LO SPORT PER TUTTI COME POSSIBILE STRATEGIA DI INCLUSIONE SOCIALE - Indagine condotta sulla Provincia di Torino A cura del Prof. Nicola Porro
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LO SPORT PER TUTTI COME POSSIBILE STRATEGIA DI INCLUSIONE SOCIALE Indagine condotta sulla Provincia di Torino Novembre 2003 A cura del Prof. Nicola Porro
Presentazione E' con riconoscenza e con soddisfazione che, in qualità di direttore del progetto di ricerca, presento questo rapporto conclusivo. Si tratta di un lavoro collettivo, dedicato a un’analisi non convenzionale del sistema sportivo territoriale come possibile protagonista di politiche di inclusione. L'indagine, commissionata dalla Provincia di Torino, è stata realizzata da un gruppo di ricerca afferente all'Università di Cassino. La nostra riconoscenza va quindi all'Amministrazione provinciale, e in particolare agli assessori competenti, dott.ssa Silvana Accossato e dott.ssa Maria Pia Brunato, che hanno voluto raccogliere l'idea di una rilevazione empirica sul fenomeno, la prima del genere prodotta nel nostro Paese, e permetterne la realizzazione attraverso un'indagine condotta sul campo, in stretto contatto con dirigenti, esperti e operatori del settore. La gratitudine del gruppo di lavoro si estende perciò, e non si tratta di un riconoscimento protocollare, ai diversi protagonisti dello sport sociale torinese che hanno messo il loro tempo, la loro pazienza e la loro sensibilità culturale a disposizione dei nostri ricercatori. Se questo lavoro si dimostrerà capace, come speriamo, di produrre esiti scientifici e magari di ispirare qualche possibile traduzione operativa, lo si dovrà principalmente alla loro collaborazione. Mentre solo nostra sarà, come è giusto, la responsabilità di un'inadeguata o imprecisa recezione degli input che hanno inteso trasmetterci. La soddisfazione che voglio esprimere riguarda invece l'approccio metodologico che con questa ricerca abbiamo cercato di inaugurare. Certo non spetta a noi giudicare la qualità del prodotto finale, ma mi sia consentito evidenziare il tratto innovativo del lavoro condotto. Esso è consistito principalmente nel tentativo di integrare e far interagire due diverse tradizioni di analisi. Da un lato, si è fatto ricorso agli strumenti della classica sociologia qualitativa - interviste focalizzate, focus group di valutazione, analisi della cosiddetta letteratura grigia -, cercando di sottrarre la rilevazione al puro assemblaggio dei pur necessari dati statistico-descrittivi. L'idea guida è quella, su cui si è fondata l'emancipazione della sociologia del Novecento dalle discipline strumentali come la statistica e la demografia, che "i dati non parlano da sé". I fatti emergenti dall'analisi descrittiva dei fenomeni, al contrario, vanno sistematicamente interrogati, attingendo a quella fonte primaria che è rappresentata dagli osservatori privilegiati. Dall'altro, si è provato ad applicare al fenomeno sportivo diffuso i metodi propri di quel filone di studi - ispirato alla scienza politica - che va sotto il nome di policy analyis. Con l'obiettivo di individuare, al crocevia fra spontanea espansione della cultura della pratica e dinamiche di riforma della Pubblica Amministrazione, un concreto punto di riferimento per possibili politiche di settore. Sforzandoci di tenere insieme l'interpretazione dei processi e la ricostruzione delle logiche di governo amministrativo - in una stagione di radicali trasformazioni del sistema gestionale pubblico - abbiamo così voluto sperimentare una metodologia assolutamente inedita in Italia. 2
Il tentativo, niente affatto accessorio, di sollecitare una riflessione sul tema del governo della complessità e dei suoi strumenti operativi, va del resto molto al di là della specifica tematica sportiva. Ai ricercatori non compete interferire nelle opzioni dei decisori pubblici, del resto sempre più condizionate da costrittivi vincoli di bilancio. Stimolare una riflessione prospettica, segnalare esperienze e possibili percorsi per l'innovazione - consapevoli di non poter fornire altro che ipotesi di lavoro da sottoporre alle impietose verifiche delle compatibilità amministrative - è la sola ambizione della nostra indagine. Rinnovando a nome dell'intero staff di ricerca il ringraziamento e l'apprezzamento per il contributo di tutti gli osservatori privilegiati che abbiamo avuto il piacere di avvicinare, mi sia permesso conclusivamente ringraziare quanti hanno concorso, ciascuno per la propria parte, a realizzare il progetto. Le colleghe professoresse Gabriella Arena e Silvana Casmirri hanno concretamete sostenuto, per conto del mio Dipartimento universitario, il progetto loro sottoposto e le sue traduzioni operative, mettendo a disposizione il prezioso supporto amministrativo della responsabile del settore, dott.ssa Filomena Valente, nonché una indispensabile integrazione finanziaria al nostro budget. La professoressa Giovanna Gianturco, dell'Università di Roma La Sapienza, ha curato la strumentazione metodologica dell'indagine qualitativa e la realizzazione di non poche interviste focalizzate. A lei si deve anche la nota metodologica che presentiamo a corredo del lavoro. Le dottoresse Rosanna d'Iorio, Paola Pappalardo e Dascia Sagoni, con i dottori Eros Cosentino e Luigi Pietroluongo e con il supporto tecnico-scientifico del Cirsel (Centro Internazionale per le Ricerche sullo Sport E il Loisir), hanno concretamente realizzato buona parte del lavoro di raccolta dei materiali empirici e di elaborazione delle informazioni, nonché la presentazione grafica dei testi. Un sincero ringraziamento, infine, al personale della Provincia di Torino che ha fattivamente facilitato il nostro lavoro e accompagnato con simpatia e disponibilità il nostro tentativo di "immersione" nel contesto locale. Cassino novembre 2003 Nicola Porro 3
