Le atmosfere degli esopianeti: il caso di L 98-59
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” Scuola Politecnica e delle Scienze di Base Area Didattica di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali Dipartimento di Fisica “Ettore Pancini” Laurea Triennale in Fisica Le atmosfere degli esopianeti: il caso di L 98-59 Relatore: Candidato: Prof. Giovanni Covone Giovanni Pallotta Matr. N85001271 Anno Accademico 2020/2021
Contents Introduzione 3 1 L’atmosfera degli esopianeti 5 1.1 Sistemi planetari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 1.2 Metodi di rivelazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 1.2.1 Microlensing gravitazionale . . . . . . . . . . . . . . . . 6 1.2.2 Transito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 1.2.3 Variazione del tempo di transito . . . . . . . . . . . . 8 1.2.4 Metodo delle velocità radiali . . . . . . . . . . . . . . 8 1.3 Formazione dei sistemi planetari . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 1.3.1 Formazione del disco protoplanetario. . . . . . . . . . . 11 1.3.2 Sviluppo dei planetesimali . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.3.3 Nascita dei pianeti gioviani e snow line . . . . . . . . 12 1.3.4 Nascita dei pianeti terrestri . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.4 Caratteristiche generali nelle atmosfere degli esopianeti . . . . 14 1.4.1 Abitabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 1.4.2 Temperatura ed effetto serra . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.4.3 Evoluzione delle atmosfere planetarie . . . . . . . . . . 17 1.4.4 Fuga atmosferica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 1.5 Atmosfere di pianeti del sistema solare . . . . . . . . . . . . . 19 1.5.1 Mercurio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 1.5.2 Venere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 1.5.3 Marte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 1.5.4 Giove e Saturno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 1.5.5 Nettuno e Urano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 1.5.6 L’esempio di HD 209458 b . . . . . . . . . . . . . . . . 22 2 Il Planetary Spectrum Generator 24 2.1 Funzionalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 2.2 Modellizazione fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 2.2.1 Trasferimento radiativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 1
CONTENTS 2.2.2 Condizione di equilibrio locale termodinamico . . . . . 27 2.2.3 Modelli di riferimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 2.3 Il James Webb Space Telescope . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 3 Il sistema planetario L98-59 31 3.1 Parametri stellari e planetari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 3.2 Composizioni atmosferiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 3.3 Analisi strumentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.3.1 Rumore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.3.2 Parametri di input strumentali . . . . . . . . . . . . . 36 3.3.3 Scansione spaziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 3.4 Spettroscopia atmosferica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 3.4.1 Analisi di atmosfera a basso peso molecolare . . . . . . 36 3.4.2 Analisi della presenza di H2 O con N2 dominante . . . . 38 3.4.3 Analisi della presenza di CO2 in atmosfera con forte effetto serra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 Conclusioni 43 2
Introduzione "Siamo soli nell’universo?". Questa è una delle domande che da tempo at- tanaglia l’essere umano sulla condizione di unicità del pianeta Terra, immerso in un universo denso di corpi celesti molto diversi fra loroi. All’interno del mondo scientifico, si allargano gli orizzonti di esplorazione che nascono da questa domanda: la Terra è unica nel suo genere? Esistono sistemi planetari in grado di ospitare forme di vita? Quali sono le caratteristiche dei pianeti extrasolari? La Fisica degli Esopianeti pone come suoi obiettivi primari la ricerca di pianeti al di fuori del nostro sistema solare, gli esopianeti, e il loro studio, con tecniche sempre più efficaci e tecnologicamente avanzate. Nel 1992, Alexander Wolszezan e Dale Frail, tramite il Radiotelescopio di Ar- ceibo in Porto Rico, arrivarono alla scoperta del primo sistema planetario mai osservato. Si tratta di un sistema orbitante attorno a PSR B1257+12, una pulsar millisecondo, composto da tre pianeti di massa circa pari a quella terrestre. Wolszezan e Frail si accorsero della presenza dei pianeti osservando la variazione dell’emissione estremamente regolare di onde radio proveniente dalla pulsar, uno dei primi metodi di rilevazione di oggetti ruotanti attorno ad un corpo luminoso. Tre anni dopo, nell’ Ottobre del 1995, Michel Mayor e Didier Queloz annunciarono la scoperta di 51 Pegasi b, un pianeta orbi- tante attorno a una nana gialla, 51 Pegasi, nella costellazione di Pegaso. La scoperta ha rappresentato la prima individuazione di un esopianeta orbitante attorno ad una stella della sequenza principale. Ad oggi, a circa venticinque anni di distanza, sono circa 4700 gli esopianeti scoperti, con evidenze di più di 700 sistemi stellari composti da più di un pianeta. Le tecniche di riv- elazione esoplanetarie, come il microlensing gravitazionale, il metodo della velocità radiale o il metodo del transito, sono diventate sempre più precise e numerose, permettendo all’uomo una visione più ampia del nostro universo. L’incredibile evoluzione di questa branca in poco tempo denota anche un accrescimento delle conoscenze riguardo le caratteristiche degli esopianeti in- dividuati. Sono molti i campi di ricerca attivi in questo momento mirati a studiare le più disparate proprietà esoplanetarie. Uno di questi campi è lo studio delle atmosfere degli esopianeti, l’argomento di questo lavoro di 3
tesi. L’evoluzione di questa branca è accompagnata dall’esponenziale ac- crescimento tecnologico avvenuto in questi anni. Uno dei più grandi tele- scopi mai ideati e lanciati nello spazio, il JWST, è pronto per essere spedito, nell’Ottobre 2021, e osservare e studiare le atmosfere di numerosi esopianeti, oltre che effettuare misurazioni per molti altri campi di ricerca, dalla fisica delle galassie alla cosmologia. In questo lavoro si studieranno tre possibili configurazioni atmosferiche nel sistema planetario L 98-59, uno dei primi sistemi che verrà osservato dal James Webb Space Telescope. Nel primo capitolo sono esposte le teorie fisiche di base sulla formazione, l’evoluzione e il funzionamento dei sistemi planetari, oltre che sulle teorie più importanti della fisica dell’atmosfera. Nel secondo capitolo viene esposto il funzionamento del Planetary Spectrum Generator, il programma utilizzato per generare la spettroscopia delle atmosfere dei pianeti in analisi e vengono esposte le teorie del trasferimento radiativo con cui il programma studia l’interazione tra radiazione e atmosfera. Infine, nel terzo e ultimo capitolo vengono dichiarate le motivazioni alla base della scelta nell’analizzare questo particolare sistema planetario e viene esposto il set di dati d’analisi scelto per i pianeti, con tutte le caratteristiche geometriche, atmosferiche e d’osservazione. Infine vengono analizzati i grafici simulati dal programma ed esposte le considerazioni finali sui risultati ottenuti. 4
