Paradiso V: Il voto di Dante

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Paradiso V: Il voto di Dante*
                        Michelangelo PICONE
                        Universidad de Zürich

       Dopo che Beatrice ha terminato l’ardua lezione sull’essenza
del voto, risolvendo così l’ultimo dei dubbi presentati dal pellegrino
durante la visita del cielo della Luna, il suo sguardo si illumina di
una luce nuova e penetrante. È questo il segno che la prima tappa
dell’ascesa paradisiaca verso Dio è stata superata, e che il processo
conoscitivo dell’io ha varcato una nuova frontiera:
             Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
          puoser silenzio al mio cupido ingegno,
          che già nuove questioni avea davante;
             e sì come saetta che nel segno
          percuote pria che sia la corda queta,
          così corremmo nel secondo regno. (vv. 88-93)

      Il passaggio dal cielo della Luna a quello di Mercurio (il
«secondo regno») viene pertanto significato, nel canto V del
Paradiso, dal «trasmutar sembiante» di Beatrice: nel volto sempre
più raggiante della sua guida Dante può leggere il suo proprio
avanzamento nel cammino che lo porta alla conquista della verità
assoluta e definitiva. Di qui il suo istintivo autocontrollo, il freno che
egli pone al suo «cupido ingegno»,1 al suo desiderio di formulare
nuovi dubbi in modo da arrivare ad una conoscenza sempre più
elevata e completa.
       Fra una lezione e l’altra di Beatrice è dunque necessario un
intervallo: la tensione intellettuale deve essere allentata, per
permettere alla tematica itinerale di prendere il sopravvento. Ciò che
consente al pellegrino non solo di constatare la straordinaria velocità
che ha caratterizzato il suo trasferimento aereo da un cielo all’altro,

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ma anche di osservare la mutata realtà celeste in cui si trova ora
immerso. È così che egli si rende conto della reazione simpatetica
che il cielo di Mercurio ha nei confronti di Beatrice:
             Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
          come nel lume di quel ciel si mise,
          che più lucente se ne fé ’l pianeta. (vv. 94-96)

      Alla trasformazione di Beatrice corrisponde la trasfigurazione
di Mercurio, che diventa «più lucente» dopo che ha assorbito nel suo
proprio spazio il più intenso splendore emanato ora dalla donna. A
sua volta però la metamorfosi luminosa del pianeta, avvenuta a
contatto con Beatrice, allude alla metamorfosi spirituale dell’io
personaggio, è un indice del suo continuo e vario “trasmutare” (ciò
che è una costante ideologica e narrativa della terza cantica):
              E se la stella si cambiò e rise,
          qual mi fec’ io che pur da mia natura
          trasmutabile son per tutte guise! (vv. 97-99)

       Se la presenza di Beatrice influisce sull’immutabile natura
dell’astro, provocandone il fremito interiore manifestato attraverso il
riso (che il Convivio definisce come «una coruscazione de la
dilettazione de l’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo
che sta dentro» [III.viii, II],2 ben più decisiva sarà la sua azione sul
pellegrino, la cui mutabilità ha avuto modo di essere messa in
evidenza durante l’intero arco del poema, e soprattutto negli ultimi
canti del Purgatorio, in coincidenza appunto con l’apparizione della
gentilissima.
      Tocchiamo con questi versi uno dei centri nevralgici del
nostro canto, che sembra gravitare proprio attorno al concetto di
mutabilità: la mutabilità terrena e negativa trattata nella prima parte
(vv. 1-84), e la mutabilità celeste e positiva sviluppata invece nella
seconda parte (vv. 85-139). In effetti, con l’ampia lezione impartita a

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Dante nella sequenza iniziale del canto, Beatrice vuole enfatizzare la
costanza e l’eroismo che sono richiesti per poter mantenere i voti
fatti a Dio, riconoscendo però subito che la normale pratica umana
del voto è ispirata dall’incostanza e dalla viltà (non dimentichiamo
che ci troviamo ancora nell’ambito dell’esperienza lunare, sotto
l’influsso dell’astro che determina la variabilità nel mondo
sottostante3). D’altro canto il pilgrim’s progress registrato nella
sequenza finale del canto, quella che affabula l’esperienza
mercuriale del viator, si inserisce all’interno della metafora assiale
che regola la composizione dell’intero Paradiso; esso chiama in
causa cioè il tema della deificatio,4 la problematica del recupero
dell’imago e della similitudo divine raggiunte tramite la visione delle
sfere celesti e il confronto con le anime beate da queste influenzate.
        Il canto V del Paradiso oscilla pertanto fra due idee estreme di
metamorfosi: l’una tendente verso l’oscuramento e la cancellazione
della forma divina, l’altra orientata invece nella direzione del restauro
della forma originaria. Se la prima riduce gli uomini allo stato di esseri
irrazionali (di «pecore matte», come si dice al v. 80), la seconda li
innalza alla condizione di «dii» (così vengono significativamente
chiamate al v. 123 le anime apparse in questo cielo). Chiaramente la
metamorfosi degradante ripropone a livello microstrutturale la
situazione macrostrutturale dell’Inferno, ma anche in parte del
Purgatorio, mentre la metamorfosi sublimante emblematizza la
situazione che ci viene presentata nel resto del Paradiso. In tal modo
nel microcosmo del nostro canto troviamo riprodotto il macrocosmo
dell’intero poema sacro: la vicenda metamorfica qui sperimentata
riflette in scala ridotta la grande storia delle metamorfosi cristiane
affabulata nella Commedia.5 L’ombra di Ovidio si allunga anche su
questo canto, all’apparenza così poco ovidiano.
     Vista in tale prospettiva, acquista più pregnanza e rilevanza la
imagery impiegata da Beatrice nella parte parenetica e esortativa del
suo discorso sul voto. Dopo aver precisato i limiti, rigorosi e

