MARCO RIZZO, ANTONIO GRAMSCI, XI JINPING di A. Vinco

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MARCO RIZZO, ANTONIO GRAMSCI, XI JINPING di A. Vinco
MARCO RIZZO, ANTONIO GRAMSCI,
XI JINPING di A. Vinco

Riceviamo e pubblichiamo

Sono maturi i tempi per un Nuovo Socialismo Italiano?

Ernst Nolte, allievo di Heidegger, lesse la storia del
Novecento come una guerra civile europea tra il Nuovo Ordine
tedesco hitleriano e il bolscevismo sovietico. Fu, quella del
Nolte, una falsificazione storica e storiografica, un
autentico caso di negazionismo italianofobo. Fu l’Italia,
infatti, il teatro strategico più avanzato del grande scontro
ideocratico del Novecento, quello che si svolse tra
americanismo, fascismo, comunismo. Il Partito comunista
italiano ed anche talune frazioni del “partito armato”
(Giorgio Galli), pur non realizzando la loro agognata
“conquista del Palazzo d’Inverno”, seppero fornire, nel tardo
Novecento, un prassismo comunista di gran lunga più avanzato e
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moderno di quello sovietico, cinese, cubano. Tra gli epigoni
di tali ideocrazie sembra essere rimasto ben poco, in Italia.
Ci occupiamo ora del pensiero di Rizzo e del Partito comunista
(che abbiamo conosciuto direttamente agli inizi della nuova
avventura rizziana, apprezzandone taluni lati, rifuggendo però
il dogmatismo settario staliniano di fondo), rimandando
eventualmente a un altro scritto seguente un tentativo di
analisi del mondo missino e postmissino.

Il peccato originale dell’operaismo

Secondo la frazione dell’operaismo, il gramscismo altro non
sarebbe stato che una manifestazione di “idealismo borghese”,
ai limiti dell’anticomunismo. Da una parte, gli operaisti
prima, autonomi poi, prendendo di mira Antonio Gramsci,
volevano prendere le distanze dal Pci togliattiano, che di
fatto storicizzò la forma partito di estrazione gramsciana,
dall’altro volevano effettivamente mettere il dito nella
piaga: l’abbandono gramsciano del materialismo deterministico
e dell’economicismo. Conseguivano da questo abbandono, nel
nuovo parto cesareo del Gramsci, tre elementi fondamentali: 1)
il nuovo concetto di società civile; 2) l’interpretazione
della rivoluzione socialista come “riforma intellettuale e
morale”; 3) infine la guerra di posizione sostituita alla
guerra di movimento. E’ fondamentale, per la comprensione del
comunismo gramsciano, tenere sempre presente tale connessione
di pensieri. La guerra di posizione trovava la sua logica nel
fatto che in Italia, paese occidentale più avanzato e maturo
rispetto alla Russia assolutista e zarista in cui i leninisti
assaltarono il Palazzo e ciò bastò loro per la conquista del
potere, dietro la “trincea avanzata” dello Stato stava e sta
tuttora “una robusta catena di fortezze e casematte” (la
società civile con le sue elite egemoni). In conseguenza dei
maggiori ostacoli che doveva superare, la rivoluzione nel
pieno senso gramsciano poteva perciò concretizzarsi in Europa
solo nel suo aspetto più profondo di “riforma intellettuale e
morale”. L’Italia, nella strategia di Gramsci, era certamente
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il polo assoluto dello scontro ideocratico, il Partito il
moderno Principe che assegnava la priorità al momento etico e
pedagogico su quello economicistico e operaistico.
Significativa era infatti, nella filosofia della praxis del
Gramsci, la difesa dell’idealismo gnoseologico contro le
critiche mosse in nome del “senso comune”, in base
all’osservazione del fatto che la credenza nell’oggettività
del mondo esterno materiale fosse di origine mitologico-
religiosa e trascendente, “perché per secoli si è creduto che
il mondo è stato creato da Dio prima dell’uomo e l’uomo ha già
trovato il mondo creato e catalogato, definito una volta per
tutte, questa credenza diventa un dato del “senso comune”
anche quando il sentimento religioso è spento…” (“Lettera a
Tania”, 19 marzo 1927). Siamo evidentemente molti lontani
dalla tradizione materialista e oggettivista marxista e se al
Rizzo non aggrada annoverare l’idealismo italiano come il
cuore della praxis gramsciana(1), dovremmo allora rimandare
alla gnoseologia di Bogdanov, l’antagonista che Lenin ha di
mira in Materialismo ed empiriocriticismo. E’ d’altro canto un
fatto che Gramsci cercasse il Lenin filosofo nella prassi,
nell’azione storica più che nei “Quaderni Filosofici” o nel
summenzionato scritto: si sente in diritto di farlo in quanto
la filosofia è gramscianamente storia, “filosofia implicita”.
L’idealismo storicistico e volontaristico gramsciano è
l’elemento di mediazione e comprensione della “filosofia
implicita” leninista; il Gramsci maturo che individua in Lenin
il prassista che attua il concetto di Egemonia è il medesimo
Gramsci che scriveva nel 1917, contro l’ortodossimo settario
marxista, La rivoluzione contro il Capitale. Gramsci però,
operando e teorizzando in un Paese economicisticamente più
maturo di quello russo, supera il leninismo sul piano
strategico, con il concetto del mito dell’antifascismo.
Quest’ultimo concetto strategico consentiva infatti al
comunismo italiano, dal 1943 in avanti, di guidare il fronte
della resistenza al “nazifascismo” prima, all’ “imperialismo
americano” in seguito, sperimentando una inedita e nuova
collaborazione tattica con un fronte democratico-borghese
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considerato “progressivo”. Il comunismo italiano, di
estrazione gramsciana, finiva anche per superare lo stesso
oggettivismo deterministico marxista, in storicista continuità
con il democraticismo plebeo e borghese machiavelliano e
robespierriano. L’idealismo gramsciano, basato sulla tattica
di autonomia del politico, non impregnò solo il Pci
togliattiano ma anche le frazioni più politiche del “partito
armato” italiano, escludendo ovviamente lo spontaneismo
anarcoide dell’Autonomia e del contropotere operaistico
diffuso.

