MARCO RIZZO, ANTONIO GRAMSCI, XI JINPING di A. Vinco
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MARCO RIZZO, ANTONIO GRAMSCI, XI JINPING di A. Vinco Riceviamo e pubblichiamo Sono maturi i tempi per un Nuovo Socialismo Italiano? Ernst Nolte, allievo di Heidegger, lesse la storia del Novecento come una guerra civile europea tra il Nuovo Ordine tedesco hitleriano e il bolscevismo sovietico. Fu, quella del Nolte, una falsificazione storica e storiografica, un autentico caso di negazionismo italianofobo. Fu l’Italia, infatti, il teatro strategico più avanzato del grande scontro ideocratico del Novecento, quello che si svolse tra americanismo, fascismo, comunismo. Il Partito comunista italiano ed anche talune frazioni del “partito armato” (Giorgio Galli), pur non realizzando la loro agognata “conquista del Palazzo d’Inverno”, seppero fornire, nel tardo Novecento, un prassismo comunista di gran lunga più avanzato e
moderno di quello sovietico, cinese, cubano. Tra gli epigoni di tali ideocrazie sembra essere rimasto ben poco, in Italia. Ci occupiamo ora del pensiero di Rizzo e del Partito comunista (che abbiamo conosciuto direttamente agli inizi della nuova avventura rizziana, apprezzandone taluni lati, rifuggendo però il dogmatismo settario staliniano di fondo), rimandando eventualmente a un altro scritto seguente un tentativo di analisi del mondo missino e postmissino. Il peccato originale dell’operaismo Secondo la frazione dell’operaismo, il gramscismo altro non sarebbe stato che una manifestazione di “idealismo borghese”, ai limiti dell’anticomunismo. Da una parte, gli operaisti prima, autonomi poi, prendendo di mira Antonio Gramsci, volevano prendere le distanze dal Pci togliattiano, che di fatto storicizzò la forma partito di estrazione gramsciana, dall’altro volevano effettivamente mettere il dito nella piaga: l’abbandono gramsciano del materialismo deterministico e dell’economicismo. Conseguivano da questo abbandono, nel nuovo parto cesareo del Gramsci, tre elementi fondamentali: 1) il nuovo concetto di società civile; 2) l’interpretazione della rivoluzione socialista come “riforma intellettuale e morale”; 3) infine la guerra di posizione sostituita alla guerra di movimento. E’ fondamentale, per la comprensione del comunismo gramsciano, tenere sempre presente tale connessione di pensieri. La guerra di posizione trovava la sua logica nel fatto che in Italia, paese occidentale più avanzato e maturo rispetto alla Russia assolutista e zarista in cui i leninisti assaltarono il Palazzo e ciò bastò loro per la conquista del potere, dietro la “trincea avanzata” dello Stato stava e sta tuttora “una robusta catena di fortezze e casematte” (la società civile con le sue elite egemoni). In conseguenza dei maggiori ostacoli che doveva superare, la rivoluzione nel pieno senso gramsciano poteva perciò concretizzarsi in Europa solo nel suo aspetto più profondo di “riforma intellettuale e morale”. L’Italia, nella strategia di Gramsci, era certamente
il polo assoluto dello scontro ideocratico, il Partito il moderno Principe che assegnava la priorità al momento etico e pedagogico su quello economicistico e operaistico. Significativa era infatti, nella filosofia della praxis del Gramsci, la difesa dell’idealismo gnoseologico contro le critiche mosse in nome del “senso comune”, in base all’osservazione del fatto che la credenza nell’oggettività del mondo esterno materiale fosse di origine mitologico- religiosa e trascendente, “perché per secoli si è creduto che il mondo è stato creato da Dio prima dell’uomo e l’uomo ha già trovato il mondo creato e catalogato, definito una volta per tutte, questa credenza diventa un dato del “senso comune” anche quando il sentimento religioso è spento…” (“Lettera a Tania”, 19 marzo 1927). Siamo evidentemente molti lontani dalla tradizione materialista e oggettivista marxista e se al Rizzo non aggrada annoverare l’idealismo italiano come il cuore della praxis gramsciana(1), dovremmo allora rimandare alla gnoseologia di Bogdanov, l’antagonista che Lenin ha di mira in Materialismo ed empiriocriticismo. E’ d’altro canto un fatto che Gramsci cercasse il Lenin filosofo nella prassi, nell’azione storica più che nei “Quaderni Filosofici” o nel summenzionato scritto: si sente in diritto di farlo in quanto la filosofia è gramscianamente storia, “filosofia implicita”. L’idealismo storicistico e volontaristico gramsciano è l’elemento di mediazione e comprensione della “filosofia implicita” leninista; il Gramsci maturo che individua in Lenin il prassista che attua il concetto di Egemonia è il medesimo Gramsci che scriveva nel 1917, contro l’ortodossimo settario marxista, La rivoluzione contro il Capitale. Gramsci però, operando e teorizzando in un Paese economicisticamente più maturo di quello russo, supera il leninismo sul piano strategico, con il concetto del mito dell’antifascismo. Quest’ultimo concetto strategico consentiva infatti al comunismo italiano, dal 1943 in avanti, di guidare il fronte della resistenza al “nazifascismo” prima, all’ “imperialismo americano” in seguito, sperimentando una inedita e nuova collaborazione tattica con un fronte democratico-borghese
considerato “progressivo”. Il comunismo italiano, di estrazione gramsciana, finiva anche per superare lo stesso oggettivismo deterministico marxista, in storicista continuità con il democraticismo plebeo e borghese machiavelliano e robespierriano. L’idealismo gramsciano, basato sulla tattica di autonomia del politico, non impregnò solo il Pci togliattiano ma anche le frazioni più politiche del “partito armato” italiano, escludendo ovviamente lo spontaneismo anarcoide dell’Autonomia e del contropotere operaistico diffuso. Rizzo: tra antigramscismo e “Cina socialista” Nonostante il richiamo formale alla figura eroica e rivoluzionaria di Antonio Gramsci, nell’universo ideologico del Partito comunista di Rizzo il sardo fa la classica figura dell’ospite incompreso. Rizzo è infatti passato, negli anni recenti, dalla condanna del Pci togliattiano quale classica forma di “revisionismo socialdemocratico” alla aperta esaltazione dell’avventurismo secchiano, il cui intero entourage – a iniziare da quel Giulio Seniga che diventò la figura centrale del progetto secchiano – sarebbe stato in stretti contatti con l’intelligence angloamericana in occasione dei tentati omicidi di Togliatti, come emerge da documentazione d’archivio esibita ne “Le menti del doppio stato” (Fasanella-Cerechino, Chiarelettere editore 2020), su cui è pur lecito avanzare dubbi ma che andrebbe comunque tenuta in considerazione. Il balzo in avanti di Rizzo, svolta assai recente, è costituito però dalla presa di coscienza della centralità del nodo geopolitico in vista dell’affermazione epocale di una nuova civilizzazione non liberista, non capitalista e di transizione al socialismo o comunque al multipolarismo. In una ottima intervista rilasciata il 28 Novembre 2020 al “Corriere della Sera”, Rizzo ha risposto al probabile livore sinofobo e americanista dell’intervistatrice, rivendicando una sorta di “sovranismo socialista” italiano post-occidentale: “Sono italiano. La
