La traduzione come problema filosofico - Calls For Comments - Domenico Jervolino

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La traduzione come problema filosofico

                       di

             Domenico Jervolino

               djervol@tin.it

           Calls For Comments
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Domenico Jervolino  2005 – La traduzione come problema filosofico

Abstract
La traduzione è diventata negli ultimi decenni il tema di un ampio arco di discipline. Questo saggio offre alcuni
elementi di una ricerca ancora in itinere che mira all’elaborazione di una possibile filosofia della traduzione, di
ispirazione fenomenologico-ermeneutica.
La traduzione presuppone la pluralità delle lingue, delle culture e delle visioni del mondo, ma anche è segno di una
pluralità immanente all’umano in quanto tale. Nello stesso tempo essa pone la questione dell’unità e della
comunicazione tra le diverse forme di tale pluralità. Il lavoro ermeneutico che la traduzione comporta è una risposta
all’alterità che noi troviamo dentro di noi e fuori di noi. Il lavoro della traduzione implica la rinuncia al sogno di
una traduzione perfetta, di una lingua unica, ed è ricerca di equivalenze senza identità: esso ha qualcosa in comune
col lavoro del lutto nel senso freudiano della parola e col lavoro di memoria.
La traduzione non richiede soltanto un lavoro intellettuale, teorico e pratico, ma pone anche un problema etico in
quanto l'atteggiamento dell’ospitalità linguistica, che si oppone alla tendenza a impadronirsi dell’altro, costituisce
il modello di altre forme di ospitalità, di accoglienza dell'estraneo.
Il tema della traduzione viene inoltre chiamato a rinnovare e chiarificare il metodo fenomenologico, rispetto alle tre
tesi della significazione, del soggetto come portatore della significazione e della riduzione. Si conclude con un
cenno sulle implicazioni del paradigma della traduzione nella costruzione di una possibile identità etico-politica
per l’Europa unita.

Autore
Domenico Jervolino, nato a Sorrento nel 1946, discepolo di Pietro Piovani e di Paul Ricoeur, è professore di prima
fascia all’Università di Napoli Federico II, dove insegna ermeneutica e filosofia del linguaggio. Autore, nel campo
degli studi filosofici, dei volumi: Il cogito e l’ermeneutica.La questione del soggetto in Ricoeur, Procaccini, Napoli
1984, Marietti, Genova 19932 (tradotto in inglese presso Kluwer nel 1990); Pierre Thévenaz e la filosofia senza
assoluto, Athena, Napoli 1984, Studium, Roma 20032; Logica del concreto ed ermeneutica della vita morale.
Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli 1994; Ricoeur. L’amore difficile, Studium, Roma 1995; Le parole
della prassi. Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli 1996; Ricoeur. Une herméneutique de la condition
humaine, Ellipses, Paris 2002 ; Introduzione a Ricoeur, Morcelliana, Brescia 2003. Ha curato e introdotto le
antologie ricoeuriane: Filosofia e linguaggio, Guerini, Milano 1994, 20002; La traduzione. Una sfida etica,
Morcelliana, Brescia 2001, 20022. Ha curato, inoltre, i volumi: Filosofia e liberazione, Capone, Lecce 1992 (con G.
Cantillo); Fenomenologia e filosofia del linguaggio, Loffredo, Napoli 1996 (con R. Pititto); L’eredità filosofica di
Jan Patočka, CUEN, Napoli 2000; Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Liguori, Napoli 2001 (con G. Cacciatore
e P. Colonnello). A questi titoli vanno aggiunti circa settanta articoli e saggi di argomento filosofico, in nove
lingue. Ha organizzato due convegni internazionali sulla traduzione nel 1999 e nel 2002.

Note: quest'articolo è stato pubblicato, prima della scomparsa di Paul Ricoeur, sulla rivista "Studium", n.1,
gennaio-febbraio 2005, pp.59-67. Vedi anche precisazione sul numero successivo, p. 316.

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La traduzione come problema filosofico

 La traduzione è diventata ormai tema di un arco vasto di discipline, dando luogo

a una bibliografia che cresce e che si collega anche in diversi paesi, fra i quali

anche il nostro, all’esigenza di dare ordine e rigore alla formazione degli

interpreti e dei traduttori e a valorizzarne la figura professionale. Tali aspetti

pedagogici e istituzionali meriterebbero un        discorso a parte, così come lo

meriterebbe l’esigenza, nell’ambito delle politiche culturali, di una specifica

politica della traduzione e delle lingue. Mi auguro di avere altre occasioni per

affrontare questi discorsi, tanto più pregnanti se visti nel contesto dell’Europa

unita e allargata e dei processi di globalizzazione su scala planetaria. In questo

mio intervento però vorrei concentrarmi, sia pure in un modo ancora sintetico e

programmatico, sul nodo teorico della fondazione di una vera e propria filosofia

della traduzione o – detto altrimenti – dell’assunzione, entro quel vasto arco

interdisciplinare di cui si parlava, della traduzione come problema filosofico.

