La lussuria nel Canto V dell'Inferno Un'analisi basata sugli scritti di Giulio Giorello, Lorenzo Renzi, Giorgio Inglese e Emilio Pasquini: quattro ...

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Faculteit Letteren en Wijsbegeerte

                          2010-2011

    La lussuria nel Canto V dell’Inferno

  Un’analisi basata sugli scritti di Giulio
 Giorello, Lorenzo Renzi, Giorgio Inglese e
Emilio Pasquini: quattro guide per una nuova
                lectura dantis

      Master in de Taal- en Letterkunde: Frans - Italiaans

                         Masterproef

                ingediend door Leen Drieskens

             Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst
Faculteit Letteren en Wijsbegeerte

                          2010-2011

    La lussuria nel Canto V dell’Inferno

  Un’analisi basata sugli scritti di Giulio
 Giorello, Lorenzo Renzi, Giorgio Inglese e
Emilio Pasquini: quattro guide per una nuova
                lectura dantis

      Master in de Taal- en Letterkunde: Frans - Italiaans

                         Masterproef

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             Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst
Ciò che agisce in modo subliminale può essere spesso altrettanto importante di quello che
è palese.1

1
 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante,
Bologna, il Mulino, 2007, pp.55.
Parola di ringraziamento
In primo luogo, vorrei ringraziare la mia direttrice di tesi, la prof.ssa Sabine Verhulst, per
mi aver offerto la possibilità di scrivere una tesi su un Canto della Divina Commedia, per
la Sua pazienza e per i buoni consigli Suoi.

Vorrei anche ringraziare il mio amico, il mio sostegno, e i miei genitori, in cui trovo
sempre conforto, per la loro fede incrollabile in me.
Indice

0. Introduzione ........................................................................................................... p.7

1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo................................................ p.11

1.1. Il settenario .......................................................................................................... p.11

1.2. Il vizio della lussuria............................................................................................ p.12

1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo ................................................ p.12

1.2.2. Vizio del corpo ................................................................................................. p.13

1.2.3. Vizio dell’anima ............................................................................................... p.15

1.2.4. I coniugati e la lussuria. «Se non riescono a contenersi si sposino, meglio
       sposarsi che ardere (I Cor. 7,9)» ..................................................................... p.17

2. La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno ........................................... p.19

3. La lussuria come potere nel Canto V dell’Inferno.............................................. p.31

4. La lussuria come piacere e dolore nel Canto V dell’Inferno ............................. p.44

5. La lussuria come filosofia nel Canto V dell’Inferno........................................... p.52

6. La lussuria come inganno e come sovversione nel Canto V dell’Inferno ......... p.61

7. La lussuria nel Canto V dell’Inferno: conclusione ............................................. p.66

Bibliografia................................................................................................................. p.70
0.      Introduzione
“Non v’è dubbio che fra gli’insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del terzo
millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al centro di tutta
un’esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte, capace di rinnovare la vita di
una persona, di orientarla al meglio.” Come afferma Emilio Pasquini nel suo libro Dante e
le figure del vero. La fabbrica della Commedia, la lettura della Divina Commedia
dantesca si mostra rilevante anche nel terzo millennio. Ovviamente, un’opera di qualche
secolo fa rischia di non essere più adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca
conosce tendenze critiche differenti per quanto riguarda la Commedia, “ogni generazione
[…] legge il ‘suo’ Dante” 2, e quindi, come lo pone Renzi, “siamo prigionieri anche noi
del nostro tempo”3.

Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia, soprattutto quello di Paolo e
Francesca risulta molto interessante per i lettori di oggi4. L’amore-passione che forma il
nucleo della storia continua a intrigare. Rappresenta una delle idee riguardanti l’uomo tra
cui Dante, in un modo meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni
creano la celebre “feconda ricchezza di Dante”, la quale fa sì che tanto all’epoca (quando
si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto oggi (ormai importa la
nostra coscienza etica) si scoprono delle idee sorprendenti e chiarificatrici nell’opera5.

Accanto a questo, la storia dei due lussuriosi illustra pure la “persuasione [di Dante] della
presenza, nella vita di ognuno, di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell’uomo
[…]”. Oggi, asserisce Pasquini,

        una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in futuro), su un piano totalmente
        terreno, le scelte radicali che decidono il corso di un’esistenza, le svolte cruciali
        che imprimono alla vita di un individuo una precisa e irreversibile direzione,
        decidendo del suo destino in terra6.

2
  Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Paravia, Bruno Mondadori
Editori, 2001, pp.257.
3
  Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante, cit.,
pp.12.
4
  Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259.
5
  Ibidem, pp.269.
6
  Ibidem, pp.275.

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Introduzione

Si può aggiungere che, in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane Dante
s’inserisce perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale è
completamente fissata sull’acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo personale
completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l’avvertimento di Dante
adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando rischia di condurre non alla
magnanimità ma alla folia.7 D’altronde, Inglese segnala che “il carattere ‘realistico’ del
poema, dei suoi personaggi e delle sue scene” illustra che Dante utilizza il mondo terreno
come una “metafora dell’oltremondo”, “l’altro mondo è reso sensibile e leggibile con le
forme del nostro mondo”8. Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi
possono capire abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta.