Chapter 1 L’atmosfera degli esopianeti Lo strato di gas che circonda un corpo celeste, la sua Atmosfera, è il risultato di miliardi di anni di incessanti trasformazioni del sistema in cui il corpo è inserito. I processi fisici governanti queste lunghe e complesse trasformazioni sono numerosissimi e della natura più diversa. Nell’affrontare la descrizione dei processi di formazione delle atmosfere, della loro composizione e dei mec- canismi che ne regolano il loro funzionamento, è preferibile concentrarsi pre- liminarmente sull’evoluzione e la formazione dei sistemi planetari. Questi ultimi sono indissolubilmente legati alla maniera in cui le atmosfere si pre- sentano attualmente. 1.1 Sistemi planetari La definizione data dall’Unione Astronomica Internazionale di pianeta è un corpo celeste che orbita attorno a una stella, ma differentemente da questa non produce energia tramite fusione nucleare. La sua massa è sufficiente a conferirgli una forma sferoidale e la propria dominanza gravitazionale gli per- mette di mantenere libera la sua fascia gravitazionale da corpi di dimensioni comparabili o superiori Cheli (206). Il concetto di dominanza gravitazionale è una caratteristica importante introdotta nel 2006 dall’UAI, che distingue i pianeti dai pianeti nani. È la capacità di un pianeta nel suo processo di for- mazione di ripulire le vicinanze orbitali da corpi celesti con masse comparabili tramite il processo di accrezione o del trasferimento di questi ultimi in or- bite non perturbate gravitazionalmente dal pianeta stesso. I pianeti nani alla fine del loro processo di formazione, risultano circondati da corpi celesti non legati gravitazionalmente a loro Cheli (206). Un’importante differenziazione da effettuare sta nelle diversità tra nane brune e pianeti. L’alto numero di esopianeti scoperti negli ultimi decenni ha incrementato la crescita di pianeti 5
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI con masse molto grandi. Le nane brune sono stelle non facenti parti della se- quenza principale, in cui nel processo di contrazione iniziale, la massa non ha permesso il raggiungimento temperature sufficienti per l’innesco della fusione nucleare, ma abbastanza alte da bruciare il deuterio, ≥ 13MJ . D’altronde la massa minima per cui una stella si stabilizza nella fascia più inferiore della sequenza principale è 75MJ Carroll & Ostlie (2017). Una stella di questo tipo, quindi, ha una massa contenuta in questo range di masse, il quale fissa anche l’estremo superiore al di sotto del quale un pianeta con massa grande può essere distinto con sicurezza da una nana bruna. Ad esempio, secondo il NASA Exoplanet Archive, il pianeta più massivo mai registrato è HR 2562 b, di 30 ± 15MJ . Scoperto nel 2016, tramite il Gemini Planet Imager, è stato classificato inizialmente come pianeta. Successivamente, per la sua massa molto alta e per le sue caratteristiche spettrografiche nelle bande K, J e H simili a quelle della transizione L/T per le giovani nane brune, la sua definizione è ancora incerta e dibattuta Konopacky et al., (2016). I pianeti sono i principali costituenti dei sistemi planetari. Un sistema planetario, come definito da Darling, è un sistema di oggetti di natura non stellare gravitazionalmente legati a una stella o a un sistema di stelle. Per sistema planetario si intende un sistema formato da uno o più pianeti. In realtà è molto diversificato il numero di oggetti orbitanti in questi sistemi: pianeti nani, asteroidi, satelliti naturali, comete e dischi di accrescimento, sono solo alcuni degli corpi celesti che troviamo in un sistema planetario. 1.2 Metodi di rivelazione Sono numerosi i metodi adottati per scrutare la volta celeste alla ricerca di esopianeti e sistemi planetari. Le metodologie si dividono in due tipi. Metodi di rilevamento diretti e metodi di rilevamento indiretti. L’osservazione diretta è effettuata ad occhio nudo o tramite telescopi ma non è un metodo molto efficace. La luce riflessa dall’esopianeta viene semplicemente surclassata dalla luminosità della sua stella madre nella maggioranza dei casi. Le osservazioni indirette, quindi, si rivelano fondamentali per l’individuazione e lo studio delle caratteristiche degli esopianeti. Segue una breve descrizione dei metodi più utilizzati negli ultimi decenni, con le statistiche illustrate nella Figura 1. 1.2.1 Microlensing gravitazionale Si studiano gli effetti di una lente gravitazionale, cioè una distribuzione di materia in grado di curvare la traiettoria della luce in transito in modo anal- ogo a una lente ottica. La sua formazione avviene quando una stella massiva 6
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI Figure 1.1: Numero annuo di esopianeti scoperti fino al 2021, con i colori che indicano il relativo metodo: rivelazione diretta (azzurro), microlensing (giallo), transito (verde), veloc- ità radiali (rosso), variazione del tempo di transito (rosa). Credit: Betseg, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons deflette i raggi provenienti da un’altra stella allineata, rispetto all’osservatore, con essa. Il risultato è un incremento della luminosità della stella retrostante. Se la stella che funge da lente ha un pianeta, allora il campo gravitazionale di quest’ultimo provoca un contributo tale da poter essere misurato e studiato, provando la sua presenza. Il metodo è molto efficace e utilizzato per scovare pianeti molto distanti dalla loro stella madre, fino a 1-10 unità astronomiche di orbita. Tramite questo metodo è stato scoperto, nel 2006, tramite il pro- getto PLANET/RoboNet, OGLE-2005-BLG-390Lb, il primo pianeta con una massa relativamente bassa, di 5.5M , ad un orbita ampia dalla sua stella, da 2.0U A a 4.1U A Beaulieu & et al. (2006). 1.2.2 Transito Consistente nell’osservare le variazioni fotometriche nella luminosità della curva di luce di una stella. Quando un pianeta transita davanti alla stella madre, rispetto all’osservatore, provoca una diminuzione della luminosità della stessa, eclissandone una parte con il suo movimento. La variazione è correlata alle dimensioni relative del pianeta, della stella madre e della sua orbita. Definiamo la profondità di transito δ proprio come l’abbassamento della curva di luce in transito. Si può ricavare dal flusso misurato in transito, 7