Rizzo: tra antigramscismo e “Cina socialista”

Nonostante il richiamo formale alla figura eroica e
rivoluzionaria di Antonio Gramsci, nell’universo ideologico
del Partito comunista di Rizzo il sardo fa la classica figura
dell’ospite incompreso. Rizzo è infatti passato, negli anni
recenti, dalla condanna del Pci togliattiano quale classica
forma di “revisionismo socialdemocratico” alla aperta
esaltazione dell’avventurismo secchiano, il cui intero
entourage – a iniziare da quel Giulio Seniga che diventò la
figura centrale del progetto secchiano – sarebbe stato in
stretti contatti con l’intelligence angloamericana in
occasione dei tentati omicidi di Togliatti, come emerge da
documentazione d’archivio esibita ne “Le menti del doppio
stato” (Fasanella-Cerechino, Chiarelettere editore 2020), su
cui è pur lecito avanzare dubbi ma che andrebbe comunque
tenuta in considerazione. Il balzo in avanti di Rizzo, svolta
assai recente, è costituito però dalla presa di coscienza
della centralità del nodo geopolitico in vista
dell’affermazione epocale di una nuova civilizzazione non
liberista, non capitalista e di transizione al socialismo o
comunque al multipolarismo. In una ottima intervista
rilasciata il 28 Novembre 2020 al “Corriere della Sera”, Rizzo
ha risposto al probabile livore sinofobo e americanista
dell’intervistatrice, rivendicando una sorta di “sovranismo
socialista” italiano post-occidentale: “Sono italiano. La
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prima cosa per me è difendere i lavoratori. Credo che si possa
commerciare con la Cina come lo si fa con gli stati europei,
con la Russia, con gli Stati Uniti”. Un superamento
dell’eccessivo identitarismo primordiale che ha caratterizzato
sino a ora il Partito comunista potrebbe portare da un lato ad
una seria riscoperta della filosofia idealistica di Gramsci,
dall’altro ad una alleanza sempre più esplicita tra il Partito
di Rizzo e quello di Xi Jinping. Dalla Cina è stata infatti
richiesta al segretario comunista italiano la recensione del
terzo volume del presidente Xi Jinping, Governare la Cina.
L’epoca multipolare prevede il “socialismo con caratteristiche
cinesi” in posizione di Egemonia, ai fini di una giustizia
sociale confuciana globalizzata; il Rizzo, studiando
attentamente la storia del Pcc, avrà modo di conoscere il
profondo idealismo taoista e legista della frazione Mao
Zedong e il profondo idealismo confuciano della frazione Deng-
Xi Jinping come avrà modo di rendersi conto che per la maggior
parte dei pensatori – patrioti han per i quali
l’antioccidentalismo e l’antimperialismo viene prima di ogni
altra considerazione – del Pcc il comunismo non è una
invenzione di Marx ma dell’antico filosofo confuciano Mencio.
Senza contraddizione non v’è dialettica, scrisse Mao, ma
ridando sostanza, tramite il formalismo materialista,
all’antica filosofia spiritualista cinese che vedeva nel
conflitto il motore dell’eterno divenire. Senza Armonia
Sociale non v’è né potrà esservi Socialismo Cinese, diranno i
denghisti, rivitalizzando l’antico Confucianesimo.

E’ forse arrivato il momento storico in cui si possa
finalmente legittimare un “socialismo con caratteristiche
italiane” che non rinneghi, nella sostanza, il profondo
idealismo gramsciano e una certa eredità volontarista
risorgimentalista che già il PCI tentò di recuperare; che
avvii, in definitiva, una rottura di paradigma e una autentica
svolta teorica, in nome e per conto della Praxis. Oltre un
materialismo e un economicismo che hanno annacquato e forse
anche de-realizzato il percorso naturale del socialismo
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eurocentrista e occidentale novecentesco, i cui epigoni, oggi,
sono guarda caso i massimi propagandisti del Sionismo
imperialista globalista di Biden/Harris e del Clash of
Civilitation (scontro di civiltà) islamofobo. Altra storia è
rappresentata dal maoismo o dal “socialismo con
caratteristiche cinesi” di Deng e di Xi Jinping. Marco Rizzo,
massimamente accreditato presso il Pcc, ha una grande
responsabilità teorica e storica: a lui spetterebbe il compito
di ridisegnare una strategia di socialismo europeo, non più
unilateralmente economicista e materialista, sul modello di
Pechino, oltre che quello di sbugiardare le varie mendacità
americaniste e sioniste come quella, eclatante, che ora sembra
aver preso di mira il neo-confuciano Sistema di Credito
Sociale.

NOTE

1)      Cfr. Roma 17-18-19 gennaio 2014. “Terzo documento
politico congressuale del Partito comunista”: L’insegnamento
di Gramsci oggi (Marco Rizzo)

DESTRA, SINISTRA E RIVOLTA
POPOLARE di Carlo Formenti
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Volentieri pubblichiamo questo intervento di Carlo Formenti
che condividiamo nella sostanza.

Il nostro popolo (sulla questione “Destra e Sinistra”)

di Carlo Formenti*

Ho seguito con interesse il dibattito fra gli amici Zhok e
Visalli. Le questioni che sollevano sono complesse e
richiederebbero a chi voglia contribuire alla discussione lo
stesso impegno che vi hanno profuso coloro che l’hanno
avviata. Dato che al momento ciò non mi è possibile, mi limito
a un sintetico commento a una tesi avanzata da Zhok che non mi
è parsa scevra da insidie, soprattutto se elevata a criterio
orientativo di scelte e decisioni su quali soggetti assumere
come interlocutori di possibili alleanze, tanto sul piano
politico quanto sul piano sociale.

Per motivare la mia perplessità, semplifico drasticamente la
tesi di Zhok, o almeno quello che mi è parso il suo nocciolo
fondamentale: le scomposte reazioni di larghi settori sociali
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duramente colpiti dagli effetti economici della pandemia e/o
insofferenti delle limitazioni inflitte ai propri
comportamenti individuali, ma soprattutto l’egemonia politico
culturale che le destre esercitano nei confronti di tali
settori, configurano il rischio concreto che dalla crisi del
regime neo liberale, in atto da tempo ma radicalmente
aggravata dall’evento pandemico, si possa uscire “da destra”.

Zhok sembra derivare da questa analisi la necessità di un
ripensamento della linea che il nostro progetto politico ha
sin qui tenuto in merito all’esaurimento del ruolo di bussola
del giudizio politico tradizionalmente svolto dalla coppia
oppositiva destra/sinistra.

Visalli è solito sintetizzare il nostro atteggiamento su tale
questione con la metafora della navigazione fra Scilla e
Cariddi, intendendo con ciò la necessità di evitare sia di
ascoltare le sirene del ribellismo populista, tendenzialmente
egemonizzato dalla destra, sia di ricadere nel campo di
attrazione gravitazionale della sinistra neoliberale in quanto
“minore dei mali”. Se ho ben capito Zhok ritiene superata
questa fase, per cui dovremmo riconsiderare la nostra
posizione, certo non nel senso di un rientro tout court nel
campo della sinistra, ma nel senso di prendere atto che oggi
non abbiamo più due nemici, bensì un avversario, la sinistra,
e un nemico, la destra. Aggiunge che uno dei criteri di
distinzione fra questi due poli, che potremmo definire del
peggio e del meno peggio, è di natura “antropologica”, nel
senso che, da una parte vi sono soggetti con i quali non ci
sarà mai possibile spartire alcunché a causa del loro
atteggiamento irrazionale, aggressivo e refrattario a ogni
argomentazione, mentre dall’altra vi sono persone con cui è
possibile instaurare un confronto razionale. Viceversa
Visalli, attraverso un lungo percorso argomentativo che non ho
qui modo di riassumere, sostiene la necessità di continuare a
presidiare lo spazio vuoto che separa due diverse tipologie di
nemici, fra i quali è problematico definire una gerarchia di
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pericolosità (vedi il suo apologo sul boa e la tigre).

