NICKNAME di Giampaolo Ranaldi
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NICKNAME di Giampaolo Ranaldi 1
«Ma ecco qui il mistero: l'uomo è gettato nel mondo». Martin Heidegger 2
Capitolo 1: Il cadavere di Foce Verde Il viso affossato nella sabbia. I vestiti fradici. Il braccio e la mano destra sotto la pancia, le gambe in posizione disarticolata. Sono le cose che saltano subito agli occhi di un cadavere abbandonato come le barche sfasciate accatastate sulla spiaggia. Il sole di Luglio che brucia e picchia. Ma Antonio Spezzi, Maresciallo della Stazione dei Carabinieri di Quartacci, ha freddo. E’ il freddo della morte. Quello che ti entra nel cuore e nell’anima. Ne aveva visti tanti di corpi senza vita, questo di «Foce Verde», però, gli provocava una sensazione fastidiosa. Come quella che si prova quando si ha freddo e nessuna coperta o fonte di calore permettono di riscaldarsi. Bagnanti e villeggianti si erano spostati di cento metri e i ragazzini continuavano a dare calci al pallone e giocare coi racchettoni. «Vi ho chiamati perché ho visto subito che era morto. Io cammino per tutto il litorale. Ormai capisco quando la gente dorme. Quello lì non dormiva». Mohammed, venditore ambulante marocchino, ha rischiato. Non ha il permesso di soggiorno. E’ clandestino. Ma i Carabinieri lo conoscono e sanno che è un povero diavolo. «A che ora l'hai trovato?». «Alle sette. Andavo ad Ostia». «Va bene. Grazie Mohammed. Dobbiamo risentirti. Non sparire». «No, no Maresciallo, non sparisco. Lei sa dove trovarmi. Arrivederci e buon lavoro». Un augurio lugubre, quello di Mohammed. Il Maresciallo era stanco dei morti, dei furti, della droga, della violenza. 54 anni, 30 passati a osservare cadaveri, ascoltare disgraziati, arrestare assassini e ingabbiare ladri. Gli esseri umani, il Maresciallo ormai ne 3
era convinto, sono cattivi e malvagi e pure quelli buoni, prima o poi, diventano cattivi per difendersi. Il sottufficiale dell’Arma Tonino Spezzi, per fortuna, ha moglie e figli. Quando pensa a loro le sue opinioni sul genere umano cambiano e si ribaltano. Edoardo e Romina Spezzi, 25 e 30 anni, sono le due stelle polari del Maresciallo. Già. Due stelle polari. Ma di stella polare ce n'è una sola. Pensava Spezzi. Loro sono due perché sono bravi, buoni, belli ma soli, single, senza alcuna voglia di sposarsi, unirsi, fare famiglia, mettere in gioco la propria vita. Due stelle polari. O, come direbbe un giovane scrittore torinese, «due numeri primi». Il guaio è che i numeri primi sono anche in «solitudine». Il mattino dopo Andrea Giombetti, 25 anni, Brigadiere nella Stazione di Quartacci, Comune a sud di Roma, come in altri casi, stava preparando un rapporto sul ritrovamento del cadavere: «Maresciallo, buongiorno, il medico legale dice che il cadavere di “Foce Verde” ha, più o meno, 30 anni. Morto da meno di 12 ore. Probabile italiano. Segni particolari: un tatuaggio sulla spalla sinistra. E’ morto annegato nella nottata precedente il ritrovamento. Nello stomaco aveva alcool e nel sangue tracce di oppiacei». «Grazie Giombetti. Chiedi se possiamo riconoscerlo dalle impronte digitali o da foto di scomparsi». Un italiano. Pensava Spezzi. Ubriaco e drogato. Il suo ufficio, come tutte le mattine, si era riempito di carte e documenti da firmare, esaminare, spedire. Denunce, esposti, querele, lettere anonime, firmate, sottoscritte da spioni, amici, nemici, nullafacenti rompicoglioni vari. Spezzi avrebbe bruciato tutto. Gettato tutto al macero. Aveva nella testa sua figlia. Ma perché non si sposa e tira su famiglia? I pensieri del Maresciallo si interruppero bruscamente, dopo pochi secondi, allo squillo del telefono: 4