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invalicabili, dentro i quali il voto può essere mutato (si noti ai vv.
51-58 l’accumulo di termini sinonimici che afferiscono all’area
semantica della mutazione e della conversione: permutasse, si
converta, trasmuti, permutanza), Beatrice invita i Cristiani ad
osservare i voti fatti, e a non farne di sconsiderati o incauti.
Comunque, una volta fatto un voto, anche se dettato da basse
motivazioni personali, bisogna essere pronti a mantenerlo, bisogna
comportarsi da uomini e non da bestie:
              «Se mala cupidigia altro vi grida,
          uomini siate, e non pecore matte,
          sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!». (vv. 79-81)

      Risuona in queste parole di Beatrice l’eco corretta
dell’«orazion picciola» rivolta da Ulisse ai suoi compagni prima di
oltrepassare le colonne d’Ercole:
              «Considerate la vosta semenza:
          fatti non foste a viver come bruti,
          ma per seguir virtute e canoscenza». (Inf. XXVI, 118-20)

       Ai suoi compagni, reduci dalla metamorfosi animalesca (erano
stati trasformati in porci dalla maga Circe), Ulisse prospetta
l’alternativa dell’avventura oceanica, l’unica veramente degna della
loro condizione umana, la sola capace di redimerli dalla loro
precedente vita degradata. Diverso il piano su cui si pone il discorso
di Beatrice, che dall’eccezionalità e dalla hybris ulissiaca passa alla
quotidianità e all’umiltà cristiana. Per salvarsi i Cristiani non hanno
bisogno di votarsi ad un’impresa eroica (come potrebbe essere un
viaggio trasmarino, il pellegrinaggio ai luoghi santi), basta che
seguano i precetti della Chiesa e abbiano fede nella parola rivelata
(cfr. vv. 76-78). Nel caso però che essi abbiano assunto un impegno
spirituale di tale levatura, devono essere pronti a dimostrare (come i
compagni di Ulisse) la loro natura razionale e non irrazionale.

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L’impegno preso con Dio deve essere, in altre parole, sempre
rispettato; di modo che l’Ebreo (osservantissimo dei voti) non abbia
a ridersi del Cristiano e del suo lassismo. Il richiamo latente alla
storia paradigmatica di Ulisse implica naturalmente un confronto con
la storia personale di Dante, con la sua avventura ultraterrena in
corso di svolgimento. Anche Dante infatti si è votato ad un’impresa
temeraria: un’impresa che si concluderà non con il naufragio ma con
la visione diretta, facie ad faciem, di Dio.
        La metamorfosi, positiva e negativa, si presenta dunque come il
fattore di coesione testuale di questo canto paradisiaco, troppo spesso
classificato dalla critica come un canto-cerniera, aperto e spezzato,
discontinuo e eterogeneo, insomma impoetico.6 È vero che termina qui
la prima macrosequenza (relativa alla visita del cielo della Luna) e
inizia la seconda macrosequenza (destinata alla visita del cielo di
Mercurio): l’una compresa fra il v. 82 del I canto e il v. 84 del V canto,
l’altra estesa fino a tutto il VII canto. È pure vero che, mentre all’inizio
del canto si riprende il dialogo fra Dante e Beatrice rimasto interrotto
alla fine del canto precedente, nella parte conclusiva si annuncia il
discorso che Giustiniano pronuncerà nel canto successivo. A ricucire
però un simile strappo strutturale interviene il connettivo semantico
offerto dal lessico metamorfico: diretto verso il basso esso produce le
immagini dell’alienazione umana, proiettato verso l’alto genera invece
le immagini dell’identificazione divina. Il discorso didattico-teologico
di Beatrice contenuto nella prima parte del canto si salda così col
racconto itinerale svolto nella seconda.
        A fondare l’unità del canto, oltre all’elemento tematico,
contribuiscono anche degli artifici più squisitamente letterari. I
richiami autoriali alla compattezza e organicità dell’insieme testuale si
infittiscono addirittura in questo canto, quasi a voler controbilanciare
l’impressione di una sua frammentarietà compositiva. Il primo di
questi richiami lo troviamo ai vv. 16-18:

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              Sì cominciò Beatrice questo canto;
          e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
          continüò così ’l processo santo.

       Il «canto» di cui è qui questione non è l’inno di Beatrice alla
libertà umana votata a Dio (come intende, ad esempio, Momigliano),
bensì il termine tecnico che qualifica le partizioni interne del poema
sacro (diviso appunto in 100 canti). Esso sta ad indicare i 139 versi
di questo quinto capitolo del romanzo del Paradiso. Il canto, unità di
misura formale dell’opera, riveste pertanto un’importanza
primordiale rispetto alla stessa materia narrativa o dottrinale in esso
trattata.7 Allo stesso modo di Beatrice che «suo parlar non spezza»,
non interrompe il suo discorso, ma segue un filo «santo» ispirato
direttamente da Dio, anche Dante-autore dispone con ordine la sua
materia dentro i confini testuali che le sono stati previamente
assegnati.
       La necessità di presentare un discorso, orale oppure scritto,
nella sua coerenza e integrità, viene ipoteticamente disconosciuta
nell’appello al lettore contenuto ai vv. 109-14, solo per essere
riaffermata in maniera ancora più stringente:
              Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
          non procedesse, come tu avresti
          di più savere angosciosa carizia;
              e per te vederai come da questi
          m’era in disio d’udir lor condizioni,
          sì come a li occhi mi fur manifesti.