prima cosa per me è difendere i lavoratori. Credo che si possa commerciare con la Cina come lo si fa con gli stati europei, con la Russia, con gli Stati Uniti”. Un superamento dell’eccessivo identitarismo primordiale che ha caratterizzato sino a ora il Partito comunista potrebbe portare da un lato ad una seria riscoperta della filosofia idealistica di Gramsci, dall’altro ad una alleanza sempre più esplicita tra il Partito di Rizzo e quello di Xi Jinping. Dalla Cina è stata infatti richiesta al segretario comunista italiano la recensione del terzo volume del presidente Xi Jinping, Governare la Cina. L’epoca multipolare prevede il “socialismo con caratteristiche cinesi” in posizione di Egemonia, ai fini di una giustizia sociale confuciana globalizzata; il Rizzo, studiando attentamente la storia del Pcc, avrà modo di conoscere il profondo idealismo taoista e legista della frazione Mao Zedong e il profondo idealismo confuciano della frazione Deng- Xi Jinping come avrà modo di rendersi conto che per la maggior parte dei pensatori – patrioti han per i quali l’antioccidentalismo e l’antimperialismo viene prima di ogni altra considerazione – del Pcc il comunismo non è una invenzione di Marx ma dell’antico filosofo confuciano Mencio. Senza contraddizione non v’è dialettica, scrisse Mao, ma ridando sostanza, tramite il formalismo materialista, all’antica filosofia spiritualista cinese che vedeva nel conflitto il motore dell’eterno divenire. Senza Armonia Sociale non v’è né potrà esservi Socialismo Cinese, diranno i denghisti, rivitalizzando l’antico Confucianesimo. E’ forse arrivato il momento storico in cui si possa finalmente legittimare un “socialismo con caratteristiche italiane” che non rinneghi, nella sostanza, il profondo idealismo gramsciano e una certa eredità volontarista risorgimentalista che già il PCI tentò di recuperare; che avvii, in definitiva, una rottura di paradigma e una autentica svolta teorica, in nome e per conto della Praxis. Oltre un materialismo e un economicismo che hanno annacquato e forse anche de-realizzato il percorso naturale del socialismo
eurocentrista e occidentale novecentesco, i cui epigoni, oggi, sono guarda caso i massimi propagandisti del Sionismo imperialista globalista di Biden/Harris e del Clash of Civilitation (scontro di civiltà) islamofobo. Altra storia è rappresentata dal maoismo o dal “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng e di Xi Jinping. Marco Rizzo, massimamente accreditato presso il Pcc, ha una grande responsabilità teorica e storica: a lui spetterebbe il compito di ridisegnare una strategia di socialismo europeo, non più unilateralmente economicista e materialista, sul modello di Pechino, oltre che quello di sbugiardare le varie mendacità americaniste e sioniste come quella, eclatante, che ora sembra aver preso di mira il neo-confuciano Sistema di Credito Sociale. NOTE 1) Cfr. Roma 17-18-19 gennaio 2014. “Terzo documento politico congressuale del Partito comunista”: L’insegnamento di Gramsci oggi (Marco Rizzo) DESTRA, SINISTRA E RIVOLTA POPOLARE di Carlo Formenti
Volentieri pubblichiamo questo intervento di Carlo Formenti che condividiamo nella sostanza. Il nostro popolo (sulla questione “Destra e Sinistra”) di Carlo Formenti* Ho seguito con interesse il dibattito fra gli amici Zhok e Visalli. Le questioni che sollevano sono complesse e richiederebbero a chi voglia contribuire alla discussione lo stesso impegno che vi hanno profuso coloro che l’hanno avviata. Dato che al momento ciò non mi è possibile, mi limito a un sintetico commento a una tesi avanzata da Zhok che non mi è parsa scevra da insidie, soprattutto se elevata a criterio orientativo di scelte e decisioni su quali soggetti assumere come interlocutori di possibili alleanze, tanto sul piano politico quanto sul piano sociale. Per motivare la mia perplessità, semplifico drasticamente la tesi di Zhok, o almeno quello che mi è parso il suo nocciolo fondamentale: le scomposte reazioni di larghi settori sociali
duramente colpiti dagli effetti economici della pandemia e/o insofferenti delle limitazioni inflitte ai propri comportamenti individuali, ma soprattutto l’egemonia politico culturale che le destre esercitano nei confronti di tali settori, configurano il rischio concreto che dalla crisi del regime neo liberale, in atto da tempo ma radicalmente aggravata dall’evento pandemico, si possa uscire “da destra”. Zhok sembra derivare da questa analisi la necessità di un ripensamento della linea che il nostro progetto politico ha sin qui tenuto in merito all’esaurimento del ruolo di bussola del giudizio politico tradizionalmente svolto dalla coppia oppositiva destra/sinistra. Visalli è solito sintetizzare il nostro atteggiamento su tale questione con la metafora della navigazione fra Scilla e Cariddi, intendendo con ciò la necessità di evitare sia di ascoltare le sirene del ribellismo populista, tendenzialmente egemonizzato dalla destra, sia di ricadere nel campo di attrazione gravitazionale della sinistra neoliberale in quanto “minore dei mali”. Se ho ben capito Zhok ritiene superata questa fase, per cui dovremmo riconsiderare la nostra posizione, certo non nel senso di un rientro tout court nel campo della sinistra, ma nel senso di prendere atto che oggi non abbiamo più due nemici, bensì un avversario, la sinistra, e un nemico, la destra. Aggiunge che uno dei criteri di distinzione fra questi due poli, che potremmo definire del peggio e del meno peggio, è di natura “antropologica”, nel senso che, da una parte vi sono soggetti con i quali non ci sarà mai possibile spartire alcunché a causa del loro atteggiamento irrazionale, aggressivo e refrattario a ogni argomentazione, mentre dall’altra vi sono persone con cui è possibile instaurare un confronto razionale. Viceversa Visalli, attraverso un lungo percorso argomentativo che non ho qui modo di riassumere, sostiene la necessità di continuare a presidiare lo spazio vuoto che separa due diverse tipologie di nemici, fra i quali è problematico definire una gerarchia di