La conoscenza del mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini e
quello del filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria non concorda con
la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo della presente tesi. Ne risulta
che la lussuria, dal punto di vista cristiano, si presenta come un fenomeno disprezzabile. Si
tratta di una caratteristica umana da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta
un punto di vista molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione
della conoscenza9.

Propone un’analisi molto originale del vizio, mirata a provocare, nel ventunesimo secolo,
una sensazione di liberazione nel lettore della letteratura d’ispirazione cristiana sul
soggetto. Giorello considera la lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo
luogo, come una libertà: “E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società
aperta e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti”10. Anche se il
concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto quotidiano, universale e laico,
non viene trascurato il significato cristiano del termine.

L’autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il desiderio lussurioso
può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come potere, come filosofia, come
inganno… Andando al fondo della nozione di lussuria, stabilisce delle relazioni
significative tra vari testi, autori e concetti.

7
  Ibidem, pp.271-273.
8
  Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.9.
9
  Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010.
10
   Ibidem, risvolto della sopraccoperta.

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Introduzione

A mio giudizio la lettura del Canto V dell’Inferno dantesco nell’ottica proposta da
Giorello può offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una
lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei dimostrare
che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del testo dantesco –anzi, tutta
la Commedia- e di agganciarlo alla società del ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf.
supra).

Tutte le manifestazioni della lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto
V, poiché i suoi ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di
presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la religione
cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno soltanto latente (cf.
supra). Anche nel libro di Giorello l’aspetto religioso della lussuria non è quello più
importante, ma è sempre presente in modo velato. Ciò significa che predomina la
ricchezza rappresentata dalle varie manifestazioni del concetto denominato lussuria, a
scapito della visione cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio.

Tutto ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con commenti
da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la presente tesi.
L’accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti. Dato che il mio scopo è
l’elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel celebre Canto V prendendo come
guide alcuni studiosi contemporanei, l’aggiunta di pensieri e di ragionamenti provenienti
dal libro Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di
Dante di Lorenzo Renzi arricchirà ancora l’esposizione, tra l’altro la parte nella quale si
tratta della colpevolezza o dell’innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole
reagire “sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all’interesse privilegiato
mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca”11.

L’autore specifica che l’episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia della
Commedia, “cioè la parte per il tutto: […] drammatizza e presenta in exemplo la palinodia
di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del mondo dell’amore terreno e della sua
poesia (lo Stil novo), per cominciare l’ascensione”.

Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio di Francesca si rivela
tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare il suo contrario, una “palinodia della

11
  Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante, cit.,
pp.12.

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Introduzione

palinodia: una nuova esaltazione dell’amore terreno”12. Accanto al riferimento a Valesi il
testo di Renzi offre ancora molte informazioni sorprendenti riguardanti altri autori e
commentatori.

Giorgio Inglese, poi, è il quarto critico principale che sarà evocato. Il suo commento
all’Inferno mi ha procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia,
una struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull’importanza, nel Canto V, di
contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del terzo millennio. La
maturità della disciplina (“la quantità [dei studi] è ormai misurabile solo con i mezzi
dell’elettronica”) non implica però “stagnazione”, “e lo dimostra bene, per quanto riguarda
la Commedia, proprio la vitalità del genere ‘commento’”13.

In ogni capitolo della presente tesi, una nozione filosofica evidenziata nel libro già citato
di Giorello si trova alla base delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei
ragionamenti s’intrecciano varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni
altri commentatori.

12
     Ibidem, pp.7-8.
13
     Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.12.

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1.      Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo
Come capitolo introduttivo presenterò un resoconto generale del paradigma dei sette vizi
capitali nel Medioevo, incluso un attenzione particolare per la storia del vizio della
lussuria. Baserò questa visione d’insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati
nel Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni Einaudi
nel 2000.

1.1.    Il settenario

Anzitutto si deve segnalare che il sistema dei vizi capitali non è un’invenzione di un
individuo. Si tratta piuttosto di una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli,
continenti e persone diversi; di un “enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un
efficace schema classificatorio per parlare [...] ‘del mondo’”14. Un topos, per così dire.
Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva, ben circoscritta, ha
avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto presso i laici.

Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l’Occidente, la storia medievale di questi sette
vizi inizia con gli scritti di tre ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e
Gregorio Magno. Cassiano (V° secolo), avendo delineato nelle sue opere l’insieme delle
teorie del suo maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più
significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Fino al XV° secolo,
il settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano –ed Pontico attraverso gli scritti del suo
allievo- ha contribuito, ha avuto grande successo. Dante, quindi, ha vissuto in un’epoca
che accordava molto importanza all’idea dei sette vizi capitali. Si deve specificare che
tanto Pontico quanto Cassiano distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola,
lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall’opera di
Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI° secolo), ne
distingue sette; non menziona più l’invidia come vizio capitale. Anche Moralia in Job
costituisce un’opera di notevole importanza per la cultura medievale: “è molto più di un

14
  C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000,
pp.XVI.

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Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

commento: esegesi, teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo
respiro”15.

Il paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l’impronta dell’ambito nel quale è stato
lavorato, cioè l’impronta della società monastica –non solo quella occidentale. Infatti,
Cassiano aveva apportato all’Occidente conoscenze orientali –egiziane, siriane-, adottate
dalla cultura monastica orientale, raccolta nell’Egitto. Anche il suo maestro, Pontico,
aveva imparato molto sui vizi capitali “in quel crogiolo culturale che fu Alessandria
d’Egitto alla fine del IV° secolo”16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale
si sono confuse con questa sapienza proveniente dall’Oriente.