«Maresciallo, sono Giombetti, il Pubblico Ministero Tamburrini la vuole al telefono». «Passamelo». Tamburrini era il Pubblico Ministero al quale Spezzi aveva segnalato il ritrovamento del cadavere di Foce Verde. Una brava persona, ma qualche volta frettoloso e burocrate. Il Maresciallo lo chiamava Giudice perché, per lui, non era facile distinguere i ruoli all’interno della Magistratura. «Maresciallo. Come sta?». «Bene, Giudice». «Senta, Maresciallo. Perché non chiude questa storia dell'annegato di Foce Verde e mi lascia andare in vacanza? È annegato. Cos'è che non la convince?». «Aspetto le impronte digitali e, dopo aver scoperto l'identità, diamo il via libera per il funerale». «Bene, ma faccia presto». «Certo Signor Giudice, non si preoccupi». Le impronte del morto di Foce Verde non erano negli archivi elettronici della giudiziaria. Tra le denunce di scomparsa solo vecchi e donne. Il Maresciallo era incuriosito. Non riusciva a capire il perché, ma quel cadavere lo metteva in agitazione. Forse per il fatto che il ragazzo morto era quasi coetaneo dei suoi figli. Forse per il ricordo del freddo che aveva sentito nell'animo la mattina del ritrovamento. La sera, al rientro a casa, gli ritornavano sempre alla mente le immagini della spiaggia, del cadavere, delle imbarcazioni abbandonate. Ma, appena vide suo figlio, il Maresciallo tornò di buonumore, le immagini vennero spazzate via. Il buonumore, però, durò poco. Edoardo si era fatto fare un tatuaggio sulla spalla sinistra. Spezzi aveva ripensato subito a quello del cadavere. Gli erano ritornate in mente quelle immagini di morte. «Cosa è quella schifezza?». «Papà. È un tatuaggio in Sanscrito». 5
«In che?». «In un’antica lingua nata tra l'India e l'Europa. Non più parlata». «Che c'è scritto?». «Trova l'energia nel tuo corpo». «Che vuol dire?». «È un principio dello yoga. Una disciplina di meditazione». Il Maresciallo era infastidito, ma sua moglie Irene lo guardò e gli fece capire che era meglio lasciar correre. Spezzi pensò che non fosse il caso di mettersi a fare una scenata e raffreddò il suo animo. Edoardo, rimuginava Spezzi dentro di sé, è già adulto, un buon ragazzo, ma ancora non ha capito niente del mondo. Lo yoga e i tatuaggi possono far meditare, ma non aiutano a vincere le sfide della vita. Al mattino dopo, nel suo ufficio, il Maresciallo continuava a scervellarsi sul tatuaggio di suo figlio e del cadavere. La preoccupazione era più forte di lui. Chiamò il suo vice dalla linea interna: «Giombetti, vieni un attimo». «Buongiorno, Maresciallo». «Buongiorno anche a te. Il tatuaggio del morto. Cosa rappresenta? Che c'è scritto?». «I nostri tecnici lo stanno studiando». «Perché?» «Il tatuaggio è composto da parole di una lingua sconosciuta». «Mi servono delle foto con il particolare del tatuaggio e del volto. Dobbiamo capire cosa c’è scritto e chi era ‘sto cadavere». «Glie le procuro». Il Maresciallo, ancora con un po’ di malumore per la sera precedente a cena, aveva telefonato al figlio: «Ciao Edoardo». «Ciao Papà». «Puoi passare qui alla Stazione dei Carabinieri? Devo farti vedere una cosa». 6
«Sì, oggi pomeriggio». Il figlio del Maresciallo studiava all'Università. Era quasi diventato uno psicologo. Alle 15.00 si era presentato nell’ufficio del padre. Spezzi lo abbracciò. Tirò fuori dal cassetto le foto del cadavere di Foce Verde. Una raffigurava l’ingrandimento del tatuaggio sulla spalla sinistra. «Edoa’, guarda un po’ sto’ tatuaggio». «È Sanscrito, la stessa lingua di quello che ho sulla mia spalla, mi serve un dizionario per tradurlo». Spezzi guardò il figlio con un’espressione fiera e soddisfatta. «Grazie Edoa’. Prenditi la foto e fammi sapere che vuol dire» «Va bene. Ciao papà» I tatuaggi erano uno dei tanti misteri del mondo di oggi per il Maresciallo. Quando era giovane li vedeva sulle braccia dei malavitosi romani. Le frasi