Provo qui di seguito a motivare il mio accordo con la
posizione di Visalli ricorrendo a due concetti “classici”
coniati dal Presidente Mao: quello di contraddizione
principale e contraddizione secondaria (da cui viene fatta
derivare la contraddizione fra nemico principale e nemico
secondario) e quello di contraddizione in seno al popolo, ai
quali assocerò, come corollario, l’analisi di Lenin sulla
rivoluzione russa del 1905.

Com’è noto, Mao deriva questi concetti dall’arte della guerra
di Sun Tzu e li usa soprattutto nel periodo della guerra di
resistenza contro l’invasore giapponese, contemporanea alla
guerra civile fra comunisti e nazionalisti. Stalin impose al
PCC l’alleanza con i nazionalisti, perché riteneva che la Cina
dovesse sbarazzarsi dei residui feudali e creare un moderno
Stato borghese, oltre a ottenere l’indipendenza nazionale.
Laddove questa linea fu applicata pedissequamente costò
migliaia di vittime al PCC, sistematicamente pugnalato alle
spalle dai nazionalisti. Mao scelse un’altra via:
classificando come contraddizione principale quella con gli
invasori giapponesi e come contraddizione secondaria quella
con il Kuomintang di Ciang Kai Scek, concentrò tutte le
energie nella lotta contro l’invasore (il nemico principale),
mentre evitò lo scontro frontale con i nazionalisti (il nemico
secondario). In questo modo evitò di intrappolare il PCC nella
disastrosa linea indicata da Stalin, ma soprattutto rimase
lucidamente consapevole che i nemici da combattere erano due.
Dopodiché li sconfisse uno dopo l’altro, portando il Paese non
solo a conquistare l’indipendenza ma a realizzare il
socialismo senza transitare dalla fase democratico borghese.

Che insegnamento possiamo trarne? Davvero pensiamo che oggi le
destre sono il nemico principale e le sinistre liberali il
nemico secondario (al punto da non doverlo più definire nemico
ma avversario)? Se guardiamo alla fase politica mondiale
(“licenziamento” di Trump, normalizzazione dei populismi di
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sinistra quasi ovunque – dalla Spagna, all’Inghilterra, alla
Francia, per tacere dell’Italia – reintegrati nel blocco
sociale egemonizzato dai liberali, ecc.) io vedo una
formidabile capacità di resilienza delle élite neoliberali che
riescono, sia pure fra mille difficoltà, a mantenere
saldamente in mano la gestione della crisi. Quindi, per
tornare all’apologo di Visalli, il boa continua a stritolarci
mentre la tigre delle destre, almeno per ora, sembra più che
altro una tigre di carta. Restano entrambi nemici, ma fino a
prova contraria, il boa resta il nemico principale.

Vengo ora al concetto di contraddizione in seno al popolo per
ragionare sulla questione delle radici “antropologiche”
dell’inimicizia. Possiamo dire che le contraddizioni fra noi e
i ceti medi riflessivi che sostengono i partiti della sinistra
liberale sono in seno al popolo, mentre quelle fra noi e la
variegata massa che strepita contro le politiche governative
che – sia pure in misura del tutto insufficiente – danno la
priorità alla tutela della salute sono invece contraddizioni
fra noi e il nemico? Il punto è: chi è il “nostro” popolo?
Secondo me non sono certamente gli strati sociali che votano
il centro sinistra, i quali hanno ogni interesse a difendere
le élite dominanti. Certo, gli altri sono sporchi brutti e
cattivi e manifestano tutta la loro beceraggine inseguendo le
narrazioni negazioniste, complottiste e quant’altro. Tuttavia
quella rabbia nasce dalla disperazione di lavoratori
disoccupati, artigiani e piccoli imprenditori falliti, gente
privata di ogni prospettiva di futuro, una massa che oggi ci
appare come “antropologicamente” di destra ma che è tutt’altro
che omogenea: lì dentro c’è di tutto, c’è la base sociale di
un possibile ribellismo di destra, ma c’è anche un pezzo non
marginale del “nostro” popolo, di coloro che stanno in quel
calderone perché non esiste alcuna forza politica capace di
indirizzare la loro rabbia verso i veri nemici. Per
concludere: a costoro si applica il giudizio che Lenin diede
dell’insurrezione del 1905. I proletari e i contadini russi
marciavano dietro il pope Gapon (un agente provocatore al
servizio della polizia segreta dello Zar), né se la prendevano
con il regime zarista, anzi: invocavano il sovrano di
proteggerli contro quei suoi servitori (poliziotti, generali,
burocrati, nobili, padroni, insomma l’equivalente della casta
di oggi) che opprimevano il popolo a sua insaputa. Ebbene
Lenin non espresse nessun disprezzo culturale per quelle masse
prive di consapevolezza politica, ne attribuì piuttosto
l’ottenebramento all’incapacità dei socialdemocratici (i
bolscevichi non c’erano ancora) di assumere la direzione della
rivolta, e avviò quella guerra di posizione che di lì a dodici
anni avrebbe portato alla guerra di movimento del 1917.

* Fonte: www.nuova-direzione.it

HOSEA JAFFE E IL SOCIALISMO
CINESE BUCHARINISTA di A.
Vinco
Riceviamo e volentieri pubblichiamo

I lettori di Sollevazione conoscono sicuramente H. Jaffe, tra
i più brillanti e dotati economisti marxisti degli ultimi
decenni, tradotto in italiano da Jaca Book. Jaffe, trotzkista
e terzomondista, teorico raffinato della rivoluzione
permanente e ininterrotta, morì nella più totale solitudine e
nel dignitoso silenzio nel dicembre 2014, in Italia, a San
Martino Valle Caudina nei pressi di Avellino. La sinistra
marxista italiana, occidentalista e subimperialista, ha
ignorato, passandolo sotto silenzio, il lascito di Jaffe.
Jaffe    ci potrebbe aiutare a dirimere una delle più
controverse questioni di questi tempi, ossia la questione
sulla natura sostanziale della Cina di Xi Jinping? Non lo
sappiamo con certezza, possiamo avanzare ipotesi di lavoro, ma
ci sembra comunque importante far conoscere ai lettori il suo
pensiero in materia. Questo scritto vuole soprattutto essere
un ricordo dell’economista sudafricano scomparso da sei anni.

Non siamo sinceramente in grado di definire per ora il
carattere di classe e la natura del sistema cinese. Lo stesso
Deng, poco prima della morte, disse di aver messo in moto una
sperimentazione “neo-socialista” (almeno a suo avviso) che non
si trovava nei libri di Marx e Engels e che nemmeno la Nep di
Lenin, a cui si era originariamente ispirato, gli poteva esser
più d’aiuto per la sua evoluzione. La chiave di volta per la
comprensione della Cina odierna è forse, sia questa una
ipotesi di lavoro, nella teoria di Bucharin sull’economia nel
periodo di trasformazione. Se così fosse il “socialismo con
caratteristiche cinesi” di Deng si invera nella storia come
una nuova forma di marxismo, riletto quest’ultimo paradigma
alla luce della militanza teorica e pratica di Bucharin. Il
miglior studio sul pensiero economico-politico di Bucharin
rimane quello di Stephen Cohen. Casomai ci torneremo su in
futuro.