pericolosità (vedi il suo apologo sul boa e la tigre). Provo qui di seguito a motivare il mio accordo con la posizione di Visalli ricorrendo a due concetti “classici” coniati dal Presidente Mao: quello di contraddizione principale e contraddizione secondaria (da cui viene fatta derivare la contraddizione fra nemico principale e nemico secondario) e quello di contraddizione in seno al popolo, ai quali assocerò, come corollario, l’analisi di Lenin sulla rivoluzione russa del 1905. Com’è noto, Mao deriva questi concetti dall’arte della guerra di Sun Tzu e li usa soprattutto nel periodo della guerra di resistenza contro l’invasore giapponese, contemporanea alla guerra civile fra comunisti e nazionalisti. Stalin impose al PCC l’alleanza con i nazionalisti, perché riteneva che la Cina dovesse sbarazzarsi dei residui feudali e creare un moderno Stato borghese, oltre a ottenere l’indipendenza nazionale. Laddove questa linea fu applicata pedissequamente costò migliaia di vittime al PCC, sistematicamente pugnalato alle spalle dai nazionalisti. Mao scelse un’altra via: classificando come contraddizione principale quella con gli invasori giapponesi e come contraddizione secondaria quella con il Kuomintang di Ciang Kai Scek, concentrò tutte le energie nella lotta contro l’invasore (il nemico principale), mentre evitò lo scontro frontale con i nazionalisti (il nemico secondario). In questo modo evitò di intrappolare il PCC nella disastrosa linea indicata da Stalin, ma soprattutto rimase lucidamente consapevole che i nemici da combattere erano due. Dopodiché li sconfisse uno dopo l’altro, portando il Paese non solo a conquistare l’indipendenza ma a realizzare il socialismo senza transitare dalla fase democratico borghese. Che insegnamento possiamo trarne? Davvero pensiamo che oggi le destre sono il nemico principale e le sinistre liberali il nemico secondario (al punto da non doverlo più definire nemico ma avversario)? Se guardiamo alla fase politica mondiale (“licenziamento” di Trump, normalizzazione dei populismi di
sinistra quasi ovunque – dalla Spagna, all’Inghilterra, alla Francia, per tacere dell’Italia – reintegrati nel blocco sociale egemonizzato dai liberali, ecc.) io vedo una formidabile capacità di resilienza delle élite neoliberali che riescono, sia pure fra mille difficoltà, a mantenere saldamente in mano la gestione della crisi. Quindi, per tornare all’apologo di Visalli, il boa continua a stritolarci mentre la tigre delle destre, almeno per ora, sembra più che altro una tigre di carta. Restano entrambi nemici, ma fino a prova contraria, il boa resta il nemico principale. Vengo ora al concetto di contraddizione in seno al popolo per ragionare sulla questione delle radici “antropologiche” dell’inimicizia. Possiamo dire che le contraddizioni fra noi e i ceti medi riflessivi che sostengono i partiti della sinistra liberale sono in seno al popolo, mentre quelle fra noi e la variegata massa che strepita contro le politiche governative che – sia pure in misura del tutto insufficiente – danno la priorità alla tutela della salute sono invece contraddizioni fra noi e il nemico? Il punto è: chi è il “nostro” popolo? Secondo me non sono certamente gli strati sociali che votano il centro sinistra, i quali hanno ogni interesse a difendere le élite dominanti. Certo, gli altri sono sporchi brutti e cattivi e manifestano tutta la loro beceraggine inseguendo le narrazioni negazioniste, complottiste e quant’altro. Tuttavia quella rabbia nasce dalla disperazione di lavoratori disoccupati, artigiani e piccoli imprenditori falliti, gente privata di ogni prospettiva di futuro, una massa che oggi ci appare come “antropologicamente” di destra ma che è tutt’altro che omogenea: lì dentro c’è di tutto, c’è la base sociale di un possibile ribellismo di destra, ma c’è anche un pezzo non marginale del “nostro” popolo, di coloro che stanno in quel calderone perché non esiste alcuna forza politica capace di indirizzare la loro rabbia verso i veri nemici. Per concludere: a costoro si applica il giudizio che Lenin diede dell’insurrezione del 1905. I proletari e i contadini russi marciavano dietro il pope Gapon (un agente provocatore al
servizio della polizia segreta dello Zar), né se la prendevano con il regime zarista, anzi: invocavano il sovrano di proteggerli contro quei suoi servitori (poliziotti, generali, burocrati, nobili, padroni, insomma l’equivalente della casta di oggi) che opprimevano il popolo a sua insaputa. Ebbene Lenin non espresse nessun disprezzo culturale per quelle masse prive di consapevolezza politica, ne attribuì piuttosto l’ottenebramento all’incapacità dei socialdemocratici (i bolscevichi non c’erano ancora) di assumere la direzione della rivolta, e avviò quella guerra di posizione che di lì a dodici anni avrebbe portato alla guerra di movimento del 1917. * Fonte: www.nuova-direzione.it HOSEA JAFFE E IL SOCIALISMO CINESE BUCHARINISTA di A. Vinco
Riceviamo e volentieri pubblichiamo I lettori di Sollevazione conoscono sicuramente H. Jaffe, tra i più brillanti e dotati economisti marxisti degli ultimi decenni, tradotto in italiano da Jaca Book. Jaffe, trotzkista e terzomondista, teorico raffinato della rivoluzione permanente e ininterrotta, morì nella più totale solitudine e nel dignitoso silenzio nel dicembre 2014, in Italia, a San Martino Valle Caudina nei pressi di Avellino. La sinistra marxista italiana, occidentalista e subimperialista, ha ignorato, passandolo sotto silenzio, il lascito di Jaffe. Jaffe ci potrebbe aiutare a dirimere una delle più controverse questioni di questi tempi, ossia la questione sulla natura sostanziale della Cina di Xi Jinping? Non lo sappiamo con certezza, possiamo avanzare ipotesi di lavoro, ma ci sembra comunque importante far conoscere ai lettori il suo pensiero in materia. Questo scritto vuole soprattutto essere un ricordo dell’economista sudafricano scomparso da sei anni. Non siamo sinceramente in grado di definire per ora il