e le immagini più diffuse erano i «cinque punti della mala», «amo mamma», «cuori», «timoni». Ma adesso è diverso. Se li fanno tutti. Qualcuno su tutto il corpo. I laboratori con tatuatori, seri e meno seri, spuntano ovunque. Qualcuno si compra le attrezzature e lo fa in casa ad amici e parenti. Ma, in «Sanscrito», Spezzi non ne aveva mai visti. Intanto, si era ricordato di un volantino, letto nella biblioteca comunale di Quartacci, la città dove viveva con la sua famiglia. Chiamò Giombetti e gli disse: «Giombe’ senti: alla Biblioteca di Via Matteotti ho letto che c'è un corso di formazione in una lingua strana. Parla con chi lo tiene e chiedi se conosce il Sanscrito». «Va bene Maresciallo». Arrivato in Biblioteca Giombetti chiese alle impiegate che accoglievano il pubblico. Una delle due lo indirizzò in una sala dietro gli scaffali. Lì, secondo l’impiegata, avrebbe trovato la Professoressa Rossella Accoramboni, docente del corso di lingua «strana» di cui 7
aveva parlato il Maresciallo. Giombetti si trovò di fronte un’avvenente cinquantenne. Capelli rossi che le scendevano sulle spalle, ombretto e sopracciglia marcate. Il Brigadiere salutò e si presentò. La donna, che, mentre parlava muoveva sinuosamente le labbra con un rossetto molto forte, gli disse: «Sono a sua completa disposizione». «Mi hanno detto che lei conosce il Sanscrito. Può tradurmi una frase?». Mentre chiedeva Giombetti mostrava un foglietto con scritta la frase in Sanscrito. La donna, che non staccava lo sguardo dal viso e dal corpo del Brigadiere, osservò per un attimo il foglietto. Delusa di non poter accontentare il giovane Carabiniere, lo guardò dolcemente e rispose: «Io insegno Esperanto e conosco qualcosa di Sanscrito, ma non riesco a tradurre questi segni». «A chi posso chiedere?». «Provi all'Università. Alla Cattedra di Filosofia del Linguaggio. In bocca al lupo». «Crepi». Rispose Giombetti. La cinquantenne seguì ancora con lo sguardo il giovane, che si congedava dopo averla salutata. Fece un lungo sospiro come per dire: «Se avessi solo dieci anni di meno». Giombetti aveva seguito le indicazioni e con un paio di telefonate era riuscito a contattare il docente universitario: «Senta Professore, sono Giombetti dei Carabinieri le devo parlare». «Di che si tratta Brigadiere?». «Ho bisogno di tradurre una frase in Sanscrito». «Bene, l'aspetto domani alle 12 qui all’Università». Il giorno dopo il Brigadiere bussò allo studio del docente. Gentile e accogliente, il Prof lo invitò ad accomodarsi. Ascoltò Giombetti, osservò e lesse la frase trascritta su un block notes e poi disse: 8
«No, mi dispiace, le mie conoscenze in Sanscrito non mi permettono la traduzione. Però, conosco qualcuno più esperto. Un mio studente. Qualche anno fa scrisse la sua tesi sul Sanscrito. Fu molto interessante, ma poi non l’ho visto più. Forse insegna in qualche scuola». Germano Scafoletti, laureato nel luglio 2007, era lo studente indicato dal docente universitario. Dalla Stazione dei Carabinieri, dopo aver chiesto al Ministero dell’Istruzione, erano riusciti a sapere che lavorava in un Istituto Tecnico Industriale. Maresciallo e Brigadiere andarono nella scuola, poco lontana da Quartacci. A riceverli comparve un bidello con pizzetto e acconciatura da guappo napoletano. Si vedeva subito che non gli erano simpatici i Carabinieri. «Buongiorno, sono il Maresciallo Spezzi. Mi fa parlare con il Preside?». «Non c'è». «Allora ci faccia parlare col Professor Scafoletti». «Lo dovete arrestare? - disse il bidello sghignazzando - Me l'aspettavo». «Perché dice questo?». Chiese Giombetti. «È pieno di tatuaggi. Ne ha uno pure sul collo – mentre lo diceva il bidello si toccava la parte del collo sotto l’orecchio sinistro - Io lo arresterei solo per quello. Bell'esempio