La visione di Dio nell'ultimo canto del Paradiso

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Mirko Tavoni

                                          La visione di Dio
                                   nell’ultimo canto del Paradiso

     in corso di stampa nel volume Dire l’indicibile: esperienza religiosa e poesia dalla Bibbia al
                    Novecento (titolo provvisorio), a cura di Cesare Letta, Pisa, ETS

1.     Dante profeta e visionario?

      La visione di Dio, che Dante proclama tassativamente vera, pone il problema appunto della
dimensione visionaria, e della connessa dimensione profetica, del poema. Negate, l’una e l’altra,
dalla grande maggioranza degli interpreti, non importa se laici o cattolici. È impossibile qui
riassumere i termini di una discussione – se per esempio il poema debba considerarsi una visio o
una fictio – squilibratissima verso la seconda linea d’interpretazione1. Caratteri macroscopici del
poema, quali la sua imponente architettura razionale, la sua totalizzante filosofia e teologia del
mondo, la sua narratività di lungo respiro, il suo straordinario realismo, un lessico e una sintassi
capaci di padroneggiare la fenomenologia del reale in ogni sua singola distinzione con ininterrotto e
implacabile controllo, hanno indotto a rigettare come incompatibile con la mente, se non con la
cultura, dell’autore ogni più remoto sospetto di misticismo. Dante può ripetere quanto vuole di aver
visto ciò che dice di aver visto, testimonianza ovviamente inquadrata in un sistema culturale che
considera perfettamente possibili e reali forme cognitive di tipo visionario: non importa, si assume
che viga nel poema, giustificata da un intento allegorico-moralistico-didattico, la stessa
convenzione con il lettore che vige nella letteratura fantastica.
      In linea con i pochi ma serissimi sostenitori del profetismo visionario di Dante richiamerò, a
mo’ di introduzione a questa lettura della visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso, un paio di
passaggi testuali, il primo dalla Vita nova (§ 2) il secondo dall’Inferno (§ 3), che mi sembrano
abbastanza esemplificativi rispettivamente della visionarietà e del profetismo di Dante; e
concluderò questo piccolo preambolo con la chiusa del XXXII canto (§ 4), che subito prima della
visione di Dio dice esplicitamente che tale visione è una visio in somniis. Affrontando quindi la
visione scritta nel XXXIII canto, passerò in rassegna anzitutto i molti e vari segnali di onirismo che
la pervadono (§§ 5-11), per riservare un’attenzione particolare all’immagine del libro dell’universo
(§ 12) e all’«ombra d’Argo» (§§ 13-14) e tentare poi di distinguere il senso di questi vari segnali di
onirismo (§ 15). Proporrò quindi un riferimento iconografico che può aver agito nei meccanismi
creativi che hanno portato a quella particolare compresenza di elementi nella visione dantesca di
Dio (§ 16). E concluderò con una riflessione sul rapporto fra teologia della visione, sogno e infinito
(§ 17).

2.     Una visione criptata nella Vita nova

     Una visione mistica, Dante l’aveva avuta già nella Vita nova. Non mi riferisco alle numerose
apparizioni in sogno di Amore che punteggiano tutta la prima parte della Vita nova, con tanto di
monologhi in latino, linguaggio per Dante dell’ascolto di voci interiori: quello è per così dire il
1
  A titolo esemplificativo, cito solo due studi autorevoli, il primo a favore il secondo contro l’idea di Dante profeta e
visionario: Bruno Nardi, Dante profeta, in Dante e la cultura medievale. Nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini,
introduzione di Tullio Gregory, Laterza, Roma-Bari 1983 e ristampe successive, pp. 265-326 (il saggio nella sua prima
versione risale al 1942); Cesare Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Einaudi,
Torino 1990, particolarmente il capitolo Viaggi e visioni d’oltremondo sino alla Commedia di Dante, pp. 25-48.
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training onirico-visionario di Dante. E non mi riferisco nemmeno alla famosissima «mirabile
visione» conclusiva, che anticipa e promette il poema paradisiaco. Mi riferisco a una visione
criptata nel testo, sottratta alla scrittura, e per questo più significativa. Perché Dante non racconta la
morte di Beatrice, che è l’avvenimento centrale del libro? Nel cap. XXVIII Dante adduce tre ragioni
per cui non intende descrivere la morte di Beatrice, e la terza è questa: «non è convenevole a me
trattare di ciò [cioè del fatto che Dio ha chiamato a sé Beatrice], per quello che, trattando,
converrebbe essere me laudatore di me medesimo». I commenti in uso gettano la spugna: «è
generale la resa degli interpreti davanti a questa oscura ragione» (De Robertis); «anche a norma
dell’esegesi pregressa, sembra questa la ragione più oscura» (Gorni)2. Ma veramente la spiegazione
l’aveva data il filologo americano Charles Hall Grandgent in un articolo comparso in Romania del
19033, ed è lampante. Le parole di Dante, infatti, ricalcano quelle della Seconda Lettera ai Corinzi
(XII 1-9) dove S. Paolo dice di essere stato rapito in cielo: «Non è bello vantarsi, eppure devo farlo.
Perciò vi parlerò delle visioni e delle rivelazioni che il Signore mi concesse» («si gloriari oportet [il
verbo gloriari viene ripetuto 5 volte in questi versetti] non expedit quidem veniam autem ad
visiones et revelationes Domini»). Esprimendo già nella Vita nova la sua reticenza con le stesse
parole di S. Paolo (che diventerà poi l’autorità fondante del profetismo di Dante e di tutta
l’invenzione della terza cantica: « … Andovvi poi lo Vas d’elezïone… Ma io, perché venirvi? o chi
’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ’l crede», If II 283-33),
Dante ci dice che al momento della morte di Beatrice, o meglio della sua ascesa al Paradiso, lui ha
avuto una visione, e che fra sé e sé la considera assimilabile a quella di S. Paolo. Questa terza
ragione per cui non ne può trattare chiarisce dunque anche le prime due. Prima ragione: trattarne
«non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello». Infatti
questa visione non è scritta nel «libro della memoria», fra «le parole le quali è mio intendimento
d’assemplare in questo libello»: e non lo è perché è un’esperienza soprannaturale che in quanto tale
trascende le capacità della memoria. Seconda ragione: «ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua
a trattare come si converrebbe di ciò». Ancora non sarebbe sufficiente. È l’identico concetto che
sarà espresso a tutte lettere nell’ultimo capitolo, in cui l’autore si proporrà «di non dire più di questa
benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei»; dichiarerà che «di venire a
ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente»; e che, se «la mia vita duri per alquanti
anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». Dunque Dante aveva avuto una
visione, per così dire, in tempo reale, nel preciso momento in cui Beatrice saliva al cielo. E con
questa visione non detta le visioni della Vita nova sono nove: il che dà molto più senso, ovviamente,
che se fossero otto come apparentemente sono4.