Hosea Jaffe contro il marxismo eurocentrico

Il trotzkista Jaffe, nella sua elaborazione più matura,
considera la teoria maoista dei Tre mondi – Usa e Urss Primo
mondo supercapitalista ed imperialista, Germania, Giappone e
Italia come Secondo mondo subimperialista, Cina Socialista
guida della lotta di liberazione antimperialista del Terzo e
Quarto Mondo- e la dottrina maoista della linea orizzontale e
del Nemico principale– sostanzialmente antisovietica – una
rivoluzionaria rottura di paradigma sul piano della filosofia
politica marxista. L’economista sudafricano, soprattutto in
seguito al crollo inglorioso dell’Urss, finisce per vedere
però, stranamente, una linea di continuità politica e
strategica tra il maoismo e il denghismo riformistico ma non
controrivoluzionario. Il maoismo metteva la guida politica del
partito al centro, Deng la tecnica e l’economia. Ma il fine
era il medesimo. Superamento della grande divergenza con
l’occidente imperialista e nuova civilizzazione socialista.

Il denghismo fu anticapitalista e antimperialista?

In   base   all’analisi    di   Jaffe,    Deng   non   fu   un
controrivoluzionario o un liquidatore dell’esperienza
socialista, al contrario fu il più grande riformatore storico
del campo antimperialista. La Nep riformista di Deng non si
può che leggere, per l’economista trotzkista, alla luce delle
contraddizioni interimperialiste globali e in questo senso il
leader cinese che succede a Mao è il gigante socialista di
questa epoca di civiltà. Scrive Jaffe nel 2008:

 Le forze socialistiche antimperialiste nel PCC, il
 proletariato ed ancora – ci si consenta di farlo notare – i
 contadini, lottano contro questo supersfruttamento
 (imperialista occidentale) quotidianamente. Mentre la
 controrivoluzione capitalistica (guidata dagli USA e dalla
 Germania) contro l’URSS ridusse le aspettative di vita degli
 uomini da 70 a 59 anni in 17 anni, le aspettative di vita in
 Cina sono cresciute dal 2006 al 2007 da 72,88 a 73,18 anni
 (CIA: 2008): è il doppio della media delle aspettative di
 vita nell’Africa “indipendente” degli occupanti euro-
 statunitensi. L’alfabetizzazione minima in Cina si aggira
 intorno al 90,9%. In Africa gli “under 15” sono circa il 50%
 della popolazione, in Cina il 20%. Sotto la NEP i lavoratori
 hanno accesso ad una casa, godono di trasporti gratuiti,
 ospedali ed educazione dalle scuole primarie all’università.
 L’incidenza dell’AIDS in Cina è dello 0,1%, una persona su
 1.000, tra le medie più basse al mondo. Come Cuba, anche la
 Cina è ufficialmente atea. Vorrebbe B.B. sostenere che tutto
 ciò è tipico del capitalismo? 9. L’ineguaglianza in Cina non
 è capitalistica. Sotto il capitalismo la più vasta parte
 delle ineguaglianze economiche non intercorre tra il lavoro
 ed il capitale nei PCA, bensì tra i redditi pro capite dei
 PCA imperialisti e delle rispettive popolazioni (di UE, USA,
 Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Israele, Sud Africa e gli
 occupanti, coloni, oligarchi dell’“America Latina”) ed i
 paesi e le popolazioni non imperialiste (Asia, Africa, Medio
 Oriente, non europei negli USA ed in Europa). Il tasso di
 plusvalore nei PCA è in media del 33%, stando alle analisi
 dei PIL nazionali. Il rapporto tra redditi nei PCA (di cui il
33% ovvero 1/3 proviene dal bottino coloniale) e redditi dei
 non-PCA (di cui più del 50% sono razziati dai PCA) è di 2:1
 ovvero del 200%. Questo rapporto internazionale, propriamente
 globale, basato sui tassi di cambio in dollari, è,
 attualmente, in numeri: 30 trilioni/15 trilioni di dollari
 statunitensi (PIL aggregati). Ciò equivale a 6,6 volte il
 rapporto profitti/salari nel blocco imperialista. In termini
 marxiani, così come espressi nel Das Kapital (il che è ben
 diverso dall’euromarxismo), la distribuzione internazionale
 imperialistica dei redditi è superiore a 6 volte alla
 distribuzione dei redditi tra le classi nei PCA.

Di conseguenza, secondo la visione dell’economista
antimperialista, la sostanza del socialismo nel XXI sec.sarà
rappresentata dalla linea offensiva antimperialista, ancor
prima che dall’anticapitalismo teorico e dal socialismo
astratto dogmatico. Si può contrastare il plusvalore
capitalistico solo con la lotta antimperialista e con la vasta
diffusione del benessere sociale nel campo asiatico, africano,
sudamericano. Questa la sostanza dell’insegnamento finale di
Jaffe. E’ chiaro, in base a tale presupposto, non solo che la
Cina denghiana sia socialista ma finisca per costituire un
modello sociale che mai nessuno ha rappresentato nella storia.
Jaffe citava al riguardo la teoria denghiana del valore.

Il denghismo fu russofobo come il maoismo

Molti maoisti degli anni ’70 consideravano Deng Xiaoping un
filosovietico, un agente di quello che definivano,
sull’impulso     della   rivoluzione     culturale    cinese,
“l’imperialismo neo-zarista e semifascista del Cremlino”. La
linea nera di Liu e Deng veniva erroneamente considerata, a
livello internazionale, russofila. Tale tesi sarà smentita nei
fatti, Deng continuò, e se possibile radicalizzò, la linea
orizzontale maoista sull’Urss primo nemico. Dal Vietnam e Laos
Cambogia all’Afghanistan islamico in lotta con l’Armata rossa,
dal Cile di Pinochet (filocinese e filoGop dal 73 all’89)
all’Iran khomeinista, la geopolitica di Zhognanhai si atterrà
scrupolosamente, sotto la direzione di Deng, al precetto
maoista volto strategicamente all’annientamento della Russia
sovietica. Nella contesa cambogiana, Deng, sceso in campo in
soccorso a Pol Pot e ai Khmer rossi contro il Vietnam
filosovietico, schierava l’esercito cinese cercando di
attrarre nel tranello l’Armata rossa. Kissinger ha rilevato,
nella sua monumentale opera sulla Cina maoista e denghista,
come il timore di quello che consideravano “l’imperialismo del
Cremlino” avesse sia per Mao sia per Deng la priorità su ogni
altro calcolo geopolitico. Il bucharinismo denghiano non
intaccava la sostanza del socialismo denghiano, che era un
“socialismo alla cinese”, non occidentalizzante né russofilo.
Lo stesso intermezzo caratterizzato dal dominio della Banda
dei Quattro e da Hua Guofeng si segnalò per la russofobia come
primo livello geopolitico. La storica russofobia del
“Socialismo” di Beijing suona oggi come un campanello
d’allarme per Mosca? Biden-Harris sono veramente l’ala più
Sionista, russofobica e filocinese del Pentagono e del Deep
State? Ieri furono soprattutto i repubblicani statunitensi a
sostenere la Cina contro la Russia, oggi saranno i Dem e la
sinistra radicale e gender globalista a mettere di nuovo in
moto la macchina di guerra per la dissoluzione della
Federazione russa di Vladimir Putin e una spartizione globale
tra Cina e Usa? L’elite Xi Jinping di Zhognanhai accetterà una
simile spartizione? Ci torneremo eventualmente su.