che dà ai ragazzi». «Che tatuaggi sono?». «Boh, chi li capisce». La chiacchierata col bidello aveva incuriosito il Maresciallo e attirato l’attenzione del Preside che era spuntato da una porta lungo il corridoio: «Buongiorno signori. Sono il capo d’istituto. Con chi ho l'onore?». Il Maresciallo, al quale il bidello aveva negato la presenza del Preside, guardò con disappunto tutti e due. Aveva già visto il viso del Preside da qualche parte, ma forse era solo un’impressione. Il Preside fece accomodare i due Carabinieri nella sua stanza. Il Maresciallo, che non 9
aveva risposto alla prima richiesta di presentazione del Preside, spiegò i motivi della visita. Lo fece con un tono che pareva pesare come un macigno sul Preside un po’ intimorito. «Piacere, Spezzi e Giombetti dei Carabinieri. Il custode ci ha riferito che lei non era presente e, quindi, abbiamo chiesto di parlare direttamente con la persona che cerchiamo: il Professor Germano Scafoletti». «Forse il collaboratore scolastico non mi ha visto entrare e vi ha detto che non c’ero. Comunque, chiamiamo subito il Professore». Il Preside alzò la cornetta del telefono e fece il numero di un interno. Chiese di far venire nella sua stanza Scafoletti. Riabbassò la cornetta e disse: «Il professore arriva subito. Io, però, vi devo lasciare. Ho degli impegni, ma sono qui in Istituto. Avete la mia stanza a disposizione. Qualsiasi cosa vi occorra, fatemi cercare». «Grazie Preside. Aspettiamo». Il Dirigente Scolastico si allontanava dai due Carabinieri come un cane che mette la coda tra le gambe e fugge dalla vergogna. Spezzi lo guardò fisso finché non uscì dalla stanza. Era chiaro che il Preside si faceva negare a tutti. Stavolta, però, qualcuno gli aveva detto che si trattava di Carabinieri e allora aveva preferito evitare grane. Nel frattempo era arrivato nella stanza il Professor Scafoletti. Giovane, nemmeno trentenne, con uno di quei cappellini senza visiera che gli copriva testa e fronte. Atteggiamento umile, ma abbastanza sicuro. Spezzi e Giombetti si presentarono, strinsero la mano al docente e chiesero di parlargli in privato. Spiegarono di essere arrivati a lui per mezzo di un Professore universitario. Mostrarono a Scafoletti una foto nella quale si vedeva l’ingrandimento del tatuaggio scritto in Sanscrito. Non si capiva se fosse scritto su carta o, come veramente era, su pelle umana. Il Professore tradusse subito: 10
«”Se la ragione si affida ai sensi perde le ali”. E’ una frase della Divina Commedia di Dante Alighieri. Mi sembra di averla letta nel Paradiso. Non so perché è scritta in Sanscrito». Spezzi ebbe subito l’impressione che il giovane insegnante avrebbe potuto essere molto utile. Ricordava le parole del bidello e chiese: «Senta Professore, anche lei ha dei tatuaggi?». Scafoletti rimase un attimo in silenzio. Poi, infastidito, disse: «Mi avete detto che vi ha indirizzato qui il docente con cui ho scritto la tesi sul Sanscrito. Cosa c’entra la mia vita privata?». «Niente – rispose Spezzi – Però il tatuaggio che le abbiamo fatto vedere appartiene alla persona che vede in quest’altra foto». A Scafoletti venne mostrata l’immagine non ingrandita. Quella col cadavere di Foce Verde. L’insegnante non commentò e guardò i due Carabinieri. Non capiva. «Lei conosce il Sanscrito e si è fatto dei tatuaggi. Lo conosce quest’uomo?» «No. Ma conosco delle persone che fanno questo tipo di tatuaggi a pagamento. Hanno un laboratorio a Centocelle in Via delle Camelie». «Grazie Professore. Andremo da questi tatuatori, ma lei si tenga a disposizione». Scafoletti non sapeva se pensare bene o male della questione. Temeva di finire in uno di quei vortici giudiziari dai quali non si esce più. Però, tutto sommato, il Maresciallo gli sembrava una brava persona. «Va bene, mi trovate qui a scuola. I miei recapiti sono in Segreteria. Arrivederci». «Buona giornata, Professore». Spezzi e Giombetti avevano parlato con Scafoletti, ma all'uscita della scuola il bidello credeva che non lo avessero trovato: «Quello ha sentito l'odore degli sbirri e se l'è data». «Guardi che ci abbiamo parlato». Il Maresciallo, urtato dall'ironia del bidello, aveva risposto un po' seccato. Il bidello se n’era accorto: 11