3.    Un gesto profetico fra i simoniaci

      Nel XIX dell’Inferno, prima di incontrare i simoniaci, Dante racconta (vv. 13-21) di aver rotto
un battezzatoio del suo «bel San Giovanni» a Firenze, per salvare qualcuno che vi stava annegando.
Questo passo, già di interpretazione misteriosa, è stato spiegato con l’aiuto di illustrazioni di tre
manoscritti antichi della Commedia, assolutamente rivelatrici: esse mostrano i simoniaci capofitti
dentro anfore. Dunque il gesto che Dante ha fatto, per salvare un bambino che nel momento del
battesimo vi era caduto dentro e vi stava annegando, è stato quello di rompere una delle grandi
anfore che in quegli anni, e provvisoriamente, fungevano da battezzatoi all’interno della grande
vasca battesimale caduta in disuso con l’affermarsi del rito battesimale per infusione e non più per
immersione. Con ciò risulta chiarito, insieme con la scena materiale, altrimenti inspiegabile, il
significato del gesto compiuto, che è un significato profetico: Dante ha ripetuto il gesto della
2
  Dante Alighieri, Vita nuova, a cura di Domenico De Robertis, in Opere minori, Ricciardi, Milano-Napoli 1984, p. 191;
Vita nova, a cura di Guglielmo Gorni, Einaudi ,Torino 1996, p. 167.
3
  Charles Hall Grandgent, Dante and St. Paul, «Romania», 31, 1902, pp. 14-27.
4
  Ho esposto questa interpretazione nell’articolo «Converrebbe essere me laudatore di me medesimo» (Vita nova
XXVIII 2), in stampa nella Miscellanea in onore di Pier Vincenzo Mengaldo, Antenore, Padova.
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“rottura dell’anfora” (fractio lagunculae) compiuto dal profeta Geremia e da lui raccontato nel cap.
XIX del Libro di Geremia (come XIX è il canto dell’Inferno), gesto di denuncia antisimoniaca
esattamente come lo è il gesto di Dante. Questo episodio mette in luce una delle implicazioni del
profetismo più determinanti per la Commedia, e cioè il nesso fra il poema e la vita del poeta,
l’interscambio fra il testo e la vita, l’unità di significato di quell’insieme solidale che è il testo più la
vita dell’autore, e che costituisce una forma peculiare del realismo dantesco. Il poema è parte
integrante della realtà: un episodio della vita di Dante legittima il valore profetico del poema, e
nello stesso tempo solo nel poema quell’episodio svela quel valore, che nella cronaca era rimasto
inavvertito. Non solo il poema è profetico, ma la vita del poeta è un segno profetico, riconosciuta
qualità caratteristica del particolare profetismo di Geremia, che fra l’altro è, come Dante, esule5.

4.     «Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna… » (Pd XXXII 139-144)

      S. Bernardo, dopo aver illustrato a Dante angeli e santi che occupano i vari scranni della
candida rosa dell’Empireo, gli dice che ora taglierà corto, perché il tempo stringe e bisogna
sbrigarsi se vogliono fare in tempo a vedere Dio (questa sembra una parafrasi quanto mai goffa, ma
corrisponde al registro delle parole di Dante, che mostra qui la sua eccezionale capacità di
escursione stilistica alle soglie del sublime epilogo del poema):

        … e contro al maggior padre di famiglia
    siede Lucia, che mosse la tua donna
138 quando chinavi, a rovinar, le ciglia.
        Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
    qui farem punto, come buon sartore
141 che com’elli ha del panno fa la gonna;
        e drizzeremo li occhi al primo amore,
    sì che, guardando verso lui, penètri
144 quant’è possibil per lo suo fulgore.

      Il v. 139 ha un solo possibile significato. In questo caso, anche se ogni sottigliezza linguistica
è stata spesa (invano) pur di interpretarlo in senso non mistico6, alla fine l’evidenza si è imposta ai
commentatori. Così da ultimo il commento della Chiavacci Leonardi7:

             t’assonna: ti tiene come addormentato. Il verbo indica lo stato proprio
             della visione mistica, assomigliato tradizionalmente al sonno, in
             quanto la mente è come distaccata dai sensi: «oportet in
             contemplationis principio, ut homo quasi consopitus a sensibus
             alienetur, quasi per somnum… » (Bonaventura, In Evang. S. Lucae IX
             32). Così di Paolo rapito al cielo Agostino scriveva: «quasi dormiens
             evigilaret» (Gen. ad litteram XII, V). La precisa corrispondenza di
             questo significato al contesto rende secondo noi sicura
             l’interpretazione del verbo in tal senso (Dante stesso del resto presenta
             l’autore dell’Apocalisse che avanza dormendo a Purg. XXIX 144).

5
  Cfr. Mirko Tavoni, Effrazione battesimale tra i simoniaci (If XIX 13-21), «Rivista di letteratura italiana», 10/3, 1992,
pp. 457-512.
6
  Cfr. Giovanni Nencioni, Ma perché’l tempo fugge che t’assonna (Par. XXXII 139), «Studi danteschi», 40, 1963, pp.
50-56.
7
  Dante Alighieri, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, vol. III Paradiso, Mondadori,
Milano 1994, p. 139.
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      Aggiungo che il v. 139 tiene immediatamente dietro al verso «quando chinavi, a rovinar, le
ciglia», che richiama «tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai» (If I 11-
12): a suggerire che in quel punto, cioè nello smarrimento di Dante nella selva oscura, aveva avuto
inizio il tempo della visio in somniis che ora stava per scadere. Ovvero a significare che l’intero
viaggio oltremondano è contenuto nel tempo della visione in sogno.