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Premessa Pensare o ripensare le strategie d’intervento dei poteri locali in materia di inclusione sociale appare concettualmente difficile senza preventivamente affrontare la necessità di una ridefinizione del contesto di riferimento. In altre parole: possiamo ancora fare riferimento a nozioni come quelle di città metropolitana, di ente intermedio, di ambito subregionale e tutte le altre che hanno di volta in volta aggiornato il lessico amministrativo della politica? E possiamo ancora sforzarci di analizzare il rapporto fra istituzioni e cittadinanza al di fuori delle trasformazioni intervenute sul terreno della legislazione territoriale? Trasformazioni, va ricordato, che hanno interessato la stessa legge fondamentale dello Stato, con la modifica del titolo V della Carta costituzionale. L’attenzione allo sport come nuovo, potenziale diritto di cittadinanza va d’altronde intesa come una concreta e innovativa strategia dell’inclusione. La quale si rivolge, appunto, a nuovi cittadini della pratica fisico-motoria, cioè a soggetti individuali e collettivi (anziani, immigrati, disabili, giovani a rischio e tutte quelle aree di popolazione esposte al pericolo della marginalità) non appartenenti al classico sistema della prestazione agonistica. Lo sport, cioè, può diventare, come spiega Silvana Accossato, assessore al turismo e allo sport della Provincia di Torino: “…elemento di socialità e aggregazione delle diverse fasce di età e anche dei territori; delle comunità, dei quartieri, attorno a polisportive, piuttosto che all’aperto. Possono nascere aggregazione sociale, interessi condivisi, volontà di partecipazione dei cittadini alla gestione che ovviamente, sono l’elemento di miglioramento”. I due aspetti della questione - la ridefinizione del contesto e delle strategie di azione dei poteri locali, da un lato, e la sperimentazione dello sport come strategia di inclusione sociale, dall’altro - appaiono necessariamente connessi e meritevoli di una preliminare riflessione. Si tratta, insomma, di inserire a pieno titolo lo sport nella cornice delle politiche sociali e di definire più precisamente quale tipo di politiche sociali, orientate all’inclusione, possano rientrare nelle competenze e nel raggio d’azione dei poteri amministrativi locali. Tenendo d’occhio quella complessa dinamica sociologica che interessa non solo la dimensione burocratico e funzionale del problema, ma anche il silenzioso ridisegno dei suoi confini culturali e sociali. Le conclusioni della ricerca che qui proponiamo non hanno, come è ovvio, la pretesa di fornire risposte esaustive e perentorie a questioni tanto delicate e persino controverse, sia sotto il profilo della teoria sociale sia dall’angolo visuale della politica istituzionale. L’ambizione è piuttosto quella di individuare, circoscrivere ed esplicitare, sulla base delle informazioni e delle testimonianze raccolte con complementari metodi di indagine sociologica, le domande che i poteri locali, nella loro autonoma responsabilità, potrebbero trovarsi di fronte in un breve volgere di tempo. Domande che richiedono strategie di risposta, flessibilità di analisi e costante attenzione ai mutamenti. È questo il possibile contributo che è lecito attendersi dal 5
lavoro di ricercatori che non hanno, e non possono avere, la pretesa di sostituire le loro indicazioni alle legittime e sovrane ragioni delle responsabilità politiche. Lo scopo dell’indagine è piuttosto quello di fornire stimoli e strumenti scientificamente adeguati all’autonoma elaborazione delle strategie politiche degli attori istituzionali. Si tratta ora, perciò, di elencare le questioni cruciali sulle quali soffermeremo la nostra attenzione. 1. Entro quale contesto territoriale di riferimento una strategia pubblica di inclusione attraverso lo sport può trovare senso e prospettiva? Le tradizionali unità amministrative (circoscrizioni, comuni, province, regioni ecc.) coincidono con gli spazi sociali entro i quali possono dispiegarsi efficaci esperienze di attività? 2. A quale configurazione socio-politica è possibile e utile assegnare la pratica sportiva non identificata nella tradizionale attività agonistica di tipo federale (discipline di prestazione assoluta, orientate al primato del risultato tecnico e a un target di potenziali “atleti”), o comunque non riducibile ad essa? 3. Quale rete di attori organizzativi – istituzioni, sistema dell’associazionismo, circuiti informali di varia natura, media – sono coinvolti in una politica di settore che aspiri a farsi sistema? Possiamo parlarne come di un terreno privilegiato di sperimentazione del Welfare Mix? 4. In una logica di regolazione a rete, quali dinamiche di governo partecipato (Governance) potrebbero e/o dovrebbero sostituire le tradizionali strategie di pura erogazione di benefici finanziari e strumentali (concessione di impianti, contributi ecc.), che rientrano nella categoria di Government? E quali competenze, risorse e poteri d’intervento sono oggi a disposizione degli amministratori chiamati a cimentarsi con la sfida del federalismo? Possiamo descrivere l’azione amministrativa rivolta allo sport come espressione di un nuovo approccio, orientato al risultato più che alle procedure, cioè come una delle possibili politiche di seconda generazione? 1. La dimensione sociale dei sistemi urbani e lo sport. Alcuni fra i più acuti analisti dei fenomeni urbani hanno da tempo richiamato l’attenzione sulla rottura di quella che Magnier e Russo (2002) chiamano la filiera delle istituzioni di governo territoriali. Nella logica della politica e dell’amministrazione europee di matrice ottocentesca, sopravvissuta pur fra molti e non irrilevanti assestamenti sino all’ultimo ventennio del XX secolo, le istituzioni sovranazionali, lo Stato Nazione, le regioni (o le entità subnazionali loro corrispondenti), le province (o le entità subregionali loro corrispondenti) e le “città” si collocavano lungo una sequenza strutturale, che configurava di fatto una gerarchia politico-funzionale. Gerarchia non rigorosamente modellata sullo schema della piramide. Il vero vertice politico era infatti rappresentato dallo Stato Nazione, monopolista nella sfera legislativa e detentore non solo dei poteri materiali (la moneta, il fisco, la forza militare), ma anche delle risorse simboliche capaci di legittimare l’azione dei governi locali. Allo stesso tempo, però, sistema di relazioni 6
