione
africana in Somalia (Amisom), di cui Bujumbura è il secondo contributore con oltre 5 mila effettivi. Le truppe
burundesi che operano nell’ambito della missione Amisom hanno la loro base principale a Giohar, la capitale
amministrativa dello stato di HirShabelle. La richiesta di ridurre il corpo di spedizione burundese, come riporta
il quotidiano keniota “Daily Nation”, è contenuta in una nota redatta e inserita a verbale al termine di una
riunione del comitato di coordinamento delle operazioni militari della missione Amisom, che si è tenuta lo
scorso 30 novembre nella capitale etiope Addis Abeba.
Nkurunziza al termine del suo incontro con Farmajo ha fatto questo annuncio alla stampa: “Abbiamo
concordato di tenere un summit urgente tra i paesi contributori di Amisom per rivedere questa decisione”.

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La decisione di iniziare dal contingente del Burundi sarebbe dovuta al fatto che le truppe burundesi sono
scarsamente equipaggiate.
Tuttavia, fonti diplomatiche burundesi ritengono che la decisione potrebbe essere dettata da ragioni politiche,
dal momento che il governo di Bujumbura è accusato di violare i diritti umani.
Il Burundi è attualmente il secondo contributore dietro all’Uganda della missione Amisom, istituita nel 2007 per
contrastare il gruppo jihadista al Shabaab. Attualmente la missione dispone di 21.500 uomini provenienti da
Uganda (6.223), Burundi (5.432), Etiopia (4.395), Kenya (3.664) e Gibuti (2 mila).

19 Feb. Il Kenya all’Onu: chiudere Dadaab
Il ministero degli Esteri del Kenya avrebbe chiesto all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati
(Unhcr), che lo gestisce, la chiusura del più grande campo profughi del mondo, Dadaab, per questioni di
«sicurezza nazionale». La notizia è stata diffusa in esclusiva dall’emittente ‘Radio France Internationale’, che
riferisce di aver avuto accesso alla lettera inviata all’Onu da Nairobi. Aperto all’inizio degli anni ’90 alla
frontiera settentrionale del Kenya per ospitare i profughi della guerra civile somala, il campo di Dadaab è stato a
lungo il più grande del mondo. Gli oltre 200 mila rifugiati, prevalentemente somali, secondo le autorità di
Nairobi «vanno trasferiti in Somalia o in un paese terzo».
All’inizio di questo mese, 12 persone sono state arrestate nel campo nell’ambito dell’inchiesta sull’attacco
islamista contro l’hotel Dusit di Nairobi, nel quale un mese fa erano rimaste uccise 21 persone.

20 Feb. Gibuti-Somalia: presidente Guelleh incontra omologo Farmajo, focus su questioni
bilaterali e integrazione regionale
Il presidente somalo Mohamed Abdullahi “Farmajo” ha iniziato oggi una visita ufficiale nel vicino Gibuti, dove
è stato ricevuto dall’omologo Ismail Omar Guelleh. Nel corso dei colloqui, come riferisce il sito d’informazione
“Garowe Online”, le due parti hanno discusso delle questioni bilaterali e di sicurezza facendo il punto del
processo di integrazione regionale. Farmajo ha quindi elogiato il ruolo svolto da Gibuti nell’ambito della
Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), di cui Gibuti è il quinto contributore con oltre 2 mila
uomini impiegati. Il presidente Guelleh, da parte sua, ha riaffermato l’impegno gibutino a sostenere il processo
di sviluppo della Somalia. Il processo di distensione regionale del Corno d’Africa è stato avviato lo scorso 9
luglio con la firma ad Asmara della storica Dichiarazione di pace fra Etiopia ed Eritrea che prevede la fine dello
stato di guerra fra i due paesi e tutti sono impegnati a lavorare per la pace regionale e quindi per la
normalizzazione delle relazioni diplomatiche.

20 Feb. Etiopia-Somaliland: premier Ahmed riceve presidente Somaliland, assente
Farmajo
Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha ricevuto oggi ad Addis Abeba il presidente dell’autoproclamata
Repubblica del Somaliland, Muse Bihi Abdi. Nel corso del colloquio, come riferisce l’ufficio del governo in una
nota ripresa dall’emittente etiope “Fana”, le due parti hanno discusso e concordato una serie di punti chiave, tra
cui il rafforzamento delle relazioni bilaterali e le questioni legate alla pace e alla sicurezza, con il presidente
Abdi che ha riconosciuto i passi avanti compiuti da Ahmed verso l'integrazione regionale e ha accettato l'invito
del primo ministro etiope a rafforzare ulteriormente le relazioni tra l'amministrazione del Somaliland e il
governo federale della Somalia. In relazione a ciò, sono stati presi accordi per intraprendere discussioni
individuali e bilaterali in futuro. Le due parti hanno anche discusso di questioni economiche e dell'utilizzo dei
porti. All’incontro non ha preso parte il presidente somalo Mohamed Abdullahi “Farmajo”, inizialmente
annunciato in Etiopia per quello che sarebbe stato il primo incontro ad alto livello fra Mogadiscio e Hargheisa.
Il Somaliland ha autoproclamato la propria indipendenza dalla Somalia, finora mai riconosciuta da Mogadiscio,
nel 1991.
Il governo federale della Somalia ha comunque diramato un comunicato con il quale esprime con favore la
disponibilità del presidente dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland, Musa Bihi Abdi, a cooperare