5.    Segnali di onirismo nel XXXIII canto: «Qual è colüi che sognando vede… » (vv. 58-63)

       Poiché, come abbiamo appena visto, la visione di Dio che conclude il poema è dichiarata
dall’autore una visio in somniis, emergono nel testo che riferisce quella visione segnali onirici che
avvalorino tale dichiarazione? Parlare di segnali onirici, a mio giudizio, è poco: tutto il canto è
pervaso di onirismo, e aperto in molti punti, e in modi diversi e significativi, alle dimensioni
regressive e “infinitive” tipicamente collegate al sogno.
       Ovviamente le visioni mistiche sono da sempre associate ai sogni. Avere una visione
soprannaturale è un’esperienza imparentata con il sogno, perché quella del sogno è la normale
esperienza umana a cui l’esperienza soprannaturale della visione può assomigliare. Questo grazie al
fatto, oggi focalizzato dalla psicanalisi, ma da sempre noto alla letteratura, che il sogno sospende il
principio di non contraddizione che governa il funzionamento vigile della mente, come ne sospende
la struttura spazio-temporale. Il sogno è libero da entrambi questi vincoli, e per questo in sogno
sperimentiamo dimensioni incompatibili con la vita psichica da svegli.
       Nel nostro caso, Dante ci mette davanti a una similitudine esplicita e penetrante:

         Qual è colüi che sognando vede,
      che dopo ’l sogno la passione impressa
60    rimane, e l’altro a la mente non riede,
         cotal son io, ché quasi tutta cessa
      mia visïone, e ancor mi distilla
63    nel core il dolce che nacque da essa.

      Questa similitudine ha la struttura tipicamente dantesca della cosiddette “similitudini
apparenti”, nelle quali Dante paragona un’azione o condizione particolare, per lo più agita o esperita
da lui stesso, Dante-personaggio, a quella stessa azione o condizione assunta in generale e riferita a
un soggetto pronominale indefinito + pronome relativo: come colui che, come quello che, com’uom
che e simili. Per esempio: «e stetti come l’uom che teme» If XIII 45; «ma ’l capo chino / tenea
com’uom che reverente vada» If XV 44; «e aggrappossi al pel com’om che sale» If XXXIV 80.
Nella variante ampia, il termine di paragone precede e si distende, per lo più esattamente sulla
misura di una terzina, come è nel nostro caso. Per esempio in: «A guisa d’uom che ’n dubbio si
raccerta / e che muta in conforto sua paura, / poi che la verità è discoperta, / mi cambia’ io», Pg IX
64-67; dove il cambiamento che interviene in Dante non è come quello di chi, ecc., ma è
esattamente quello di chi, ecc. A volte, ferma restando la struttura del periodo, non si ha identità ma
analogia d’azione («una particolare circostanza di comportamento o di coscienza si rifà a un
analogo atteggiamento umano assunto come tipico», Enciclopedia dantesca, V, p. 257), come in:
«E come quei che con lena affannata / uscito fuor del pelago alla riva, / si volge all’acqua perigliosa
e guata, / così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a retro a rimirar lo passo / che non lasciò già
mai persona viva», If I 22-27, dove il gesto di Dante corrisponde in tutto a quello di chi con lena
affannata, ecc., tranne per il particolare non secondario che Dante non sta uscendo dal mare. Nel
nostro caso, direi che è lasciato al lettore se intendere che la visione di Dante è simile a un sogno
(ciò che la similitudine letteralmente dice), o intendere che è un sogno.
      Quello che è originale in questa similitudine dantesca è l’accento posto sul piacere che il
soggetto prova a risentire la «passione impressa» nella mente dal sogno, dopo che il sogno è svanito
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dalla memoria. Questa è un’esperienza umana colta perfettamente: il piacere lasciato nella mente
come traccia del sogno. La mente può ritenere poco del sogno, perché i vincoli attivi nella mente
sveglia le impediscono di contenere l’esperienza fatta in un momento di sospensione di quei vincoli.
Resta, labile ma intensa, una traccia di piacere, piacere legato, oltre che alla dolcezza del contenuto,
al fatto in sé della momentanea, instabile liberazione dalle costrizioni della mente vigile. Così Dante
ai vv. 62-63. Una parola-chiave è passione (v. 59): da PATIOR ‘soffrire, subire’, il verbo del sentire
come passività, docilità della mente a venire impressa, appunto, dalla sensazione proveniente da
una fonte fuori dal controllo del soggetto.

6.    «Così la neve al sol si disigilla …» (vv. 64-66)

     Queste due similitudini, contenute nella terzina seguente:

          Così la neve al sol si disigilla;
      così al vento ne le foglie levi
66    si perdea la sentenza di Sibilla.

       riguardano letteralmente l’oblio della visione, non la visione stessa: ciò che Dante ha visto si
è, nella sua memoria, sciolto come neve al sole, è andato perduto come le foglie degli oracoli
sibillini disperse dal vento. Ma si tratta comunque di due immagini di scioglimento, di
allentamento, che connotano l’intera esperienza, inclusa la visione stessa. L’immagine della neve
che si scioglie era già stata usata in Pg XXX 85-99, per significare il pianto liberatorio di
riconciliazione con Beatrice: da «Sì come neve tra le vive travi…» a «lo gel che m’era intorno al
cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del petto».
Disigilla (v. 64) è l’unica occorrenza di questo verbo nel poema: in essa Dante usa, con prefisso che
ne rovescia il senso, un verbo che nel Paradiso gli è caro (VII 69, IX 117, XXIII 110, XXIV 143),
sigillare, il verbo caratteristico del ‘dare forma’, forma chiusa, come il sigillo appunto che imprime
la propria figura nella cera. Qui, al contrario, Dante dice la perdita di quella forma – ma lo dice con
piacere più che con rimpianto. Perduta subito la visione stessa, ciò che ne rimane è un dolce
abbandonarsi alla sua perdita.

7.    «… credo ch’i’ vidi …» (vv. 91-93)

      La prima cosa che Dante vede quando arriva a fissare lo sguardo in Dio (vv. 85-91), la prima
delle tre immagini in cui consisterà la sua visione di Dio, non è Dio ma è il mondo: è l’immagine
del libro dell’universo e della storia ricomposti e riconciliati in Dio, ovvero «la forma universal di
questo nodo», l’unità del tutto armonizzata dall’amore divino. Su questa immagine ci soffermeremo
più avanti (§ 12). Qui importa focalizzare il fatto che questa forma universale Dante crede di averla
vista; e che crede di averla vista perché, nel dirlo, sente di godere:

         La forma universal di questo nodo
      credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
93    dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

     La forma verbale credo, dicono tutti i commenti, non ha il senso dubitativo di ‘mi sembra di’,
ma un senso fortemente assertivo: «qui ha valore asseverativo: “so d’aver veduto…”» (Sapegno);
«qui non indica dubbio, ma asserzione sicura: “sono certo, so di aver veduto”» (Bosco-Reggio);
«non dice dubbio, ma certezza: io so di averlo visto, anche se non posso ricordarlo» (Chiavacci
Leonardi). Questo è possibile, ma non vedo da cosa sia dimostrato, e non ne sarei così sicuro.
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                                          6