carattere di classe e la natura del sistema cinese. Lo stesso Deng, poco prima della morte, disse di aver messo in moto una sperimentazione “neo-socialista” (almeno a suo avviso) che non si trovava nei libri di Marx e Engels e che nemmeno la Nep di Lenin, a cui si era originariamente ispirato, gli poteva esser più d’aiuto per la sua evoluzione. La chiave di volta per la comprensione della Cina odierna è forse, sia questa una ipotesi di lavoro, nella teoria di Bucharin sull’economia nel periodo di trasformazione. Se così fosse il “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng si invera nella storia come una nuova forma di marxismo, riletto quest’ultimo paradigma alla luce della militanza teorica e pratica di Bucharin. Il miglior studio sul pensiero economico-politico di Bucharin rimane quello di Stephen Cohen. Casomai ci torneremo su in futuro. Hosea Jaffe contro il marxismo eurocentrico Il trotzkista Jaffe, nella sua elaborazione più matura, considera la teoria maoista dei Tre mondi – Usa e Urss Primo mondo supercapitalista ed imperialista, Germania, Giappone e Italia come Secondo mondo subimperialista, Cina Socialista guida della lotta di liberazione antimperialista del Terzo e Quarto Mondo- e la dottrina maoista della linea orizzontale e del Nemico principale– sostanzialmente antisovietica – una rivoluzionaria rottura di paradigma sul piano della filosofia politica marxista. L’economista sudafricano, soprattutto in seguito al crollo inglorioso dell’Urss, finisce per vedere però, stranamente, una linea di continuità politica e strategica tra il maoismo e il denghismo riformistico ma non controrivoluzionario. Il maoismo metteva la guida politica del partito al centro, Deng la tecnica e l’economia. Ma il fine era il medesimo. Superamento della grande divergenza con l’occidente imperialista e nuova civilizzazione socialista. Il denghismo fu anticapitalista e antimperialista? In base all’analisi di Jaffe, Deng non fu un
controrivoluzionario o un liquidatore dell’esperienza socialista, al contrario fu il più grande riformatore storico del campo antimperialista. La Nep riformista di Deng non si può che leggere, per l’economista trotzkista, alla luce delle contraddizioni interimperialiste globali e in questo senso il leader cinese che succede a Mao è il gigante socialista di questa epoca di civiltà. Scrive Jaffe nel 2008: Le forze socialistiche antimperialiste nel PCC, il proletariato ed ancora – ci si consenta di farlo notare – i contadini, lottano contro questo supersfruttamento (imperialista occidentale) quotidianamente. Mentre la controrivoluzione capitalistica (guidata dagli USA e dalla Germania) contro l’URSS ridusse le aspettative di vita degli uomini da 70 a 59 anni in 17 anni, le aspettative di vita in Cina sono cresciute dal 2006 al 2007 da 72,88 a 73,18 anni (CIA: 2008): è il doppio della media delle aspettative di vita nell’Africa “indipendente” degli occupanti euro- statunitensi. L’alfabetizzazione minima in Cina si aggira intorno al 90,9%. In Africa gli “under 15” sono circa il 50% della popolazione, in Cina il 20%. Sotto la NEP i lavoratori hanno accesso ad una casa, godono di trasporti gratuiti, ospedali ed educazione dalle scuole primarie all’università. L’incidenza dell’AIDS in Cina è dello 0,1%, una persona su 1.000, tra le medie più basse al mondo. Come Cuba, anche la Cina è ufficialmente atea. Vorrebbe B.B. sostenere che tutto ciò è tipico del capitalismo? 9. L’ineguaglianza in Cina non è capitalistica. Sotto il capitalismo la più vasta parte delle ineguaglianze economiche non intercorre tra il lavoro ed il capitale nei PCA, bensì tra i redditi pro capite dei PCA imperialisti e delle rispettive popolazioni (di UE, USA, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Israele, Sud Africa e gli occupanti, coloni, oligarchi dell’“America Latina”) ed i paesi e le popolazioni non imperialiste (Asia, Africa, Medio Oriente, non europei negli USA ed in Europa). Il tasso di plusvalore nei PCA è in media del 33%, stando alle analisi dei PIL nazionali. Il rapporto tra redditi nei PCA (di cui il
33% ovvero 1/3 proviene dal bottino coloniale) e redditi dei non-PCA (di cui più del 50% sono razziati dai PCA) è di 2:1 ovvero del 200%. Questo rapporto internazionale, propriamente globale, basato sui tassi di cambio in dollari, è, attualmente, in numeri: 30 trilioni/15 trilioni di dollari statunitensi (PIL aggregati). Ciò equivale a 6,6 volte il rapporto profitti/salari nel blocco imperialista. In termini marxiani, così come espressi nel Das Kapital (il che è ben diverso dall’euromarxismo), la distribuzione internazionale imperialistica dei redditi è superiore a 6 volte alla distribuzione dei redditi tra le classi nei PCA. Di conseguenza, secondo la visione dell’economista antimperialista, la sostanza del socialismo nel XXI sec.sarà rappresentata dalla linea offensiva antimperialista, ancor prima che dall’anticapitalismo teorico e dal socialismo astratto dogmatico. Si può contrastare il plusvalore capitalistico solo con la lotta antimperialista e con la vasta diffusione del benessere sociale nel campo asiatico, africano, sudamericano. Questa la sostanza dell’insegnamento finale di Jaffe. E’ chiaro, in base a tale presupposto, non solo che la Cina denghiana sia socialista ma finisca per costituire un modello sociale che mai nessuno ha rappresentato nella storia. Jaffe citava al riguardo la teoria denghiana del valore. Il denghismo fu russofobo come il maoismo Molti maoisti degli anni ’70 consideravano Deng Xiaoping un filosovietico, un agente di quello che definivano, sull’impulso della rivoluzione culturale cinese, “l’imperialismo neo-zarista e semifascista del Cremlino”. La linea nera di Liu e Deng veniva erroneamente considerata, a livello internazionale, russofila. Tale tesi sarà smentita nei fatti, Deng continuò, e se possibile radicalizzò, la linea orizzontale maoista sull’Urss primo nemico. Dal Vietnam e Laos Cambogia all’Afghanistan islamico in lotta con l’Armata rossa, dal Cile di Pinochet (filocinese e filoGop dal 73 all’89)
all’Iran khomeinista, la geopolitica di Zhognanhai si atterrà scrupolosamente, sotto la direzione di Deng, al precetto maoista volto strategicamente all’annientamento della Russia sovietica. Nella contesa cambogiana, Deng, sceso in campo in soccorso a Pol Pot e ai Khmer rossi contro il Vietnam filosovietico, schierava l’esercito cinese cercando di attrarre nel tranello l’Armata rossa. Kissinger ha rilevato, nella sua monumentale opera sulla Cina maoista e denghista, come il timore di quello che consideravano “l’imperialismo del Cremlino” avesse sia per Mao sia per Deng la priorità su ogni altro calcolo geopolitico. Il bucharinismo denghiano non intaccava la sostanza del socialismo denghiano, che era un “socialismo alla cinese”, non occidentalizzante né russofilo. Lo stesso intermezzo caratterizzato dal dominio della Banda dei Quattro e da Hua Guofeng si segnalò per la russofobia come primo livello geopolitico. La storica russofobia del “Socialismo” di Beijing suona oggi come un campanello d’allarme per Mosca? Biden-Harris sono veramente l’ala più Sionista, russofobica e filocinese del Pentagono e del Deep State? Ieri furono soprattutto i repubblicani statunitensi a sostenere la Cina contro la Russia, oggi saranno i Dem e la sinistra radicale e gender globalista a mettere di nuovo in moto la macchina di guerra per la dissoluzione della Federazione russa di Vladimir Putin e una spartizione globale tra Cina e Usa? L’elite Xi Jinping di Zhognanhai accetterà una simile spartizione? Ci torneremo eventualmente su. Deng e la teoria del valore lavoro «Lenin invitava a discutere di più di economia e meno di politica. A mio avviso questa è un’affermazione ancora valida circa la proporzione di lavoro teorico da dedicare a queste due sfere». [Deng Xiaoping, 30 marzo 1979] Il sinologo Vogel considera tuttora la Cina di Xi neo- denghiana e Socialista. Non vi è nei fatti rottura tra la teoria di Deng e quella odierna di Xi Jinping. A differenza