      L’autore della Commedia quasi si diverte a prevedere quale
sarebbe la delusione del suo lettore se la storia che egli ha appena
cominciato a raccontargli (l’incontro del pellegrino con le anime
beate che popolano il cielo di Mercurio) non venisse continuata, ma
rimanesse priva della parte centrale e finale. Si tratta di una
inquietante virtualità, che l’impegno autoriale profuso fino a questo

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punto dell’opera serve immediatamente a smentire. D’altronde, così
come l’agens desidera portare avanti il suo colloquio con le anime,
anche l’auctor ha tutte le intenzioni di portare a compimento il suo
canto. L’ipotesi del cantus interruptus si dissolve non appena viene
ventilata; al lettore non verrà tolto il piacere di leggere il canto V del
Paradiso nella sua totalità.
       L’ultimo richiamo all’unità del canto viene opportunamente
operato nel momento in cui il canto stesso ha raggiunto la sua
misura. L’anima beata di Giustiniano, interpellata dal pellegrino
sulla sua identità e sulla ragione della sua comparsa in questo
particolare cielo, gli risponde nascosta dentro l’alone luminoso che
la circonda:
              e così chiusa chiusa mi rispuose
          nel modo che ’l seguente canto canta. (vv. 138-39)

      La risposta di Giustiniano, apportatrice di una diversa
complessità ideologica, fuoriesce dallo spazio assegnato al nostro
canto, e verrà di conseguenza a costituire una nuova unità testuale.
Al suo discorso l’autore ha destinato, caso unico in tutta la
Commedia, l’intero canto VI del Paradiso.
       Il canto V, chiuso nell’attesa del grande discorso di
Giustiniano, si apre con l’ascolto del lungo discorso di Beatrice, che
occupa – fatta salva la didascalia autoriale dei vv. 16-18, su cui ci
siamo già soffermati – tutta la prima parte, i vv. 1-84. È qui che
viene discusso il capitale problema del voto, la cui trattazione era già
stata avviata nei due canti precedenti, a livello sia pratico (attraverso
i casi esemplari di Piccarda e Costanza) sia teorico (con il dubbio
relativo all’inadempienza forzata del voto).
       Prima però di definire la quaestio del voto, Beatrice si
preoccupa di descrivere la sua condizione interiore in questo
particolare momento dell’ascensione paradisiaca, mettendola in
relazione con lo stato d’animo in cui si trova il suo fedele:

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              «S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
          di là dal modo che ’n terra si vede,
          sì che del viso tuo vinco il valore,
              non ti maravigliar, ché ciò procede
          da perfetto veder, che, come apprende,
          così nel bene appreso move il piede.
              Io veggio ben sì come già resplende
          ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
          che, vista, sola e sempre amore accende;
              e s’altra cosa vostro amor seduce,
          non è se non di quella alcun vestigio,
          mal conosciuto, che quivi traluce». (vv. 1-12)

       I commentatori non hanno mancato di notare che Beatrice
«riprende, in tono più alto, l’immagine dei vv. 139-40 del canto
precedente, e la spiega» (Sapegno).8 Possiamo dire, più precisamente,
che il discorso indiretto fatto dal narratore alla fine del canto IV si
trasforma nel discorso diretto messo in bocca a Beatrice all’inizio del
canto V. Ma vediamo come si chiude il canto precedente:
              Beatrice mi guardò con li occhi pieni
          di faville d’amor così divini,
          che, vinta, mia virtute diè le reni,
              e quasi mi perdei con li occhi chini. (Par. IV, 139-42)

       Letti fuori contesto questi versi sembrano essere estrapolati da
un componimento lirico: potrebbero costituire la quartina di un
sonetto stilnovistico. Si insiste, infatti, sul tema degli effetti dolorosi
che lo sguardo della donna amata provoca sul poeta. Gli occhi della
donna, «pieni / di faville d’amor», riescono a superare la «virtute», la
capacità ricettiva dell’io, che si vede costretto a chinare i propri
occhi, e addirittura «si perde», ha una sensazione di smarrimento
fino a svenire.
      Non ci vuole un grande sforzo investigativo per trovare un
testo, uscito dall’officina di Dante rimatore, in cui venga

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sviluppata questa tematica. Ecco quello che Gianfranco Contini
definisce un «sonetto tipico, e si vorrebbe dire medio» dello
Stilnuovo dantesco:9
             De gli occhi de la mia donna si move
         un lume sì gentil che, dove appare,
         si veggion cose ch’uom non pò ritrare
         per loro altezza e per lor esser nove:
             e de’ suoi razzi sovra ’l meo cor piove
         tanta paura che mi fa tremare
         e dicer: «Qui non voglio mai tornare»;
         ma poscia perdo tutte le mie prove:
             e tornomi colà dov’io son vinto,
         riconfortando gli occhi päurusi,
         che sentiêr prima questo gran valore.
             Quando son giunto, lasso, ed e’ son chiusi;
         lo disio che li mena quivi è stinto:
         però proveggia a lo mio stato Amore. (Rime LXV)

       Oltre ai numerosi echi verbali (gli «occhi» della donna che
sono come «razzi») [= vv. 139-40], l’io che «perde tutte le sue
prove» [= v. 141] ed è costretto a tenere gli occhi «chiusi» [= v.
142]) i due testi, quello lirico e quello epico, mettono in mostra la
stessa volontà che il poeta ha di confrontarsi con la superiore
bellezza e perfezione dell’amata, e questo nonostante le continue
sconfitte patite. L’impasse erotica, che il sonetto stilnovistico tenta
di superare tramite il coinvolgimento di Amore («però proveggia a lo
mio stato Amore»), nel poema sacro viene eliminata dalle parole che
Beatrice pronuncia all’inizio del V canto. In questi versi
praticamente Beatrice dichiara di essere la fusione di amore e verità:
la perfetta visione che ella ha della verità divina produce un fuoco
d’amore la cui intensità sorpassa (almeno per ora) la capacità
ricettiva di Dante («vinco» del v. 3 riprende «vinta» del v. 141 del
canto precedente). Ma, come la stessa Beatrice ammette ai vv. 7-9,
l’avanzamento intellettivo fatto dal pellegrino, la sua progressiva