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI Ftransit , e dal flusso misurato non in transito, Fnotransit : 2 Fnotransit − Ftransit Rp δ= = (1.1) Fnotransit R∗ dove Rp è il raggio del pianeta e R∗ è il raggio della stella madre. Pur essendo un metodo funzionante a grandi distanze dall’osservazione, è necessario che l’orbita del pianeta sia quasi perfettamente allineata con la nostra visuale. Circa il 10% dei pianeti con piccole orbite ha questa proprietà. Un esempio è la scoperta del sistema di HD 209458, nella costellazione di Pegaso. Il pianeta orbitante ha un’orbita di 0.047U A , molto piccola, e oscura la stella dello 2% ogni tre giorni e mezzo, provocando così la diminuzione nella luminosità misurata Castellano, Jenkins, Trilling, Doyle & Koch (2000). 1.2.3 Variazione del tempo di transito È un metodo largamente utilizzato per la ricerca di sistemi planetari con più esopianeti. Si basa sull’osservazione delle variazioni del tempo di transito dell’esopianeta in movimento, rispetto all’osservatore, davanti la stella madre. Nei sistemi strettamente legati, i pianeti esercitano l’uno rispetto all’altro una forza gravitazionale molto forte, causando l’accelerazione di un pianeta e la decelerazione dell’altro ognuno lungo la propria orbita. La variazione di accelerazione provoca un cambiamento della velocità orbitale, che viene misurata e da cui si capisce la presenza di un pianeta aggiuntivo. Il sistema planetario di Kepler-19 è una notevole scoperta raggiunta con questa tecnica. Tramite il telescopio Kepler, vennero osservate nel 2011, variazioni del tempo di transito del pianeta Kepler-19b con ampiezza di 5 minuti e periodo di 300 giorni, mostrando la presenza di un altro pianeta, Kepler-19c Ballard et al., (2011). 1.2.4 Metodo delle velocità radiali Rappresenta uno dei metodi più utilizzati per l’individuazione di pianeti ex- trasolari, tramite il quale sono stati scoperti, ad oggi, circa il 21% degli esopi- aneti individuati. Nel metodo vengono misurate le variazioni della velocità radiale nella stella madre, provocate dalla perturbazione gravitazionale del pianeta orbitante. La presenza di pianeti molto massivi (con massa ≥ 1MJ ) causa un leggero spostamento periodico della stella madre rispetto al centro di massa del sistema. Dall’osservazione dello spettro del sistema, si nota che le linee di emissione o assorbimento risultano leggermente spostate per effetto Doppler. A uno spostamento verso il blu corrisponde una velocità negativa, e la stella è in avvicinamento verso la terra, a uno verso il rosso 8
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI corrisponde una velocità positiva, e la stella è allontanamento. Tramite le osservazioni spettroscopiche sui cambiamenti regolari di velocità lungo un periodo di tempo, e il confronto con delle linee spettrali di riferimento, si costruisce una curva di velocità. Dalla forma di quest’ultima si può provare la presenza del pianeta. La scoperta di esopianeti orbitanti nei sistemi 70Vir e 47UMa, da parte di Geoffery W. Marcy e di R. Paul Butler, è dovuta all’impiego di questo metodo Carroll & Ostlie (2017). Loro e il loro team di ricerca usarono come linee spettrali di riferimento quelle ottenute tramite il passaggio della luce stellare attraverso un vapore derivante dallo iodio. Com- parando le linee di emissione e assorbimento ottenute dalla stella con quelle di riferimento, riuscirono a misurare con grande precisione il cambiamento della velocità radiale. Per quanto il metodo sia efficace è importante sottolineare che è necessario filtrare lo spettro osservato, eliminando tutte quelle sovrap- posizioni provocate da fonti esterne come la rotazione e l’oscillazione della Terra, la velocità orbitale della Terra attorno al sole e l’effetto gravitazionale degli altri pianeti del sistema solare sulla Terra e sul Sole. 1.3 Formazione dei sistemi planetari Da secoli l’uomo è affascinato dalle possibili cause che possano portare la ma- teria a distribuirsi in modo così complesso, formando i sistemi planetari. Già nel 1778, Georges-Louis Declere, formulò una teoria che ipotizzava le cause della formazione del nostro Sistema Solare. L’origine sarebbe stata, per De- clere, la devastante collisione di una cometa gigante con il Sole, nelle prime fasi della sua formazione, causando così l’espulsione di materiale dalla stessa, che avrebbe avuto la conformazione di un disco, dal quale sarebbero nati i corpi celesti presenti nel nostro sistema Carroll & Ostlie (2017). Contem- poraneamente si sviluppò una teoria che prevedeva come causa principale il passaggio di una stella vicino al Sole primordiale, che con la sua forza gravitazionale avrebbe strappato via materia dalla protostella. Le teorie vennero scartate per la mancanza di coerenza con la conservazione del mo- mento angolare totale attuale del Sistema Solare, considerazioni energetiche e la sostanziale differenza che sussiste tra la composizione del Sole e quella dei pianeti orbitanti. Proprio quest’ultimo problema diede luce alla teoria che, attualmente, risulta la più efficace nel descrivere la formazione del Sis- tema Solare e dei sistemi planetari in generale. Proposta da svariati studiosi come Immanuel Kant, René Descartes e Pierre Simon Laplace, prevede che la stella e i pianeti facenti parti del sistema derivino dalla stessa nebulosa e che si siano formati contemporaneamente. Il principio dell’intero processo avviene quando all’interno di una nube interstellare, formata principalmente 9
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI Figure 1.2: La regione di formazione stellare della Nebulosa della Tarantola, una delle regioni più attive nel Gruppo Locale. La sua intensa luminosità, dovuta alla grande quantità di stelle giovani e calde al suo interno, testimonia un collasso gravitazionale relativamente recente avvenuto in porzioni diverse della nube. Credit: ESA/NASA, ESO and Danny LaCrue - ESA Hubble Telescope Archive da gas e nubi di polveri, viene soddisfatta la condizione di Jeans. Una protostella è il primo stadio evolutivo stellare, precedente alla fusione nucle- are interna e la sua formazione deriva da un potente collasso gravitazionale di una porzione di nube interstellare, come mostra la Figura 2. James Jeans studiò le condizioni sotto le quali il collasso può avvenire, considerando gli effetti di una piccola deviazione dell’equilibrio idrostatico della nube. Il teorema del viriale 2K + U = 0 (1.2) indica la condizione di equilibrio per un sistema gravitazionalmente legato, ed è utilizzato per studiare le condizioni di collasso. Se infatti il doppio dell’energia cinetica interna della nube (2K) supera l’energia potenziale grav- itazionale (| U |) allora la forza dovuta alla pressione interna del gas porterà la nube ad espandersi. Al contrario un’eccedenza dell’energia potenziale grav- itazionale provocherà un collasso protostellare. La condizione di Jeans es- prime il valore che la massa della nube, o una sua porzione, deve raggiungere per poter collassare sotto la sua stessa forza gravitazionale. Quella massa è chiamata Massa di Jeans ed è espressa tramite la seguente formula 23 21 5kT 3 MJ w (1.3) GµmH 4πρ0 10