Di più, le idee rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà proprie
alla vita nel monastero: “Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli da superare lungo il
cammino di perfezione al quale si sono votati, in una continua battaglia contro se stessi e
contro quel ‘mondo’ che si sono lasciati alle spalle”17.

Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del settenario, almeno per quanto
riguarda il Medioevo. In quello che segue tratterò più in dettaglio la storia medievale di
uno dei vizi capitali, cioè di quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la
lussuria.

1.2.    Il vizio della lussuria

1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo

Non solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già nella cultura
pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano apertamente di sentire tali
voglie. La religione cristiana si è adeguata molto abilmente a queste preoccupazioni,
riunendole in un vizio capitale chiamato lussuria. Denominando così sentimenti vari e
irrequieti, la fede calma, crea ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni
persona che si riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo.
Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione di vita,
tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani.

15
   Ibidem, pp.XI.
16
   Ibidem, pp.XII.
17
   Ibidem, pp.XV.

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Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

Cassiano descrive la lussuria, situandola nell’ambito della natura propria agli uomini,
come un vizio intrinseco, come un aspetto essenziale della specie umana. Magno –monaco
e papa-, anzi, pone che essa sarebbe un’attività tutto naturale del corpo, che, per di più,
sarebbe intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede apparire,
in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità umana. Rimanendo nel
contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione, crea infatti un idea che spiana la
via per la lussuria: se forma un desiderio proprio all’uomo tanto naturale quanto il bisogno
di mangiare e di bere, non si può evocare più niente per intimargli l’alt.

Ma, a dire il vero, la visione della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli
medievali è quella ideata da Agostino.

Secondo lui, l’elemento chiave che trasforma la sessualità dell’uomo in un’attività
peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima della ribellione di Eva e Adamo
contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero stati i padroni assoluti dei loro organi
sessuali, presenti per rassicurare la procreazione della specie umana. Dopo, invece, come
punizione reciproca per la loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano
insubordinati, non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter
dominare l’anima dell’essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della pena imposta
ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza irrimediabile del fatto
che si sta parlando dell’attività responsabile per la generazione: l’uomo trasmette quel
peccato di padre in figlio, per l’eternità. Per forza, i figli nascono peccatori.

Nonostante il fatto che la visione agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il
Medioevo, si comincia già a rivederla nel XII° secolo. Si osserva infatti “un processo di
‘desessualizzazione’ del peccato originale”18. Implica l’accettazione della concupiscenza
come una delle conseguenze del peccato originale, non come l’effetto principale di questo.
Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall’ambito peccaminoso nel quale era stata
introdotta: “La natura era ormai inevitabilmente corrotta”19.

1.2.2. Vizio del corpo

Cassiano attribuisce alla lussuria (denominata, in un primo momento, la fornicazione),
tutto come alla gola, lo statuto di vizio carnale, “un vizio cioè che implica
18
     Ibidem, pp.151.
19
     Ivi.

                                                                                       13
Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

necessariamente la partecipazione del corpo”20. Rivendica non solo la cooperazione degli
organi sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali: gli occhi,
le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si presenta come il solo vizio
capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi.

Nel Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione
approda all’idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del vizio, ma ne
subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente –si tratta di conseguenze di atti
peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli:

        terribili mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle
        forze, vita breve e, su tutto, l’immonda malattia che attraverso piaghe ripugnanti e
        maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la lebbra21.

Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con il vizio della
fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può manifestare la lussuria. Il vizio
rivendica la sussistenza della carne umana per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato
intrinseco al fisico umano.

A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova essenzialmente in fisici
maschili. Questo aspetto della fisionomia della fornicazione non deve sorprendere: si parla
di un peccato il quale carattere ed essenza sono stati messi a punto negli monasteri –abitati
da ecclesiastici maschili (fra le altre “i padri fondatori del settenario dei vizi”22: Pontico,
Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla fornicazione,
tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non vengono mai considerate
capaci di intervenire come iniziatrici per quanto riguarda questo peccato. La femmina,
invece, ritenuta un essere più debole che il maschio, era creduta molto suscettibile delle
avance peccatori esibite dal suo corrispondente maschile.

Inoltre, l’insieme di gioielli, profumi, tenute ecc. (l’ornatus, come scrivono Casagrande e
Vecchio) che mette l’accento sull’eleganza femminile si considerava un tutto che serviva
essenzialmente a rendere i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più
sensibili ai suggerimenti lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive “le donne che
si vestono e si truccano per andare a ballare” tramite una metafora memorabile: “[sono
20
   Ibidem, pp.152.
21
   Ibidem, pp.153.
22
   Ibidem, pp.155.

                                                                                                14
Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

come] un esercito di soldatesse del Diavolo che si prepara a dare battaglia per strappare a
Dio l’anima degli uomini”23. Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi
come istigatrici del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno i loro
fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e così, inconsapevolmente,
incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad atti lussuriosi.

1.2.3. Vizio dell’anima

Fin qui, la lussuria è stata dipinta come un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero,
la sua origine non è soltanto carnale, ma si trova nell’interiorità più profonda dell’anima
umana.