della nota visione del “socialismo di mercato” teorizzato da Ota Sik, nell’economia denghiana al prezzo corrisponde direttamente il sistema degli incentivi materiali. L’incentivo materiale buchariniano nella equità sociale e comunitaria, non quello morale, è la via della liberazione sociale e della disalienazione della forza lavoro. I prezzi diventano gli indicatori economici assoluti, ossia calcolati non sulla base di un minimo relativo del costo di produzione ma di un salario relativamente alto come standard di equità socialista. Il denghismo pone perciò al centro, nel suo modello sociale, gli incentivi materiali nella distribuzione del reddito. Un fenomeno assai singolare è la somiglianza tra la concezione del valore lavoro di Bucharin e le prese di posizione economicistiche e antisoggettiviste della “linea nera” del partito comunista cinese, guidata da Deng e Liu Schao-chi, tra il 1962 e il 1965 durante la lotta di fazione antimaoista. Dopo il 1960, non si dimenticherà, la Cina almeno sino al 1964, sperimenta l’egemonia teorica e pratica della “destra” bucharinista; verso il 1964, la pratica della Nuova Politica Economica (una anticipazione dell’affermazione del definitivo riformismo denghiano successivo alla morte di Mao) aveva accresciuto i redditi dei dirigenti d’azienda, dei tecnici, dei contadini proprietari e aveva alzato i salari del lavoratori. L’economicismo denghiano si fondava nella dinamica di correlazione politica tra incentivi soggettivi e soprattutto fiscali, che avrebbero sviluppato un’accumulazione socialista nelle mani dello Stato e la centralizzazione flessibile della gestione industriale ed agricola, inevitabile nel processo sviluppista, scientifico e modernizzatore. Il 7 luglio ’62 Deng riprendeva, per giustificare la sua teoria economica, nel caso di specie la necessità di affittare fattorie ai contadini per accelerare la produzione agricola, un proverbio del Sichuan, diffuso tra gli Hakka, minoranza han della regione, che sosteneva che non aveva importanza “se il gatto era giallo o nero, l’importante è che acchiappi il topo”.
Deng partiva dalla certezza che “solo il socialismo può salvare la Cina – questa è l’incrollabile conclusione storica che il popolo cinese ha tratto dalla propria esperienza nei 60 anni seguiti al Movimento del 4 maggio 1919”, che il sistema socialista è migliore di quello capitalista; deviare dal socialismo, anche da posizioni di sinistra, significava regredire allo stato semi-feudale e semicoloniale. Deng, perseguitato durante la Rivoluzione culturale, considerava tragico quel periodo, caratterizzato a suo avviso da un perverso intreccio tra il fanatico risorgere di vecchie forze del privilegio feudale e semischiavista (“influenze che non possono essere spazzate via in un sol colpo” ) e il dominio dell’idealismo soggettivo borghese, che per quanto riguarda Lin Biao e La Banda dei Quattro Deng associa, proprio a causa del loro soggettivismo idealistico politicistico e antieconomicista, alle esperienze fasciste europee e le fa di fatto estranee alla gloriosa storia del movimento socialista cinese. I Paesi capitalistici con una lunga storia feudale, Inghilterra, Francia, Giappone, Germania, Italia, avevano tutti sperimentato gravi arretramenti e rovesci in un certo periodo: restaurazioni controrivoluzionarie in Francia ed Inghilterra, periodi di dominio militarista e fascista in Giappone, Germania, Italia. La strategia di Lin Biao e della Banda dei Quattro era, in questo senso, quella della controrivoluzione, del ritorno al “dispotismo asiatico”, dello sciovinismo xenofobo antimodernista ed autarchico. Lin Biao – secondo Deng- con il suo soggettivismo fascistoide e conservatore fece perdere tempo alla Cina sulla via del progresso antimperialista e dello sviluppo socialista. La realizzazione storica e economica denghiana altro non è, dunque, nell’ottica del socialismo con caratteristiche cinesi, che la concretizzazione e la conferma della formula bucharinista del valore, ovvero la corrosione dell’economia capitalistica nell’ambito del plusvalore prima e del valore poi: con imprecisione, ma non errando allora, Bucharin parla di formula soltanto di valore, formula del valore: c + v + m;
c + v + (m – x); c + v; c + (v – x); (c – y) + (v – nx) [1 ]. Il modello denghiano affermatosi sta portando gradualmente all’erosione il modello sociale capitalistico occidentale di valore. Si va affermando ogni giorno di più, nel pianeta, il valore lavoro del modello sociale denghista cinese, non quello occidentale o europeo. E’ significativo, nota il sinologo Jurgen Domes, che lo scontro dei primi anni ‘60 tra la linea nera (Liu, Deng) e la linea rossa (Mao, Lin Biao), avviene sulla concezione del valore lavoro. Liu considera i maoisti dei “socialisti reazionari al limite del neofeudalesimo”, taccia il loro idealismo di “avventurismo borghese” e di “utopismo”, afferma che una Cina nelle mani di Mao e Lin Biao sarebbe una Cina militarista, sciovinista, come quella di Chiang Kai Shek. Liu accusa i maoisti di non aver compreso la legge del valore e dice che per questo non sono marxisti né comunisti ma reazionari. I maoisti, che vogliono cambiare la realtà tramite gli impulsi ideologici facendo ricorso all’entusiasmo rivoluzionario delle masse, sostengono evidentemente la centralità e la priorità dell’autocoscienza. I seguaci di Liu e Deng, viceversa, considerano marxisticamente la coscienza un prodotto di determinate condizioni ambientali e oggettive che non possono essere scavalcate. La retorica di Xi e il neo-denghismo di stato A differenza della maggior parte degli analisti e dei sinologi americani, non abbiamo affatto motivo di ritenere che Xi Jinping abbia buttato a mare l’eredità teorica e economicistica neobuchariniana di Deng Xiaoping. A nostro avviso, Xi non è tanto uno statista, né un politico, ma un vero generale e condottiero, un autentico Napoleone asiatico. La quintessenza del Pensiero di Xi è il militarismo globalista, antioccidentale e molto probabilmente anche russofobo, un militarismo che deve essere supportato dall’offensiva planetaria di una tecnocrazia sociale e equa. Il fatto che il guerriero Xi Jinping, l’antipolitico stratega