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI La massa di Jeans dipende dalla temperatura T della nube, al peso molecolare µ, alla densità iniziale ρ0 della nube supposta di forma sferoidale e a mH , approssimativamente la massa dello ione idrogeno Burgess (1991). Un tipico esempio di formazione di un sistema consiste nel nostro stesso Sistema Solare. 1.3.1 Formazione del disco protoplanetario. Con l’inizio del collasso la nube comincia a frammentarsi: le porzioni più grandi e massive si evolveranno molto rapidamente in stelle appartenenti all’estremo superiore della Sequenza Principale e nello stesso tempo le porzioni meno massive della nube non avranno ancora iniziato il loro processo di col- lasso. Le stelle più massive, in pochi milioni di anni, concluderanno il loro ciclo evolutivo diventando supernove, esplosioni veloci e devastanti. La neb- ula che si forma in seguito all’esplosione di una o più supernove, comin- cia ad espandersi, diventando sempre più fredda e meno densa, e conden- sando nel suo avanzare elementi chimici come calcio, alluminio e titanio. Nell’incontro tra i residui derivanti dalla supernova, ricchi di elementi, e le parti più dense della nube interstellare ancora non collassate, avviene la com- pressione di quest’ultime. I gas della supernova, espandendosi ad altissima velocità (' 0, 1c), danno origine nella collisione a una potente onda d’urto, provocando il collasso della microsezione della nube impattata. Supponendo che la nube prima dell’impatto abbia un momento angolare iniziale, con- temporaneamente nell’implosione, nasce una protostella e un disco di gas e polveri che la circonda, chiamato disco protoplanetario. 1.3.2 Sviluppo dei planetesimali All’interno del disco protoplanetario, piccoli granelli di materiale hanno la capacità di legarsi tra di loro, grazie all’abbassamento di temperatura del disco: nascono così i planetesimali. I planetesimali sono agglomerati ghi- acciati o rocciosi di materiale del disco protoplanetario che crescendo, in massa e dimensione, sviluppano l’abilità di attrarre gravitazionalmente gli oggetti nell’area loro circostante. Per quantificare l’influenza gravitazionale dei planetesimali definiamo il raggio di Hill RH come la distanza dal corpo dove l’orbita di una particella attorno al planetesimale è pari all’orbita del planetesimale attorno alla stella. 12 M RH = a (1.4) M 11
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI dove M è la massa del Sole M la massa del planetesimale e a la distanza di quest’ultimo dal sole. Fisicamente il raggio di Hill ci indica la distanza entro la quale una particella, se possiede una velocità relativamente bassa, viene attratta gravitazionalmente dal planetesimale, accrescendone la massa. Più la massa del planetesimale aumenta è più aumenterà il raggio di Hill, e conseguentemente la sua capacità gravitazionale. 1.3.3 Nascita dei pianeti gioviani e snow line È importante sottolineare che nel momento in cui i planetesimali comple- tano la loro formazione, la nebula che contiene il sistema è caratterizzata da un gradiente di temperatura. All’interno del disco di accrescimento ritro- viamo questa variazione di temperature che dipende, oltre a numerosi altri fattori (campi magnetici, turbolenze all’interno del gas, dipendenza tempo- rale in evoluzione), principalmente dalla distanza rispetto alla protostella, che riscalda le parti più interne del disco non riuscendo a raggiungere quelle più lontane. Definiamo come snow line la regione della nebula oltre la quale i composti contenenti sostanze come acqua, idrogeno o l’ammoniaca raggiun- gono temperature abbastanza basse da condensare in stato solido, ghiaccian- dosi Carroll & Ostlie (2017). La posizione del planetesimale rispetto alla snow line, in fase di formazione, condizionerà enormemente la sua evoluzione, dando luogo a pianeti con caratteristiche molto diverse. All’interno del nos- tro Sistema Solare, dividiamo i pianeti in due categorie proprio rispetto alla loro posizione rispetto alla snow line, mostrata in Figura 2, posizionata a circa 5U A rispetto al protosole, vicino all’attuale orbita di Giove: i pianeti terrestri, relativamente piccoli, molto densi e rocciosi, in cui troviamo Mer- curio, Venere, Marte e la Terra, e i pianeti gioviani, chiamati anche giganti per le loro grandi dimensioni, divisi in giganti gassosi, Giove e Saturno, e gi- ganti ghiacciati, Urano e Nettuno. Dei pianeti gioviani, Giove si è sviluppato più rapidamente degli altri. Essendo immerso in una regione molto densa della nebula, in una po- sizione in cui il planetesimale era circondato sia da materiali rocciosi sia da acqua ghiacciata, ha raggiunto velocemente un nucleo di massa tra 10M e 15M , sufficiente da sviluppare un’attrazione gravitazionale tale da rac- cogliere il gas presente nelle vicinanze, principalmente idrogeno e elio. L’attrazione era talmente forte da formare una sub-nebula, con il proprio disco di accresci- mento, formando il pianeta gigante con le sue 79 lune che oggi conosciamo. Gli altri tre pianeti si sono formati nella stessa maniera. I loro nuclei avevano masse uguali a quelle di Giove, ma essendo posizionati in una regione meno densa non hanno raggiunto dimensioni confrontabili. 12