«A Marescia’, io sto a scherza’. Quel professore manco lo conosco. Però i tatuaggi dicono un sacco di cose». Spezzi non apprezzava, anzi puntava lo sguardo sul bidello con ghigno inquisitorio: «Perché, secondo lei, che dicono i tatuaggi del professore?». «È uno che se vole fa riconòsce. Si è tatuato pure sul collo, ma io scherzo. A Marescia’…..». Il bidello spavaldo e coatto, il professore tatuato, il preside che si faceva negare. Mamma mia che mattinata. I suoi figli, pensava il Maresciallo, erano andati in scuole non molto diverse da quella dove insegnava Scafoletti. Il Maresciallo se lo ricordava quando andava a prendere i figli in anticipo o quando si recava al ritiro delle pagelle. C'erano bidelle, bidelli. Chiacchieravano beatamente e sembravano perditempo davanti a un bar. Insegnanti ottimi, ma anche pazzoidi che, dopo una mezzora di colloquio, non avevano ancora detto nulla degli studenti e del loro rendimento. Capi d'Istituto fuori di testa che ripetevano sempre le stesse cose. Il Maresciallo non riusciva a capire come i suoi figli fossero venuti su sani e bravi in mezzo a questo tipo di persone. Lo squillo del telefono interruppe ricordi e pensieri: «Papà, sono io». «Ciao Edoardo». «Il tatuaggio sul cadavere vuol dire: “il volo della ragione è basso se ci si affida ai sensi”». «Grazie Edoa’. Me lo sono scritto». Spezzi non aveva detto al figlio che già lo sapeva. Gli sembrava meglio che lui pensasse d’aver fatto qualcosa di utile per il padre. «Senti. Volevo chiederti. Se uno si fa tatuaggi sul collo. È normale?». «Sul corpo i tatuaggi sono diffusissimi. Sul collo meno. Forse in Germania, Inghilterra, ma in Italia sono pochi, anche se negli ultimi tempi aumentano i tatuaggi al collo perché vanno di moda. Devo lasciarti. Ho fretta». «Va bene, grazie. Ci vediamo stasera a casa». 12
«No papà. Non ci sono». «Dove vai?». «Ho un impegno». Spezzi si inquietava quando non aveva a tavola i figli. Erano adulti, ma lui non se lo era ancora messo nella testa. Anzi, ogni tanto sognava cene con figli e nipoti. Al risveglio la delusione. Il mattino dopo Spezzi aveva le idee più confuse del solito. Di una cosa, tuttavia, era sicuro: l’insegnante non aveva detto tutto. Suo figlio, poi, di solito si dilungava in spiegazioni quando gli chiedeva un parere sugli strani comportamenti degli esseri umani. Era quasi laureato in psicologia. Stavolta, invece, lo aveva, quasi, deluso. Non si era interessato più di tanto. Aveva pensato che, forse, era meglio sentire sua figlia. «Pronto, Romina». «Ciao, paparino». Con Romina era tutta un'altra cosa. Bella, solare, gentile. Dialogava e scambiava affetto con una fierezza che mandava Spezzi in visibilio. «Romina, senti. Le persone che si fanno tatuaggi al collo, che carattere hanno?». «Ma, papà, io sono un’insegnante di matematica, non una psicologa. Chiedi a Edoardo». «No, no. Dimmi quello che sai tu». «Uno studente che si è messo l'anello al naso, mi ha spiegato che l'antica Tribù dei Maori Neozelandesi tatuavano i loro visi e mettevano anelli, per fare in modo che ognuno fosse un individuo assolutamente diverso dagli altri. Chi lo fa oggi, rifiuta la massificazione. Tatuaggi sul collo sono usati anche dai ragazzi punk». «Grazie amore di papà». «Ci vediamo stasera. Ciao paparino». Professoressa di matematica. Romina insegna in un liceo fuori Roma. Il padre la adora. 13