Deng e la teoria del valore lavoro

 «Lenin invitava a discutere di più di economia e meno di
 politica. A mio avviso questa è un’affermazione ancora valida
 circa la proporzione di lavoro teorico da dedicare a queste
 due sfere». [Deng Xiaoping, 30 marzo 1979]

Il sinologo Vogel considera tuttora la Cina di Xi neo-
denghiana e Socialista. Non vi è nei fatti rottura tra la
teoria di Deng e quella odierna di Xi Jinping. A differenza
della nota visione del “socialismo di mercato” teorizzato da
Ota Sik, nell’economia denghiana al prezzo corrisponde
direttamente il sistema degli incentivi materiali. L’incentivo
materiale buchariniano nella equità sociale e comunitaria, non
quello morale, è la via della liberazione sociale e della
disalienazione della forza lavoro. I prezzi diventano gli
indicatori economici assoluti, ossia calcolati non sulla base
di un minimo relativo del costo di produzione ma di un salario
relativamente alto come standard di equità socialista. Il
denghismo pone perciò al centro, nel suo modello sociale, gli
incentivi materiali nella distribuzione del reddito. Un
fenomeno assai singolare è la somiglianza tra la concezione
del valore lavoro di Bucharin e le prese di posizione
economicistiche e antisoggettiviste della “linea nera” del
partito comunista cinese, guidata da Deng e Liu Schao-chi, tra
il 1962 e il 1965 durante la lotta di fazione antimaoista.

Dopo il 1960, non si dimenticherà, la Cina almeno sino al
1964, sperimenta l’egemonia teorica e pratica della “destra”
bucharinista; verso il 1964, la pratica della Nuova Politica
Economica (una anticipazione dell’affermazione del definitivo
riformismo denghiano successivo alla morte di Mao) aveva
accresciuto i redditi dei dirigenti d’azienda, dei tecnici,
dei contadini proprietari e aveva alzato i salari del
lavoratori. L’economicismo denghiano      si fondava nella
dinamica di correlazione politica tra incentivi soggettivi e
soprattutto fiscali, che avrebbero sviluppato un’accumulazione
socialista nelle mani dello Stato e la centralizzazione
flessibile della gestione industriale ed agricola, inevitabile
nel processo sviluppista, scientifico e modernizzatore. Il 7
luglio ’62 Deng riprendeva, per giustificare la sua teoria
economica, nel caso di specie la necessità di affittare
fattorie ai contadini per accelerare la produzione agricola,
un proverbio del Sichuan, diffuso tra gli Hakka, minoranza han
della regione, che sosteneva che non aveva importanza “se il

gatto era giallo o nero, l’importante è che acchiappi il topo”.
Deng partiva dalla certezza che “solo il socialismo può
salvare la Cina – questa è l’incrollabile conclusione storica
che il popolo cinese ha tratto dalla propria esperienza nei 60
anni seguiti al Movimento del 4 maggio 1919”, che il sistema
socialista è migliore di quello capitalista; deviare dal
socialismo, anche da posizioni di sinistra, significava
regredire allo stato semi-feudale e semicoloniale. Deng,
perseguitato durante la Rivoluzione culturale, considerava
tragico quel periodo, caratterizzato a suo avviso da un
perverso intreccio tra il fanatico risorgere di vecchie forze
del privilegio feudale e semischiavista (“influenze che non

possono essere spazzate via in un sol colpo” ) e il dominio
dell’idealismo soggettivo borghese, che per quanto riguarda
Lin Biao e La Banda dei Quattro Deng associa, proprio a causa
del loro soggettivismo idealistico politicistico e
antieconomicista, alle esperienze fasciste europee e le fa di
fatto estranee alla gloriosa storia del movimento socialista
cinese. I Paesi capitalistici con una lunga storia feudale,
Inghilterra, Francia, Giappone, Germania, Italia, avevano
tutti sperimentato gravi arretramenti e rovesci in un certo
periodo: restaurazioni controrivoluzionarie in Francia ed
Inghilterra, periodi di dominio militarista e fascista in
Giappone, Germania, Italia. La strategia di Lin Biao e della
Banda dei Quattro era, in questo senso, quella della
controrivoluzione, del ritorno al “dispotismo asiatico”, dello
sciovinismo xenofobo antimodernista ed autarchico. Lin Biao –
secondo Deng- con il suo soggettivismo fascistoide e
conservatore fece perdere tempo alla Cina sulla via del
progresso antimperialista e dello sviluppo socialista.

La realizzazione storica e economica denghiana altro non è,
dunque, nell’ottica del socialismo con caratteristiche cinesi,
che la concretizzazione e la conferma della formula
bucharinista del valore, ovvero la corrosione dell’economia
capitalistica nell’ambito del plusvalore prima e del valore
poi: con imprecisione, ma non errando allora, Bucharin parla
di formula soltanto di valore, formula del valore: c + v + m;
c + v + (m – x); c + v; c + (v – x); (c – y) + (v – nx) [1 ].
Il modello denghiano affermatosi sta portando gradualmente
all’erosione il modello sociale capitalistico occidentale di
valore. Si va affermando ogni giorno di più, nel pianeta, il
valore lavoro del modello sociale denghista cinese, non quello
occidentale o europeo.    E’ significativo, nota il sinologo
Jurgen Domes, che lo scontro dei primi anni ‘60 tra la linea
nera (Liu, Deng) e la linea rossa (Mao, Lin Biao), avviene
sulla concezione del valore lavoro. Liu considera i maoisti
dei “socialisti reazionari al limite del neofeudalesimo”,
taccia il loro idealismo di “avventurismo borghese” e di
“utopismo”, afferma che una Cina nelle mani di Mao e Lin Biao
sarebbe una Cina militarista, sciovinista, come quella di
Chiang Kai Shek. Liu accusa i maoisti di non aver compreso la
legge del valore e dice che per questo non sono marxisti né
comunisti ma reazionari. I maoisti, che vogliono cambiare la
realtà tramite gli impulsi ideologici facendo ricorso
all’entusiasmo rivoluzionario delle masse, sostengono
evidentemente la centralità e la priorità dell’autocoscienza.
I seguaci di Liu e Deng, viceversa, considerano
marxisticamente la coscienza un prodotto di determinate
condizioni ambientali e oggettive che non possono essere
scavalcate.