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI Figure 1.3: Uno schema del sistema solare primordiale e del suo disco protoplanetario. La snow line è a 5U A dal protosole. Si noti che i planetesimali, il protosole e Ceres sono collocati alla distanze relative odierne, senza una corretta scala di dimensioni. Carroll & Ostlie (2017) 1.3.4 Nascita dei pianeti terrestri Nella parte interna del disco protoplanetario le temperature erano troppo alte per permettere la condensazioni di materiali volatili. Col raffredda- mento della nebula alcuni materiali hanno raggiunto condizioni sufficienti per la condensazione, come i silicati e materiali di uguale refrattabilità. Ne deriva la formazione di un gran numero di densi planetesimali, di svariate dimensioni, i quali sono stati incorporati col processo di accrescimento negli attuali Venere e Terra. Le dimensioni dei planetesimali rimanenti però non hanno raggiunto grandezze comparabili a quelle dei pianeti gioviani. Giove, con la sua forte influenza gravitazionale infatti, ha modificato le orbite degli planetesimali presenti nella regione retrostante la snow line. Da una parte gli oggetti che erano presenti nell’attuale fascia principale degli asteroidi, hanno assunto grazie a questa forza orbite sempre con eccentricità sempre più alta nell’avvicinarsi a Giove, essendo assorbiti dai planetesimali in formazione, da Giove stesso o dal Sole. In quella stessa zona oggi troviamo Marte, un pianeta relativamente piccolo, prova dell’impoverimento di materiali spazzati via da quella fascia e, appunto, gli asteroidi della fascia principale, con masse molto minori. Dall’altra la perturbazione gravitazionale ha aumentato le velocità relative dei planetesimali, incentivando scontri distruttivi reciproci piuttosto che processi in cui gli oggetti, essendo più lenti si accrescevano vicendevol- mente. Il risultato è una serie di pianeti con dimensioni relativamente piccole, come osservabili attualmente. 13
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI 1.4 Caratteristiche generali nelle atmosfere degli esopianeti Per atmosfera, si intende l’involucro gassoso che circonda la superficie di un corpo celeste, le cui molecole sono trattenute dalla forza di gravità del corpo stesso. Sono numerosi i corpi che presentano atmosfere, a partire dalle stesse stelle, circondate da gas incandescente sotto forma di plasma, formata in larga parte da idrogeno, con un percentuale minoritaria di elio. L’oggetto di questa tesi è lo studio delle atmosfere esoplanetarie, cioè la composizione, i processi di formazione e le caratteristiche di atmosfere appartenenti a pianeti al di fuori del Sistema Solare. Seguiranno, riportati brevemente, le dinamiche più importanti, riscontrate nella formazione delle atmosfere planetarie e i concetti necessari per comprendere le motivazioni che ci spingono a studiare le atmosfere. 1.4.1 Abitabilità Il numero sempre crescente di pianeti extrasolari individuati e lo studio spet- troscopico che ha rilevato in molti di questi la presenza di un’atmosfera, hanno allargato molto le conoscenze in merito all’astrobiologia. Uno dei campi di cui si occupa questa materia è il concetto di Abitabilità. Si definisce come Abitabilità la capacità di un ambiente di accogliere e sviluppare la vita (o attività) di almeno un organismo vivente, supportando la soprav- vivenza, il mantenimento, la crescita o la riproduzione di quest’ultimo Cockell et al., (2016). La definizione di questo concetto è estremamente complicata, in quanto può avvenire che le caratteristiche elencate siano esclusive, cioè non contemporaneamente necessarie, e che condizionino esse stesse i processi fisici, chimici e biologici, dell’ambiente circostante. La definizione di abitabil- ità, inoltre, è una definizione operativa in quanto la conoscenza della biologia è strettamente limitata a quella terrestre, presupponendo che la maniera in cui la vita si formi nell’universo sia analoga a quella tramite la quale si forma sul nostro pianeta. Le caratteristiche quindi che descrivono, secondo questa definizione, l’abitabilità, sono a priori svincolate dalla possibile presenza di forme di vita con caratteristiche peculiari, esterne a quelle che noi conosci- amo. Le insieme di condizioni che in un istante di tempo supportino l’attività di un qualsiasi organismo sono: • Un solvente - L’acqua liquida è il solvente necessario per il verificarsi di tutte le reazioni biochimiche, secondo le conoscenze attuali. • Appropriate condizioni di temperatura - L’acqua allo stato liquido, in 14
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI determinate condizioni specifiche dei diversi sistemi, può ritrovarsi an- che in temperature che non sostengono l’attività metabolica dei mi- crobi. Le temperature quindi dell’ambiente devono rientrare in un range limitato tra i −25/15◦ C e i 122◦ C ad alte pressioni, le tem- perature calcolate minime e massime per il mantenimento e la crescita dell’attività microbiotica. • Energia - In un ambiente in cui le caratteristiche dell’attività pos- sano sussistere ci dev’essere una fonte di energia tale da poterle man- tenere o abbastanza luce, tale da poter generare energia sufficiente nell’organismo stesso. • CHNOPS - Sono Carbonio, Idrogeno, Azoto, Ossigeno, Fosforo e Zolfo gli elementi della tavola periodica onnipresenti nelle macromolecole nec- essarie per lo sviluppo della vita conosciuta. Un pianeta è definito abitabile se le caratteristiche dell’abitabilità istantanea sono mantenute lungo scale temporali geologiche definendo così l’abitabilità continua. Uno degli scopi principali dello studio delle atmosfere planetarie è quello di rilevare la presenza delle proprietà dell’abitabilità istantanea nel pianeta analizzato e del verificare se sussistono le condizioni per il loro man- tenimento temporale. 1.4.2 Temperatura ed effetto serra Come si è visto precedentemente, la temperatura di un pianeta in fase di accrescimento è un indicatore fondamentale per la possibile formazione di un’atmosfera. Ma la temperatura di un pianeta attuale è fortemente in- fluenzata dalla presenza di un’atmosfera ed è allo stesso tempo molto im- portante per determinarne la composizione atmosferica caratteristica. Per determinare la temperatura all’equilibrio attuale di un pianeta del sistema solare si assume che un pianeta sia un corpo nero sferoidale di raggio Rp e temperatura Tp che circoli in un orbita a distanza D dal sole. Per semplicità, si suppone che la temperatura del pianeta sia uniforme lungo tutta la sua superficie e che il pianeta rifletta una frazione a della luce proveniente dal Sole. Anche il Sole, in quest’approssimazione, viene trattato come un corpo nero sferoidale di temperatura T e raggio R . Per soddisfare le condizioni di equilibrio termico, si considera l’uguaglianza tra potenza irradiata dal pi- aneta e potenza assorbita. La potenza irradiata, calcolabile con l’equazione di Stefan-Boltzman è Prad = σArad Tp4 (1.5) 15