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conquista del vero ottenuta grazie ai dubbi e quesiti di volta in volta
chiariti dalla sua guida (cfr. ad esempio i vv. 124-32 del canto IV), lo
rendono sempre più capace di recepire una tale dimostrazione di
amore. Il Dante del Paradiso non rinnega quindi il Dante stilnovista,
ma proietta quell’esperienza di vita e poesia giovanile nella sfera
della più alta realizzazione affettiva e conoscitiva. Risulta a questo
proposito suggestiva la caratterizzazione di questo incipit proposta
da un fine lettore del canto, che vi scopre «un clima di conversazione
cortese, transvalutato in inesauribile carità» (Montanari, p. 1424). Le
metafore erotiche della tradizione lirica e romanzesca, se nel V canto
dell’Inferno, nel canto di Paolo e Francesca, avevano subito
un’applicazione deviante, nel V canto del Paradiso, che ha come
suoi esclusivi protagonisti Dante e Beatrice, ritrovano il loro
definitivo inveramento ideologico e poetico.10
        Appare chiaro, da quanto abbiamo appena detto, che lo
Stilnuovo, e il suo vertice rappresentato dalla Vita Nova, rivestano
(almeno nella linea interpretativa da noi seguita) una posizione di
fondamentale importanza per l’elaborazione della teoria d’amore
sottostante alla composizione del Paradiso dantesco. Indubbiamente
Beatrice nel suo discorso si riferisce all’amore divino, alla caritas;
ma le parole e le immagini che ella impiega per descrivere questo
amore sono tutte ricavate dal lessico e dal repertorio stilnovistico,
anche se potenziato in senso filosofico e teologico. Beatrice appare
insomma nel Paradiso come l’emblematizzazione della donna che ha
«intelletto d’amore», è la continuazione e la sublimazione della
giovinetta amata nel libello giovanile e ben presto diventata cittadina
della vera patria celeste.11 Muta naturalmente la prospettiva nella
quale la gentilissima viene ora vista: non più distante ma vicina, non
più statica ma dinamica, non più figura della verità e dell’autorità
poetica ma incarnazione di quella verità e di quella autorità. La
funzione di Beatrice è in effetti quella di preparare il cuore e
l’intelletto del pellegrino alla visione diretta di Dio che avverrà
nell’Empireo. Se l’intelletto viene perfezionato tramite

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l’insegnamento, risolvendo le varie questioni teologiche filosofiche o
morali, il cuore viene fortificato attraverso il «trasumanar»,
conformandosi alla realtà divina dispiegata nei vari cieli visitati.
       Arriviamo così alla trattazione, condotta da Beatrice, del
problema – apparentemente teologico ma profondamente poetologico
– del voto. La quaestio, posta ai vv. 13-15 (che riformulano il dubbio
avanzato da Dante ai vv. 136-38 del canto precedente), viene risolta ai
vv. 16-38 con una argomentazine di tipo logico e perfino sillogistico,
per passare – dopo aver parato un’obiezione relativa alla dispensa del
voto concessa dalla Chiesa (vv. 39-63) – agli ammonimenti di carattere
pratico rivolti ai Cristiani affinché prendano i voti sul serio e si
sforzino di mantenerli (vv. 64-84).
       La quaestio riguarda un problema particolare (la permutabilità
dei voti fatti), ma finisce per toccare il problema più generale
dell’essenza teologica e del valore spirituale del voto:
             «Tu vuo’ saper se con altro servigio,
         per manco voto, si può render tanto
         che l’anima sicuri di letigio». (vv. 13-15)

       Per rispondere alla domanda sulla possibilità di cambiare un
«voto manco» (non adempiuto) con «altro servigio» (un’altra opera
meritoria), Beatrice si sente obbligata a dire che cosa è il voto, a
fornirne cioè una definizione tecnica. Per poter far ciò essa ricorre ad
un sillogismo.12 Nella premessa maggiore (vv. 19-24) Beatrice
afferma che il dono maggiore fatto da Dio all’uomo è il libero
arbitrio («de la volontà la libertade»): si tratta di un dono condiviso
da tutte le «creature intelligenti», angeli e uomini. Nella premessa
minore (vv. 25-30) Beatrice sostiene che il voto altro non è che la
restituzione, da parte dell’uomo, della libera volontà a Dio che
gliel’ha concessa. Nella conclusione (vv. 31-33) Beatrice dichiara
che il voto non può avere nessun «ristoro», non può cioè essere
sostituito con nessun altro dono o servigio, dato che esso riguarda il

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più alto dono fatto da Dio. Il voto è dunque un «patto» stabilito con
Dio (v. 28), per effetto del quale l’uomo sacrifica la propria libera
volontà. Va notato che un simile patto è stato sancito ab aeterno
dagli angeli, così come ci conferma il passo del Purgatorio
contenente la parafrasi del Pater noster:13
              «Come del suo voler li angeli tuoi
          fan sacrificio a te, cantando osanna,
          così facciano li uomini de’ suoi». (Purg. XI, 10-12)