La retorica di Xi e il neo-denghismo di stato

A differenza della maggior parte degli analisti e dei sinologi
americani, non abbiamo affatto motivo di ritenere che Xi
Jinping abbia buttato a mare l’eredità teorica e
economicistica neobuchariniana di Deng Xiaoping. A nostro
avviso, Xi non è tanto uno statista, né un politico, ma un
vero generale e condottiero, un autentico Napoleone asiatico.
La quintessenza del Pensiero di Xi è il militarismo
globalista, antioccidentale e molto probabilmente anche
russofobo, un militarismo che deve essere supportato
dall’offensiva planetaria di una tecnocrazia sociale e equa.
Il fatto che il guerriero Xi Jinping, l’antipolitico stratega
militarista, si sia imposto, nella terribile lotta di fazione
di Zhognanhai, in questo momento storico dovrebbe far
riflettere. Xi riprende in questo senso la linea nazionalista
panasiatica, neo-confuciana e militarista di Lin Biao (prima
l’esercito e gli Istituti Confucio) ma non ha strategie
socialiste o egualitaristiche universalistiche da imporre. Il
fine di Xi è il nuovo ordine mondiale Han. Il neo-
confucianesimo di Lin Biao era forse un confucianesimo di
sinistra, questo odierno di Xi è sicuramente di destra ma
approfondiremo, eventualmente, in seguito tale questione. I
toni che caratterizzano l’epoca Xi sono chiaramente
espansionisti e globalisti, come quelli affidati al mensile
“Dangjian” (Costruiamo il Partito), alla fine del 2018:

 «Prepararsi rapidamente a essere in grado di guerreggiare,
 combattere all’infinito, di nuovo combattere e avere il
 necessario sostegno logistico».

Eventualmente, il rivendicato espansionismo cinese sul piano
globale può oggi essere l’unica grande differenza metodologica
e strategica tra Deng, che invitava a nascondere la propria
forza, e Xi; tale differenza si giustifica però nel differente
contesto e nell’aver ormai raggiunto la Cina gli scopi
immediati che Deng si pose. Come Deng, a differenza di Putin o
di Erdogan o di Ahmadinejad, Xi non pensa che la politica o la
spiritualità possano risolvere i problemi del tempo presente,
ma solo l’economia, la tecnologia e la scienza possono a suo
avviso abbattere l’ignoranza, la superstizione, il regresso,
l’ingiustizia sociale e economica. A questo Xi aggiunge la
centralità Confuciana dell’Esercito, con toni e iniziative che
riportano alla mente, come detto, il nazionalismo han
linbiaoista. Varie frazioni della sinistra internazionalista e
progressista russa considerino Putin il politico, Putin lo
statista un “fascista” mentre ritengono che la Cina odierna –
sempre più tecnocratico-militarista – sia un modello sociale
di sinistra avanzata. Per molti rivoluzionari e marxisti
russi, ma non solo russi logicamente, la Cina è addirittura un
modello socialista ben più d’avanguardia rispetto all’Urss di
ieri. Verrebbe da chiedersi se hanno consapevolezza del fatto
che sin dalla primordiale epoca maoista, tutti gli scontri di
fazione che si ebbero nel Pcc vertevano anche sulla
caratteristica cinese del socialismo che si voleva inverare.
Era nazionalista Liu come era nazionalista Mao, più
nazionalista di loro era Zhou en lai. Nazionalismo, nel
socialismo cinese, non significava, e non significa, ciò che
significa in Europa, ma rimanda allo spirito della Conferenza
di Bandung del 1955, spirito di rottura con la logica di
Yalta, di antagonismo a sovietici e occidentali, di
affermazione della marcia Sud verso Sud contro Nord del mondo.

Non vi è stata, e non vi può essere, fazione strategica nel
Pcc che non muova da questo originario assunto. Il nodo
principale per giudicare la natura sociale della Cina di Xi
Jinping, inoltre, sarebbe quello dell’analisi degli
investimenti pubblici; Deng stesso nelle sue pianificazioni
riformatrici, come ci è noto, lasciò sempre al centro
l’investimento pubblico e invitò a non abbandonare quel
modello e non imitare il liberismo occidentale, che avrebbe di
nuovo affamato il popolo cinese. Le Keqiang, premier in
carica, non fa però mistero di voler assegnare maggior risalto
al “mercato”, che dovrebbe giocare per la Cina negli anni che
vengono un ruolo di maggior peso. Se le pianificazioni di Hu
Jintao facevano leva sulle SOE, ovvero sulle imprese statali,
l’attuale elite mandarina con la sua strategia basata sulla
digitalizzazione socialista globale necessita di un
fondamentale supporto di società private, che sono
tecnologicamente molto avanzate. La finalità di Xi è quindi
quella di finanziare il privato all’avanguardia sul lato
tecnologico, facendolo poi confluire verso un equilibrato
bilanciamento con le esigenze pubbliche e comunitarie.      La
riforma finanziaria del 2018 lascia, almeno in teoria, la
centralità allo Stato e per questo Malaschini [2] definisce la
Repubblica popolare uno Stato di diritto socialista e il
giornalista del Corriere della Sera, Francesco Grillo [3],
porta la Cina di Xi a modello sociale –antindividualista,
comunitarista, solidarista e antiliberista – per l’UE per
uscire dalla crisi decennale e dall’egoismo mercatista diffuso
a ogni piano. Huawei, ad esempio, sostiene di essere
un’azienda di proprietà dei dipendenti, autogestita. Il
fondatore, Ren Zhengfei, possiede solo l’1 per cento mentre il
restante 99 per cento appartiene a un Comitato collettivista
sindacale che rimanda all’epoca delle Comuni. Tencent, colosso
tech di Ma Huateng fondato nel 1998 con sede a Shenzen, ha già
annunciato di voler investire 600 milioni di yuan nella nuova
economia digitale basata su intelligenza artificiale e
sicurezza sociale informatica. Nella stessa direzione sembra
andare la strategia delle cosiddette città del futuro: a
appena 100 km da Pechino si è sul punto di inaugurare, entro
il 2022, una città in linea con lo sviluppo ecologico cinese,
con             milioni              di             abitanti
(https://buildingcue.it/cina-citta-futuro/22025/), basata sui
concetti di economia circolare, sul riuso, sul 5g, sullo
spazio confortevole, sull’energia rinnovabile.