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI dove Arad è l’area irradiante pari a 4πRp2 e σ è la costante di Stefan- Boltzman. La potenza assorbita dal pianeta è data da Ls Pass = (1 − a)πRp (1.6) 4πa2 dove il primo termine è il flusso che investe il pianeta moltiplicato per l’area della proiezione della superficie illuminata sul piano ortogonale alla congiungente stella-pianeta pari a πRp e per fattore d’assorbimento della su- perficie del pianeta (1−a). Uguagliando le formule otteniamo la temperatura di equilibrio planetaria: r 1 R Tp = T (1 − a) 4 (1.7) 2D Calcolando però la temperatura d’equilibrio di alcuni pianeti conosciuti, ci si accorge che il valore teorico si discosta in maniera rilevante da quello misurato. Usando un valore di a = 0.3, la temperatura di equilibrio calcolata per la Terra è T = 255K = −19◦ C Il valore risultante è addirittura inferiore al punto di congelamento dell’acqua ed ovviamente non è il valore della temperatura media terrestre, pari a circa 15◦ C. Per Venere, il valore teorico ottenuto è identico a quello terrestre, e la temperatura effettiva risulta essere di 740K, di circa 400K più alta Carroll & Ostlie (2017). Queste discordanze sono dovute al fatto che nel modello è stato trascurato l’Effetto Serra, un perfetto esempio dell’importanza della considerazione dell’atmosfera nell’analisi di un pianeta e di come condizioni caratteristiche intrinseche del pianeta come la temperatura. L’effetto serra è un processo consistente nell’accumulo all’interno dell’atmosfera di una parte dell’energia termica irradiata dalla stella attorno a cui orbita un corpo ce- leste, la cui conseguenza è l’innalzamento della temperatura della superficie. Accade che alcuni gas di cui si compone l’atmosfera siano gas serra, cioè gas che assorbono la radiazione solare emessa dalla stella, che incide sulla superfi- cie del corpo. Gli stessi gas ostacolano l’emissione della radiazione infrarossa proveniente dalla superficie del corpo celeste. Una parte della radiazione emessa supera l’atmosfera, mentre una frazione viene riflessa dai gas serra verso la superficie, provocandone il riscaldamento e un’escursione termica minore, rispetto a quella che avverrebbe in assenza di un’atmosfera densa e ricca di gas serra. Il processo risponde al distacco netto di temperature mis- urate e calcolate nell’atmosfera di Venere, la quale è costituita per il 96% da 16
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI diossido di carbonio (CO2 ), un gas serra. Il risultato è l’aumento di temper- atura descritto (traguardo sufficiente per fondere il piombo) e un’imponente pressione atmosferica di 90atm, il corrispondente della pressione presente a circa 800 metri sotto il livello del mare Terrestre. La quantità di gas serra presenti nell’atmosfera è ovviamente proporzionale all’effetto misurato. 1.4.3 Evoluzione delle atmosfere planetarie I processi di formazione di atmosfere planetarie sono molto complessi, dipen- denti dalla temperatura locale della nebula in formazione protoplanetaria, dalla temperatura del pianeta formato, dalla gravità, e dai processi chimici caratteristici del pianeta formato. Un processo fondamentale nello sviluppo di un’atmosfera è l’abilità del pianeta nel mantenere la composizione della propria atmosfera nel tempo, senza perdere atomi o molecole che sfuggono alla sua attrazione gravitazionale. All’interno dell’atmosfera si creeranno due meccaniche, tali da regolare l’emissione o il mantenimento dei costituenti. Ad una certa altezza critica, la densità numerica di particelle è bassa al punto di poter trascurare qualsiasi possibile collisione, e le particelle quindi sono soggette quasi alla sola forza gravitazionale. La regione con queste carat- teristiche è chiamata Esosfera. Alcune particelle non hanno una velocità abbastanza alta per slegarsi dall’atmosfera o non hanno traiettorie direzion- ate verso l’esterno, e ricadranno verso il basso in strati più densi, subendo numerose collisioni nella discesa. Altre particelle, invece, hanno una veloc- ità più alta, necessaria a sconfiggere l’attrazione gravitazionale del pianeta e inoltrarsi nello spazio interplanetario. La velocità necessaria delle particelle componenti un costituente atmosferico, tale da permetterne l’allontanamento dall’atmosfera, deve essere semplicemente maggiore della velocità di fuga. r 2GM vesc = (1.8) r dove M è la massa del pianeta e r la distanza della particella dal centro del pianeta. 1.4.4 Fuga atmosferica Si può definire il processo di fuga atmosferica come l’abbandono di alcuni costituenti atmosferici nelle condizioni espresse precedentemente. Il numero di particelle che nel loro percorso hanno una velocità fra v e v + dv, la cui traiettoria passa all’interno di una superficie orizzontale di area A, in uno 17
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI spessore infinitesimale dz in un intervallo di tempo dt, è: dNv dv = (nv dV )dv = nv Adzdv = Avz dtnv dv = Cg Avdtnv dv (1.9) dove Cg è un fattore geometrico che esprime la considerazione delle sole particelle con componenti assiali della velocità positive. Si può dividere il fat- tore ottenuto per un intervallo di tempo, in maniera da calcolare il tasso per unità di tempo, il rate, e supporre l’esosfera di forma sferica (A = 4πR2 ). Si può calcolare il numero di particelle al secondo che abbandonano l’atmosfera considerando le particelle con un velocità maggiore della velocità di fuga e sostituendo il Ṅv dv ottenuto, nell’equazione di Maxwell-Boltzman, e inte- grandola. Si ottiene: nπR2 m 32 ∞ Z 2 Ṅ = 4πv 3 e−mv /2kT dv (1.10) 4 2πkT vesc Il tasso di perdita di particelle al secondo, supponendo che ad una certa altezza z atmosferica, la densità di particelle presenti sia n(z), diventa: Ṅ (z) = 4πR2 vn(z) (1.11) dove 1 m 12 2kT 2 v= 2 vesc + e−mv /2kT (1.12) 8 2πkT m è il parametro di fuga atmosferica, avente le dimensioni di una velocità e caratterizzato da T , la temperatura dell’atmosfera, vesc la velocità di fuga della particella considerata e m la massa della particella. Il parametro de- scrive il tasso con cui un gas di particelle con massa m fugge dall’esosfera, in un’unità di area infinitesimale, con una densità numerica di particelle dipen- dente dall’altezza, n(z). La dipendenza di questa quantità dalla temperatura è importante nel capire perché alcuni corpi celesti non sono dotati di atmos- fera. Un esempio classico è la Luna, il nostro unico satellite naturale. Come mostrato in Figura 3, il grafico rappresenta il log10 v in funzione della massa di vari componenti specifici dell’atmosfera terrestre, come il metano, il va- pore acqueo o l’ossigeno molecolare. Nel grafico sono rappresentate anche le temperature dell’esosfera dei due corpi, la Terra con T ' 1000K e la Luna con T = 274K. Il grafico mostra chiaramente come solo l’idrogeno molecolare e l’elio hanno essenzialmente compiuto l’intero processo di fuga atmosferica in entrambi i casi, mentre le altre specie hanno un parametro di fuga atmosferica molto alto per la luna e sempre più basso, al crescere della 18