Questo nodo è venuto al pettine solo da poco, negli ultimi decenni del secolo

scorso, un secolo -. il Novecento – che in un certo modo si è caratterizzato ai suoi

inizi per quella che è stata chiamata la “svolta linguistica”, e perciò per la

centralità del linguaggio nella riflessione filosofica. Dal linguaggio quindi alla

traduzione, che suppone la pluralità delle lingue nelle quali storicamente il

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    linguaggio vive e si manifesta. In qualche modo la svolta linguistica si compie e si

    chiarifica nell’emergere della tematica della traduzione.

    L’assunzione della traduzione come problema filosofico sottolinea il motivo della

    pluralità non solo delle lingue, delle culture e delle visioni del mondo, ma anche di

    una pluralità in qualche modo immanente all’umano in quanto tale. Nello stesso

    tempo essa pone la questione dell’unità e della comunicazione tra le diverse forme

    di tale pluralità. Del resto, di traduzione – come è noto - si può parlare e si è

    parlato, già nel campo degli studi linguistici e letterari, non solo in rapporto alle

    lingue storiche, ma anche all’interno della stessa lingua, rispetto all’articolarsi, al

    diversificarsi, alle tensioni interne al linguaggio in quanto tale e più in generale

    alla semiosi, così come ai processi in base ai quali tali tensioni riescono (o non

    riescono) a sciogliersi e a coesistere in unità plurale1. L’antica problematica

    filosofica dell’uno e del molteplice, del medesimo e dell’altro ritrova qui accenti

    nuovi e nuove suggestioni.

    A questa incipiente filosofia della traduzione hanno dato contributi pensatori

    rilevanti dello fine secolo che si è appena consumata e che prosegue nei primi anni

    del nuovo secolo. Pensatori appartenenti a scuole diverse, che parlano essi stessi i

1
  Il grande linguista Roman Jakobson opera, com’è noto, una distinzione, spesso ripresa da altri autori, fra
traduzione intralinguistica (rewording, riformulazione), interlinguistica (traduzione propriamente detta) e
intersemiotica, quest’ultima da un sistema di segni a un altro (transmutation, transmutazione).Cfr. R.
Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, in On Translation, a cura di R. Brower, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 1959, pp. 232-239, ora in Id., Saggi di linguistica generale, a cura di L.
Heilmann, tr. di L. Heilmann e L. Grassi, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 56-64.

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    linguaggi diversi della filosofia contemporanea, linguaggi che pongono nella loro

    diversità l’esigenza delle loro possibile, problematica traducibilità. Vorrei

    ricordare sul versante analitico Quine e Davidson, su quello “continentale”

    (denominazione geografica che, peraltro, io non amo) Gadamer, Ricoeur e

    Derrida. Ma altri nomi ancora potrebbero essere evocati e non solo di filosofi

    riconosciuti come tali, ma anche di studiosi che si collocano sulle linee di confine

    delle diverse discipline che attraversano il campo degli studi sulla traduzione2.

    In questa fase del mio discorso non mi interessano tanto le differenze, certamente

    considerevoli fra i singoli autori e fra le diverse scuole di pensiero. Preferirei

    piuttosto sottolineare come il linguaggio, le lingue e la traduzione (la pratica

    traducente) costituiscano insieme una sorte di bene comune della filosofia

    contemporanea in quanto in questa triade viene alla luce la reciproca apertura

    dell'uomo e del mondo. Il tale apertura si incontrano il poter essere dette delle

    cose (o se si preferisce dei fenomeni) e il poter dire dell’uomo. Il senso dei

    fenomeni è custodito dal linguaggio e quest’ultimo è mediazione necessaria fra

    uomo e mondo, uomo e uomo, e dell’uomo con se stesso. Ma il linguaggio non

    esiste se non nelle lingue ed esige quindi la pratica della traduzione.