       Ne deriva che la pratica del voto avvicina l’uomo alla
condizione angelica, lo pone cioè in una situazione del tutto
eccezionale, e più propriamente eroica. Rendendo Dio signore della
propria libera volontà, il voto rappresenta una premonizione
dell’eterno nel tempo. Vedremo subito il presumibile impatto che
una simile concezione del voto può aver esercitato sulla riflessione a
cui Dante continuamente sottopone il proprio lavoro letterario.
       Detto che cos’è il voto (un patto fra l’uomo e Dio, in cui viene
sacrificata la libera volontà), Beatrice passa a considerare una
possibile eccezione, che consiste nel fatto che la Chiesa consente di
commutare e perfino di annullare il voto. Ciò pare essere in aperto
contrasto con la definizione appena data del voto: come si può infatti
commutare qualcosa che si è detto essere incommutabile?14 Ed ecco
che Beatrice allarga il raggio del suo insegnamento, fa sedere un po’
più a lungo il discepolo alla «mensa» de sapienti (v. 37), di modo
che la definizione stessa del voto venga meglio illuminata:
              «Due cose si convegnono a l’essenza
          di questo sacrificio: l’una è quella
          di che si fa; l’altr’ è la convenenza». (vv. 43-45)

      Il voto consiste nel «sacrificio» della propria libertà di volere;
per cui, come in ogni sacrificio, abbiamo la cosa sacrificata (la
materia) e l’atto sacrificale (la forma). Ora, nessuna autorità, nemmeno

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Michelangelo PICONE                             Paradiso V: Il voto di Dante

quella della Chiesa, può cancellare l’aspetto formale del voto, essendo
questo un patto personale fra l’uomo e Dio. Su tale punto Beatrice è
categorica: «Quest’ ultima [la “convenenza” fra l’uomo e Dio] già mai
non si cancella /se non servata […]» (vv. 46-47). Non esiste quindi
nessuna possibilità di «dispensa» dall’impegno preso con Dio. Così
facendo Beatrice si spinge ben oltre l’insegnamento canonico
impartito dalla Chiesa (che troviamo ad esempio condensato nella
quaestio n. 88 contenuta nella Secunda secundae della Summa di S.
Tommaso), che in alcuni casi ammetteva la totale dispensatio voti.15
Richiamandosi piuttosto alle severe disposizioni veterotestamentarie in
materia di voto (in particolare a quelle di Num. 30, 3, dove si dichiara
il carattere vincolante del voto16), Beatrice predica la più rigorosa
osservanza anche per i Cristiani.
       Se la forma del voto, la convenzione fra l’uomo e Dio, non è
minimamente modificabile, la materia al contrario può esserlo, ma a
certe condizioni e con precisi vincoli, di cui la Chiesa è l’unica
garante. La Chiesa può, in effetti, commutare l’oggetto del voto con
un altro, purché quest’ultimo sia di più alto valore:
             «L’altra, che per materia t’è aperta,
         puote ben esser tal, che non si falla
         se con altra materia si converta.
             Ma non trasmuti carco a la sua spalla
         per suo arbitrio alcun, sanza la volta
         e de la chiave bianca e de la gialla;
             e ogne permutanza credi stolta,
         se la cosa dimessa in la sorpresa
         come ’l quattro nel sei non è raccolta». (vv. 52-60)

       Solo la Chiesa possiede dunque l’autorità di indicare i limiti e
i modi della commutatio voti. Evidentemente Beatrice sta qui
parlando della «Santa Chiesa» (v. 35), dell’istituzione ideale a cui
compete la custodia della legge divina, la «potestas solvendi et
ligandi», raffigurata dalle due chiavi, d’oro e d’argento; non vuole
affatto alludere all’istituzione reale, alla Chiesa storica del suo

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tempo accusata di corruzione e di depravazione in numerosi luoghi
della Commedia. Appaiono di conseguenza destituite da ogni
fondamento testuale le illazioni interpretative a cui Pastore Stocchi
arriva nel corso della sua lectura del canto, e che sono ormai
diventate glossa corrente. Secondo questo critico la lezione di
Beatrice sarebbe dettata da uno spirito polemico nei confronti della
giurisdizione ecclesiastica in materia di voti. Più in particolare
verrebbe qui condannato il commercio simoniaco di dispense e
commutazioni di voti; commercio favorito e alimento dai canonisti e
dai decretalisti (i commentatori dei decreti papali), che da un lato
incoraggiavano i fedeli a fare dei voti particolarmente onerosi dal
punto di vista economico (come ad esempio il pellegrinaggio, anche
oltremare), e dall’altro si mostravano disponibili a concedere la
dispensa dal voto stesso dietro congruo compenso monetario o
lascito immobiliare. Tutto ciò è storicamente vero, e Dante stesso
non manca di lanciare in altri luoghi della Commedia i suoi strali
contro i decretalisti;17 questo non sembra però essere il caso del
canto V del Paradiso, dove la questione del voto viene affrontata in
una prospettiva non storica ma ideologica, non generale ma
personale, non morale ma poetica. A Beatrice insomma, e a Dante
che trascrive il suo discorso, non interessa la bassa speculazione
finanziaria fatta dai decretalisti sul voto, ma l’altissima speculazione
intellettuale svolta dal poeta cristiano sul «patto» che lega l’io a Dio.
       Lo spirito non polemico ma inquisitivo esibito da Beatrice
nella parte dimostrativa del suo discorso, è dominante anche nella
parte persuasiva e esortativa. Gli ammonimenti pratici rivolti ai
Cristiani – di non prendere il voto alla leggera («non prendan li
mortal il voto a ciancia», v. 64), e di ponderare bene le proprie
offerte votive («siate, Cristiani, a muovervi più gravi», v. 73) – sono
ispirati dalle convinzioni teoriche espresse in precedenza, e
soprattutto dall’idea che il voto è un vincolo contrattuale gravissimo
stipulato direttamente con Dio. In effetti il voto, nel caso che sia