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strettamente con Mogadiscio. L’apertura, si legge in una nota diffusa dal governo somalo, rappresenta “un passo
progressivo nella giusta direzione” in vista di una cooperazione che “produca risultati tangibili”. Il governo
federale riconosce inoltre “gli instancabili sforzi del primo ministro etiope Abiy Ahmed per accelerare
l'integrazione economica della regione del Corno d'Africa” e ribadisce il proprio sostegno a “tutti gli sforzi volti
a rafforzare i colloqui sulla cooperazione e la creazione di un ambiente favorevole per la stabilità e la prosperità
della regione”.

21 Feb. Africa, un continente minato dalla corruzione
Quando si guarda la mappa dell'indice di percezione della corruzione di Transparency International, l'Africa
appare scarlatta, segno che la situazione rimane molto critica. Il Rapporto 2018, conferma questa osservazione,
poiché il continente è l’area del mondo dove si registrano i punteggi peggiori.
L'Ong, fondata nel 1993 da Peter Eigen (ex dirigente della Banca Mondiale), classifica ogni paese con un
punteggio compreso tra 0 (molto corrotto) e 100 (poco corrotto) e la media africana è 32, rispetto a 43 misurata
a livello globale. Ciò è tanto più preoccupante perché, come sottolinea Transparency International, "la
corruzione è un fattore che contribuisce alla crisi della democrazia" e produce "un circolo vizioso minando le
istituzioni democratiche" che, a loro volta, non sono più "in grado di controllare la corruzione stessa".
La Somalia è 180° (ultima in classifica) e il Sud Sudan, devastato da cinque anni di guerra civile, è 178°, mentre
fa poco meglio il Sudan (172°), dove il regime autoritario di Omar Al-Bashir è sempre più contestato. Al
contrario, i paesi africani meno corrotti sono Seychelles (28°), al centro di una "transizione democratica"
avvenuta nel 2016, Botswana (34°), spesso citato come modello di buona governance, Capo Verde (45°) e
Ruanda (48°). L’Ong riconosce, inoltre, gli sforzi da Senegal (67°), Costa d'Avorio (105°), Gambia (93°) ed
Eritrea (157°).
La situazione è, invece, peggiorata in Mozambico (158°), travolto da un grave scandalo finanziario che ha
coinvolto diversi ex funzionari governativi accusati di aver “nascosto” più di 2 miliardi di dollari. Un altro paese
in difficoltà è il Sud Africa (73°), dove l’ex presidente Jacob Zuma è stato coinvolto in un vasto scandalo di
corruzione. Dopo l'elezione lo scorso anno di Cyril Ramaphosa, "l'amministrazione ha adottato misure
aggiuntive per frenare la corruzione a livello nazionale", spiega Transparency.
Eppure, in questo contesto, il continente africano cresce sensibilmente: +5% il Pil aggregato. Scontato l'impatto
sui responsabili politici europei: ma allora perché questi enormi flussi migratori? In realtà le cose non stanno
così. A fronte di alcuni paesi che stanno in effetti galoppando, come Nigeria ed Egitto - che entreranno tra le
prime quindici economie del pianeta nel 2050 - e qualche altro esempio di crescita come l’Etiopia e il Kenya,
tutto il resto dell'Africa arranca: il pil pro-capite a livello continentale non supera i 2000 dollari e il 54% della
popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Esistono gigantesche sacche di povertà, non solo economica, ma anche energetica. Da alcuni dati risulta che ci
sono 660 milioni di abitanti dei paesi subsahariani che non hanno accesso alla corrente elettrica. Non possono
usare un ventilatore o un frigorifero, né ricaricare un telefono. È un dato drammatico che alza il velo su una
delle zavorre – non l'unica e forse nemmeno la più importante – che impediscono a un miliardo e 200 milioni di
africani un futuro di crescita e quindi di benessere. Dunque l'energia. L'Africa ne produce pochissima energia
solamente 100 gigawatt, tanto che la Banca Mondiale stima come indispensabile far crescere di ben sette volte
questa capacità, portandola almeno a 700 gw entro il 2040.
E, poi, ci sono i continui black out, che impattano duramente sulle persone e forse ancor di più sulle imprese. Il
problema, nel caso degli improvvisi stop alla fornitura elettrica, dipende dal modello energetico adottato in
molti Stati africani. Con sorpresa, per un continente ai nostri occhi in gran parte legato all'immagine della
siccità, si scopre che una buona fetta – non la maggiore in assoluto - della produzione di energia proviene
dall'idroelettrico, con tutta l'oscillazione che la mutevolezza del tempo produce, soprattutto da queste parti, tra
fasi siccitose e alluvionali.

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