Proprio i monaci –abitanti dell’ambito nel quale è cresciuta l’idea del vizio capitale
abbordata- hanno (tra l’altro) riconosciuto che il nucleo della fornicazione sarebbe di
natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può leggere una frase che non lascia adito
ad alcun dubbio: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio
con lei nel suo cuore” (Mt. 5, 28)24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse
essere lussurioso. Inserisce piuttosto una fase intermedia nell’insieme di fasi propri
all’azione peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell’anima dell’uomo;
in seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale (questa
costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza evangelica); infine l’atto
adultero si svolge per quanto riguarda il corpo reale, di carne e ossa.

A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora specificare la differenza, quanto al
peccato della lussuria, tra carne e corpo, vale a dire:

         quando l’anima cessa di pensare, immaginare, ricordare, assecondare, ascoltare, in
         una parola servire il corpo, il corpo cessa di essere carne, oggetto e strumento di
         quel desiderio eccessivo e disordinato che ha colpito l’uomo dopo il peccato
         originale, per tornare a essere solo corpo, un aggregato di materia che garantisce
         la vita dell’individuo25.

23
   Ibidem, pp.157.
24
   Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo Fabris, Milano, Paoline Editoriale
Libri, 2000, pp.47.
25
   C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160.

                                                                                                       15
Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

Si potrebbe dire, dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero
e proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l’hanno formulato Casagrande e Vecchio.

In effetti, già nell’ottica agostiniana della lussuria è inclusa l’idea che gli impulsi
concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono sensazioni peccaminose. È
precisamente la condiscendenza dell’anima alle pulsioni carnali che trasforma queste
ultime in impulsi peccatori.

In seguito, si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente di
Pietro Abelardo (XII° secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto per quanto
riguarda la relazione tra anima e corpo.

Abelardo sosteneva che tanto la concupiscenza quanto l’atto sessuale e i compiacimenti
che lo accompagnano avevano fatto parte della natura dell’uomo a partire dal peccato
originale. Affermava che l’elemento vizioso stava solamente nella transigenza dell’anima
umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria, Abelardo sviluppa, a
dire il vero, una concezione molto moderna della sessualità umana. Non per niente le sue
asserzioni hanno provocato moltissime reazioni alla sua epoca.

La notevole importanza dell’anima in quest’ambito viene confermata dalle conseguenze
che ha il vizio della lussuria non solo per il fisico dell’uomo ma anche, e specialmente, per
la sua anima immortale. La fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e
infangato; ma è ancora molto più dannosa all’anima: una volta imbrattata da questo
peccato, lo spirito dell’essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull’orlo della
rovina. Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e strati
dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente.

Il danneggiamento dell’anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più grave
nell’indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello spirito umano.
Mina il potere della capacità più eccezionale dell’uomo, cioè la potenza di dominare tutti i
suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello alla ragione.

In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza della ragione sotto l’influsso
di attività sessuali. Prima della tradizione cristiana, un’ampia tradizione pagana aveva
cercato di offrire uno sfogo a simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere,
fra le altre –prima in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l’idea che l’intelligenza –
concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l’uomo nella

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Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

possibilità di controllare gli impulsi carnali –concepiti come negativi. Dato che gli ultimi
avvicinavano l’essere umano dall’animale, il contrasto tra questi di una parte, e la nobiltà
incontestabile della ragione umana d’altra parte, si rivelava grandissimo.

Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in contesto scientifico, per dirlo
così –intellettuale, filosofico ecc.-, la sua importanza per la vita quotidiana dell’uomo
medio è inequivocabile, visto la “funzione [della ragione] di garantire la misura, la
compostezza, l’equilibrio nella vita di ciascun individuo”26.

Trasposto in ambito letterario, il dualismo fra la ragione e gli stimoli carnali, e, più in
particolare, la follia nella quale può sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione,
s’impadronisce dei protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il culmine
assoluto dell’incostanza confusa che può essere provocata in varie misure dalla lussuria.

1.2.4. I coniugati e la lussuria. “Se non sanno vivere in continenza, si sposino; è
meglio sposarsi che ardere” (I Cor. 7,9)27

Tra tutte le persone che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati
formano un gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, “non elimina la lussuria”, ma

         nella misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli coniugali [a
         quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari per soddisfare le
         sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo modo, che commettono
         il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce28.

La storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della lussuria, si rivela
alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che la ragione per la quale certi
cristiani propendevano per la castità e non per il matrimonio consisteva nel fatto che il
matrimonio limitava solamente la lussuria; non poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo,
questo fatto veniva anche rivendicato dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria:
il matrimonio, dopo tutto, delimitava la portata del vizio.

Poi, Agostino aggiunge che “considera l’unione coniugale un bene, certamente inferiore a
quello della castità, ma comunque un bene, e questo ‘non solo per la procreazione dei figli

26
   Ibidem, pp.167.
27
   Il nuovo testamento, cit., pp.603.
28
   C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172.

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Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo

ma anche per la società naturale che l’unione tra i due sessi comporta’”29. Di più, pone che
Dio avrebbe previsto l’unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili prima
del peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di organi sessuali
chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo disubbidivano a Dio. “Il peccato
non sta dunque nel coito [...] ma nell’uso che gli uomini [...] ne fanno.”30 Queste idee
agostiniane sono state molto diffuse durante tutto il Medioevo.

Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame stabilito tra il vizio della lussuria e il
matrimonio fa sì che il peccato si estende dall’essere umano individuale alla comunità
intera. Può corrompere tutta una società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e
all’anima di una singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da
questo punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica nel settenario
dei vizi capitali.

29
     Ibidem, pp.173.
30
     Ivi.

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2.      La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno
Nella sua esposizione sulla lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che “la
lussuria […] è mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d’ordine, spezzatura”31. Nel
caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una rottura
dell’ordine quotidiano, anzi, dell’ordine del mondo come i due innamorati lo
conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata direttamente dalla potenza
(cioè, dalla potenza nel senso filosofico della parola: potenza come volontà) che
costituisce una parte essenziale del desiderio lussurioso che sperimentano.

Dal momento in cui cedono alla loro volontà lussuriosa, Francesca, consapevolmente,
abbandona suo marito, pone fine al suo matrimonio. Nel v. 107 “Caìn attende chi a vita ci
spense”32 il nome di Gianciotto “è taciuto per disprezzo, non certo per ‘femminile
riserbo’”33. Neanche Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è
irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio chiave nella
loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione, è arrivato il momento in
cui decidono di rinunciare a tutto quello che è familiare, e di perdersi in un’avventura
della quale sanno che gli porterà sia la felicità assoluta sia la perdizione.

La tragica combinazione di tenerezza e di rovina è illustrata dal v. 106 “Amor condusse
noi ad una morte”34: “la prima e l’ultima parola del verso si rispondono fonicamente
‘AMOR condusse noi ad unA MORte’”. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso
s’iscrive nella lunga tradizione “di una diffusa paretimologia (Federigo dall’Ambra, son.
Amor che tutte cose: ‘Amor da’ savi quasi A! mor si spone’)”. Per di più, la parola morte,
nel Canto V dell’Inferno, “conclude la serie di proposizioni principali il cui soggetto è
Amore”35.

In questo senso, la lussuria si presenta come una mescolanza di tutte le cose del mondo:
ogni diritto ha il suo rovescio. Di rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre
una gioia senza che, contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo
sentimento. È un dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni

31
   Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23.
32
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci
editore, 2007, pp.90.
33
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore,
2007, pp.90.
34
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90.
35
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90.

                                                                                                          19
La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

lussuriose. Paolo e Francesca propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche
per l’aspetto penoso che essa implica.

Da quanto appena enunciato risulta che la dimensione della lussuria identificata come la
volontà forma una caratteristica fondamentale del fenomeno. Se manca una forte volontà,
non si può parlare di lussuria. È appunto dalla volontà umana che procede il desiderio di
qualcosa. Dal testo di Giorello emerge che il desiderio an sich deve, infatti, considerarsi
come essenzialmente lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si tratta del desiderio
dell’altro. Dante presta molta attenzione all’espressione di tale potenza. È probabilmente
una delle più belle manifestazioni dello spirito umano: unica, forte, ma anche tragica.
Forse la bellezza risiede, appunto, nella tragicità. Quello che un essere umano può
realizzare grazie alla volontà commuove solo quando si mescola con altre caratteristiche
come, in questo caso, il tragico.

Il desiderio umano, giudicato lussurioso per definizione, è presente nel Canto V non solo
nella decisione presa da Paolo e Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell’Inferno,
cioè all’inizio del viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E siccome Dante parla,
infatti, di ognuno di noi, ci troviamo all’inizio del viaggio che ogni peccatore potrebbe
desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta un forte desiderio. Si trova sulla via della
perdizione, e vuole ritrovare la retta via. Vuole andare verso la luce divina, è in cerca di
una direzione nella sua vita. Questa aspirazione predomina su tutto il suo essere, come il
desiderio di Francesca domina su Paolo e vice versa.

Inoltre, Giorello pone che “la laicizzazione è la lussuria dell’emancipazione dalla
soggezione alla natura e/o alla divinità – emancipazione che costituisce la premessa di una
società politica matura”36. Secondo me, l’autore suggerisce che l’assunto che la
laicizzazione sia un processo lussurioso sarebbe ovviamente consono alla visione cristiana
della lussuria che la considera un vizio capitale. Classificare la laicizzazione tra le varie
forme in cui può manifestarsi la lussuria le conferirebbe lo statuto di un’azione
peccaminosa. L’idea principale che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che il
desiderio umano di venir liberati dall’assoggettamento a un potere superiore si rivela
lussurioso, poiché si tratta di un desiderio.

Dante personaggio, tuttavia, desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina
del Dio cristiano. E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L’opposizione

36
     Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.26.

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La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

tra la volontà evocata da Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di vista
del filosofo sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non sia lussurioso non
dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti essenziali della lussuria è la forza
immensa della potenza umana che fa sì che la lussuria può esistere.

Oltre a ciò, l’autore menziona che “la lussuria istituisce il nesso tra conoscenza e oblio”37.
L’aspetto della lussuria che è analizzato e commentato in questo capitolo, la potenza,
costituisce la forza che spinge un essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle
proprie domande. In questo senso, forma, infatti, l’anello che lega l’ignoranza e la
conoscenza. Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera sapere se
e come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà, sorgerà la
comprensione dei fenomeni che vuole capire.

Si può pure trasformare la conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che
la conoscenza è ottenuta, è possibile che essa provochi l’oblio di altri fatti conosciuti
nell’essere umano che la ottiene, com’è illustrato dall’epopea mesopotamica la Saga di
Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V, tuttavia, si osserva il contrario.