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI Figure 1.4: Il logaritmo del parametro di fuga atmosferica, ν, in funzione del peso atomico di varie specie chimiche nell’atmosfera terrestre e in quella lunare. Si noti come la Terra abbia perso la maggior parte dell’idrogeno, dell’idrogeno molecolare e dell’elio. Carroll & Ostlie (2017) massa della specie chimica, per la Terra. Il risultato è la totale assenza di atmosfera lunare odierna, come confermato dalle misurazioni spettrografiche effettuate nel 2015, che mostrano una bassa abbondanza, espressa in atomi per centimetro cubo, di diversi elementi: da poco meno di 17 atomi di H ai circa 20,000 del Ne. 1.5 Atmosfere di pianeti del sistema solare Le atmosfere dei pianeti appartenenti al nostro Sistema Solare sono state studiate sin dall’inizio del diciannovesimo secolo e sorprendentemente si sono osservate atmosfere estremamente diverse da quella terrestre. Con la crescita delle tecnologie spettrografiche si è potuta studiare l’atmosfera anche di esopi- aneti scoperti più recentemente. Andiamo a vedere le caratteristiche delle svariate atmosfere conosciute attualmente. 1.5.1 Mercurio A causa della sua piccola massa, 0.055M , Mercurio non ha praticamente un’atmosfera: lo strato di esosfera presente è estremamente tenue e vari- abile, un trilionesimo più sottile di quella terrestre. Tramite le misurazioni dell’emissione ultravioletta effettuate da MESSENGER e Mariner10, i prin- 19
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI cipali costituenti sono: ossigeno, con concentrazione di 44.000 atomi per cm3 (42%), e elio, sodio, calcio e potassio, in concentrazioni sempre minori, fino ad arrivare all’idrogeno (22%), 200 atomi per cm3 , e alcune macromolecole come H2 O+ e H2 S + Killen et al., (2007). La presenza di queste sostanze è in realtà derivante dalla forte interazione con il vento solare, essendo Mercurio molto vicino al Sole. La mancanza di atmosfera inoltre non consente una distribuzione equa del calore. Combinata con la sua rotazione estremamente lenta (58,6 giorni) che espone per lunghi periodi lo stesso emisfero alla luce solare diretta, l’escursione termica su Mercurio è la più elevata finora regis- trata tra quelle del sistema solare: dai 825K dell’emisfero illuminato ai 120K di quello in ombra Carroll & Ostlie (2017). 1.5.2 Venere Venere è definito spesso come il pianeta gemello della terra, a causa della massa e dimensioni simili a quello del nostro pianeta (0.815M e 0.9488R ), ma ha caratteristiche largamente diverse rispetto a quelle terrestri, a par- tire dalla sua atmosfera. L’atmosfera di Venere è composta per il 96.6% di diossido di carbonio, per il 3.5% da nitrogeno e per la restante parte da al- tri gas, come il diossido di zolfo Spohn, Breuer & Johnson (2014). Tutto l’idrogeno che era presente sul pianeta si ipotizza che sia stato in larga parte spazzato nello spazio dai fenomeni di fuga atmosferica in fase di formazione, e la restante parte si è legata con lo zolfo, formando acido solforico, H2 SO4 . Venere è caratterizzata infatti da nuvole di acido solforico, che raggiungono massimi di densità elevate, comparabili a quelle dei cumulonembi terrestri (0.1g/m3 ), a circa 45 km dalla superficie. La densa atmosfera composta es- senzialmente di CO2 , insieme alle nubi di anidride solforosa e acido solforico, genera il più forte effetto serra del sistema solare, portando la temperatura della superficie del pianeta a oltre 460◦ C, la più alta del sistema solare Carroll & Ostlie (2017). 1.5.3 Marte L’atmosfera marziana si compone principalmente di anidride carbonica (95%), azoto (2,7%), argon (1,6%), vapore acqueo, ossigeno e monossido di carbonio. Essendo molto sottile e rarefatta, a causa della bassa forza gravitazionale del pianeta, la pressione rilevata sul pianeta è di 0, 7/0, 9kP a, oltre cento volte in- feriore a quella terrestre. Nel 2004 le misurazioni della sonda orbitante Mars Express hanno confermato ufficialmente la presenza di metano alla concen- trazione volumetrica di circa 10ppb Formisano, Atreya, Encrenaz, Ignatiev & Giuranna (2004). La presenza di questo gas, altamente instabile, fa sup- 20
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI porre l’esistenza di un processo di generazione del metano tuttora in corso o comunque avvenuto nei secoli scorsi; come possibili origini sono state ipotiz- zate quella vulcanica, quella cometaria e quella biologica con la presenza di microrganismi metanogeni. 1.5.4 Giove e Saturno Giove e Saturno, i primi due pianeti gioviani per distanza dal sole, hanno caratteristiche atmosferiche molto simili. L’esosfera di Giove è composta da idrogeno (75%) e elio (24%), l’atmosfera di Saturno è composta dagli stessi elementi ma in percentuali diverse: idrogeno (92.3%) e elio (6.7%). In entrambi i pianeti si trovano, nello strato esterno, nuvole molto dense formate da cristalli di ammoniaca, arricchite negli stati più bassi da idrosolfuro di ammonio Atreya, Mahaffy, Niemann, Wong & Owen (2003). Questi densi gas si dispongono su Giove in fasce di differente latitudine suddivise in zone, gli strati più chiari, e bande, i più scuri. Le bande gioviane sono confinate da flussi atmosferici zonali chiamati correnti a getto: retrograde, da est a ovest, quando segnano la transizione tra zone e bande, prograde, da ovest a est, nel caso opposto. L’interazione tra gli strati provoca turbolenze e forti tempeste come la Grande Macchia Rossa, un persistente anticiclone, caratterizzato da venti laterali di 420km/h, con un periodo di sei giorni terrestri e una lunghezza longitudinale attualmente di 24−40, 000km, grande abbastanza da contenere il pianeta Terra, si veda Smith et al., (1979) Irwin (2003). Anche nell’atmosfera di Saturno troviamo gli stessi processi e le stesse formazioni: chiamate in questo caso Grandi Macchie Bianche, per la differenza di colore con le tempeste gioviane, consistono in massicce correnti ascensionali. Le teorie più recenti indicano come origine dei processi descritti, instabilità termiche alla base dello strato esterno più denso, si veda Pérez- Hoyos, Sánchez-Lavega, French & Rojas (2005). 1.5.5 Nettuno e Urano Le atmosfere di Nettuno e Urano hanno una composizione atmosferica es- tremamente simile: idrogeno (83%), elio (15%) e metano (2%) per Urano e idrogeno (80%), elio (19%) e metano (1.5%) per Nettuno. Anche la temper- atura atmosferica esterna dei pianeti è simile, con un range di 50 − 55K: è facilitato così il processo di condensazione del metano, che forma uno strato di nuvole esterne a bassa densità (1.2bar) Lunine (1993). La differenze prin- cipali tra i due pianeti consistono nell’attività dell’atmosfera superficiale. Nettuno è caratterizzato da forti variazioni idrodinamiche e termiche, in su- perficie. I venti nella zona equatoriale sono i più estremi del sistema solare 21