Questo credo di Dante può anche essere – anche se, almeno per noi che leggiamo, non può essere
le due cose insieme, ma solo l’una o l’altra – un credo dubitativo, visto che pochi versi prima c’è
un «credo» sintatticamente molto simile, ed è, quello sicuramente, dubitativo: «Io credo… ch’i’
sarei smarrito…» (vv. 76-77); e visto che, dato il significato della causale, sarebbe questo il
significato di gran lunga più naturale del verbo credere; mentre il significato assertivo è piuttosto
sostenuto dal senso generale del canto.
      Comunque, il fondamento del «credo ch’i’ vidi» di Dante, assertivo o dubitativo che sia, è
bellissimo, perché non è altro che il piacere che gli resta dentro (reso più intimamente con la forma
intensiva pronominale «mi sento») come traccia residua della visione. A questo proposito, penso
che una singola affermazione di Boitani, all’interno di un saggio pieno di spunti illuminanti, sia
fuorviante, e cioè l’affermazione: «Dante dichiara che, usando una certa espressione (“la forma
universal di questo nodo”) sente la sua gioia aumentare… Dante è un poeta che crede in quella
visione perché può raccontarla e provare piacere raccontandola… “Perché più di largo, / dicendo
questo, mi sento ch’i’ godo” è l’affermazione più diretta mai fatta da Dante della sua passione per la
poesia»8. Penso che qui la passione per la poesia c’entri poco, non credo che questa affermazione
introspettiva di Dante abbia niente di metaletterario, ma sia tutta di natura psichica. È lo stesso
concetto che abbiamo visto espresso ai vv. 62-63 - «… e ancor mi distilla / nel core il dolce che
nacque da essa» -, la stessa esatta individuazione del piacere come traccia del fatto che il sogno c’è
stato, o l’esperienza simile al sogno c’è stata.
      Dante ha chiesto a Dio di fare la lingua sua tanto possente che… (vv. 70-71), ma Dio deve
averlo accontentato meglio di come lui chiedesse, perché invece di dargli una lingua “possente” gli
ha fatto trovare una lingua così intima. Non il linguaggio della “potenza”, infatti, ma solo quello
dell’intimità psichica poteva riportare dei barlumi di ciò che Dante, abbandonandosi, aveva visto.

8.     «finii» (v.48), «consunsi» (v. 84)

       Confrontiamo questi due versi: «l'ardor del desiderio in me finii» (v. 48), «tanto che la veduta
vi consunsi» (v. 84). I verbi che chiudono questi due versi sono stati interpretati entrambi in due
modi opposti. Per finii ci si è chiesti se significhi ‘portai al culmine’ (Sapegno, dubitativamente
Bosco-Reggio, Chiavacci Leonardi, Sermonti), o al contrario ‘sentii cessare’, ‘sentii esaurirsi’ (le
due cose insieme secondo il commento di Bianca Garavelli). Dante, nel momento in cui legge negli
occhi di Maria che il suo desiderio sarà esaudito, raggiunge la massima tensione del desiderio, o al
contrario si sente già appagato ? Per consunsi ci si è chiesti se significhi ‘sfruttai completamente’ la
capacità visiva, nel senso che essa si è acuita al massimo nella visione (Sapegno, Romagnoli,
Quaglio, Bosco-Reggio, Sermonti), o al contrario se essa si è esaurita, annullata nella visione (come
in Pd XXVI 5: Di Salvo, Chiavacci Leonardi). Questo doppio senso possibile, in entrambi i casi, è
interessante. Dante avrebbe potuto scegliere espressioni univoche, invece si è trovato a usare due
verbi che possono significare una cosa e il suo opposto. L’esperienza che ha vissuto ci appare così,
in questi due punti particolari, come nelle immagini che contengono un’illusione ottica (e come nel
«credo» del v. 92), alternativamente in un modo o in un altro a seconda che si focalizzi l’uno o
l’altro possibile significato del verbo. Nella dichiarazione della massima acutezza del desiderio e
della vista è incluso anche il senso opposto, come nell’affermazione di avere sperimentato la
visione è incluso quasi un attimo di credibilissima insicurezza.

9.     «… d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella» (vv. 106-108)

8
 Piero Boitani, Il tragico e il sublime nella letteratura medievale, particolarmente i due capitoli finali Le foglie di
Sibilla: leggendo il XXXIII canto del «Paradiso» e Verso l’ombra d’Argo: «L’acqua che ritorna equale» e il sublime
dantesco, Il Mulino, Bologna 1992; la citazione alle pp. 323-324.
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                         7

      Anche questa immagine:

       Omai sarà più corta mia favella,
    pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
108 che bagni ancor la lingua a la mammella.

      è riferita letteralmente all’incapacità della favella di ridire l’esperienza vissuta. Il fante è in
realtà un infante, che non sa parlare. Se c’è dolcezza nella traccia del sogno, anche più dolcezza c’è
nell’evocazione del seno materno. Anche in questo caso, come nel «… credo ch’i’ vidi …», benché
ciò che viene detto riguardi un aspetto collaterale alla visione (là la sua dimenticanza, qui la sua
ineffabilità), in realtà connota l’esperienza stessa della visione: nel senso dell’abbandonarsi, del
piacere, della regressione. E del linguaggio materno. Nel momento in cui il linguaggio poetico
raggiunge il culmine, una conclusiva semplicità che è il massimo frutto dell’arte, tocca all’indietro
la propria radice di linguaggio materno. La lingua organo della parola si riduce alla lingua organo
del gusto, per alludere a un linguaggio che prende dal seno materno. In effetti, il linguaggio in
questo canto attinge immagini che possono esistere solo prima dei vincoli razionali del linguaggio.

10.   «… parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza» (vv. 109-120)

      Alla terzina sul lattante-infante segue la seconda immagine in cui consiste la visione di Dio
(dopo quella del libro dell’universo-«forma universal di questo nodo», che abbiamo lasciato da
parte e di cui ci occuperemo al § 12), cioè l’immagine che visualizza l’Unità e Trinità di Dio:

          Non perché più ch’un semplice sembiante
      fosse nel vivo lume ch’io mirava,
111   che tal è sempre qual s’era davante;
          ma per la vista che s’avvalorava
      in me guardando, una sola parvenza,
114   mutandom’io, a me si travagliava.
          Ne la profonda e chiara sussistenza
      de l’alto lume parvermi tre giri
117   di tre colori e d’una contenenza;
          e l’un da l’altro come iri da iri
      parea reflesso, e ’l terzo parea foco
120   che quinci e quindi igualmente si spiri.