Quello che era conosciuto nel passato non è dimenticato, come pone appunto Francesca
dopo che Dante le ha chiesto di raccontare come lei e Paolo si sono rivelati i sentimenti
amorosi reciproci: “E quella a me: “Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo
felice/nella miseria: e ciò sa ‘l tuo dottore”. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano
benissimo quello che sapevano prima del momento in cui la loro volontà di conoscere li ha
messi sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in cui si baciavano e
s’appropriavano la conoscenza dell’altro.

Anzi, in questo passo, Dante autore utilizza letteralmente il verbo conoscere: “Ma, s’a
conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che piange
e dice”38. Ciò illustra l’importanza ardente del significato del termine.

Per di più, Giorello pone che “la potenza della dea [Venere] è quotidiana […], non solo
eccezionale”39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la caratteristica della lussuria
rappresentata da questa volontà incredibilmente potente non si manifesta unicamente in
situazioni o momenti eccezionali. Costituisce una forza sempre presente nell’essere

37
   Ibidem, pp.28.
38
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91-92.
39
   Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.35.

                                                                                        21
La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

umano, gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da essa, se lo volesse. Questo, però,
gli è connaturale: si tratta di una parte dello spirito umano troppo essenziale. Senza di essa
non sarebbe più un uomo.

Per di più, rappresenta un impulso troppo gradevole. All’uomo piace infinitamente
provare una tale energia dentro di se. Gli dà l’idea che potrebbe, infatti, realizzare il
progetto che ha in mente, che potrebbe trovare la risposta alla sua domanda. Gli dà il
coraggio necessario per dare ascolto ai sentimenti che lo sopraffanno e per arrischiarsi in
una ricerca o una situazione che possibilmente finirà male. È questo il momento in cui la
volontà lussuriosa, quotidiana, alleggiando, diventa eccezionale.

Questo momento speciale si osserva pure nella storia di Paolo e Francesca. Dopo un lungo
tempo di voler esser insieme (da solo), arriva quel punto in cui il desiderio di Paolo di
sapere come sarebbe di trovarsi nelle braccia della donna amata, diventa troppo forte. La
bacia. Un momento riempito in modo molto eccezionale di volontà lussuriosa.

Giorello menziona anche che la dea Venere (e quindi la lussuria) può rivelarsi “maestra di
inganno”40. Certo, nel Canto V, si osservano delle azioni ingannevoli: Francesca tradisce
suo marito, Paolo suo fratello. All’aspetto ingannevole della lussuria, però, sarà dedicato
un altro capitolo della presente tesi.

Ciò che colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza in Lussuria. Passione della
conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una riflessione interessante, è un’idea che deduce
da un testo di Agostino, Città di Dio. Secondo Giorello si può capire da quest’opera che,
secondo Agostino, “la fiacchezza della nostra volontà (contrapposta alla forza di quella
divina) sia ben peggio […] di qualsiasi fisica impotentia coeundi”41 perché “nell’ordine
naturale l’anima è anteposta al corpo”. Agostino descrive la “lotta della passione [il corpo]
e della volontà [l’anima]” parlando della lussuria, affermando che esiste “almeno
l’imperfezione della passione nei confronti della pienezza della volontà”42.

Ciò pone l’accento sul valore più grande della forza mentale che è la volontà dell’uomo a
paragone del suo corpo fisico. Rileva la preziosità e la versatilità della potenza, la quale è
valutata non solo dai fedeli cristiani ma anche da laici. Si potrebbe sostenere, quindi, che
si tratta di un punto di vista comune e, di conseguenza, unificatore. L’unione d’idee

40
   Ibidem, pp.36.
41
   Ibidem, pp.39-40.
42
   Agostino, Città di Dio, Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici, Milano, Bompiani, 2001,
pp.684-685.

                                                                                                      22
La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

cristiane e laiche (nel senso di provenienti dagli antichi) si ritrova, appunto, nella
Commedia dantesca.

A mio giudizio questa fusione è una delle caratteristiche più meravigliose dell’opera. Si
rivela in modo splendido nel passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto V
proviene, tra l’altro, dall’enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra, Tristano, e di
tutti gli altri personaggi lussuriosi della mitologia classica menzionati dalla guida di
Dante, Virgilio. Inglese spiega che

        sono “donne antiche e cavalieri” (v. 71): insomma, l’intero mondo del romanzo
        epico-amoroso, che aveva, di fatto, connesso in un ciclo unico “Troianorum
        Romanorumque gesta… et Arturi regis ambages [‘avventure’] pulcerrime” (Dve I
        x 2)43.

La loro apparizione conferisce un’atmosfera unica all’Inferno cristiano. Evocano la
grandezza delle storie antiche di alcune coppie famosissime.

Risulta dai versi quanto sono care a Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della
disperazione, dell’amore e della perdizione caratteristico di queste storie si mescola, nel
Canto V, ai sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante.