strutturate e interdipendenti, capace di plasmare la stessa percezione dell’autorità da parte dei cittadini. Con il tempo, e con un’accelerazione crescente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quel paradigma si è incrinato sin quasi a spezzarsi. Importanti, al di là degli slogan, sono stati gli effetti del processo di globalizzazione, a cominciare dalla rivoluzione che ha investito il rapporto spazio-tempo con lo sviluppo e la diffusione di massa delle tecnologie della comunicazione. Conseguenze altrettanto rilevanti ha avuto lo stress organizzativo che ha colpito tutti i sistemi a elevata (e crescente) complessità in rapporto al diversificarsi e moltiplicarsi delle domande sociali. Il combinato disposto di simili dinamiche ha rapidamente destabilizzato quel profilo di ruoli, gerarchie e responsabilità che aveva seguito e caratterizzato, in Europa occidentale, l’avvento e il consolidamento dello Stato Nazione. Sopravvivendo vittoriosamente a due guerre mondiali, a impetuosi processi di democratizzazione, a trasformazioni significative dei valori e degli stili di vita a livello di massa. A quelle che, con altre parole, sono state definite le diverse e successive “ondate” della modernizzazione novecentesca. Scrivevano in proposito Ceri e Rossi (1987) alla fine degli anni Ottanta: …le industrie e le attività produttive non hanno più bisogno di concentrarsi in determinati luoghi: hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò provvedono le vie di comunicazione e, in misura crescente, le reti informatiche. Anche il potere politico, pur rimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico, non riveste più un carattere specificamente urbano. I mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito il rapporto diretto tra la classe politica e il resto della popolazione, l’intervista televisiva ha preso il posto del comizio o dell’adunata; mentre l’informatica provvede alla raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell’apparato amministrativo. La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché si sia trasferito altrove, ma perché il potere non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui espandersi …(pp. 580-581). A questa rappresentazione del declino della funzione delle città – quella che Leonardo Benevolo ha descritto, da urbanista, come entropia della metropoli (la città che non serve più a economizzare tempo concentrando entro uno spazio topograficamente delimitato i gangli delle attività economiche e del potere politico o spirituale, come la chiesa, il municipio e il mercato, bensì a disperderlo, causa la congestione e il collasso indotti dal traffico e dalla pressione antropica) – si accompagna la tendenza al traboccamento demografico. Nascono costellazioni urbane e semiurbane nell’hinterland, si smarrisce la distinzione città-campagna, le aree rurali non urbanizzate sono fagocitate dall’espansione di strutture metropolitane che, a loro volta, riproducono la campagna in forme artificiali. Trasformazioni che interessano da vicino, le une come le altre, le opportunità di pratica sportiva e fisico- motoria. Così come interessano la qualità della vita in senso lato, originando domande inedite di mobilità alternativa (le piste ciclabili), di pratica salutistica (i percorsi vita) o di animazione sociale (le domeniche ecologiche in tutte le loro possibili varianti con il loro contorno di eventi sportivi e parasportivi in ambiente urbano). 7
Al gruppo di ricerca che ha condotto questa indagine pare più corretto ed euristicamente convincente assumere, in luogo di definizioni più tradizionali ma meno dotate di potenziale descrittivo (come città o provincia metropolitana), la nozione di sistema urbano in quanto contesto di riferimento analitico. Ciò soprattutto in rapporto a quella dimensione culturale e sociale, evidenziata dalla ricerca, che riguarda lo sport come espressione insieme di antichi bisogni di identità ed espressività (compreso il municipalismo delle tifoserie dei giochi di squadra più popolari) e di nuove esigenze, connesse alla diffusione massiccia della pratica e alle domande di senso – individuali e collettive – che ad essa si indirizza. Parlare di sistemi urbani, a diversi livelli di interconnessione funzionale con la filiera istituzionale dei poteri (la regione, la provincia, il comune, le circoscrizioni) e a differenti livelli di complessità, consente di meglio cogliere e rappresentare i mutamenti intervenuti in quelle aree del più ampio sistema sociale che la sociologia classica, edificata sul modello ordinatore dello Stato Nazione, impietosamente e sbrigativamente liquidava come Periferia. Al punto che proprio sull’opposizione Centro-Periferia la Scienza politica degli anni Settanta aveva costruito una delle principali chiavi interpretative della nazionalizzazione (Rokkan, 1970). Oggi è esattamente il nuovo protagonismo di variegati attori sociali urbani a rendere non più fungibile quel modello. La Periferia si è fatta Centro, rivendicando e spesso ottenendo poteri un tempo monopolizzati dallo Stato Nazione. Nello stesso tempo, però, lo Stato si è fatto Periferia nel contesto di più strutturate e inedite autorità sovranazionali. Se il governo della moneta e il controllo del fisco e della leva militare identificavano simbolicamente i poteri del vecchio Stato Nazione, l’Europa della moneta unica, dei vincoli di Maastricht e degli eserciti professionali, cioè un continente in via di integrazione, può davvero definirsi - secondo la felice formula coniata da Jürgen Habermas (1998) - una costellazione postnazionale. Ma nelle trasformazioni che sono intervenute nella sfera politica e istituzionale hanno giocato un ruolo decisivo i mutamenti del costume e della cultura. Nessuna Governance è in grado di sostituirsi efficacemente alle vecchie strutture di Government se la sua concreta strutturazione formale e operativa non intercetta bisogni diffusi e domande di rappresentanza. Se non si misura con il nuovo protagonismo di attori collettivi, i quali non sono necessariamente modellati sui classici paradigmi dell’azione istituzionale urbana. I cittadini che fanno sport e che, con diverse motivazioni, attitudini e disponibilità, danno vita a esperienze non solo di pratica, ma di aggregazione sociale (formale o informale), appartengono a questa tipologia di attori. Si devono a loro la proliferazione delle società, la consistente espansione – e con essa la prevedibile istituzionalizzazione – dell’offerta veicolata dalle reti associative, l’indubbia rilevanza che lo sport ha acquistato nell’agenda politica dei poteri locali, in Italia come in altri Paesi. In un contesto caratterizzato dal declino del ruolo ordinativo del sistema federale di prestazione, dal tracollo finanziario dei concorsi pronostici alla crisi di rappresentatività del Coni. Quelle che si sono modificate, in sostanza, sono le tradizionali modalità di offerta della pratica sportiva italiana. Le turbolenze che hanno interessato le serie maggiori del calcio professionistico alla vigilia dei 8