militarista, si sia imposto, nella terribile lotta di fazione di Zhognanhai, in questo momento storico dovrebbe far riflettere. Xi riprende in questo senso la linea nazionalista panasiatica, neo-confuciana e militarista di Lin Biao (prima l’esercito e gli Istituti Confucio) ma non ha strategie socialiste o egualitaristiche universalistiche da imporre. Il fine di Xi è il nuovo ordine mondiale Han. Il neo- confucianesimo di Lin Biao era forse un confucianesimo di sinistra, questo odierno di Xi è sicuramente di destra ma approfondiremo, eventualmente, in seguito tale questione. I toni che caratterizzano l’epoca Xi sono chiaramente espansionisti e globalisti, come quelli affidati al mensile “Dangjian” (Costruiamo il Partito), alla fine del 2018: «Prepararsi rapidamente a essere in grado di guerreggiare, combattere all’infinito, di nuovo combattere e avere il necessario sostegno logistico». Eventualmente, il rivendicato espansionismo cinese sul piano globale può oggi essere l’unica grande differenza metodologica e strategica tra Deng, che invitava a nascondere la propria forza, e Xi; tale differenza si giustifica però nel differente contesto e nell’aver ormai raggiunto la Cina gli scopi immediati che Deng si pose. Come Deng, a differenza di Putin o di Erdogan o di Ahmadinejad, Xi non pensa che la politica o la spiritualità possano risolvere i problemi del tempo presente, ma solo l’economia, la tecnologia e la scienza possono a suo avviso abbattere l’ignoranza, la superstizione, il regresso, l’ingiustizia sociale e economica. A questo Xi aggiunge la centralità Confuciana dell’Esercito, con toni e iniziative che riportano alla mente, come detto, il nazionalismo han linbiaoista. Varie frazioni della sinistra internazionalista e progressista russa considerino Putin il politico, Putin lo statista un “fascista” mentre ritengono che la Cina odierna – sempre più tecnocratico-militarista – sia un modello sociale di sinistra avanzata. Per molti rivoluzionari e marxisti russi, ma non solo russi logicamente, la Cina è addirittura un
modello socialista ben più d’avanguardia rispetto all’Urss di ieri. Verrebbe da chiedersi se hanno consapevolezza del fatto che sin dalla primordiale epoca maoista, tutti gli scontri di fazione che si ebbero nel Pcc vertevano anche sulla caratteristica cinese del socialismo che si voleva inverare. Era nazionalista Liu come era nazionalista Mao, più nazionalista di loro era Zhou en lai. Nazionalismo, nel socialismo cinese, non significava, e non significa, ciò che significa in Europa, ma rimanda allo spirito della Conferenza di Bandung del 1955, spirito di rottura con la logica di Yalta, di antagonismo a sovietici e occidentali, di affermazione della marcia Sud verso Sud contro Nord del mondo. Non vi è stata, e non vi può essere, fazione strategica nel Pcc che non muova da questo originario assunto. Il nodo principale per giudicare la natura sociale della Cina di Xi Jinping, inoltre, sarebbe quello dell’analisi degli investimenti pubblici; Deng stesso nelle sue pianificazioni riformatrici, come ci è noto, lasciò sempre al centro l’investimento pubblico e invitò a non abbandonare quel modello e non imitare il liberismo occidentale, che avrebbe di nuovo affamato il popolo cinese. Le Keqiang, premier in carica, non fa però mistero di voler assegnare maggior risalto al “mercato”, che dovrebbe giocare per la Cina negli anni che vengono un ruolo di maggior peso. Se le pianificazioni di Hu Jintao facevano leva sulle SOE, ovvero sulle imprese statali, l’attuale elite mandarina con la sua strategia basata sulla digitalizzazione socialista globale necessita di un fondamentale supporto di società private, che sono tecnologicamente molto avanzate. La finalità di Xi è quindi quella di finanziare il privato all’avanguardia sul lato tecnologico, facendolo poi confluire verso un equilibrato bilanciamento con le esigenze pubbliche e comunitarie. La riforma finanziaria del 2018 lascia, almeno in teoria, la centralità allo Stato e per questo Malaschini [2] definisce la Repubblica popolare uno Stato di diritto socialista e il giornalista del Corriere della Sera, Francesco Grillo [3],
porta la Cina di Xi a modello sociale –antindividualista, comunitarista, solidarista e antiliberista – per l’UE per uscire dalla crisi decennale e dall’egoismo mercatista diffuso a ogni piano. Huawei, ad esempio, sostiene di essere un’azienda di proprietà dei dipendenti, autogestita. Il fondatore, Ren Zhengfei, possiede solo l’1 per cento mentre il restante 99 per cento appartiene a un Comitato collettivista sindacale che rimanda all’epoca delle Comuni. Tencent, colosso tech di Ma Huateng fondato nel 1998 con sede a Shenzen, ha già annunciato di voler investire 600 milioni di yuan nella nuova economia digitale basata su intelligenza artificiale e sicurezza sociale informatica. Nella stessa direzione sembra andare la strategia delle cosiddette città del futuro: a appena 100 km da Pechino si è sul punto di inaugurare, entro il 2022, una città in linea con lo sviluppo ecologico cinese, con milioni di abitanti (https://buildingcue.it/cina-citta-futuro/22025/), basata sui concetti di economia circolare, sul riuso, sul 5g, sullo spazio confortevole, sull’energia rinnovabile. Tutto ciò ci pare vada chiaramente in una direzione di stato neo-denghiana, ovvero verso un socialismo scientifico- tecnocratico, almeno come teorizzato da Deng con le sue “Quattro modernizzazioni”. Se di esperimento socialista si tratta, nel caso del denghismo di Xi, è quello di un socialismo oggettivista, anti-politico e tecnocratico, scientifico e globalista. Il globalismo di Xi è chiaramente antagonista a quello delle sinistre radicali euroccidentali alla Biden-Harris o alla Die Linke-Podemos-Syriza, ma a dispetto di una fugace apparenza è molto diverso anche dal globalismo elitistico gender e transumanista della Silicon Valley o dei Bill Gates. Il globalismo di Xi è sì tecnocratico e scientifico ma come già detto è strategicamente militaristico, anche se preferirebbe portare definitivamente la Cina alla guida mondiale e “democratica” dei popoli senza dover ricorrere all’uso di armi e di stragismo. Vogliamo concludere questo pezzo, con una citazione. La citazione di