       Le prime due terzine mirano a evocare l’incompatibile compresenza alla vista della unità-
semplicità del «vivo lume» e della sua interna variazione di forma e colore, sdoppiando l’immagine
in sé, che non muta, dalla sua percezione soggettiva, che, potenziandosi la capacità visiva, muta,
arrivando a cogliere l’immagine insieme come semplice e come complessa. Le seconde due terzine
mettono più a fuoco – quasi mimando questo incremento di capacità visiva – la compresenza
dell’Unità e della Trinità, coi tre archi dell’iride che ora si distinguono per i loro tre diversi colori,
nonostante siano al tempo stesso indistinguibili perché, essendo di identico diametro, occupano la
stessa porzione di spazio.
       Si può dire che ci sia qualcosa di onirico in questa rappresentazione? Credo che a questa
domanda si debba dare una risposta duplice. Da una parte, questa è addirittura un’immagine onirica
da manuale. Esemplifica esattamente una caratteristica tipica delle figure oniriche, quella di essere
al tempo stesso qualcosa e qualcos’altro, come risultato del meccanismo che Freud ha chiamato di
condensazione. Ovvero, nella riformulazione teorica insieme fedele e originale di Matte Blanco,
questa immagine esemplifica esattamente una caratteristica tipica dello spazio geometrico dei sogni:
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                       8

cioè l’essere uno spazio a più di tre dimensioni, per cui le figure ibride, i centauri e le sirene
freudianamente risultanti da condensazioni, possono essere pensate come figure che erano distinte
nello spazio multidimensionale del sogno, poi collassate insieme nella ridotta mente tridimensionale
che da sveglia ne ospita il ricordo.
      D’altra parte, questa può essere un’immagine “onirica” artefatta. Il dogma della Trinità è lì.
Che cosa ci aggiunge Dante di suo, se non la pur impareggiabile fantasia e tecnica poetica? Queste
terzine sono una illustrazione, splendida ma pur sempre un’illustrazione, del dogma, del mistero di
fede. Una tale illustrazione poteva, io direi, tradursi in una rappresentazione poetica solo creando
immagini verbali di sapore onirico. Ritengo quindi che questa rappresentazione contribuisca alla
fenomenologia onirico-visionaria del canto, che stiamo recensendo, a un livello diverso da quello di
vari segnali fin qui passati in rassegna, nonché dei fatti che incontreremo più avanti; e che attesti
piuttosto la consapevolezza introspettiva e la padronanza artistica di Dante nel trattare e mettere a
frutto materiali e meccanismi di stampo onirico.

11.   «Qual è ’l geomètra che tutto s’affige… » (vv. 124-139)

      Dopo aver illustrato il mistero della Trinità, Dante passa a illustrare il mistero
dell’Incarnazione. È questa la terza e ultima immagine di Dio che egli cattura nella sua visione (non
sarà neanche il caso di soffermarsi sul numero tre, e sul fatto che l’immagine centrale delle tre è
dedicata alla Trinità). Il secondo dei tre cerchi concentrici/identici in cui si rappresenta la Seconda
Persona della Trinità sviluppa al proprio interno, secondo un’altra trasformazione visiva
inafferrabile, un volto umano:

         O luce etterna che sola in te sidi,
      sola t’intendi, e da te intelletta
126   e intendente te ami e arridi!
         Quella circulazion che sì concetta
      pareva in te come lume reflesso,
129   da li occhi miei alquanto circunspetta,
         dentro da sé, del suo colore stesso,
      mi parve pinta de la nostra effige:
132   per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
         Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
      per misurar lo cerchio, e non ritrova,
135   pensando, quel principio ond’elli indige,
         tal era io a quella vista nova:
      veder voleva come si convenne
138   l’imago al cerchio e come vi s’indova;
         ma non eran da ciò le proprie penne…

      Il tratto di incompatibilità visiva della rappresentazione, analogo al precedente dei cerchi
distinti ma coincidenti, consiste qui nel fatto che il volto umano percepito è dell’identico colore del
suo “sfondo”, per cui se ne distingue essendone indistinguibile. Vale quindi per questa terza
immagine la stessa osservazione fatta a commento della seconda: è anche questa un’immagine
“onirica” da manuale, ed è un’illustrazione del mistero delle Due Nature del Verbo tanto abilmente
giocata sulla spazialità multidimensionale del sogno quanto lo era l’illustrazione del mistero delle
Tre Persone.
      Ma qui ci sono due cose che, a me pare, vanno più in profondità.
      La prima è la similitudine del geomètra che tenta di trovare la quadratura del cerchio (vv. 133-
138), problema proverbialmente insolubile perché pi greco è un numero irrazionale. Similitudine
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                                      9

straordinaria, per chi la guardi dal punto di vista degli sviluppi logico-matematici della psicanalisi
del sogno, perché centra l’aporia dell’infinito come cuore della logica del sogno-visione
(L’inconscio come sistemi infiniti, come recita appunto il titolo del libro di Ignacio Matte Blanco)9;
e assimila il paradosso visivo dell’immagine sfuggente e il paradosso matematico del numero
irraggiungibile. C’era, è vero, l’immagine del cerchio, e la parola cerchio, che poteva far scattare
l’associazione fra i due paradossi, ma che essi potessero rivelarsi manifestazioni della stessa logica
era al di là dell’epistemologia a cui poteva accedere Dante. È, diciamo, il segno di una sua
eccezionale capacità di introspezione nei meccanismi strutturali del sogno o visione che dir si
voglia.
       La seconda cosa notevolissima, a me pare, è il neologismo indovarsi. Vorrei far notare (ciò
che non trovo notato in nessun commento, né nella apposita trattazione nell’Enciclopedia
dantesca10) la profonda differenza semantica che intercorre fra questo parasintetico e altri
apparentemente altrettanto audaci come indiarsi (Pd IV 28), inmiarsi e intuarsi (Pd IX 81),
inluiarsi (Pg IX 73), inleiarsi (Pd XXII 127), intrearsi (Pd XIII 57), incinquarsi (Pd IX 40),
inmillarsi (Pd XXVIII 93), insemprarsi (Pd X 48), inforsarsi (Pd XXIV 87), ecc. In tutti questi casi
il significato del verbo è quello di ‘diventare…’ (o ‘entrare in…’) + il significato del morfema
centrale del parasintetico, sia esso un sostantivo (indiarsi = ‘immedesimarsi o immergersi in Dio’);
un pronome personale (inmiarsi, intuarsi, inluiarsi, inleiarsi = ‘diventare o entrare in me, te, lui,
lei’); un numerale (intrearsi, incinquarsi, inmillarsi = diventare tre, cinque, mille’); un avverbio di
tempo o di probabilità (insemprarsi = ‘diventare eterno’, inforsarsi ‘diventare dubbio’). Ma
indovarsi significa ‘diventare dove’ o ‘entrare in dove’? Queste espressioni – a riprova che la
struttura è diversa - sono prive di senso (o meglio non riusciamo a mettere a fuoco che senso
possano avere) e agrammaticali. Noi parafrasiamo s’indova con ‘si alloca, ha luogo, trova luogo, si
inserisce, si colloca’, ma nel far ciò regolarizziamo senza accorgercene la struttura semantica del
verbo, il cui morfema centrale è un avverbio o interrogativo o relativo. In entrambi i casi esso
include un tratto semantico che non può essere contenuto nel verbo parasintetico. Peraltro, se dove è
avverbio interrogativo, s’indova esprime un’interrogazione quanto mai confacente alla situazione
mentale, che è appunto di esplorazione senza risposta. E, se dove è avverbio relativo, altrettanto
bene s’indova include un senso di esplorazione senza risposta del ‘luogo in cui…’, espressione
implicita che resta in sospeso. Ma in entrambi i casi questa appropriatezza psicologica e cognitiva
non trova luogo nella struttura semantica del verbo, non può entrarvi. La struttura semantica del
verbo parasintetico è stata forzata a includere un elemento semantico che è con essa incompatibile.