campionati 2002/03 e 2003/04, al di là delle specifiche (e in sé poco edificanti) vicende che hanno evidenziato, costituiscono anche la dimostrazione del collasso di un ormai anacronistico sistema di organizzazione e gestione del “grande sport”. I cui effetti critici si riverberano sul sistema sportivo tout court, compreso appunto l’ambito della pratica amatoriale e dilettantistica. Analizzare il caso torinese alla luce del sistema sportivo urbano significa perciò impegnarsi a far interagire attori e processi, così come ci sono consegnati (1) dalle testimonianze degli opinion leader locali, (2) dall’autoriflessione degli attori coinvolti, stimolata attraverso il ricorso ai focus group e (3) dall’esame della storia politico-amministrativa, la cosiddetta letteratura grigia che dovrebbe fare da sfondo a ogni indagine di questo genere. Per certi aspetti, ricostruire la storia e le pratiche dello sport locale in un contesto urbano così ricco di cronache e di memorie e insieme così esposto a dinamiche di trasformazioni, significa anche individuare un potenziale punto di osservazione per indagare le più complessive dinamiche socioculturali. Il caso di Torino, ad esempio, è stato a lungo indagato dalle scienze sociali e dagli studi demografici come un caso di declino urbano, così come le ricerche degli anni Settanta e, più tardi, l’importante riflessione di Cheshire e Hay (1989) ce lo hanno descritto. Secondo questo approccio, esiste in Europa occidentale una fascia di città di più antica industrializzazione che da Torino e Genova, procedendo verso nord, comprende la Francia nord-orientale, le regioni tedesche della Saar e della Ruhr e l’Inghilterra settentrionale, per spingersi sino a Glascow e Belfast. È quella che viene chiamata la striscia del malessere demografico, per quel crescente declino della natalità che, da circa trent’anni a questa parte, si accompagna alla contrazione del settore manifatturiero, non compensata dallo sviluppo del settore terziario. Torino e la sua provincia rappresentano però anche un caso che non è del tutto assimilabile a quello della maggior parte dei sistemi urbani sopra elencati. Perché a Torino è attiva, malgrado il declino demografico e il crescente ridimensionamento del settore manifatturiero, una dinamica che andrebbe più propriamente definita di conurbazione. Un sistema, cioè, in cui l’agglomerazione urbana possiede leggibili gerarchie interne, come dimostra il fatto che il centro capoluogo conservi un forte potere direzionale anche nella sofferta transizione a un’economia di servizi. La città di Torino, in tal senso, assolve virtualmente un ruolo strategico di collegamento e di collaborazione nell’ambito della filiera istituzionale dei poteri territoriali. Un importante banco di prova è rappresentato, in tal senso, proprio dalla preparazione di un evento sportivo di prima grandezza e che interessa l’ambito provinciale: le Olimpiadi invernali del 2006. Afferma Patrizia Alfano, presidente provinciale UISP Torino: “Torino, come dire, ha questa caratteristica di città di riferimento di tutta la regione non solo della provincia, è come una regione che ha un’unica grande città e tanti paesi. Torino però è anche un grande punto di riferimento sia dal punto di vista lavorativo sia delle università; […] ogni 9
mattina arrivano migliaia e migliaia di pendolari che la sera se ne ritornano. Le attività produttive sono concentrate prevalentemente nella città, quindi tutto quello che noi riusciamo a produrre a Torino a livello di progetti di visibilità d’immagine ha una ricaduta sulla provincia. Lo dimostra il fatto che in provincia ci siano dei comitati che lavorano capillarmente sul territorio”. Se Torino non è più (se mai lo è stata) riducibile al puro paradigma della one company town, l’area provinciale si configura come un’unità spaziale urbana gerarchizzata, ma anche potenzialmente aperta alla sperimentazione di un sistema reticolare. Ciò smentendo, almeno in parte, la tipologia dei sistemi urbani che - sulla base di un modello matematico elaborato nel 1991 dal Governo olandese (Ministero dell’Ambiente) collocava Torino nella “terza fascia” delle metropoli europee. Quella denominata delle eurocittà, il cui ruolo sulla scena internazionale sarebbe limitato ad alcune peculiari funzioni. (1) La diffusione sociale dello sport negli ultimi venti-trent’anni e i mutamenti culturali che l’hanno caratterizzata rispetto al vecchio paradigma, centrato sul primato dell’agonismo tradizionale, concorrono a disegnare il profilo di una relazione sociologicamente significativa fra metropoli e hinterland. Una relazione che presenta, però, caratteri problematici ancora in parte da approfondire. L’analisi delle politiche locali è uno strumento prezioso per ricostruire le dinamiche di mutamento che sono intervenute nel tempo in questo peculiare rapporto fra centro metropolitano e contesto urbanizzato a perimetro provinciale. Le politiche locali - non necessariamente e non esclusivamente quelle a sostegno della pratica sportiva - disegnano infatti il profilo e le gerarchie dell’attenzione che le istituzioni amministrative hanno, o non hanno, conferito al fenomeno nell’arco temporale che va, grosso modo, dalla metà degli anni Settanta a oggi. I soggetti organizzati che hanno cercato di interpretare e sviluppare strategie più o meno orientate alle nuove culture dello sport e della corporeità - dal circuito profit all’associazionismo di sport per tutti, sino alle strutture tradizionali afferenti alle istituzioni militari, religiose, aziendali o universitarie costituiscono attori niente affatto secondari delle trasformazioni sociali proprie dei nuovi sistemi urbani. È un aspetto che viene ormai sottolineato non solo dagli studiosi del fenomeno sportivo, ma dagli stessi ricercatori interessati ad aggiornare le categorie di analisi e le tipologie descrittive dei sistemi territoriali. Sotto il profilo politologico, si tratta di un’interazione fra mutamento socioculturale, politiche istituzionali e azione di soggetti specializzati che rinvia alla categoria di Welfare Mix. Cioè a quel fenomeno di progressiva strutturazione a rete di un sistema di relazioni politiche, sociali e istituzionali sempre più complesso, in cui le politiche pubbliche sviluppate a raggio locale divengono il prodotto a responsabilità e gestione condivisa di attori diversi. Riservando ai poteri amministrativi la funzione nevralgica, ordinamentale e di indirizzo, delle politiche, ma declinandola sempre più come il prodotto di una costante e flessibile azione di mediazione culturale. 10