Per quanto riguarda quella relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca, si
può segnalare che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che, per Francesca,
la visita del pellegrino forma un’opportunità unica per confessarsi (dal punto di vista dei
colpevolisti di Renzi) o per comunicare e quindi rendere immortale la sua tragica storia
d’amore (secondo la visione dei giustificazionisti di Renzi, cf. infra). Inglese afferma che

        gli incontri fra il P. [Dante personaggio] e i dannati si presentano come un
        momento affatto eccezionale nello “svolgersi” (che non ha però vero svolgimento)
        della pena di questi ultimi […]: per un motivo superiore – ossia, per l’edificazione
        del P. e poi dei viventi che leggeranno il resoconto del viaggio – la Provvidenza
        suscita in alcuni dannati un estremo atto di personalità (v. 84) [“vegnon per l’aere,
        dal voler portate”44]. Sul piano poetico, ciò si traduce in una forte
        drammatizzazione degli episodi: Francesca, per esempio, non avrà mai un’altra
        occasione di confessarsi, di dare forma verbale al proprio tormento45.

43
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87.
44
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.88.
45
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89.

                                                                                                23
La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

Da quello che precede, risulta che “un estremo atto di personalità” implica una volontà
potente, dato che la volontà costituisce una parte essenziale dell’essere umano.

Si potrebbe dire che, con l’ultima frase, Inglese si presenta come un colpevolista, poiché
“dare forma verbale al proprio tormento” può significare “dare forma verbale al suo
peccato e al modo in cui lo strazio della punizione infernale la tortura”. La seconda parte
della frase di Inglese, però, potrebbe anche essere interpretata come “dare forma verbale”
al modo in cui entrambi il ricordo del “tempo d’i dolci sospiri”46 e quello della fine tragica
della sua storia d’amore la tormentano. Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si
presenterebbe non solo come un colpevolista, ma anche come un giustificazionista.

Ritornando alle “donne antiche e cavalieri”, Renzi asserisce quanto segue:

        Se ci sarà ancora una critica letteraria dedita a leggere con attenzione i testi,
        qualcuno noterà, per esempio, che la “pietà” di Dante per Francesca, primo segno
        della sua partecipazione emotiva alla storia di Francesca, seguita poi dallo
        svenimento, era già cominciata al v. 72 e si riferiva alle “donne antiche e ’
        cavalieri”, dunque a tutti quei fantasmi letterari che prima sono definiti “peccator
        carnali”. Dunque Dante non solidarizza solo con Francesca.47

Mentre Virgilio annovera nome dopo nome, Dante personaggio sente come, nel suo cuore,
cresce la compassione. Ascoltando la sua guida, diventa sempre più commosso, triste e
silenzioso per tutto quell’amore disperato, perso. Anche lui ha amato e perso la persona
amata. Pasquini pone che “non si ha soltanto il dramma cruento dei due giovani amanti
riminesi; c’è anche il dramma interiore di Dante che si sente personalmente coinvolto in
quella tragedia”48. Questo dramma interiore che sperimenta il pellegrino di fronte “alla
tragedia romagnola” si spiega, secondo Pasquini, dall’atto d’accusa di Beatrice nel
Purgatorio (cf. infra). “Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo personale
traviamento, sotto la spinta del rigoroso atto d’accusa cui lo sottopone Beatrice; il che
spiega con chiarezza, quasi completandolo, il suo turbamento – che non è solo pietà – di
fronte alla tragedia romagnola.”49

46
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91.
47
   Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante, cit.,
pp.11-12.
48
   Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259.
49
   Ibidem, pp.262.

                                                                                                  24
La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

Secondo Pierre-Louis Ginguené (1748-1815), autore di Histoire littéraire d’Italie, non è
stato il Dante filosofo e teologo che si rivela in altri passi della Commedia che ha scritto
l’episodio di Paolo e Francesca, ma è stato il Dante innamorato di Beatrice.50

In questo senso, il Canto V parla da Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, e
pure di Dante stesso. Di conseguenza, tratta anche di ognuno di noi, poiché il passaggio di
Dante personaggio attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso celeste rappresenta il
viaggio simbolico di ogni peccatore che desidera ritrovare la retta via.

Ginguené, per di più, non evidenzia la pietà di Dante, ma “nota che la pena in fondo, se
non è mite, è la più piccola fra tutte quelle previste dal poeta”51. Renzi spiega come questo
“non sembra una grande osservazione, ma la riprenderanno, in genere senza conoscersi
l’uno con l’altro, molti critici, da Foscolo [Discorso sul testo della Commedia52] a
Teodolinda Barolini [Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love):
Inferno V in Its Lyric Context53]”. E ci aggiunge: “Bruno Nardi [Filosofia dell’amore nei
rimatori italiani nel Duecento e in altri54], che era l’unico che di queste cose se ne
intendeva davvero, ha notato che, tra i peccatori nella carne, Dante ha punito i golosi più
gravemente dei lussuriosi, invertendo l’ordine di San Tommaso”55. Forma un argomento
che sostiene la tesi di Ginguené secondo la quale l’unico vero autore dell’episodio di
Francesca sarebbe stato il Dante amante di Beatrice, e certamente non il Dante teologo.

Anche per Francesco De Sanctis (in Francesca da Rimini56) e per Benedetto Croce (La
poesia di Dante57), segnala Renzi, Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i
peccati dei lussuriosi. Inglese definisce la pietà di Dante (“pietà mi giunse e fu’ quasi

50
   Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, citato da Lorenzo Renzi in Le conseguenze di un bacio.
L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante, cit., pp.134.
51
   Ibidem, pp.135.
52
   Ugo Foscolo, Discorso sul testo della Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo,
Firenze, Le Monnier, 1979, pp.175-573.
53
   Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its
Lyric Context, in “Dante studies”, 116, 1998, pp.31-63.
54
   Bruno Nardi, Filosofia dell’amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura
medievale, Bari, Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i riferimenti a san Tommaso è alle pp.81-
82.
55
   Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante, cit.,
pp.135.
56
   Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli,
Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652.
57
   Benedetto Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75.