Il mattino dopo Spezzi e Giombetti erano di nuovo nell’Istituto dove insegnava Scafoletti. «Professore siamo tornati da lei perché vorremmo farle qualche altra domanda». «Prego, ho finito le lezioni. Sono a vostra disposizione». «Siamo andati al laboratorio di Centocelle. Ci hanno detto di non conoscere il cadavere, ma non conoscono nemmeno lei». «E allora?». «È difficile professore dimenticarsi di una persona che si fa tatuare scritte in Sanscrito sul collo». «Non me lo hanno fatto a Centocelle. L’ho fatto molti anni fa in un’altra zona di Roma. Ero un punk. A quei tempi io i miei amici volevamo distinguerci dalla massa. Essere diversi. Adesso vorrei toglierlo, ma gli interventi laser per togliere tatuaggi costano una fortuna. Sono un insegnante precario, non posso permettermelo». Spezzi e Giombetti guardavano Scafoletti con la commiserazione di chi osserva un disgraziato. Il professore se n'era accorto: «Questo tatuaggio mi ha provocato un sacco di problemi. Studenti incuriositi. Genitori che protestano. E, comunque, chi mi vede la prima volta, ha un'impressione negativa su di me. Un prete, un giorno, mi chiese se potevo coprirmi perché in chiesa spaventavo le vecchiette. Un'altra volta fui coinvolto in un'indagine su gruppi satanici. Tutto questo per aver scritto sotto il mio orecchio sinistro: “L’uomo è nato libero e ovunque è in catene”. E’ una frase che il filosofo Jean Jacques Rousseau ha scritto all’inizio del libro “Il Contratto Sociale”, non una citazione demoniaca. Ora, potete capire come vivo la situazione». I due Carabinieri avevano ascoltato con attenzione. I loro sentimenti si erano ammansiti nei confronti di Scafoletti. «Senta, Prof, la chiameremo ancora. Lei può esserci molto utile». «Va bene, arrivederci». 14
Spezzi si era stufato. Si chiedeva perché nel mondo ci sono cose meravigliose come la famiglia e schifezze come il crimine. Ma dentro la testa gli rimbalzavano le parole di Scafoletti. Il tatuaggio, la gente, i pregiudizi. Quello sulla spalla sinistra del cadavere era piccolo e in una zona classica per i tatuaggi. Anche suo figlio si era fatto un tatuaggio sulla spalla sinistra. Giombetti, intanto, si era mosso: «Maresciallo ho trovato altri tatuatori che fanno scritte in Sanscrito». «Dove stanno?». «A San Paolo. La domenica mattina fanno tatuaggi in una tenda durante il mercato ambulante». «Andiamoci domenica prossima». «Ok». I due Carabinieri si presentarono di buon mattino tra le bancarelle accanto alla Basilica di San Paolo. Il mercato, di Domenica, è pieno di indiani, rumeni, albanesi, russi e italiani che si arrangiano. Vendono di tutto, ma gli affari si fanno con gli apparecchi elettronici e i computer usati. Si vendono anche libri, dizionari. Tutto a un euro, però bisogna trattare. Puntarono subito la zona dei tatuatori. Alle loro richieste i tatuatori, quasi tutti indiani o cinesi, guardavano la foto del cadavere col tatuaggio e negavano decisi. Dicevano di non saperne nulla. Avevano l’atteggiamento di chi ha già tanti problemi e non ne vuole altri. Dopo qualche tentativo Maresciallo e Brigadiere trovarono gli autori del tatuaggio di Brunetti. «Buongiorno, sono il Maresciallo Spezzi. Lo conoscete quest'uomo sulla foto?». «Sì. È venuto qui qualche tempo fa. Gli abbiamo fatto il tatuaggio che si vede sulla sua spalla, non sappiamo chi è, ma disse che aveva fatto una passeggiata per venire qua, probabilmente abitava qui intorno». «Conoscete il Sanscrito?» «No. Quell’uomo aveva un foglietto con la frase già scritta». «Chi è che conosce questa lingua qui al mercato?» 15