2. Le nuove tipologie della pratica. Lo sport è una politica di seconda generazione? Prima di rapportarci alle indicazioni che emergono dagli allegati di ricerca, occorre forse richiamare qualche dato complessivo sulla pratica sportiva e l’attività fisico- motoria in Italia. A evitare una lunga e complicata dissertazione sui controversi criteri e le metodologie di rilevazione della pratica sportiva diffusa, faremo riferimento soltanto ai dati più recenti e alla sola fonte ufficiale giudicata in qualche modo supra partes. Sono i dati ricavabili dall’indagine “I cittadini e il tempo libero”, realizzata dall’Istat nel dicembre 2000 (report on line, febbraio 2003) intervistando un campione rappresentativo di famiglie italiane, pari alla ragguardevole cifra di ventimila unità. L’interesse di tale indagine ai nostri fini consiste nel fatto che l’Istat ha deliberatamente escluso tutti i soggetti in qualche modo “professionali” - non solo gli atleti dello sport spettacolo, ma anche docenti e allenatori, tecnici e manager -, per concentrarsi esclusivamente sulla popolazione di età superiore ai tre anni e sulle eventuali modalità di esercizio-fruizione dell’attività sportiva e fisico-motoria. In senso generale, possiamo perciò considerare lo spaccato che l’Istat ci consegna come un primo, importante tentativo, di disegnare il perimetro sociale dello sport per tutti italiano. Gli intervistati che dichiaravano di praticare qualche attività erano invitati ad autocollocarsi entro una delle due tipologie di pratica proposte: quella dei praticanti con continuità e quella dei praticanti saltuari. È interessante sottolineare le implicazioni del metodo della autoclassificazione. Infatti, non fornendo alcun riferimento descrittivo ai concetti di continuità e saltuarietà, si è prodotta una radiografia implicita del significato che ciascun intervistato attribuisce alla propria idea di sport. Significato sociologico e psicologico che non necessariamente coincide con una definizione procedurale e formale, la quale è invece essenziale per una rappresentazione statistico-descrittiva. Oppure, viceversa, per monitorare le esigenze dello sport di prestazione ad alto contenuto tecnico in una prospettiva puramente empirico-strumentale. Solo successivamente si chiedeva, infatti, quanti allenamenti a settimana venissero sostenuti, se l’intervistato prendesse abitualmente parte a competizioni di varia natura, se fosse affiliato a qualche società e altre informazioni utili come indicatori di partecipazione strutturata. L’ipotesi di lavoro che qui si vorrebbe avanzare è che, in qualche modo, i dati percettivi - o meglio: autopercettivi - posseggano anche in questo caso una forte valenza ottativa. Registrino, cioè, non solo le soggettive rappresentazioni degli intervistati, ma anche l’aspirazione dei cittadini non atleti ad attribuire senso e valore all’impiego del tempo libero. E, con esso, al rapporto con il corpo, alla prassi della prevenzione sanitaria, alla ricerca del benessere e del relax, alla sperimentazione di forme originali di socialità. A tutto quello, insomma, che compone l’universo variegato delle domande collettive e delle aspettative individuali che allo sport per tutti si rivolgono nelle cosiddette società affluenti. 11
Ciò pone sicuramente ai poteri locali, soggetto-oggetto delle strategie di conversione del Welfare, una sollecitazione a pensare le politiche per lo sport come vere e proprie politiche di seconda generazione. Formula di derivazione politologica con cui si indicano strategie orientate al risultato e frutto di una sistematica concertazione fra soggetti differenziati, come appunto nella filosofia del Welfare Mix cui sopra si è fatto cenno. Per questo ci pare importante il taglio conferito dall’Istat alla sua rilevazione. Indirettamente, essa ci disegna il panorama - insieme reale e virtuale - dello sport dell’inclusione (lo sport dei cittadini), differenziandolo concettualmente dallo sport della selezione. Quello, cioè, che si fonda sulla valorizzazione del talento naturale, sull’ottimizzazione ai fini del risultato delle risorse piscofisiche dell’atleta, sul primato delle esperienze di rendimento tecnicamente verificabile. Strategie connesse all’agonismo di livello, che non solo esprime e intercetta i bisogni individuali degli atleti, e con essi formidabili ed estese passioni popolari, ma che contiene una rispettabile valenza pedagogica. Esperienza, però, che non sembra più possedere alcuna significativa connessione con l’esperienza dello sport di prestazione relativa, che abbiamo convenzionalmente identificato come sport dell’inclusione. Ai ricercatori dell’Istat l’universo sociale del Paese appare grosso modo diviso in tre aree di dimensioni comparabili. Il 30,1% della popolazione italiana censita ai fini della ricerca (16.700.000 cittadini) si considera praticante, in forma continuativa o saltuaria. I continuativi da soli rappresentano il 20,3% dell’intero universo e i saltuari il 9,8%. Poco meno di un terzo del totale - per la precisione il 31,3%, pari a quasi 17.400.000 italiani -, pur non considerandosi praticanti “sportivi” in senso proprio, dichiarano di partecipare di una qualche forma di cultura del movimento. È il popolo di chi, quando può, preferisce una sana camminata all’uso dell’automobile. Il popolo dei ciclisti domenicali, degli appassionati delle settimane bianche o delle escursioni velistiche. Il popolo delle famiglie che praticano equitazione di campagna, dei subacquei o dei meno ambiziosi cercatori di funghi. I sedentari irriducibili, vale a dire quanti per scelta o per necessità (età avanzata, forme di invalidità o altro) dichiarano di non praticare alcuna modalità di sport e alcuna forma di attività fisica, sono il 38.6% della popolazione. Corrispondente a 21.400.000 cittadini. Una cifra elevata, anzi fra le più elevate in Europa occidentale, ma pur sempre una minoranza rispetto all’universo degli attivi, che si avvicina ormai a rappresentare i due terzi della popolazione italiana. Va anche considerato che i picchi più alti di inattività si registrano, come prevedibile, fra i bambini di età compresa fra i tre e i cinque anni e fra gli ultrasessantacinquenni. Dato, quest’ultimo, che possiede un’incidenza significativa in presenza del continuo aumento dell’età media. Interessante è la scomposizione dei dati per genere. I maschi continuano a prevalere fra gli sportivi in senso stretto. Circa il 37.8% della popolazione maschile complessiva dichiara di praticare continuativamente o saltuariamente uno o più sport. 12