colui che, forse anche più di Deng, è il padre autentico della Cina bucharinista dei nostri giorni. Citiamo Liu Schao-chi, il quale iniziale teorico del Grande Balzo in avanti, ne prese poi le distanze quando i maoisti ne condussero in una direzione a suo avviso sbagliata la direzione. In un discorso del 1 ottobre 1961, in aperta polemica con la sinistra maoista, Liu disse: «Coloro che, inebriati da volontarismo e utopismo, non comprendono che nella costruzione del socialismo occorre sottostare a “leggi oggettive”, non sono socialisti. Non si può accorciare il cammino con una azione di audace volontà individualistica. Non si può scambiare il leaderismo, l’individualismo, la legge del soggetto, tutti residui questi ultimi capitalisti se non anche feudali, con la legge oggettiva del progresso storico e dell’evoluzione sociale. Questo è l’abc del socialismo e desta meraviglia vedere dirigenti e tecnici che ignorano l’abc». NOTE [ 1 ] La legge buchariniana del valore è secondo lo Stephen la somma intrinseca del socialismo buchariniano, mentre la versione stalinista della teoria del valore, propagandata da economisti come Lieberman con il suo “profitto monetario” e Strumilin con la sua logica dell’incentivo allargato, finiranno per riscrivere le classiche formule della produzione allargata, quindi capitalistica e fondata sul plusvalore, di Marx. Il plusvalore nella teoria stalinista del valore diventa “prodotto addizionale” o “intero prodotto per la società”, mentre nella teoria buchariniana è previsto l’erodersi del sistema capitalista. La situazione diventa insostenibile, per il capitalismo, con l’ampliamento della riproduzione negativa, cioè quando la produzione avviene a spese di m(plusvalore), c indica il capitale costante, v variabile. Il processo di distruzione del plusvalore avviene, per Bucharin teorico del valore lavoro, non appena il plusvalore sociale dileguerà nel
lavoro vivo ma Bucharin si ferma però alla negazione del plusvalore. Va però detto, come critica alla concezione buchariniana, che se si tratta per lo Stephen di un passo avanti rispetto al “dispotismo orientale” o al collettivismo burocratico staliniano, si è comunque ancora dentro una logica che lo stesso Bucharin, nella nota polemica con Preobrazenskji, iscrive in uno stadio da capitalismo statuale, immediata transizione allo stadio socialista [ 2 ] Malaschini, Come si governa la Cina, Rubettino 2019. [ 3 ] Grillo, Lezioni cinesi: Come l’Europa può uscire dalla crisi, Solferino 2019. IL PROGRAMMA DEL SEMINARIO GIOVANILE
Il seminario di M48, il 20 e 21 luglio al camping Fontemaggio, si svolgerà sotto l’auspicio di Liberiamo l’italia. Una due giorni in cui si tratteranno molti temi, fra i quali l’adesione all’euro e le ripercussioni sui giovani, all’insegna della socialità e della vita politica attiva. Un modo per ritrovarsi, dopo questi mesi di solitudine e difficoltà, in un clima di serenità e partecipazione. Oltre gli ospiti anche la proiezione del documentario Piigs, musica e divertimento. Per avere altre informazioni (costi, alloggio ecc) scrivi a M48. Ti aspettiamo!
NUOVA DIREZIONE? (prima parte) di Moreno Pasquinelli
«Colu i che attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi pareciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori». V. I. Lenin Nuova Direzione è un’associazione politica verso la quale sentiamo forti affinità ideali e programmatiche, e verso i cui compagni nutriamo sincera stima. Al suo interno è in corso un dibattito che, al netto di certi arzigogoli teorici, solleva la questione se sia ancora possibile una fuoriuscita dal capitalismo e, se sì, con quali forze e per quali vie è possibile attuarla. Prendiamo spunto dall’intervento di Diego Melegari e Faabrizio
Capoccetti — I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità – e della risposta di Alessandro Visalli – Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere. Due interventi ad alta densità teorica, forse anche troppo, la qual cosa mette in bella mostra quello che a noi pare un brutto difetto di Nuova Direzione, l’intellettualismo. Entrambi risultano inaccessibili, non diciamo al largo pubblico, ma anche a militanti che non abbiano avuto il privilegio di aver studiato e digerito il complicato e spesso cervellotico dibattito teorico politico che, dopo il crollo del movimento comunista internazionale, ha coinvolto l’intellighentia marxista internazionale. Tuttavia, posta la preliminare opera di decriptazione, i due contributi sono degni di attenzione poiché, oltre a tirare in ballo dirimenti questioni strategiche e tattiche, ci fanno vedere la possibile linea di frattura dell’associazione. Chi scrive non condivide il presupposto filosofico che sottostà alla visione di Melegari e Capoccetti. Traspare, da quanto essi scrivono, che fanno loro il paradigma della “congiuntura” di Ernesto Laclau, quello per cui ogni evento storico sarebbe frutto imprevedibile della “contingenza” e non anche risultato di processi necessitati e/o di leggi sociali oggettive – “Ciò che può essere o non essere” direbbe S.Tommaso. Va bene lasciarsi alle spalle ogni determinismo meccanicistico, giusto superare certo teleologismo insito nella profezia marxista; ma andiamoci piano con l’indeterminismo, ovvero a gettare nel cesso la concezione materialistica della storia. Non c’è, nella storia, alcuna spinoziana “causa perfetta” per cui, posta una causa, l’effetto sarebbe già infallibilmente dato (quindi geometricamente prevedibile). Tuttavia è grande errore rimuovere sic et simpliciter la categoria di causa