«Forse gli indiani che vendono stoffe vicino all’entrata del mercato». «Grazie». «Di nulla, Maresciallo». Spezzi e Giombetti andarono dai venditori di stoffe indiani che conoscevano il Sanscrito. Mostrarono loro la foto col cadavere. «Buongiorno, sono il Maresciallo Spezzi. Conoscete quest'uomo?». Gli indiani osservarono la foto, non sapevano che fare. Spezzi capì che potevano dire qualcosa di interessante. Li guardò con decisione e parlarono. «Sì, lo abbiamo già visto, ma non sappiamo come si chiama. È venuto da noi per farsi scrivere la frase del tatuaggio su un foglio. Era insieme a un altro con un tatuaggio al collo in Sanscrito». Il ragazzo morto era andato a San Paolo, ma non c’erano ancora elementi utili per identificarlo. Pareva una specie di caccia al tesoro. Spezzi e Giombetti tornarono da Scafoletti. Dovevano chiarire. «Professore, lei ha mentito. Ci sono testimoni che hanno visto con il morto un uomo col tatuaggio al collo in Sanscrito. Allora, che ci dice? Era lei quell’uomo?». «No, non ero io. Se volete vengo da questi testimoni. Non sono il solo ad avere un tatuaggio al collo». Giombetti portò Scafoletti alle bancarelle di San Paolo. Scafoletti non era l’uomo che accompagnava il morto di Foce Verde. «Professore, lei ci deve aiutare. Chi è che, come lei, ha tatuaggi sul collo in questa lingua?». «Ai tempi del Punk eravamo in tre. Io, un mio amico e un altro che conoscevo, ma non frequentavo. Il mio amico si chiama Ivan Fresilli. E’ emigrato in Canada da 5 anni. L’altro Elisio Cazzola, ma non l’ho più rivisto». «Perché avevate scelto questa lingua?». «Avevamo visto immagini di scritte in Sanscrito su un libro di storia. All’inizio non capivamo il significato, però ci piaceva la grafia. Poi 16
abbiamo cominciato a comprendere e usare qualche parola e ci siamo fatti i tatuaggi». Dopo alcune ricerche Spezzi e Giombetti erano riusciti a trovare uno degli altri due tatuati. L’uomo gestiva un bar a Torre Cannella, quartiere periferico di Roma, vicino Quartacci. Elisio Cazzola aveva capelli lunghi, codino e fascia azzurra sulla fronte per coprire il tatuaggio. Spezzi e Giombetti si presentarono al bar di buon mattino. Cazzola credeva fossero due clienti. «Buongiorno. Cosa prendete?». I due Carabinieri osservarono, per un attimo, il Cazzola. Poi Spezzi tirò fuori dalla tasca del cappotto la foto del cadavere di Foce Verde. «Niente. Siamo qui per chiederle alcune informazioni. Sono il Maresciallo Spezzi, lui è il Brigadiere Giombetti. Lo conosce quest'uomo sulla foto?». «Mamma mia! Filippo! Cosa gli è accaduto?». «Lo abbiamo trovato morto sulla spiaggia di Foce Verde». Impallidito Elisio prese una bottiglia di liquore molto forte e si versò un bicchierino. Poi iniziò a parlare: «E’ Filippo Brunetti. Abitava qui a Torre Cannella in Via di Criccomoro, al numero 10. L'interno non me lo ricordo, ma stava all'ultimo piano. A destra delle scale». «Dobbiamo avvertire i familiari o i parenti». «Non aveva nessuno. Occupava l'alloggio abusivamente. Era di Ascoli Piceno. Di più non so. Siamo andati qualche volta in birreria. Gli piaceva il mio tatuaggio. L’ho accompagnato al Mercato di San Paolo per comporre una frase nella lingua Sanscrita e farsi fare un tatuaggio». «Grazie, torneremo da lei». Spezzi e Giombetti erano andati a Torre Cannella, comparto residenziale di Via Criccomoro. Il Comune di Roma aveva costruito quelle case popolari negli anni ‘70. Palazzoni grigi che circondavano 17