Le donne sportive, in questo ambito, non vanno oltre il 22,7% dell’intero universo femminile. (2) Questa relazione, però, si rovescia se consideriamo non più gli sportivi, ma i semplicemente attivi. Si dichiarano attive il 33.6% delle donne e appena il 28.8% degli uomini. Cumulando sportivi e attivi, la distanza fra i generi appare enormemente ridotta rispetto a pochi decenni or sono. A due terzi di maschi corrisponde un non trascurabile 56.3% di donne in qualche modo attive, anche se le modalità appaiono differenziate: ancora più inclini i primi all’esperienza agonistica, che - per scelta o per necessità - coinvolge di meno le donne. Altrettanto significativo è il divario territoriale: gli sportivi raggiungono il 38% nel Nord-est e il 34.2% nel Nord-ovest, per attestarsi al 30.7% nelle regioni centrali e precipitare al 23% di Sud e isole. Aggregando sportivi e attivi, il Nord-est sfiora i tre quarti della popolazione e il Nord-ovest raggiunge il 70% - valori del tutto paragonabili a quelli dei Paesi di più antica e diffusa sportivizzazione, come la Scandinavia -, mentre Sud e isole non superano la metà della popolazione complessiva. Può essere utile osservare alcuni riferimenti statistici che riguardano da vicino la nostra ricerca. Il primo concerne l’area regionale piemontese e l’ampiezza della pratica sportiva (continuativa o saltuaria). Il valore censito dall’Istat colloca il Piemonte leggermente sopra la media nazionale: 33% di praticanti - contro il 30,1% della media nazionale -, ripartiti in un 21.1 di “continuativi” e in un 11,9 di “saltuari”. La popolazione genericamente attiva si situa anch’essa un po’ sopra la media nazionale: 33,4% contro 31,3. Ne risulta una minore consistenza percentuale dei sedentari (33.5% contro 38,6). Leggendo questi dati sinotticamente, colpisce la quasi perfetta distribuzione in tre aree di pari peso demografico. Il dato va però integrato con altre due osservazioni: (i) a fronte di una leggera sovrarappresentazione della popolazione complessivamente attiva rispetto alla media nazionale, l’area piemontese risulta leggermente più incline alla sedentarietà rispetto al comparto territoriale del Nord-ovest complessivamente considerato; (ii) comparando i dati relativi ai livelli di pratica fra quello che l’Istat definisce comune centro (nel caso in esame, Torino città) e la “periferia”, si manifesta, come ovunque in Italia, uno scarto non trascurabile a favore di quest’ultima. Pur esulando dai confini della nostra indagine, anche i dati relativi alla pratica agonistica strutturata che l’inchiesta demoscopica Istat ci consegna meritano qualche breve riflessione d’insieme. Si conferma, intanto, che la sportivizzazione degli italiani - attribuendo a questa definizione una latitudine sociologica diversa rispetto a quella, più riduttiva, offerta da storici e politologi (Porro, 2001) - prosegue a ritmi consistenti. In soli cinque anni, fra il 1995 e il 2000, i praticanti crescono di 3.4 punti percentuali, con un aumento più netto in quota di composizione dei praticanti continuativi rispetto ai saltuari e delle donne rispetto agli uomini. Altrettanto interessante è constatare come la maggiore propensione alla pratica riguardi indistintamente tutte le fasce d’età, con un picco di crescita particolarmente accentuato nella classe d’età compresa fra i 15 e i 17 anni (addirittura 9.5% in più nel quinquennio considerato). Ancora: la crescita nella 13
popolazione maschile si concentra fra i più giovani e nella classe d’età compresa fra i 55 e i 59 anni. Fra le donne la tendenza è a una consistente anticipazione dell’accesso (bambine) e a un picco nella fascia d’età fra i 15 e i 19 anni. A livello territoriale, però, l’intero Nord-ovest registra valori di crescita assai inferiori al Nord-est (2% contro 5.5) e allo stesso Centro-sud (3.5%). Da approfondire il profilo delle tipologie della pratica. Le attività meno impegnative (pratica saltuaria o del tempo libero) perdono peso rispetto a quelle più strutturate in senso agonistico. Disomogeneo risulta, invece, il profilo della sedentarietà, che nell’arco temporale osservato cresce fra gli uomini e diminuisce fra le donne. I sedentari aumentano, in particolare, nelle classi d’età centrali (18-54 anni), mentre diminuiscono fra i più giovani e i più anziani. Osservando poi la frequenza delle attività, risultano essere complessivamente 23 milioni gli italiani che dichiarano di allenarsi, o comunque di esercitare con relativa continuità qualche attività fisico-motoria, almeno una volta a settimana. Essi costituiscono il 41.3% della popolazione di riferimento, vale a dire i due terzi del totale degli sportivi e degli “attivi”, con una persistente prevalenza maschile. Sono 12.330.000 i maschi impegnati (il 45.5% della popolazione maschile considerata) contro 10.670.000 donne (il 37.2% della popolazione femminile considerata). Il Piemonte presenta anche in questo caso un valore medio di pratica relativamente continuativa di poco superiore al dato nazionale (43.5% contro 41.3), ma abbastanza distante da quello relativo all’area forte del sistema, cioè il Nord-est (il Trentino Alto Adige si attesta su un valore di 64.6, il Veneto è al 53.2). (3) Già questa radiografia pone all’agenda delle politiche locali una serie di possibili priorità e alcuni interrogativi da sciogliere: 1. il minor tasso di pratica sportiva femminile, pur in presenza di una forte espansione complessiva del tasso di generica attività fisica delle donne, risponde a una modalità culturale (per esempio una minore propensione per le specialità a più elevato contenuto agonistico) o non riflette, invece, un persistente svantaggio legato a condizioni oggettive? Per esempio, a esigenze di cura famigliare non sufficientemente supportate dalle strutture pubbliche o a un’organizzazione dell’offerta sportiva (orari e tipologie di funzionamento di impianti e simili) che continua a svantaggiare l’universo femminile? Spiega a tale proposito Massimo Sacco Presidente provinciale CSI Torino che: “Anche l’accesso allo sport riflette, insomma, i problemi più acuti del vivere civile. Penalizzando soprattutto quei soggetti, come le donne, che sperimentano di necessità una continua intersezione fra ruoli familiari e professionali”. 2. Come mai bambini e anziani italiani sono, in quota di composizione, meno rappresentati nel sistema sportivo di quanto non avvenga in altri Paesi sviluppati, mentre lo scarto fra l’Italia e le esperienze più evolute si è – almeno nelle regioni centro-settentrionali - quasi completamente annullato nelle classi centrali di età? È possibile che esistano ancora ragioni strutturali - legate alla quantità e qualità di 14