12.    «…legato con amore in un volume… » (vv. 85-93)

       In tutta la precedente rassegna di segnali onirico-visionari, che pure sono tali in modi e in
sensi diversi, ho lasciato da parte la prima immagine in cui si realizza la visione di Dio, quella del
libro dell’universo; e ho lasciato da parte un’immagine che non fa parte (almeno letteralmente) della
visione di Dio, ma vi balena in un passaggio singolarissimo, quella dell’ombra d’Argo. Le ho
lasciate da parte perché ritengo che siano, la prima e ancor più la seconda, portatrici di particolare
informazione.
       Cominciamo quindi dal libro dell’universo. Come scrive Curtius nel suo classico capitolo Il
libro come simbolo: «Il libro ebbe il suo riconoscimento più alto dal cristianesimo. Il cristianesimo
fu una religione del libro sacro. L’unico Dio che l’arte antica abbia raffigurato con un rotulo scritto
fra le mani è Cristo»11.
9
  Ignacio Matte Blanco L’inconscio come sistemi infiniti. Saggio sulla bi-logica. Nuova edizione a cura di Pietro Bria,
Prefazione di Remo Bodei, Einaudi, Torino 2000.
10
   Voce Parasinteti, di Federigo Tollemache, in Enciclopedia dantesca, Appendice, Roma, Istituto della Enciclopedia
italiana, 19842, pp. 490-492.
11
   Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di Roberto Antonelli, La Nuova Italia, Firenze
1992, p. 344.
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                                       1

      Tutta la varia simbologia del libro nell’opera di Dante, dall’incipit della Vita nova («In quella
parte del libro della mia memoria dinanzi a la quale poco potrebbe leggersi…»), fino al «magno
volume / du’ non si muta mai bianco né bruno» (Pd XV 50-51), cioè il libro dell’universale
predestinazione divina in cui legge Cacciaguida, fino a questa finale immagine del libro
dell’universo e della storia riconciliati in Dio; tutta questa varia simbologia dantesca presuppone la
Bibbia e la sua esegesi - come presuppone peraltro l’alto valore e fascino medievale del
manoscritto, il concentrato di costo materiale, tempo, fatica e dedizione del copista, e irriproducibile
bellezza del manufatto:

          Nel suo profondo vidi che s’interna
       legato con amore in un volume,
87     ciò che per l’universo si squaderna:
          sustanze e accidenti e lor costume,
       quasi conflati insieme, per tal modo
90     che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
          La forma universal di questo nodo
       credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
93     dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

       In particolare, questi versi di Dante richiamano più da vicino, senza che sia possibile stringere
un legame privilegiato con uno solo di questi riscontri:
       a) il libro escatologico di cui parla l’Apocalisse, «librum scriptum intus et foris signatum
septem sigillis», sigilli che l’agnello apre uno dopo l’altro fino a scatenare il giudizio universale; ma
anche libro che si richiude nell’apocalisse stessa, come il cielo che implode: «et caelum recessit
sicut liber involutus» (5-6: l’una e l’altra immagine rimandano a due passi profetici dell’Antico
Testamento, rispettivamente Isaia 34,4 e Ezechiele 2, 9);
       b) il Dies irae di Tommaso da Celano, che riformula il libro escatologico dell’Apocalisse nei
versi: «Liber scriptus proferetur / in quo totum continetur / unde mundus iudicetur»;
       c) S. Agostino, Enarratio in psalmum XLV, 6-7, che sviluppa il «librum scriptum intus et
foris» dell’Apocalisse facendogli assumere il significato rispettivamente di «libro della Bibbia che,
manifestando il Verbo, è destinato all’ascolto, e libro del mondo, posto sotto gli occhi di tutti»12;
       d) S. Bonaventura, Breviloquium II c. 11, che introduce una variante allo stesso concetto:
«duplex est liber, unus scilicet scriptus intus, qui est aeterna Dei ars et sapientia, et alius scriptus
foris, mundus scilicet sensibilis».
       Ma l’immagine di Dante, a giudizio di diversi studiosi recenti, evoca insieme il poema stesso
di Dante, il poema sacro, sul punto finalmente di compiersi, e quindi di presentarsi come libro
rilegato. Così John Ahern: «In the same moment when the Pilgrim has the privilege of reading the
very liber coelestis which Cacciaguida read, the reader, now possessing a complete set of fascicles,
can at least bind them into a single book. Volume, then, besides denotating the all-inclusive sphere
of the created universe and the related image of the heavenly book, refers also to the Comedy qua
book, and the reader’s copy of that book»13.
12
   Andrea Battistini, L’universo che si squaderna: cosmo e simbologia del libro, in Letture classensi. Ciclo curato da
Ezio Raimondi, vol. XV, Longo, Ravenna 1985, p. 66.
13
   John Ahern, Dante’s Last Word: The “Comedy” as a “liber coelestis”, «Dante Studies», 102, 1984, p. 10 (e cfr.
anche, dello stesso autore: Binding the Book: Hermeneutics and Manuscript Production in Paradiso 33, «Proceedings
of the Modern Language Association», 97, 1982, pp. 800-809). Lo stesso concetto è ribadito in Peter Dronke, The
Conclusion of Dante’s Commedia, «Italian Studies», 49, 1994, p. 30: «Dante may here be thinking simultaneously of
the Divine Book of Life and of his own book, his Commedia, which he had released over the years in gatherings
(quadernetti, as Boccaccio calls them), six or eight cantos at a time, but which he did not live to see bound in a
completely ordered whole»; e Georges Güntert, Canto XXXIII, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, a cura di
Georges Güntert e Michelangelo Picone, Cesati, Firenze 2002, p. 510: «E di un tale “volume”, metafora dell’universo
che “si quaderna” nelle sue parti, si parla ai vv. 85-86. Inteso in senso proprio, il vocabolo “volume” può riferirsi anche
al volume dantesco che racchiude in sé l’universo molteplice, convergente nell’unico sguardo finale».
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                         1