una specie di piazzetta piena di motorini. Gli androni, zeppi di citofoni, erano scalcagnati e pieni di scritte. L'ascensore non funzionava. Giunti al settimo piano i due Carabinieri avevano un gran fiatone. Spezzi pensava di chiedere all’appartamento a fianco, ma dall’alloggio di Brunetti provenivano rumori e i due Carabinieri si rivolsero verso la porta di Brunetti. La scritta col cognome sul campanello non c’era . Giombetti suonò e la porta venne aperta da una splendida ragazza con gli occhi azzurri e i capelli neri corvini. «Buongiorno, posso esservi utile?». «Siamo Carabinieri. Cerchiamo Filippo Brunetti». «Non lo conosco. Però, vi offro un caffè. Entrate». Giombetti era diventato rosso come un pomodoro. Quella ragazza aveva fatto colpo. Era imbambolato. Anche Spezzi era sorpreso. Davanti al caffè, Arianna, così si era presentata la ragazza, aveva sfoderato un sorriso che Giombetti non capiva più niente. Spezzi, apprezzava la bellezza della donna, ma voleva capirci qualcosa: «Signorina, sappiamo che qui abita Filippo Brunetti. Lei, però, dice di non conoscerlo». «Io vivo qui, col mio bambino, da pochi giorni. Alcuni amici mi hanno detto che potevo stare in questo appartamento e che l'inquilino se n'era andato. Prima vivevo a Valle Aurelia. Nei residence occupati, ma il Comune ci aveva già mandato via più volte. Qui sto meglio». Giombetti non riusciva nemmeno a biascicare una parola. Ammaliato e incantato dalla ragazza. Spezzi, invece, iniziò a girare per le stanze. La donna lo guardò un po’ sorpresa, ma non gli disse nulla. «Signorina, cosa c’era in questa casa quando lei è arrivata?» «Solo il televisore, un letto, l’armadio, con pochi vestiti da uomo, e un frigorifero. Ho aggiunto le mie cose senza togliere nulla». Dopo aver ascoltato la donna, Spezzi disse con garbo: «Va bene, per me può stare qui quanto vuole, ma mi dica chi l'ha fatta entrare». 18
«Lo chiamano “Giovanni er budellone”. E’ un signore con barba e pancione. Molto educato e gentile. Mi avevano detto che potevo chiedere a lui per una sistemazione. Qualche volta lo vedo dal barbiere». Spezzi e Giombetti trovarono subito «Giovanni er budellone». Lo conoscevano già. Si trattava di un vecchio abitante di Torre Cannella. Uno di quelli che negli anni ‘70 abitava a Monteverde, zona residenziale di Roma. Fu sfrattato e acquistò casa in cooperativa a Torre Cannella con un mutuo da pagare per trent’anni. Usciere al Comune, impegnato nel sociale, lottava per il «diritto alla casa» e si era beccato molte denunce per occupazioni abusive, risse e manifestazioni non autorizzate. All’incontro coi Carabinieri Giovanni Capezzi, così si chiamava «er Budellone», non era per niente sorpreso. «Non lo conosco l'inquilino che se ne è andato. Me l'ha detto il barista che non sarebbe tornato per un pezzo. Allora ho suggerito a quella ragazza-madre di occupare la casa. È un suo diritto. Secondo voi dovrebbe restare in strada con quella creatura?». Il barista mentiva. Come faceva a sapere che Filippo Brunetti non sarebbe tornato per un pezzo? «Giombetti cerca tutto su ‘sto Filippo Brunetti. Vediamo di trovare parenti, amici, qualcuno che ci dica chi è». Trovare notizie su un nome e cognome come Filippo Brunetti, a Roma e Provincia, è lo stesso che cercare notizie su cognomi come Rossi, Bianchi, Proietti. Di Filippo Brunetti ce ne sono una marea. Nessuno scomparso o ricercato. Spezzi e Giombetti avevano quasi deciso di archiviare. «L'ultimo tentativo! – Esclamò il Maresciallo mettendosi la mano sulla fronte - Torniamo alla scuola di Scafoletti. Conosce il Cazzola. Con qualche sollecitazione gli tiriamo fuori altre informazioni». All’Istituto Tecnico chiesero nuovamente dell’insegnante. Stavolta fu da loro in un momento. 19
«Professo’, Buongiorno. Il ragazzo morto si chiamava Filippo Brunetti. Le dice qualcosa questo nome?». Scafoletti ci aveva pensato un po’, ma non ricordava. «Filippo Brunetti? Boh, non so. Cercherò tra i miei ricordi e chiederò agli amici». «Cerchi solo tra i suoi ricordi. Agli amici chiederà un’altra volta». «Va bene Maresciallo. Ho capito. Farò come dice lei. Devo andare in classe per la lezione. Ci risentiamo». «Arrivederci Professore». 20
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