un’offerta specializzata o comunque “dedicata” - cui magari si sommano, nelle fasce più anziane, eredità culturali non favorenti? 3. Si è posta sufficiente attenzione alla comparazione dei livelli di attività fra comune capoluogo e hinterland? In particolare, non varrebbe la pena di interrogarsi sul divario a favore della periferia fra pratica di prestazione relativa (sportivi saltuari) e attività fisica, da un lato, e totale sedentarietà, dall’altro? Ciò mentre i livelli della prestazione assoluta (sportivi continuativi) appaiono assolutamente sovrapponibili. Con il risultato di rappresentarci il sistema sportivo torinese metropolitano - esattamente come quello romano, milanese ecc. - molto più polarizzato ai due estremi dello sport di prestazione e della sedentarietà rispetto a quello dell’hinterland. Esiste forse un “problema metropolitano” legato alla tipologia di offerta, alle distanze e ai tempi di percorrenza? 4. I dati comparativi per aree territoriali e per fasce d’età segnalano come il Nord- ovest faccia registrare un minore incremento nei valori 2000 rispetto a quelli di cinque anni prima. Stimando in dettaglio la pratica continuativa (sia sportiva sia di puro loisir) abbiamo anche osservato come il Piemonte presenti tassi di pratica diffusa mediamente elevati, ma ancora lontani da quelli ormai consolidati nelle aree più sviluppate. Quanto influisce un fattore strutturale, come il declino demografico, che fa delle aree nord-occidentali del Paese quelle più interessate dagli effetti sociali dell’invecchiamento della popolazione? E quanto incide, se incide, una configurazione troppo tradizionale dell’offerta nei contesti regionali - come il Nord- ovest - che sono stati storicamente considerati i territori incubatrice della sportivizzazione nazionale? In ogni caso, si pone evidentemente un problema di adeguamento e forse di riorientamento dell’offerta di pratica. In questa prospettiva, a Torino, un’associazione di sport per tutti come la UISP si sforza di ripensare se stessa come alternativa al privato sportivo. Patrizia Alfano, presidente del comitato provinciale, ci spiega che “il fenomeno delle palestre private è principalmente rivolto agli adulti. Perché i giovani non le frequentano sono pochissimi i giovani che vanno nelle palestre private […] le palestre di fitness hanno obiettivi puramente salutistici ed estetici che aggregano in modo abbastanza, come dire, superficiale. […] invece quello su cui noi lavoriamo da anni e che dà dei risultati è la continuità, cioè il creare un senso di appartenenza e di affezione alla pratica sportiva. […] Perché tu offri una serie di occasioni che creano la continuità il senso di appartenenza, la voglia di praticare sport e di non smettere mai. C’è un discorso di amore per l’attività […] c’è un gruppo di gente che si ritrova tutte le volte alla stessa ora allo stesso giorno, chiacchiera con l’istruttore e fa attività cioè proprio un’altra dimensione che io credo ancora assolutamente valida e importante”. Un approccio, come si può constatare, che si colloca agli antipodi della filosofia del personal training o dei programmi individualizzati da eseguire in perfetta solitudine, seguendo sul display della macchina le istruzioni contenute in una chiavetta informatizzata. Bisogna però, contemporaneamente, tener d’occhio la scomposizione interna degli universi di riferimento. I maschi anziani sembrano più disponibili a cimentarsi con qualche forma di attività, ma non va dimenticato come fra le donne - che godono di 15
una maggiore aspettativa di vita - siano proporzionalmente più incidenti le fasce d’età molto anziane (sopra gli ottant’anni). 5. Un’altra questione riguarda la valorizzazione, nel generale panorama dell’offerta, di soggetti organizzati la cui missione sia chiaramente e preferenzialmente connessa allo sviluppo e alla qualificazione della pratica nei settori sociali e nei contesti demografici ancora meno rappresentati. Le politiche locali di settore hanno mai provato a curvare in tale direzione le loro iniziative? A tale proposito, disponiamo di alcune testimonianze interessanti. Sostiene ancora, ad esempio, Patrizia Alfano: “Negli anni è successo questo: lo sport è stato affidato a Torino per molti anni a un grande assessorato, con grandi risorse […] dove lo sport aveva un buon capitolo, aveva un buon budget e questo ci ha permesso di proporre tantissimi progetti e di vederli approvati e finanziati. Ad un certo punto della nostra storia lo sport è diventato una delega dell’assessore alla cultura che via via ha ridotto il suo budget. […] nel modificarsi di questa situazione noi abbiamo iniziato ad avere altri referenti per cui lavoriamo tantissimo con l’assessorato all’istruzione e al sistema educativo e con questo assessorato noi realizziamo la maggior parte dei nostri progetti. [Questi vengono finanziati] il primo anno [e consentono] di farlo partire dal secondo [si deve] trovare il sistema per autofinanziare il progetto senza il contributo dell’ente pubblico. E ancora: esiste un ruolo dell’associazionismo di utenza e/o del sistema commerciale? Nel case study di Torino emerge come ci possa essere una sovrapposizione tra questi ultimi due termini. Infatti, una parte delle realtà provinciali sul territorio piemontese presenta un’offerta sportiva simile a quella del sistema commerciale. Ciò accade grazie al fatto che il surplus di progetti sviluppati dalla UISP di Torino si riversa sui territori della provincia che, pur avendo le strutture, mancano di una qualsivoglia progettualità per il loro uso. In tal senso, alcuni dei progetti sviluppati a livello centrale nell’ambito di politiche sportive a carattere sociale si convertono in attività che rientrano a pieno titolo nell’offerta commerciale delle diverse realtà sportive locali. Come afferma la Alfano: “il fatto che in provincia ci siano dei comitati che lavorano capillarmente sul territorio raccoglie molti dei nostri progetti che vengono realizzati poi anche in provincia”. 3. Lo sport degli utenti e lo sport dei cittadini. Qual è l’origine del problema? Il possibile inserimento dello sport fra i temi oggetto di politiche di seconda generazione non costituisce una questione soltanto accademica. Né rappresenta la risposta a un pur legittimo problema di adeguamento e aggiornamento delle tipologie di analisi delle politiche pubbliche. Ovunque, in Europa e nel mondo occidentale, è dagli anni Settanta che, con la crisi della vecchia sovranità statale e con l’emergere di una domanda di nuovo protagonismo da parte dei poteri locali, sono venuti prevalendo i cosiddetti sistemi a rete. In essi, espressione peculiare del cosiddetto Welfare locale, operano decisori pubblici e privati e convivono missioni istituzionali diverse e perciò bisognose di livelli di regolazione e integrazione. 16