2
 Una buona panoramica si può trovare nel volume di AA. VV., Teorie contemporanee della traduzione, a
cura di S. Nergaard, Bompiani, Milano 1995.
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    Sottolineo il termine pratica. Il tema della traduzione rinvia alla dimensione

    della prassi, e tale accentuazione è conforme a quella “riabilitazione” della

    ragione pratica che è una delle tendenze significative                                   della filosofia

    contemporanea, nella quale si riconoscono tra l’altro i maggiori esponenti

    dell’ermeneutica filosofica,

    Gadamer e Ricoeur3. Il tradurre è una forma dell’agire la cui concretezza lo rende

    irriducibile a una tecnica intesa come mera applicazione meccanica di regole

    formalizzabili. Essa comporta la conoscenza del caso concreto, la capacità di

    applicare regole generali al caso concreto, così come la ragione pratica guida le

    scelte della vita, grazie a quel discernimento che Aristotele chiama phrónesis (la

    prudentia dei Latini).

    Hans Georg Gadamer, in uno scritto pubblicato negli atti di un colloquio franco-

    tedesco del 1994, rievoca il racconto biblico di Babele per darne una lettura

    contemporanea: la lingua unica che annulla tutte le diversità è oggi quella di una

    concezione scientista del mondo, essa secondo l’ideale insensato dei Babelici ci

    dispenserebbe dall’ascolto dell’altro. Comprendersi nel mondo significa

    comprendersi reciprocamente e comprendere se stessi in questa stessa

3
  Si vedano in particolare (tra le tante citazioni possibili su questo punto): la nota raccolta Zur Reabilitierung
der praktischen Philosophie, a cura di di M. Riedel, 2 voll., Rombach, Freiburg i. Br. 1972-74, il cui titolo
divenne una parola d’ordine nel dibattito filosofico; il saggio di Gadamer, pubblicato originariamente nel
primo dei due volumi precedentemente menzionati, Hermeneutik als praktische Philosophie, ora in H.-G.
Gadamer, Vernunft in Zeitalter der Wissenschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1976, pp. 76-109 (La ragione
nell’età della scienza, tr. di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1982, pp. 69-90); e infine il saggio di Ricoeur,
La raison pratique in Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986, pp. 237-259 (Dal
testo all’azione. Saggi di ermeneutica, tr. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1989, pp. 229-250).
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    cmprensione dell’altro. E’ il più difficile compito dell’uomo – dice l’anziano

    saggio – in particolare per noi che viviamo in un mondo che porta l’impronta delle

    scienze monologiche. E’ un comprendersi da prendersi soprattutto in senso

    morale, piuttosto che nel suo senso logico4. La polemica di Gadamer rispetto al

    monologismo delle scienze va certamente accompagnata dalla precisazione che la

    tentazione monologica non risparmia nessun campo del sapere. La volontà di

    dominio che lo stesso Gadamer riconosce alla base di tale                            monologismo si

    presenta in forme insidiose nel mondo contemporaneo e richiede quindi una

    critica delle ideologie, delle istituzioni e dei sistemi economico sociali che

    l’ermeneutica gadameriana non compie ma, a mio avviso, non solo non impedisce

    ma addirittura autorizza e richiede.

    Tanto per Gadamer che per Ricoeur il lavoro ermeneutico che la traduzione

    comporta è una risposta all’alterità che noi troviamo dentro di noi e fuori di noi.

    Per Ricoeur5 il lavoro della traduzione implica la rinuncia al sogno di una
4
  H.-G. Gadamer, La diversité des langues et la compréhension du monde¸ in Penser, au présent, a cura di
J. Poulain, L’Harmattan, Paris 1998, pp. 97-116. Sul racconto di Babele, letto non come condanna e
maledizione ma nella prospettiva di salvaguardare le diversità dell’umano (lettura condivisa da molti autori
contemporanei) si vedano in particolare il bel libro del padre F. Marty (presente anche in questo dossier con
un suo saggio), La bénédiction de Babel, Beauchesne, Paris 1990 e l’opera postuma del grande medievista
francese P. Zumthor, Babel ou l’inachèvement, Seuil, Paris 1997 (Babele. Dell’incompiutezza, tr. it. di S.
Varvaro, Il Mulino, Bologna 1998).
5
  Gli scritti di Ricoeur sulla traduzione, che resta per me e per la mia ricerca una fondamentale sorgente di
ispirazione, sono ora raccolti in un piccolo volume pubblicato di recente, Sur la traduction, Bayard, Paris
2004, ma erano stati precedentemente pubblicati in italiano: cfr. P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a
cura di D. Jervolino, tr. di I. Bertoletti e M. Gasbarrone, Morcelliana, Brescia 2001. L’ultimo scritto incluso
in Sur la traduction, non compreso per ragioni cronologiche nella raccolta italiana, era stato presentato
nell’ottobre 2002 al convegno di Napoli su “Il dono delle lingue” e si può leggere ora in una mia traduzione
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    traduzione perfetta, di una lingua unica, ed è ricerca di equivalenze senza identità:

    esso ha qualcosa in comune col lavoro del lutto nel senso freudiano della parola e

    col lavoro di memoria. Accostando lavoro del lutto e lavoro di memoria si

    evocano anche le due grandi opere del filosofo francese: il Saggio su Freud del

    1965 e La memoria, la storia, l’oblio del 20006.

    La traduzione non richiede soltanto un lavoro intellettuale, teorico e pratico, ma

    pone anche un problema etico in quanto l'atteggiamento dell’ospitalità linguistica,

    che si oppone alla tendenza a impadronirsi dell’altro, costituisce il modello di altre

    forme di ospitalità, di accoglienza dell'estraneo. D'altra parte il problema della

    traduzione in senso stretto (da lingua a lingua) ritorna in quello della traduzione in

    senso largo, cioè del comprendersi all'interno della stessa comunità linguistica. In

    ogni altro vi è qualcosa dello straniero. Lo scarto fra una ipotetica lingua perfetta

    e la concretezza della lingua viva si ripropone nella quotidianità dello scambio

negli Atti di quel convegno, nel numero monografico di “Studium”, n.5/2003. Nell’introduzione a La
traduzione. Una sfida etica, pp. 7-37. proponevo di collocare sotto il segno del “paradigma” della traduzione
l’ultima fase della ermeneutica ricoeuriana, a partire dalla ricerca sull’identità personale di Soi-même comme
un autre (1990), dopo l’ermeneutica del simbolo degli anni sessanta e la successiva ermeneutica del testo.
Simbolo, testo, traduzione sono dunque – secondo la mia ipotesi di lettura - i tre paradigmi dell’ermeneutica
ricoeuriana: i primi due per esplicita dichiarazione dell’Autore, il terzo sulla base di una lettura interpretante
del suo percorso filosofico.
6
  Cfr. P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965 (tr. it. di E. Renzi,
Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967; nuova ed. con intr. di D. Jervolino, 2002)
e La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000 (tr. it. di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio,
Cortina, Milano 2003). Ho presentato una rassegna di quest’ opera in Memoria,storia, oblio nell’ultimo
Ricoeur,in “Studium”, n. 5, 2001, pp. 713-737, ripresa poi più ampiamente nella mia Introduzione a Ricoeur,
Morcelliana, Brescia 2003.
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    linguistico: è sempre possibile dire la stessa cosa in altro modo. Ora, dire la

    stessa cosa in altro modo, in altri termini, è ciò che appunto fa il traduttore da una

    lingua ad un'altra. Le due vie d'ingresso nel problema della traduzione, le due

    metà del problema, per così dire, si chiariscono a vicenda riproponendo l'enigma e

    insieme la ricchezza del rapporto con l'alterità7.

    Parlare, pensare significa sempre tradurre, anche allorché parliamo con noi stessi,

    allorché scopriamo le tracce - da cui non possiamo prescindere - degli altri in noi

    stessi.

    Se le cose stanno così, allora il nucleo essenziale della nostra vita e della nostra

    ricerca d'identità – quella che Ricoeur chiama l’ “affirmation originaire”, nella

    quale si esprime il nostro sforzo e desiderio di esistere - passa per un lavoro

    enorme e mai definitivo di traduzione e di traduzioni, di ogni sorta di traduzione,

    che coincide con la storia delle nostre vite, con la rete infinita delle nostre azioni

    e passioni, con il lavoro del lutto e della memoria che tale opera esige, con le sue

    sfide sempre rinnovate e con la felicità che essa ha il potere di accordarci nelle

    pause del nostro cammino8.

7
 Si veda in particolare il saggio di Ricoeur La traduzione come paradigma in La traduzione. Una sfida etica,
cit., pp. 51-74.
      8
        Cfr. D. Jervolino, Herméneutique et traduction. L’autre, l’étranger, l’hôte, in “Archives de
      Philosophie”, (LXIII) 2000, pp. 79-93 ; Id., Ermeneutica e traduzione. L’altro, lo straniero, l’ospite, in
      Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, a cura di G. Cacciatore, P. Colonnello, D. Jervolino, Liguori,
      Napoli 2001, pp. 291-306.