lasciando tutto alla caotica casualità all’accidente. Malgrado questo abbaglio teorico — forse proprio per questo errato presupposto filosofico — Laclau giunse ad una conclusione condivisibile: l’assoluta centralità del fattore Politico, per la precisione della funzione creativa e poietica del soggetto politico. Per la sua tortuosa via egli approdò molto vicino all’idea leniniana del Partito come demiurgo della storia e/o di quella gramsciana del Partito politico come “moderno Principe” in quanto architetto di un blocco storico nazionale-popolare. Di qui, superata la meccanica del “partito di classe”, il suo discorso sull’attualità del “populismo”, ovvero di un soggetto capace di diventare perno e direzione di un pluralistico blocco sociale antagonista. Di questo ci parlano sostanzialmente Melegari e Capocccetti, se gli odierni rivoluzionari saranno capaci o meno non di stare alla finestra ad “interrogare” la “maggioranza atomizzata” prodotta da decenni di neoliberismo, ma di “sporcarsi le mani” per svolgere una funzione attiva e creativa allo scopo di cavar fuori dalla poltiglia sociale, prodotta dal tardo-capitalismo, un blocco antagonista. Ci si getta o no nel gorgo per fare in modo che un precipitato solido emerga dalla crisi sistemica della “società liquida”? Così i nostri giustamente affermano: “Le maggioranze sociali non sono lì pronte per affermarsi politicamente, ma semmai è l’affermazione di una politica a permettere di raccogliere e formare un blocco sociale”. La loro risposta è quindi che sì, occorre gettarsi nella mischia per tentare di uscire dal marasma, è d’obbligo entrare nel caos per provare a dargli un ordine. Non può essere un alibi la debolezza soggettiva. Essi non lo dicono ma è l’implicita conclusione, che proprio
nel gorgo si può, anzi di deve, costruire il soggetto politico, senza il quale l’energia che la crisi sistemica sprigiona si volatilizzerebbe e/o potrebbe fungere da carburante per avventure reazionarie. Di qui la necessità, sbarazzatisi di vetusti pregiudizi operaistici e astratti canoni classisti, di recepire le istanze dei “bottegai” – epiteto che sta per i vasti strati di piccola borghesia e ceto medio che la crisi va precipitando nel pauperismo – per tentare di raddrizzare un bastone che la storia ci consegna storto. I nostri non lo dicono ma, non fosse che per l’epigrafe gramsciana posta in cima al loro articolo, lo fanno capire: a causa di molteplici ragioni, non sarà il mondo del lavoro dipendente e sindacalizzato a occupare la prima linea della sollevazione sociale, bensì proprio la piccola borghesia pauperizzata. Hic Rodhus, hic salta: li, in quel campo i rivoluzionari debbono calarsi per inseminarlo in senso democratico e rivoluzionario e, così facendo, agire e costruire Partito trascinando nel conflitto gli strati più dinamici del proletarito. Nel passaggio dall’astratto al concreto essi però inciampano. Ammettono che “le classi dirigenti nazionali hanno scelto di consegnare la soluzione del conflitto di classe interno alla dipendenza del vincolo esterno”, ma ne traggono una conclusione che stride con la premessa, ovvero si rifiutano di ammettere l’assoluta centralità della battaglia tutta politica per spezzare il vincolo esterno (leggi lotta per la sovranità nazionale e popolare), un vincolo che non è solo lo scudo ideologico della nostra classe “dirigente”, vincolo che costituisce una vera e propria macchina di dominio, ovvero il consorzio di poteri eurocratici sovraordinati. La questione europea è infatti solo evocata, non considerata come l’anello giusto per afferrare la catena politica. I
nostri escludono così quella che chiamano “strategia dei due tempi”: sbagliato sostenere che per prima cosa occorre ottenere la sovranità nazionale allo scopo di “ristabilire uno spazio democratico”. Per loro il “processo è unitario, complessivo e conflittuale, indirizzato a riorganizzare lo Stato, le istituzioni, il tessuto produttivo, i rapporti proprietari ecc.” Forse ci sbagliamo ma qui si parla di noi, della sinistra patriottica, ovvero si contesta la necessità di passare ad un’alleanza di CLN per uscire dall’Unione europea. No, non ci sbagliamo. Il fatale errore è in questo caso l’astrattezza, un’astrattezza che, concludendo l’articolo, vanifica e polverizza quella che sembrava la sostanza del loro articolo. Melegari e Capoccetti vorrebbero un trotskysta processo di “rivoluzione permanente”, ovvero che la lotta per la sovranità nazionale vada di pari passo e includa quella per rifondare lo Stato su basi socialiste. Auspicabile? Sì, certo, ma questo, ci avrebbero detto sia Lenin che Trotsky, dipende da chi sta alla guida del processo. La liberazione nazionale diventa sociale solo se diretta dai rivoluzionari. La lotta democratica diventa lotta per il socialismo solo se alla sua testa ci sono i socialisti — non di certo formazioni populiste. Posto che la tendenza ad uscire dalla gabbia eurocratica e per respingere la succubanza al dominio tedesco è in atto, dato che questa tendenza si rafforzerà a causa della catastrofe economica incombente, risulta forse che i rivoluzionari siano alla sua testa? Sono forse in condizione di prendere la guida della incipiente sollevazione sociale? La risposta è no. Lo sganciamento potrà avvenire solo come risultato di una dura battaglia condotta da un ampio fronte nazionale-popolare, per sua natura inter-classista e ideologicamente eterogeneo. Occorre prendere parte in questa battaglia malgrado non si
abbia la direzione? Sì o no? Per noi la risposta è sì. Occorre o no avere un ruolo attivo nel costituire questo blocco nazionale-popolare? Per noi certamente sì. Siccome un altro campo non si vede all’orizzonte, è in questo che le “minoranze creative” debbono esercitare un ruolo d’avanguardia e tentare di fare egemonia. L’errore è quello di attribuire una valenza teurgica al concetto di “processo”. Tutto nella storia avviene come “processo” ma ciò non significa indistinzione tra i suoi momenti. Non c’è bisogno di abbracciare la vecchia teoria socialdemocratica e poi staliniana della “rivoluzione per tappe” per capire che una efficace strategia si basa, data la connessione tra un momento e l’altro, nel saper cogliere questi passaggi di fase, nel distinguere l’uno dall’altro — a maggior ragione se non si tratta di una progressione a gradini di una scala ma di salti. Nel caso che ci riguarda, quello italiano, è di tutta evidenza che noi, a meno di immaginare una simultanea rivoluzione europea, non avremo la rivoluzione socialista e quindi la conquista della sovranità nazionale e popolare bensì il contrario: senza vincere la battaglia della liberazione nazionale non potremo passare a quella, ancor più complessa della rivoluzione socialista. C’è un primo e un dopo. Partiti dalla giusta premessa che il blocco sociale antagonista non ci verrà consegnato dalla crisi capitalistica, che esso si può costituire solo grazie all’esistenza di un elemento Politico di agglutinazione; posta poi la tesi che la piccola-borghesia pauperizzata potrebbe essere la forza motrice iniziale del blocco nazionale-popolare; Melegari e Capoccetti non hanno il coraggio di trarne le dovute conseguenze né sul piano della proposta politica né su quello della prassi. La matrice teorica indeterminista non può che condurre all’indeterminatezza sul piano politico. E così essi prestano il fianco alla dura critica di Visalli.
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