Tutto ciò ci pare vada chiaramente in una direzione di stato
neo-denghiana, ovvero verso un socialismo scientifico-
tecnocratico, almeno come teorizzato da Deng con le sue
“Quattro modernizzazioni”. Se di esperimento socialista si
tratta, nel caso del denghismo di Xi, è quello di un
socialismo oggettivista, anti-politico e tecnocratico,
scientifico e globalista. Il globalismo di Xi è chiaramente
antagonista a quello delle sinistre radicali euroccidentali
alla Biden-Harris o alla Die Linke-Podemos-Syriza, ma a
dispetto di una fugace apparenza è molto diverso anche dal
globalismo elitistico gender e transumanista della Silicon
Valley o dei Bill Gates. Il globalismo di Xi è sì tecnocratico
e scientifico ma come già detto è strategicamente
militaristico, anche se preferirebbe portare definitivamente
la Cina alla guida mondiale e “democratica” dei popoli senza
dover ricorrere all’uso di armi e di stragismo. Vogliamo
concludere questo pezzo, con una citazione. La citazione di
colui che, forse anche più di Deng, è il padre autentico della
Cina bucharinista dei nostri giorni. Citiamo Liu Schao-chi, il
quale iniziale teorico del Grande Balzo in avanti, ne prese
poi le distanze quando i maoisti ne condussero in una
direzione a suo avviso sbagliata la direzione. In un discorso
del 1 ottobre 1961, in aperta polemica con la sinistra
maoista, Liu disse:

 «Coloro che, inebriati da volontarismo e utopismo, non
 comprendono che nella costruzione del socialismo occorre
 sottostare a “leggi oggettive”, non sono socialisti. Non si
 può accorciare il cammino con una azione di audace volontà
 individualistica. Non si può scambiare il leaderismo,
 l’individualismo, la legge del soggetto, tutti residui questi
 ultimi capitalisti se non anche feudali, con la legge
 oggettiva del progresso storico e dell’evoluzione sociale.
 Questo è l’abc del socialismo e desta meraviglia vedere
 dirigenti e tecnici che ignorano l’abc».

NOTE

[ 1 ] La legge buchariniana del valore è secondo lo Stephen la
somma intrinseca del socialismo buchariniano, mentre la
versione stalinista della teoria del valore, propagandata da
economisti come Lieberman con il suo “profitto monetario” e
Strumilin con la sua logica dell’incentivo allargato,
finiranno per riscrivere le classiche formule della produzione
allargata, quindi capitalistica e fondata sul plusvalore, di
Marx. Il plusvalore nella teoria stalinista del valore diventa
“prodotto addizionale” o “intero prodotto per la società”,
mentre nella teoria buchariniana è previsto l’erodersi del
sistema capitalista. La situazione diventa insostenibile, per
il capitalismo, con l’ampliamento della riproduzione negativa,
cioè quando la produzione avviene a spese di m(plusvalore), c
indica il capitale costante, v variabile. Il processo di
distruzione del plusvalore avviene, per Bucharin teorico del
valore lavoro, non appena il plusvalore sociale dileguerà nel
lavoro vivo ma Bucharin si ferma però alla negazione del
plusvalore. Va però detto, come critica alla concezione
buchariniana, che se si tratta per lo Stephen di un passo
avanti rispetto al “dispotismo orientale” o al collettivismo
burocratico staliniano, si è comunque ancora dentro una logica
che lo stesso Bucharin, nella nota polemica con
Preobrazenskji, iscrive in uno stadio da capitalismo statuale,
immediata transizione allo stadio socialista

[ 2 ] Malaschini, Come si governa la Cina, Rubettino 2019.

[ 3 ] Grillo, Lezioni cinesi: Come l’Europa può uscire dalla
crisi, Solferino 2019.

IL PROGRAMMA DEL SEMINARIO
GIOVANILE
Il seminario di M48, il 20 e 21 luglio al camping Fontemaggio,
si svolgerà sotto l’auspicio di Liberiamo l’italia.

Una due giorni in cui si tratteranno molti temi, fra i quali
l’adesione all’euro e le ripercussioni sui giovani,
all’insegna della socialità e della vita politica attiva.

Un modo per ritrovarsi, dopo questi mesi di solitudine e
difficoltà, in un clima di serenità e partecipazione.

Oltre gli ospiti anche la proiezione del documentario Piigs,
musica e divertimento.

Per avere altre informazioni (costi, alloggio ecc) scrivi a
M48. Ti aspettiamo!
NUOVA    DIREZIONE?    (prima
parte) di Moreno Pasquinelli
«Colu
i che attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà
mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera
rivoluzione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può
essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di
tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della
piccola borghesia e degli operai arretrati vi pareciperanno
inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è
possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna
rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno
inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie
reazionarie, le loro debolezze e i loro errori». V. I. Lenin

Nuova Direzione è un’associazione politica verso la quale
sentiamo forti affinità ideali e programmatiche, e verso i cui
compagni nutriamo sincera stima. Al suo interno è in corso un
dibattito che, al netto di certi arzigogoli teorici, solleva
la questione se sia ancora possibile una fuoriuscita dal
capitalismo e, se sì, con quali forze e per quali vie è
possibile attuarla.

Prendiamo spunto dall’intervento di Diego Melegari e Faabrizio
Capoccetti — I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una
politica oltre purismo e subalternità – e della risposta di
Alessandro Visalli – Delle contraddizioni in seno al popolo:
Stato e potere.

Due interventi ad alta densità teorica, forse anche troppo, la
qual cosa mette in bella mostra quello che a noi pare un
brutto difetto di Nuova Direzione, l’intellettualismo.
Entrambi risultano inaccessibili, non diciamo al largo
pubblico, ma anche a militanti che non abbiano avuto il
privilegio di aver studiato e digerito il complicato e spesso
cervellotico dibattito teorico politico che, dopo il crollo
del movimento comunista internazionale, ha coinvolto
l’intellighentia marxista internazionale. Tuttavia, posta la
preliminare opera di decriptazione, i due contributi sono
degni di attenzione poiché, oltre a tirare in ballo dirimenti
questioni strategiche e tattiche, ci fanno vedere la possibile
linea di frattura dell’associazione.

Chi scrive non condivide il presupposto filosofico che
sottostà alla visione di Melegari e Capoccetti. Traspare, da
quanto essi scrivono, che fanno loro il paradigma della
“congiuntura” di Ernesto Laclau, quello per cui ogni evento
storico sarebbe frutto imprevedibile della “contingenza” e non
anche risultato di processi necessitati e/o di leggi sociali
oggettive    – “Ciò che può essere o non essere” direbbe
S.Tommaso.

Va bene lasciarsi alle spalle ogni determinismo
meccanicistico, giusto superare certo teleologismo insito
nella profezia marxista; ma andiamoci piano con
l’indeterminismo, ovvero a gettare nel cesso la concezione
materialistica della storia.

Non c’è, nella storia, alcuna spinoziana “causa perfetta” per
cui, posta una causa, l’effetto sarebbe già infallibilmente
dato (quindi geometricamente prevedibile). Tuttavia è grande
errore rimuovere sic et simpliciter la categoria di causa
lasciando tutto alla caotica casualità all’accidente.

Malgrado questo abbaglio teorico — forse proprio per questo
errato presupposto filosofico — Laclau giunse ad una
conclusione condivisibile: l’assoluta centralità del fattore
Politico, per la precisione della funzione creativa e poietica
del soggetto politico.

Per la sua tortuosa via egli approdò molto vicino all’idea
leniniana del Partito come demiurgo della storia e/o di quella
gramsciana del Partito politico come “moderno Principe” in
quanto architetto di un blocco storico nazionale-popolare.

Di qui, superata la meccanica del “partito di classe”, il suo
discorso sull’attualità del “populismo”, ovvero di un soggetto
capace di diventare perno e direzione di un pluralistico
blocco sociale antagonista.