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     Quanto alla filosofia della traduzione, a mio avviso, essa è ancora un cantiere in

    cui molto resta da cercare e da elaborare. Vorrei accennare, in conclusione, a due

    direzioni di ricerca nelle quali sono impegnato:

    A) La prima è una riflessione sul metodo fenomenologico, di una fenomenologia

    che dopo Heidegger, Gadamer e Ricoeur, ma riprendendo spunti preziosi

    contenuti nello stesso fondatore del movimento fenomenologico, non posso più

    pensare se non come fenomenologia ermeneutica (dove il termine “ermeneutica”

    è qui usato come aggettivo: vale a dire come fenomenologia interpretante)9. In

    che modo il metodo si chiarifica e si arricchisce confrontandosi col tema della

    diversità delle lingue e della traduzione come paradigma?

    Le tre tesi di fondo della fenomenologia sono, seguendo ancore una volta

    Ricoeur10:

    1 la significazione è la categoria più inglobante della descrizione fenomenologica.

    2 Il soggetto è il portatore della significazione.

9
   Su questo tema si veda J. Greisch, Le cogito herméneutique.L’herméneutique philosophique et l’héritage
cartesien, Vrin, Paris 2000 e il contributo di J. Grondin, Le tournant herméneutique de la phénoménologie,
Puf, Paris 2003.
10
   Cfr. P. Ricoeur, Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969, pp. 242-257 (Il conflitto delle
interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi e G. Colombo, Jaca Book, Milano 1977, pp. 260-276).
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3 La riduzione trascendentale è l’operazione necessaria per inaugurare una vita per

la significazione.

Le tre tesi sono enunciate nell’ordine della scoperta, lette nell’ordine inverso

seguono invece l’ordine della fondazione.

La mia ipotesi di lavoro è che tutte tre queste tesi possono essere chiarite se messe

alla prova della diversità delle lingue e della traduzione.

Cominciando dalla terza, dalla riduzione: se si considera che ogni lingua è come

un mondo, ridurre, prendere le distanze da una lingua – neutralizzarla

metodologicamente – è esattamente ciò che avviene nel confronto con la lingua

straniera. Così intesa la riduzione perde il carattere di un’operazione fantastica e

impossibile di uscita dal mondo, diventa possibile e necessaria per raggiungere

quel livello che appunto permette la comprensione fra i diversi, per raggiungere

quell’umanità trascendentale che è alla base del fatto che noi parliamo una lingua

nella quale siamo nati alla coscienza ma siamo capaci di comprendere anche altri

esseri umani che parlano lingue diverse.

Ciò influenza evidentemente la concezione del soggetto che è sempre incarnato in

un mondo attraverso la mediazione di una lingua; ma tutti i mondi particolari

appartengono alla fine a un mondo comune e la nostra soggettività esiste nella

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comunione con tutti i soggetti reali e possibili, riconosciuti nella loro essenziale e

peculiare identità.

Infine la significazione non è né il voler dire che appartiene a un soggetto privo di

relazioni né l’accesso a un mondo di essenze separate: è al contrario lo spazio

aperto dalla traduzione per confrontare e far comunicare le nostre prospettive sul

mondo.

E ciò vale, a mio avviso, non solo nel caso esemplare della traduzione fra lingua e

lingua, ma anche in tutti i sensi della parola traduzione, secondo le distinzioni di

Jakobson citate all’inizio di questa mia riflessione.

Mi limito qui a questi accenni che sono solo delle primizie di una ricerca che

richiede ben altro approfondimento.

B) Voglio infine ribadire, riprendendo brevemente gli spunti iniziali di questo mio

contributo, che una filosofia delle lingue e della traduzione come quella che io

auspico può anche ispirare una politica: qual è oggi la lingua dell’Europa unita in

un mondo globalizzato e tragicamente scosso dalla guerra e dalla violenza? La

mia risposta, ispirandomi ancora una volta a Ricoeur, ma anche a Derrida, a

Balibar, a Eco, è che al lingua europea è la traduzione. In particolare, con Etienne

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     Balibar11, col quale ho avuto alcune feconde occasioni di discussione pubblica,

     sostengo che l’Europa, ammaestrata dalla sua lunga storia di guerre e di conflitti,

     deve diventare il traduttore, il mediatore del mondo, favorendo l’incontro fra le

     culture, le religioni e le nazionalità e promuovendo una politica di pace,

     soprattutto nel Mediterraneo e nei Balcani.