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Michelangelo PICONE                             Paradiso V: Il voto di Dante

compiutamente osservato, costituisce la strada maestra che conduce
l’uomo alla salvazione eterna. Poiché la guida nel viaggio della vita
è affidata a Dio, non c’è possibilità alcuna di deviazione o
smarrimento. Procedere però in tale strada comporta uno sforzo
sovrumano, che solo pochi eletti sanno e possono sopportare. A tutti
gli altri Beatrice consiglia di seguire la via normale, che è quella
indicata dalla parola sacra e dalla dottrina della Chiesa:
             «Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
         e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
         questo vi basti a vostro salvamento». (vv. 76-78)

       L’opposizione fra un cristianesimo normale e uno eroico
(proprio di chi si vota a Dio già durante la sua vita terrena) serve sia
a condannare colui che, avendo fatto un voto, non ha la forza di
osservarlo,18 sia ad esaltare chi si dimostra «fedele» (v. 65) al voto
fatto, ligio all’impegno assunto davanti a Dio. La punizione per il
primo è, come abbiamo visto, la metamorfosi animalesca; il premio
invece riservato al secondo è la metamorfosi divina, il «trasumanar»
e la deificatio. Ma è proprio questo il privilegio di cui Dante,
pellegrino attraverso le sfere celesti, viene insignito.
       La constatazione che abbiamo appena fatto ci aiuta ad
elaborare una risposta plausibile alla domanda che è aleggiata fin
dall’inizio della nostra lectura. Una domanda non solo oggettiva
(che cos’è il voto per Dante? qual è il suo valore nell’economia del
canto e dell’intera Commedia?), ma soprattutto soggettiva (qual è il
voto di Dante?). Accantonate le ragioni religiose, della polemica
contro i decretalisti, e ridimensionate anche le ragioni storiche,
dell’importanza che il voto aveva all’interno della civiltà medievale,
rimangono pertinenti e valide solo le ragioni letterarie.
     In realtà, la questione del voto tocca un nervo sensibilissimo
di Dante poeta: quello relativo all’ispirazione umana e divina del
«poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra». Dimostrare

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questo assunto è una delle preoccupazioni costanti dell’autore della
Commedia; e tracce significative di essa le scopriamo anche nel
nostro canto. Si prenda ad esempio il v. 85, svincolo strutturale
importantissimo fra la prima e la seconda parte del canto: «Così
Beatrice a me com’ ïo scrivo». Si tratta di un verso che molti esegeti
trascurano perfino di commentare, considerandolo un inutile
riempitivo. Esso ricopre invece una funzione decisiva, dal punto di
vista della strategia non solo letteraria ma anche metaletteraria. La
figura di Beatrice, infatti, rappresenta qui la fonte dell’ispirazione
divina del poema. La soluzione che la donna ha appena offerto della
quaestio del voto appartiene all’ordine delle verità assolute; e Dante,
che ha registrato nella sua memoria quelle parole, è ora pronto a
trascriverle nel libro che abbiamo davanti. Dante autore si presenta
dunque al suo lettore nelle vesti di scriba Beatricis; ma essendo
Beatrice specchio della verità divina, Dante stesso diventa scriba
Dei.19
       Dante rivendica un simile eccezionale statuto autoriale altre
volte nella Commedia. Ad esempio in occasione dell’incontro con
Bonagiunta (Purg. XXIV, 52-54), e più specificamente nel canto X
del Paradiso, dove comunica al lettore di essere totalmente assorbito
dal lavoro di trascrizione della difficile «materia» paradisiaca:
             Messo t’ ho innanzi: omai per te ti ciba;
          ché a sé torce tutta la mia cura
          quella materia ond’ io son fatto scriba. (Par. X, 25-27)

       Chi ha composto questi versi è una persona che si sente come
invasata (letteralmente: «fatta vaso» [Par. I, 14]) da una forza
trascendente che lo costringe a completare l’opera intrapresa, a
realizzare la sua missione di poeta-vate; qualcuno insomma che ha
liberamente sacrificato la sua libertà individuale sull’altare
dell’ispirazione divina. Non solo l’agens nel corso del suo viaggio
nell’Oltretomba si è lasciato guidare da emissari della volontà divina

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Michelangelo PICONE                             Paradiso V: Il voto di Dante

(come Virgilio o Beatrice), ma l’auctor stesso ha sofferto «fami /
freddi e vigilie» e si è «fatto per molti anni macro» per poter dare alla
Cristianità occidentale il suo poema. Ciò che manifestamente ritaglia
sull’uomo-Dante la definizione generale di voto data in questo canto V
del Paradiso.
       Al tempo stesso, visitando i regni ultraterreni e scrivendo la
Commedia, Dante ha però osservato un voto specifico, e può di
conseguenza, giunto alla fine del suo lungo viaggio istoriale e
testuale, paragonarsi al «peregrin che si ricrea / nel tempio del suo
voto» (Par. XXXI, 43-44). Si tratta di una evidente pseudo-
similitudine; infatti in quel tempio, nell’Empireo, nel locus Dei,
Dante aveva già solennemente e pubblicamente promesso di volersi
recare. La promessa (il “voto”) noi la troviamo registrata nella
memorabile pagina conclusiva della Vita Nova, nell’ultimo paragrafo
del libello giovanile:
          Apresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione,
      nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più
      di questa benedecta infino a tanto che io potessi più
      degnamente tractare di lei. E di venire a.ciò io studio quanto
      posso, sì com’ella sae, veracemente. Sì che, se piacere sarà di
      Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per
      alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue
      detto d’alcuna. (31 [XLII], 1-2)
       Il voto di Dante è quello di descrivere, e quindi di rivivere, la
«mirabile visione» di Beatrice beata nel più alto dei cieli: visione già
pregustata dallo «spirito peregrino» nel paragrafo precedente del
libello. Si tratta di un patto che il giovane autore della Vita Nova ha
stretto direttamente con Dio («se piacere sarà di Colui a cui tutte le
cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni»): un patto che
impegna e vincola il futuro autore della Commedia («e di venire a
ciò [a dire più degnamente di Beatrice] io studio quanto posso»). Ma
è appunto questo proposito di comporre l’opera totale e definitiva su