“Le associazioni diventano nodo di una rete che coinvolge i cittadini in tutte le opere di ristrutturazione li tiene informati li accompagna”, ci dice Patrizia Alfano. Quelle che abbiamo definito politiche di seconda generazione, a ben vedere, altro non sono che l’espressione di una nuova configurazione del classico Stato sociale. Meglio: esse esprimono logiche di azione e di produzione normativa che rimandano alla categoria di Welfare Mix, come è stata teorizzata, agli inizi degli anni Novanta, da autori come Everts e Wintersberger (1990). La crisi fiscale dello Stato e l’affermarsi di modelli di amministrazione pubblica ispirati alle competenze di settore anziché ai ruoli burocraticamente determinati costituiscono i principali, anche se non esclusivi, fattori di sviluppo del Welfare Mix. Contrarre la spesa pubblica e superare la logica di gestione fondata sulla figura dei funzionari generalisti sono, del resto, due dei principali requisiti per il passaggio a un sistema a rete. Le politiche di seconda generazione sono il prodotto di questa trasformazione sia del Welfare sia dell’Amministrazione pubblica. Il Welfare Mix possiede come fondamentale requisito attuativo la presenza sullo scacchiere del sistema sociale urbano di attori organizzativi capaci non solo di soddisfare domande di committenza pubblica, ma anche di concorrere alla produzione delle politiche locali di settore. Questo significa operare nella logica del governo e/o della gestione ad hoc. Ovvero elaborare il significato, interpretare – e non solo organizzare con efficienza sul piano amministrativo, tecnico e gestionale - un complesso e ambizioso programma olimpico (Torino 2006), cioè un evento connotato per definizione in chiave agonistico-spettacolare. Ma significa, anche, sperimentare nell’azione quotidiana l’esercizio di diritti di cittadinanza che lo Stato sociale classico non aveva in passato mai compiutamente inserito nell’agenda politica. Lo sport per tutti appartiene a questo ambito di azione ed esige livelli di attenzione specifica da parte di attori plurimi: sedi amministrative deputate, organizzazioni di Terzo settore, associazionismo sportivo, movimenti di utenza. Ciò consente di prefigurare, per il governo e la valorizzazione della domanda di sport orientato alla prestazione relativa, l’adozione di strategie di azione e implementazione che si rifanno precisamente al paradigma e alle procedure delle politiche di seconda generazione. Ancora la Alfano ricostruisce, nello specifico della UISP, la risposta di un’importante associazione di sport per tutti alla richiesta di collaborazione avanzata dalle istituzioni: “…c’è stato un progetto [sull’intera provincia], realizzato dalla provincia per una cooperativa della Uisp che era la Quadrifoglio, uno dei primi progetti che offriva un percorso formativo di eventi sportivi per i ragazzi del 2006. [Il progetto successivo] diviso in territori [Ivrea, Pinerolese, ecc.] [in questo progetto] abbiamo girato tutta le palestre della provincia, il palazzetto dello sport di Torino per fare un percorso formativo con questi ragazzi, che li ha visti poi protagonisti al Vivicittà. […] Hanno imparato come si fa una manifestazione come si organizza come si anima; per un po’ di mesi hanno lavorato a questo e il giorno di Vivicittà sono arrivati alle 4 del mattino con i nostri volontari si son divertiti da matti […] e qui noi abbiamo fatto la formazione dei ragazzi di Torino del 2006, altro sulle Olimpiadi a Torino – almeno in quella fase - non c’era.” 17
Ma le pratiche e le strategie di Welfare Mix, con il loro corollario operativo – le politiche di seconda generazione – non vanno ridotte alla cooperazione, più o meno strutturata, che gli attori coinvolti istituiscono in occasione di eventi speciali, come le Olimpiadi. Anche sul terreno della prassi amministrativa corrente, ad esempio, si sviluppano – a partire dai primi anni Novanta – esperienze inedite per l’ordinamento amministrativo e la cultura gestionale dell’Amministrazione pubblica italiana. E’ il caso delle carte dei servizi, che cominciano a dare concretezza all’idea di passare da amministrazioni di regole – preoccupata di produrre leggi, norme e procedure – ad amministrazioni di risultato, chiamate a rispondere di qualità e costi del servizio erogato. È la filosofia che in quegli stessi anni, negli Usa, cerca di applicare l’amministrazione Clinton, il cui manifesto programmatico può essere contenuto nei dieci principi del governo imprenditoriale e nell’idea di “reinventare il governo” suggerita da Osborne e Gaebler (1992). Alla base della filosofia dell’azione pubblica di Osborne e Gaebler c’è una radicale riformulazione della questione. Posti di fronte a un dilemma organizzativo o all’esigenza di far fronte a una situazione critica, non ci si chiede più “qual è il problema?” - questione di cui ci siamo occupati alla fine del precedente paragrafo - bensì “qual è la sua origine?”. Anche qui non si tratta di una pura innovazione teorico-metodologica. L’idea forza è che, nelle questioni connesse all’amministrazione della cosa pubblica, l’origine del problema consista sempre, inevitabilmente, nelle resistenze opposte all’innovazione da strutture o vincoli organizzativi propri della macchina burocratica. Non, cioè, nel consapevole boicottaggio dei funzionari o in carenze, limiti, errate interpretazioni dei ruoli o delle mansioni. E neppure principalmente nella ristrettezza delle risorse tecniche, finanziarie od organizzative. Tutti questi fattori, se presenti, possono concorrere a produrre la vischiosità del sistema e a compromettere il successo dei tentativi di cambiamento. Ma il vero nodo della questione sta, per Osborne e Gaebler, nell’intrinseca rappresentazione del ruolo sociale della sfera pubblica. Prima della lealtà e la professionalità degli operatori e dell’efficienza della macchina gestionale, viene l’esigenza di ripensare il sistema in quanto tale. Nella logica della burocrazia pubblica di Stato, questo sistema era stato ideato per contrastare, inibire o quantomeno depotenziare l’innovazione. In quanto titolare del potere amministrativo e soggetto monopolista delle politiche pubbliche, lo Stato Nazione di matrice ottocentesca si preoccupava di garantire l’imparzialità delle procedure, la stabilità degli equilibri istituzionali, la riproduzione nel tempo della “prassi consolidata”. La domanda di innovazione poteva intervenire solo da un ambiente esterno – si trattasse del mercato o dei movimenti sociali - e tradursi, attraverso le opportune mediazioni legislative e normative, in adeguamenti (quasi sempre tardivi e parziali) delle routine operative. L’adozione di una prassi ispirata alle politiche di seconda generazione sconvolge questo paradigma perché concepisce anche l’amministrazione pubblica come soggetto, oltre che come oggetto, di sperimentazione orientata all’innovazione. Di qui il prevedibile prodursi di tensioni, conflitti e stress organizzativo. Domandarsi quale sia l’origine del problema non significa altro, perciò, che trasferire nell’analisi dei singoli casi concreti – cioè sottoporre a un processo di contestualizzazione – il 18
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