     Lungo questa strada potremo non solo adempiere alla nostra vocazione umanistica

     di intellettuali europei, ma anche progredire nella ricerca di un fondamento

     nonviolento del legame sociale, contrapponendo all’homo homini lupus                                       di

     Hobbes l’homo homini deus di Cecilio Stazio.

           Questa ricerca di un fondamento nonviolento del legame sociale, con la quale

     si chiudono queste osservazioni su una possibile filosofia della traduzione, mi

     piace porla ancora una volta sotto il segno del magistero di Ricoeur: giunto ad

     un’età biblica, egli ha fatto nel 2004 un nuovo dono ai suoi lettori con Parcours

     de la reconnaissance, un’opera che rappresenta un nuovo avanzamento di quella

     meditazione sulla condizione umana, ricca di saggezza e foriera di speranza, che

     rappresenta l’eredità più preziosa del filosofo francese12. In quest’opera Ricoeur

11
  Cfr. E. Balibar, Il mediatore che svanisce, D. Jervolino, “Utopie” da tradurre in pace, in “Alternative”,
nuova serie, n.1/2003, pp. 40-50.

12
   Cfr. P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, Stock, Paris 2004. Si veda anche D. Jervolino, Oltre
l’Impero.La politica ritrovata, in “Alternative”, n.s., n.2, pp. 14-21 e L. Altieri, “Je est un autre”. Una lettura
del Parcours de la reconnaissance di Paul Ricoeur , in “Per la filosofia”, n. 61, 2004, pp. 77-98.
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Domenico Jervolino  2005 – La traduzione come problema filosofico

     lega il grande tema hegeliano della lotta per il riconoscimento reciproco dei

     soggetti con una riflessione sul dono.

                Egli si richiama ad una nota corrente francese di studi antropologici e

     sociali, a partire dal fondamentale Essai sur le don di Marcel Mauss fino ad

     arrivare agli studiosi della scuola anti-utilitaria, della quale è stato un fine studioso

     in Italia il compianto Alfredo Salsano13. Nelle società primitive il dono e il suo

     contraccambio generano una rete complessa di rapporti sociali: Il dono deve

     essere ricambiato, perché esso simbolizza una forza magica che deve essere fatta

     circolare. Questa tesi, secondo Ricoeur, condannerebbe il discorso sul dono a

     restare nell’ambito del pre-moderno. Ciò che invece va cercato è un senso non

     magico del dono, che è appunto il riconoscimento reciproco, io dono perché,

     donando, dono qualcosa di me stesso e mi aspetto di essere riconosciuto da colui

     al quale dono. Il dono è sempre simbolo, ma non più in senso magico, bensì

     simbolo di una umanità che si esprime nell’altro e in me, e nel nostro rapporto

     reciproco. Il dono esemplare allora è quello di ciò che non ha prezzo, come

     faceva Socrate che, a differenza dei sofisti, insegnava gratuitamente, la verità che

     non ha prezzo14.
13
   Il saggio di Mauss, pubblicato la prima volta in “L’année sociologique”, seconda serie, 1923-1924, t. I, si
può leggere insieme ad altri studi del grande antropologo nel volume (prefato da Lévy-Strauss) Sociologie
et Anthropologie, Puf, Paris 1950, rist. 1999, pp. 145-279. Il contributo di Alfredo Salsano si è realizzato,
oltre che nei suoi studi personali, nella sua esemplare attività editoriale presso la casa Bollati Boringhieri
14
   Il riferimento d’obbligo è a M. Henaff, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Seuil, Paris
2002.
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Domenico Jervolino  2005 – La traduzione come problema filosofico

                     Allora, potremmo anche dire che un momento fondante, in questa

       prospettiva, del legame sociale è il dono delle lingue che ci consente di divenire

       parte del consorzio umano nella duplice forma del dono della lingua materna e del

       dono reciproco delle lingue che si realizza nella traduzione, grazie alla pratica

       dell’ospitalità linguistica.

              Quali prospettive così si aprano sul piano dell’etica sociale e della filosofia

       politica lo si può intravedere: in questa direzione potremmo concludere con un

       celebre titolo di Claudio Napoleoni: Cercate ancora15.

                                                                 Domenico Jervolino

15
     Fr. C. Napoleoni, Cercate ancora. Lettera sulla laicità e ultimi scritti, Editori Riuniti, Roma 1990.
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