      Pur provando in genere, lo confesso, insofferenza per la moda di leggere in testi dei generi più
disparati una sempre uguale, appiattita e ripetitiva autocitazione o mise en abîme dell’opera stessa,
come se costituisse il culmine del significato dell’opera stessa, in questo caso particolare, e per le
precise ragioni che dirò più avanti, anch’io penso che in questa immagine ci sia condensato, oltre
che il libro dell’universo e della storia (con tutto ciò che esso a sua volta condensa in sé), anche, e in
un certo senso anzitutto, il libro compiuto di Dante. In fondo, nell’espressione «ciò che per
l’universo si squaderna», decontestualizzata, tutti siamo abituati a leggere quasi una descrizione
proverbiale del contenuto di realtà dell’onnivoro poema a cui han posto mano e cielo e terra. Ma a
me sembrerebbe oltremodo futile pensare, da parte di Dante, a un’intenzionale, ed egocentrica,
allusione metaletteraria. Sento invece perfettamente in linea con lo slancio e la commozione di
questo ultimo canto che tutto il vissuto del poema «che m’ha fatto per molti anni macro» si deversi
come una piena in queste terzine, “spingendo” in primo piano l’immagine del libro dell’universo,
biblica ma tutt’altro che ovvia come prima immagine della visione di Dio. Il che significa che tutta
la realtà durissima del mondo contemporaneo che ha riempito il poema («Quelli ch’usurpa in terra il
luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del
cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza…», Pd XXVII 23-26, non è tanto lontano), tutto
l’agonismo di Dante che a quella realtà ha opposto fisicamente la sua persona e la sua scrittura, tutta
questa tensione tanto protratta, giunge finalmente a sciogliersi in questo premio, in questa
liberazione dal peso portato così a lungo.

13.   L’«ombra d’Argo» (vv. 94-96): il senso letterale

         Un punto solo m’è maggior letargo
      che venticinque secoli a la ’mpresa,
96    che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
         Così la mente mia, tutta sospesa,
      mirava fissa, immobile e attenta,
99    e sempre di mirar faceasi accesa.

     L’interpretazione letterale della terzina (vv. 94-96), nonostante l’espressione sia estremamente
compressa, o condensata che dir si voglia, non è in realtà così oscura come gli interpreti (più quelli
moderni che quelli antichi) hanno a lungo ripetuto.
     Incastrata fra la prima delle immagini in cui consiste la visione di Dio, cioè l’immagine del
disperso contenuto dell’universo finalmente «legato con amore in un volume», ovvero della «forma
universal di questo nodo» (vv. 85-93: vedi il § precedente), e il séguito in cui la visione di Dio
prende altre forme (già esaminate ai §§ 10-11), la terzina si può diffusamente parafrasare così:

         “un punto solo, un attimo solo (cioè il punto o attimo in cui la visione del
         volume-nodo mi apparve), è per me causa di maggior oblio di quanto
         venticinque secoli non siano stati causa di oblio per l’impresa degli Argonauti
         (venticinque secoli, cioè praticamente l’intera durata della storia dell’umanità
         secondo la cronologia della storia profana, era il lunghissimo tempo
         intercorrente fra tale impresa e il tempo di Dante); quell’impresa che fece sì
         che Nettuno, dal fondo del mare, ammirasse stupefatto l’ombra della nave
         Argo che per la prima volta ne solcava la superficie. Allo stesso modo (cioè
         come Nettuno ammirava stupefatto, guardando dal basso all’alto, la chiglia
         oscura della nave), così la mia mente, tutta sospesa (come liberata dalla
         gravità della percezione normale), mirava fissa in Dio, senza minimamente
         distogliersene e tutta in esso concentrata, e sempre più s’accendeva del
         desiderio di continuare a contemplarlo”.
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                        1

      La terzina è tenuta legata al contesto con due legami, due paragoni: il primo la collega a
quanto precede, il secondo la collega a quanto segue.
      Il primo paragone, con quanto precede, ha lo schema: “il mio oblio è maggiore di….”. La
contrapposizione è qui fra istantaneità e lunghissima durata. L’intera durata della storia profana
dell’umanità non ha potuto consumare la memoria dell’impresa d’Argo quanto un solo istante ha
bruciato il ricordo della mia visione di Dio, dice Dante. L’istante in cui avviene l’oblio è l’istante
stesso della visione, perché in quello stesso istante essa non può allocarsi nella memoria, essendo
questa incapace di riceverla.
      La similitudine è chiara, anche se in un dettaglio sintattico soltanto non è perfetta. Infatti, in
forma di proporzione, abbiamo: “un punto solo” : “venticinque secoli” = Dante, compl. di termine
(“m’è”) : l’impresa degli Argonauti, compl. di termine (“a la ’mpresa...”). Una cosa, in questa
proporzione, non torna: il primo complemento di termine, mi, designa il soggetto che dimentica, il
secondo complemento di termine, a la ’mpresa, designa l’oggetto che viene dimenticato. Sembra
quasi che ci sia stata troppa compressione delle parole nella frase; il che non ne ostacola davvero la
comprensione, ma rivela una anomalia logica una volta che la frase sia sottoposta ad analisi.
      Una parola pregnante è qui letargo. Come notano già i commentatori antichi, sulla scia di
Isidoro e dei lessicografi successivi, «est… letargum, ut tradunt Hippocrates, Galienus, Avicenna et
alii physici, oppressio cerebri cum oblivione et continuo somno, quasi dicat : plus me sopit et
smemorat, che venticinque secoli, ecc.» (Benvenuto): cfr. «letargo… infermità che induce difetto
alla memoria» (Ottimo); «lethargus… idest oppressio cerebri cum oblivione in somnio» (Pietro
Alighieri); «maggior letargo; cioè maggiore dimenticagione» (Francesco da Buti).
      Ma non può essere casuale che il lethargus, parola molto rara in tutta la letteratura
mediolatina, sia il morbo da cui è afflitto Boezio, autore familiarissimo a Dante e per vari aspetti
suo alter ego; il quale da quel morbo è ridotto a essere «non modo taciturnum, sed elinguem prorsus
mutumque», come diagnostica la Filosofia quando gli appare in visione: «lethargum patitur,
communem illusarum mentium morbum» (De consolatione philosophiae, I ii).
      Impressiona nella terzina dantesca che il punto del massimo acume visivo coincida col suo
opposto, il torpore patologico – quasi la condizione antitetica al Dante giunto al termine e all’acme
della catarsi oltremondana, il Dante che (come appunto Boezio all’inizio del De consolatione) è,
pieno di sonno, smarrito nella selva oscura. Quasi un richiamo ai vv. 138-139 del canto precedente
(v. § 4), e comunque un altro caso di condensazione di opposti entro uno spazio verbale troppo
piccolo.
      Tutti i commenti antichi individuano correttamente il legame fra la nostra terzina e quanto
precede, consistente nel paragone che abbiamo illustrato: “il mio oblio è maggiore di….”. Invece
solo uno di quei commenti, le cosiddette Chiose Vernon, individua anche il legame che unisce la
terzina a quanto segue: «E dicie l’altore che chome Netunno ghuardava fiso quella nave così egli
ghuardava fiso Idio, ch’egli non se ne potea rimanere né partire di ghuardallo, però che dicie che
vedea quel bene che è sanza niuno pari infinito». Le Chiose Vernon cioè focalizzano giustamente il
«Così… » del v. 97 che istituisce la similitudine fra la visione di Nettuno e quella di Dante: Nettuno
guarda Argo come Dante guarda Dio.
      Che il senso sia questo, per la verità, è evidente, e si stenta a capire come gli interpreti siano
riusciti a non vederlo e a confonderlo in molti modi. Ma questo è accaduto. Basti riportare la nota
del Sapegno, che per primo fra i commenti moderni recupera questa interpretazione (ovvia e
lineare), peraltro circonfondendola di una vaghezza di cui non si capisce la ragion d’essere:

           Più arduo è determinare con esattezza il passaggio da questa terzina
           alla seguente, introdotta da un così che, a mio parere, non tanto
           esprime una successione di concetti quanto piuttosto riflette vagamente
           una concatenazione d’immagini.. [Riferisce quindi tre cervellotiche
           spiegazioni precedenti qualificandole giustamente come] penoso
M. Tavoni, La visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso                           1

                sforzo intellettualistico con risultati, a dir poco, meschini. Credo
                invece che qui il passaggio si svolga, per via più lirica che discorsiva,
                sul filo di un puro riecheggiamento verbale (ammirar... mirava)
                [seguono ulteriori sotto-interpretazioni non necessarie e a loro volta
                devianti].

      In realtà il così è, se vogliamo usare le parole del Sapegno, perfettamente «discorsivo», e
inserito in una «successione di concetti» chiarissima (ovvero è perfettamente logico, e non «più
analogico che logico», come riformula l’idea di Sapegno il commento di Bianca Garavelli). La
ripresa lessicale ammirar... mirava è vistosa e voluta, e non si tratta di un «puro riecheggiamento
verbale», nel senso di fonico, ma di una ripresa pienamente semantica: è la stessa azione, l’azione
del guardare intensamente, fissamente, con la stessa stupefazione di fronte a un’immagine che in
entrambi i casi ha del miracoloso; e in entrambi i casi con lo sguardo in verticale, dal basso all’alto.
E, in più, con la straordinaria visività dovuta al filtrare della luce attraverso l’acqua, che conferisce
anche alla visione di Dante una luminosità meravigliosamente cristallina. Infine – elemento che non
trovo notato da nessun commento – a me pare evidente che la qualificazione «tutta sospesa» è parte
integrante, e importante, del paragone: Dante percepisce la propria mente liberata dalla gravità, così
come è “sospeso”, libero dalla forza di gravità, Nettuno immerso e fluttuante nel mare. In entrambi i
casi lo sguardo proviene da un soggetto liberato dal proprio peso.
      Dunque l’intensità lirica – e visionaria – convive con la più nitida chiarezza logica del dettato.
Sempre che, beninteso, si capisca che ammirar, al v. 96, è nel senso etimologico e pienamente
visivo di ‘guardare’ (con fissità, stupefazione, ecc.), cioè che è perfettamente sinonimo del mirava
del v. 98. Lo stesso significato che si ritrova anche in Pg IV 14 «udendo quello spirto e
ammirando», Pg X 68-69 «Micòl ammirava / sì come donna dispettosa e trista», Pg XXIII 20-21
«venendo e trapassando ci ammirava / d’anime turba tacita e devota». Forse diversi interpreti non
hanno colto esattamente questo significato, e hanno ridotto ammirar al senso moderno, indebolito,
di ‘considerare con ammirazione’, rimuovendone il valore visivo di base; con il che il paragone non
torna.

14.      L’«ombra d’Argo» (vv. 94-96): il valore simbolico

      La terzina, dunque, è e resta enigmatica non perché il suo senso letterale sia oscuro, ma perché
è sorprendentemente allotria rispetto al contesto. Per quanto Dante l’abbia per così dire inchiodata
logicamente da entrambi i lati al testo precedente e a quello seguente, la sua eterogeneità resta
stupefacente, come la sua a-teologicità. Cosa c’entra con la visione di Dio, per quale volo della
mente è arrivata a balenare entro la visione di Dio l’immagine di un dio pagano che contempla
l’impresa nautica di un eroe greco, che è peraltro un seduttore fraudolento?
      Questo stupore è stato ben espresso nel suo commento da Sermonti. Il quale, a proposito della
visione di Dio in generale, scrive: «È corretto mettere in guardia il lettore, segnalando che due
millenni di poesia cristiana non hanno mai prodotto tanto scandalo di grandezza; e darsi il coraggio
di leggere quel che un uomo dal grande naso ha avuto sette secoli fa l’eroica spudoratezza di
scrivere»; e in particolare a proposito dell’«ombra d’Argo» aggiunge: «il fatto poi che la “’mpresa”
sia designata come quella che sbalordì il dio Nettuno, in tanto in quanto per la prima volta egli
vedeva dal fondo del mare scorrere in superficie la chiglia d’una nave come un’ombra fatua, è
dettaglio che sbalordisce anche chi dubiti di aver capito a dovere l’enigmatica magnificenza della
terzina»14.
      Per cercare il senso di questo flash, esploriamo la rete dei rimandi a Giasone e agli Argonauti
nel poema15. Ci accorgeremo così che Giasone ha molto a che fare con Ulisse. Entrambi eroi pagani
greci; entrambi fraudolenti dannati nell’ottavo cerchio (l’uno fra i seduttori nel XVIII canto, l’altro
14
     Vittorio Sermonti, Il Paradiso di Dante, revisione di Cesare Segre, Rizzoli, Milano 1993, pp. 545-546.
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