Di questo ci parlano sostanzialmente Melegari e Capocccetti,
se gli odierni rivoluzionari saranno capaci o meno non di
stare alla finestra ad “interrogare” la “maggioranza
atomizzata” prodotta da decenni di neoliberismo, ma di
“sporcarsi le mani” per svolgere una funzione attiva e
creativa allo scopo di cavar fuori dalla poltiglia sociale,
prodotta dal tardo-capitalismo, un blocco antagonista.

Ci si getta o no nel gorgo per fare in modo che un precipitato
solido emerga dalla crisi sistemica della “società liquida”?
Così i nostri giustamente affermano: “Le maggioranze sociali
non sono lì pronte per affermarsi politicamente, ma semmai è
l’affermazione di una politica a permettere di raccogliere e
formare un blocco sociale”.

La loro risposta è quindi che sì, occorre gettarsi nella
mischia per tentare di uscire dal marasma, è d’obbligo entrare
nel caos per provare a dargli un ordine. Non può essere un
alibi la debolezza soggettiva.

Essi non lo dicono ma è l’implicita conclusione, che proprio
nel gorgo si può, anzi di deve, costruire il soggetto
politico, senza il quale l’energia che la crisi sistemica
sprigiona si volatilizzerebbe e/o potrebbe fungere da
carburante per avventure reazionarie. Di qui la necessità,
sbarazzatisi di vetusti pregiudizi operaistici e astratti
canoni classisti, di recepire le istanze dei “bottegai” –
epiteto che sta per i vasti strati di piccola borghesia e ceto
medio che la crisi va precipitando nel pauperismo – per
tentare di raddrizzare un bastone che la storia ci consegna
storto.

I   nostri non lo dicono ma, non fosse che per l’epigrafe
gramsciana posta in cima al loro articolo, lo fanno capire: a
causa di molteplici ragioni, non sarà il mondo del lavoro
dipendente e sindacalizzato a occupare la prima linea della
sollevazione sociale, bensì proprio la piccola borghesia
pauperizzata.

Hic Rodhus, hic salta: li, in quel campo i rivoluzionari
debbono calarsi per inseminarlo in senso democratico e
rivoluzionario e, così facendo, agire e costruire Partito
trascinando nel   conflitto   gli   strati   più   dinamici   del
proletarito.

Nel passaggio dall’astratto al concreto essi però inciampano.
Ammettono che “le classi dirigenti nazionali hanno scelto di
consegnare la soluzione del conflitto di classe interno alla
dipendenza del vincolo esterno”, ma ne traggono una
conclusione che stride con la premessa, ovvero si rifiutano di
ammettere l’assoluta centralità della battaglia tutta politica
per spezzare il vincolo esterno (leggi lotta per la sovranità
nazionale e popolare), un vincolo che non è solo lo scudo
ideologico della nostra classe “dirigente”, vincolo che
costituisce una vera e propria macchina di dominio, ovvero il
consorzio di poteri eurocratici sovraordinati.

La questione europea è infatti solo evocata, non considerata
come l’anello giusto per afferrare la catena politica. I
nostri escludono così quella che chiamano “strategia dei due
tempi”: sbagliato sostenere che per prima cosa occorre
ottenere la sovranità nazionale allo scopo di “ristabilire uno
spazio democratico”. Per loro il “processo è unitario,
complessivo e conflittuale, indirizzato a riorganizzare lo
Stato, le istituzioni, il tessuto produttivo, i rapporti
proprietari ecc.”

Forse ci sbagliamo ma qui si parla di noi, della sinistra
patriottica, ovvero si contesta la necessità di passare ad
un’alleanza di CLN per uscire dall’Unione europea. No, non ci
sbagliamo. Il fatale errore è in questo caso l’astrattezza,
un’astrattezza che, concludendo l’articolo, vanifica e
polverizza quella che sembrava la sostanza del loro articolo.

Melegari e Capoccetti vorrebbero un trotskysta processo di
“rivoluzione permanente”, ovvero che la lotta per la sovranità
nazionale vada di pari passo e includa quella per rifondare lo
Stato su basi socialiste. Auspicabile? Sì, certo, ma questo,
ci avrebbero detto sia Lenin che Trotsky, dipende da chi sta
alla guida del processo.

La liberazione nazionale diventa sociale solo se diretta dai
rivoluzionari. La lotta democratica diventa lotta per il
socialismo solo se alla sua testa ci sono i socialisti — non
di certo formazioni populiste.

Posto che la tendenza ad uscire dalla gabbia eurocratica e per
respingere la succubanza al dominio tedesco è in atto, dato
che questa tendenza si rafforzerà a causa della catastrofe
economica incombente, risulta forse che i rivoluzionari siano
alla sua testa? Sono forse in condizione di prendere la guida
della incipiente sollevazione sociale? La risposta è no. Lo
sganciamento potrà avvenire solo come risultato di una dura
battaglia condotta da un ampio fronte nazionale-popolare, per
sua natura inter-classista e ideologicamente eterogeneo.

Occorre prendere parte in questa battaglia malgrado non si
abbia la direzione? Sì o no? Per noi la risposta è sì. Occorre
o no avere un ruolo attivo nel costituire questo blocco
nazionale-popolare? Per noi certamente sì. Siccome un altro
campo non si vede all’orizzonte, è in questo che le “minoranze
creative” debbono esercitare un ruolo d’avanguardia e tentare
di fare egemonia.

L’errore è quello di attribuire una valenza teurgica al
concetto di “processo”. Tutto nella storia avviene come
“processo” ma ciò non significa indistinzione tra i suoi
momenti. Non c’è bisogno di abbracciare la vecchia teoria
socialdemocratica e poi staliniana della “rivoluzione per
tappe” per capire che una efficace strategia si basa, data la
connessione tra un momento e l’altro, nel saper cogliere
questi passaggi di fase, nel distinguere l’uno dall’altro — a
maggior ragione se non si tratta di una progressione a gradini
di una scala ma di salti.

Nel caso che ci riguarda, quello italiano, è di tutta evidenza
che noi, a meno di immaginare una simultanea rivoluzione
europea, non avremo la rivoluzione socialista e quindi la
conquista della sovranità nazionale e popolare bensì il
contrario: senza vincere la battaglia della liberazione
nazionale non potremo passare a quella, ancor più complessa
della rivoluzione socialista. C’è un primo e un dopo.

Partiti dalla giusta premessa che il blocco sociale
antagonista non ci verrà consegnato dalla crisi capitalistica,
che esso si può costituire solo grazie all’esistenza di un
elemento Politico di agglutinazione; posta poi la tesi che la
piccola-borghesia pauperizzata potrebbe essere la forza
motrice iniziale del blocco nazionale-popolare; Melegari e
Capoccetti non hanno il coraggio di trarne le dovute
conseguenze né sul piano della proposta politica né su quello
della prassi. La matrice teorica indeterminista non può che
condurre all’indeterminatezza sul piano politico. E così essi
prestano il fianco alla dura critica di Visalli.
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