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Beatrice («io spero di dire di lei quello che mai non fue detto
d’alcuna») il voto che l’autore della Commedia mantiene e scioglie,
offrendo alla civiltà occidentale il poema che, benché scritto da un
uomo, porta impresso il marchio dell’auctoritas divina.

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Michelangelo PICONE                                          Paradiso V: Il voto di Dante

NOTE
* Lectura tenuta all’Università di Zurigo il 25 magio 2000, nell’ambito della Lectura
Dantis Turicensis
1
  La presenza dei rimanti ingegno : segno, e l'atto stesso di mettere a tacere una mente
smisuratamente inquisitiva, sono elementi che richiamano il pattern profondissimo
dell’episodio ulissiaco narrato nel canto XXVI dell'Inferno. Anche lì il personaggio-poeta
«lo ’ngegno affrena» (v. 21), in anticipazione della tragica avventura dell’eroe greco: una
tragedia provocata precisamente dal «trapassar del segno», dall’aver voluto superare il
limite imposto alla conoscenza umana. Ma si veda, l’illuminante lectura di K. STIERLE del
canto XXVI del Paradiso, in Lectura Dantis Turicensis, III: «Paradiso», a c. di G.
Güntert e M. Picone, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002, pp. xxx-xx.
2
  Lo stesso richiamo intratestuale agisce anche per il v. 126, dove Dante, della luce
emanata dagli occhi di Giustiniano, dice che «corusca sì come tu ridi».
3
  «Come pianeta volubile e femmineo, regolatore del flusso e riflusso del mare […], essa
[la Luna] genera il tema della volontà variabile e dei voti verginali traditi» (G. STABILE, Il
canto II del «Paradiso», in AA.VV., «Paradiso». Letture degli anni 1979-81, Roma,
Bonacci, 1989, pp. 35-100, alla p. 45).
4
   Della nutrita bibliografia su questo tema si indicano solo alcune delle voci più
significative: R. MIGLIORINI FISSI, La nozione di "deificatio" nel «Paradiso», in «Letture
classensi», 9-10 (1982), pp. 39-72; P. RIGO, Memoria classica e memoria biblica in
Dante, Firenze, Olschki, 1994, pp. 109-33; F. MAZZONI, San Bernardo e la visione
poetica della «Divina Commedia», in Seminario Dantesco Internazionale. Atti del primo
convegno tenutosi al Chauncey Conference Center (Princeton, 21-23 ottobre 1994), a c. di
Z. Baranski, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 171-241.
5
  Per un'analisi più approfondita di questo aspetto si rinvia a M. PICONE, L'Ovidio di Dante, in
Dante e la "bella scola" della poesia. Autorità e sfida poetica, a c. di A.A. Iannucci, Ravenna,
Longo, 1993, pp. 107-44; ID., Dante e i miti, in Dante: mito e poesia. Atti del secondo
Seminario dantesco internazionale (Monte Verità, Ascona, 23-27 giugno 1997), a c. di M.
Picone e T. Crivelli, Firenze, Franco Cesati Editore, 1999, pp. 21-32. Nella sua lectura del
canto Pasquazi parla opportunamente della «drammatica narrazione d'una lunga avventura
interiore, d'una radicale e universale metanoia, in cui l'azione esteriore è anche,
continuamente e intensamente, azione interiore, interiore trapasso e conquista» (p. 455).
6
  Di canto «apparentemente arido e spezzato […], di sutura e di connessione» parla, ad
esempio, Pasquazi (pp. 469-70), mentre Coglievina lo qualifica come «canto-cerniera» (p.
50).