                                                                                                      25
La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

smarrito”58) un “profondo turbamento in cui sono fusi l’orrore per il peccato e il dolore per
l’umanità peccatrice giustamente punita”59.

Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista emozionale, invece, Dante non condanna i
lussuriosi. Croce sottolinea pure il potere estasiante che ha avuto il libro narrando la storia
di Lancillotto e Ginevra sui due peccatori. Asserisce però che Dante, al contrario di altri
poeti, riesce a rompere e a superare l’incantesimo dolce dell’amore. Così, afferma Renzi,
il critico italiano “è riuscito a ottenere un momento di sovrano equilibrio nella storia della
critica [della Commedia], e in particolare dello scontro tra colpevolisti [quelli che
considerano Francesca una peccatrice integralmente responsabile delle vicende] e
giustificazionisti [quelli che si fanno paladino della donna]”60.

D’altronde, per quanto riguarda la colpevolezza o l’innocenza di Francesca, Inglese
segnala che la donna, affermando che “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”61, da un
punto di vista psicologico si rivela sincera, ma che, “nella prospettiva etica del poema, [è]
obiettivamente falsa” poiché “Amore [è] sempre soggetto delle azioni determinanti
[“prese costui della bella persona/che mi fu tolta: e ‘l modo ancor m’offende./Amor, ch’a
nullo amato amar perdona/mi prese del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor non
m’abandona./Amor condusse noi ad una morte”]”62.

Da quest’angolatura, infatti, tutte le due ipotesi (tanto quello della colpevolezza quanto
quello dell’innocenza di Francesca) rientrano nelle possibilità. Si può considerare Amore
come il vero colpevole, o giudicare che la donna si è arresa a lui, caso in cui lei si rivela
responsabile per le vicende.

Secondo Inglese, l’aggettivo leggieri che si trova nel v. 75 “e paion sì al vento esser
leggieri”63 farebbe parte di un’idea esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che
vuole dimostrare, al lettore, “il ‘peso’ carnale del peccato d’amore”. Tutto come questo
formerebbe un suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive “come
anima tormentata dalla passione d’amore”, mentre dalla struttura “è dannata per adulterio
incestuoso”64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono a Dante teologo e

58
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87.
59
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87.
60
   Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella “Commedia” di Dante, cit.,
pp.144.
61
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.89.
62
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89.
63
   Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87.
64
   Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87.

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La lussuria come potenza nel Canto V dell’Inferno

cristiano, nella visione di Inglese (che distingue una struttura e una poesia nella
Commedia) appartiene alla struttura.

Per quanto riguarda la relazione tra la volontà umana, cioè il desiderio, e l’aspirazione alla
conoscenza propria all’uomo (anch’essa parte intrinseca della lussuria, cf. il titolo
dell’opera di Giorello Lussuria. Passione della conoscenza) il filosofo cita, a un certo
momento, Tommaso d’Aquino, il quale “concluderà […] che l’eccesso di conoscenza
(anche sessuale) fa male:”65 “Non bisogna che una vana e peritura curiosità ci attardi
nell’interessarci delle creature”66 “invece che indirizzarci al Creatore”67.

Secondo lui, il desiderio di conoscere Dio dovrebbe, quindi, prevalere su quello di
conoscere la natura, le caratteristiche del mondo che ci attornia, e sul desiderio di
appropriarsi “comprensione, intelligenza e consapevolezza”68. Ovviamente, si tratta della
visione cristiana sulle cose. Anche per Dante personaggio, la scoperta della luce divina
istituisce lo scopo principale del suo viaggio sotterraneo. In Dante autore, invece, si
uniscono tanto il desiderio dell’amore divino quanto l’aspirazione alla conoscenza, alla
sapientia mundi (cf. infra).

Si osserva anche che, quando la passione (ovvero il desiderio) della conoscenza riguarda il
divino, d’Aquino non considera tale desiderio come lussurioso e quindi non si parla di
peccato. Se, invece, concerne le creature che popolano il mondo, è bollato come
peccaminoso.

Dalle pagine precedenti, però, risulta che il desiderio umano si presenta come una
proprietà intrinseca della lussuria, e che, per di più, è lussurioso per definizione. Può
manifestarsi sotto innumerevoli forme, ma sarà sempre lussurioso. Dato che lussurioso,
nell’ottica cristiana, equivale a peccaminoso, la visione del fenomeno adottata nella
presente tesi (e nel testo di Giorello) non concorda con quella di d’Aquino.

Quale sarebbe il punto di vista di Dante scrittore? Adottando l’ottica di Inglese (che, nella
Commedia, individua una struttura e una poesia), si potrebbe sostenere che secondo la
struttura e la poesia elaborate da Dante scrittore, “il volere […] [poeticamente] sembra
eccezionalmente concesso alle anime perdute, [ma] appartiene in realtà [quindi

65
   Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.41.
66
   Tommaso d’Aquino, La somma teologica, a cura della Redazione delle Edizioni Studio Domenicano,
Bologna, 1996, II-II, qu. 167, art. 1, Concl.
67
   Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.41.
68
   Ibidem, pp.42.

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