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI Figure 1.5: Le dimensioni di HD 209458, a sinistra, paragonate a quelle di Giove. Si noti che il colore si distacca da quello effettivo. Si pensa che l’esopianeta abbia una superficie simile a quella di Giove, formata però da tenui bande e zone, e un colore più scuro per la probabile bassa capacità di riflessione dei materiali dello strato esterno opaco e caldo del pianeta. Credit: Aldaron, via Wikimedia Commons con una velocità pari a 350m/s, pari alla velocità del suono terrestre. Le grandi tempeste, come la Grande Macchia Scura, possono raggiungere ve- locità agli estremi longitudinali anche di 900m/s. L’atmosfera di Nettuno presenta anche vere e proprie nube atmosferiche, come Scooter, un comp- lesso di nuvole biancastre scoperto da Voyager 2: si ritiene che esse abbiano origine da macchie calde e relativamente profonde, che provocano correnti ascendenti di solfuro di idrogeno in grado di penetrare attraverso le nubi di metano Burgess (1991). L’atmosfera di Urano, invece, è molto statica, so- prattutto comparata agli altri pianeti gioviani: venti di 240m/s e uno strato sottile di nubi, percorrono strade parallele all’equatore. 1.5.6 L’esempio di HD 209458 b Conosciuto anche come Osiris, è un esopianeta classificato come Giove caldo, orbitante attorno alla stella HD 209458 nella costellazione di Pegaso. Con una massa di 0.72MJ e un raggio di 1.38MJ , è un esopianeta leggermente più grande di Giove, come mostrato in Figura 4. È uno degli esopianeti più studiati, nonché il primo esopianeta conosciuto avente un’atmosfera e il primo scoperto con il metodo del transito Yaqoob (2011). Dopo numerose ricerche, è proprio nel 2021 dove, tramite spettroscopia, sono state ben defi- nite le sostanze che compongono la sua atmosfera: composta principalmente da idrogeno con discrete quantità di ossigeno e carbonio e la presenza di va- pore acqueo, monossido di carbonio, acido cianidrico, metano, ammoniaca e acetilene Giacobbe et al., (2021). Se il pianeta raggiunge in superficie una 22
CHAPTER 1. L’ATMOSFERA DEGLI ESOPIANETI temperatura pari a 1000K, nel 2003–2004, tramite lo spettrografo dell’HST, è stato scoperto intorno al pianeta un vasto inviluppo ellissoidale, costituito da carbonio, idrogeno ed ossigeno, che raggiunge temperature dell’ordine dei 10000K. Come prevedere la teoria di fuga atmosferica, in Osiris, gli atomi appartenenti all’esosfera, si muovono a velocità superiori alla velocità di fuga dal pianeta a causa della loro agitazione termica elevata, essendo il pianeta a soli (0.0047U A) dalla stella madre. Questo da luogo ad una coda di gas, in particolare idrogeno, che si diparte dal pianeta in direzione opposta alla stella, raggiungendo una lunghezza di circa 200000 km, quasi equivalente al suo diametro, Ehrenreich et al., (2008). 23
Chapter 2 Il Planetary Spectrum Generator Il Planetary Spectrum Generator 1 è uno strumento online sviluppato e con- cettualizzato nel 2015 da Geronimo Villanueva (NASA-GSFC), che permette di sintetizzare e analizzare spettri elettromagnetici planetari (rispetto a at- mosfera o superficie) su una scala molto ampia di lunghezze d’onda: dai 50nm ai 100mm, comprendendo i valori di raggi UV, luce visibile, vicino infrarosso (near-IR), infrarosso (IR), lontano infrarosso (far-IR), radiazioni terahertz e onde radio. Lo strumento può generare lo spettro come se il pianeta venisse osservato da un qualsiasi telescopio o da un qualsiasi orbiter: il programma oltre a un vasto numero di telescopi (JWST, ALMA, Keck, SOFIA, ecc.) e di orbiter (MRO, ExoMars, Cassini, New Horizons, ecc.) con caratteris- tiche preimpostate, supporta l’inserimento di valori specifici di osservazione in modo da simulare un’osservazione proveniente da un qualsiasi strumento a disposizione dell’inseritore. Il programma supporta questa funzionalità an- che per l’oggetto stesso da osservare e per la sua composizione atmosferica. La creazione di uno spettro elettromagnetico da set di partenza così vari- abili è possibile grazie a alla combinazione di diversi modelli di trasferimento radiativo all’avanguardia, e un numero altissimo di databases planetari e spettroscopici, suddivisi in uno schema meticoloso di riferimento in base alla tipologia di informazione che l’inseritore richiede. Villanueva, Smith, Pro- topapa, Faggi & Mandell (2018) 2.1 Funzionalità Le capacità del PSG sono innumerevoli e le tipologie di analisi che possono es- sere effettuate tramite il programma consentono, da dati iniziali coerenti tra di loro, un’analisi completa dello spettro e delle caratteristiche dell’oggetto 1 Il link del tool online è https://psg.gsfc.nasa.gov/ 24
CHAPTER 2. IL PLANETARY SPECTRUM GENERATOR che vogliamo analizzare. Seguono le funzionalità più importanti del pro- gramma: • Un calcolatore orbitale tridimensionale per la maggior parte dei corpi del Sistema Solare e per tutti gli esopianeti scoperti. Vengono calcolate tutte le possibili disposizioni geometriche con irelativi parametri, al fine di effettuare analisi spettroscopiche in qualsiasi istante e possibile configurazione. In Figura 6 vengono mostrati alcuni esempi. • Diversi punti di osservazione dell’oggetto in questione, con le relative caratteristiche geometriche, come gli angoli α e β che descrivono la posizione di osservatore e oggetto rispetto all’azimuth. Possono essere selezionati, tra gli altri; observatory, cioè l’analisi della luce emessa da un punto di osservazione ad una distanza d in AU , from surface, che esprime l’osservazione dalla superficie e nadir e limb, caratteristiche di analisi effettuate in orbita rispetto all’oggetto Villanueva et al. (2018). • Caratteristiche atmosferiche complete (profili verticali di temperatura e abbondanza di elementi) della maggioranza dei corpi del Sistema So- lare, e caratteristiche più generali per gli altri corpi, inclusi modelli sem- plificati per processi atmosferici relativi alle comete, come outgassing e distribuzione di materia atmosferica. • La possibilità di integrare modelli stellari nella considerazione degli effetti misurati nelle spettrografie: il Kurucz 2005 (0, 15 − 300µm), e il ACE Solar Spectrum (2 − 14µm) per le stelle di tipo G, modello ad alta risoluzione. • La considerazione degli effetti di trasmissione terrestre in relazione a colonne di vapore acqueo presenti nell’atmosfera e in base all’altitudine. • Realistiche e precise misurazioni del rumore effettuato nelle simulazioni dai detectors quantistici e termici. 2.2 Modellizazione fisica Il programma basa le sue analisi su modelli fisici atmosferici ben studiati e specifici. I modelli, però, sono complicati per inserimento e compilazione e sono molto diversificati, a seconda della tipologia di oggetto da osser- vare (esopianeta, cometa, satellite, tipologie di atmosfere, superfici, ecc.) e della lunghezza d’onda. Il PSG sintetizza innumerevoli modelli, attingendo dall’enciclopedia elettronica, Wikipedia, innestando la possibilità di spaziare 25
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