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7
  A Borzi (p. 186) questo coinvolgimento dell'opera e delle sue divisioni interne ricorda la
tecnica epico-cristiana delle chansons de geste; di sicuro ci indica che siamo davanti non
ad una profezia ma ad un'altissima poesia che osa trattare la materia più alta messa a
disposizione dell'uomo. Sull'uso del termine “canto” come garanzia dell'integrità e della
sacralità del poema sacro, oltre alle nostre osservazioni finali, si veda Z. BARANSKI, The
Poetics of Meter: «terza rima», «canto», «canzon», «cantica», in Dante Now, a c. di T.J.
Cachey Jr., South Bend-London, University of Notre Dame Press, 1994, pp. 3-41.
8
  Osservazioni molto interessanti sulla continuità e la cesura fra i due canti si possono
trovare nelle lecturae di Tartaro (pp. 107-12), De Fazio (pp. 69-71) e Borzi (pp. 183-84).
Possiamo aggiungere che la ripresa, nell'inizio del canto V, della fine del canto precedente
è di tipo chiasmatico: mentre i vv. 1-12 si riferiscono ai vv. 139-40, i vv. 13-15
riassumono la questione proposta da Dante ai vv. 136-38 del canto IV.
9
 Cfr. DANTE ALIGHIERI, Rime, a c. di G. Contini, Torino, Einaudi, 19652, pp. 55-57, alla p.
55; il critico aggiunge l'acuto rilievo «che il sonetto sia una sorta di “prova generale”
nell'ordine dei temi stilnovistici». Meno pregnanti risultano i richiami a Cavalcanti operati,
per questo stesso luogo, da Garboli (pp. 7-9) e, sulla sua scia, da Coglievina (pp. 56-57) e
De Fazio (pp. 71-72).
10
   Per i collegamenti macrostrutturali con il canto V dell'Inferno si veda da ultimo De
Fazio, pp. 72-78; dove, se è accettabile il giudizio che «Paradiso V is part of an ongoing
metapoetic discourse within the Commedia regarding the whole stilnovistic experience»,
non pare invece condivisibile il parere espresso subito dopo che questo canto possa essere
letto «not only as yet another rejection of the love poetics of the stilnovo, but also as an
indication of the new poetics of love that has replaced it in the Commedia». In realtà la
poetica amorosa del poema sacro si pone come il potenziamento semantico e retorico della
linea stilnovistica che da Guinizzelli porta alla Vita Nova (come dimostrano i canti XXIV
e XXVI del Purgatorio); ciò che essa condanna è la variante dello Stilnuovo rappresentata
da Cavalcanti. Per ulteriori delucidazioni su questo punto si rinvia a M. PICONE, Guittone,
Guinizzelli e Dante, in «L’Alighieri», n.s., 18 (2001), pp. 5-19.
11
    Si ricorda un solo lemma di una bibliografia veramente sterminata: F. MAZZONI, Il
'trascendentale' dimenticato, in Omaggio a Beatrice (1290-1990), a c. di R. Abardo,
Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 93-132 (ma anche altri saggi raccolti in questo stesso
volume miscellaneo sono importanti).
12
     È Tartaro, fra gli altri, a parlare di una «razionalità sorvegliata, sillogistica» (p. 117).
13
   L'accostamento si trova già indicato in una acuta analisi dei canti III-V del Paradiso
proposta da G. MAZZOTTA, Dante's Vision and the Circle of Knowledge, Princeton,
Princeton University Press, 1993, pp. 34-55, alla p. 38.
14
   Precedentemente Beatrice, per chiarire il punto della incommutabilità del voto, era
ricorsa a delle metafore tratte dal campo dell'economia: «Se credi bene usar quel c’hai

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Michelangelo PICONE                                          Paradiso V: Il voto di Dante

offerto, / di maltolletto vuo’ far buon lavoro» (vv. 31-32); tentare di compensare Dio per il
voto non adempiuto è come mettere a frutto un capitale che non ci appartiene, di cui ci
siamo appropriati indebitamente. Su questa aspra critica della ragione mercantile si veda la
lectura di Oliva, pp. 143-48.
15
   Nel comma 3 della quaestio 88 S. Tommaso, dopo aver affermato che la «obligatio voti
fundatur super fidelitatem quam homo debet Deo» e che in questa «nullus potest
dispensare», adduce una possibile via d'uscita per analogia con la legge umana: «Sed in
lege, quae habet robur ex communi voluntate, potest per hominem dispensari. Ergo videtur
quod etiam in voto per hominem dispensari potest».
16
   Fra i vari brani del Vecchio Testamento (espressamente chiamato in causa ai vv. 49-51:
«però necessitato fu a li Ebrei / pur l'offerere, ancor ch'alcuna offerta / si permutasse, come
saver dei») afferenti alla problematica del voto, è questo il più incisivo: «Iste est sermo
quem praecepit Dominus: si quis virorum votum Domini voverit, aut se constrinxerit
iuramento: non faciet irritum verbum suum, sed omne quod promisit, implebit».
17
   Si vedano in particolare Par. XI, 4 (dove si criticano gli studi giuridici in quanto
interessati a valori solo terreni) e Par. XII, 83 (dove Enrico di Susa, «l'Ostiense», autore
della Summa Decretalium, è addotto come esempio di studioso dedito a conseguire
benefici economici). L'attacco però più specifico e più violento è quello contenuto nel
canto IX del Paradiso, ai vv. 133-35: «Per questo l'Evangelio e i dottor magni / sono
derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare a’ lor vivagni». Per una valutazione
tecnica dell’intera problematica delle decretali si veda ora P. GROSSI, L’ordine giuridico
medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 203-10.
18
   È fortemente probabile che Dante avesse in mente un nome e un evento preciso: il
mancato pellegrinaggio di Guido Cavalcanti a Santiago di Compostella, interrotto a metà
strada, a Tolosa. In effetti, Niccola Muscia nel suo sonetto giocoso Ècci venuto Guido ’n
Compostello parla espressamente di voto mancato da parte di Guido («ma dice pur ch’e’
non v’era botio»): si veda ora il contributo di M. CICCUTO, Il disdegno di San Giacomo.
Per una diversa assenza di Cavalcanti dalla «Commedia», in «Letteratura italiana antica»,
III (2002), pp. 311-18.
19
   Oltre al classico studio sull'argomento di G.R. SAROLLI (Dante "scriba Dei": storia e
simbolo, in Prolegomena alla «Divina Commedia», Firenze, Olschki, 1971, pp. 189-336),
si vedano i contributi di R. HOLLANDER (Dante Theologus-Poeta, in Studies in Dante,
Ravenna, Longo, 1980, pp. 39-89) e di A. JACOMUZZI (“Ond’ io son fatto scriba”, in
L'imago al cerchio e altri studi sulla «Divina Commedia», Milano, Franco Angeli, 19952,
pp. 27-77).
REFERENCIAS BIBLIOGRÁFICAS:

                                                                                          189
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