LA POLVERE CHE DANZA IN UN RAGGIO DI LUCE - Una suggestiva interpretazione del De Profundis di Oscar Wilde

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Lisa Luzzi

                LA POLVERE CHE DANZA
                 IN UN RAGGIO DI LUCE
                           Una suggestiva interpretazione
                          del De Profundis di Oscar Wilde

                                                           ARMANDO
                                                            EDITORE

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Sommario

              Premessa dell’Autrice                                              11

              Introduzione                                                       13

              La sofferenza è un solo, lungo momento                             21

              Non scrivo questa lettera per infondere amarezza nel tuo cuore     38

              Un dolore dopo l’altro si è presentato a bussare alle porte        53
              del carcere

              Ogni mattina, dopo aver pulito la mia cella, leggo un po’          64
              dei Vangeli

              Constance. «Non riesco ad immaginare qualcuno che la conosca 85
              e non la ami»

              Sono l’amore e la capacità di amare che distinguono un essere      95
              umano dall’altro

              Ogni singolo uomo dovrebbe essere l’avverarsi di una profezia 106

              In ogni singolo momento si è ciò che si sarà                      119

              Trattai l’Arte come la realtà suprema e la vita come pura finzione 128

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Da un certo punto di vista so benissimo che il giorno della mia 134
              liberazione passerò semplicemente da una prigione all’altra

              Il momento più alto per un uomo è quando si inginocchia        139
              nella polvere

              Appendice                                                      147

              Bibliografia                                                   153

              Ringraziamenti                                                 160

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Premessa dell’Autrice

                 Questo testo nasce prima di tutto dall’amore che mi ha
              suscitato la lettura del De profundis e dall’importanza capi-
              tale che attribuisco ai valori che mi ha insegnato. L’eroismo
              di questo scrittore che ha saputo trarre lezioni preziose dal
              proprio dolore e dalle proprie disgrazie non poteva restare
              silenzioso nel mio cuore.
                 Sono stata mossa solo dalla passione e dalla compassione
              per questo tragico destino.
                 Dal desiderio di restituire ciò che ho ricevuto dalla lettura
              del De profundis.

                                                                           11

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Introduzione

                 La figura di Oscar Wilde non ha certo bisogno di presen-
              tazioni, tuttavia qualche breve dettaglio intorno all’opera di
              cui qui si tratta potrebbe servire a renderne più chiara la
              comprensione e la contestualizzazione.
                 L’ascesa artistica di Wilde fu rapida ed intensa, almeno
              tanto quanto lo fu la sua caduta, improvvisa e irrimediabile.
                 Subito dopo la laurea in lettere, Wilde venne invitato ne-
              gli Stati Uniti d’America ad illustrare in una serie di confe-
              renze “il carattere artistico del rinascimento inglese”1, occa-
              sione che sfruttò per diffondere il suo credo sui principi alla
              base del movimento letterario definito Estetismo, del quale
              fu anticipatore e massimo esponente, tanto che ben presto
              quello che doveva essere un ciclo di poche settimane finì
              col trasformarsi in una lunga tournée durata un anno intero.
                 Rientrato in Inghilterra, nel 1883, raccolse in poco tem-
              po i frutti del suo lungo viaggio, pubblicando il famoso ro-
              manzo Il ritratto di Dorian Gray, una raccolta di fiabe per
              bambini intitolata Il principe felice e altri racconti, i saggi
              La decadenza della menzogna e Il critico come artista, e
              molte opere teatrali tra cui Il ventaglio di lady Windermere,
              L’importanza di essere onesto, Un marito ideale.
                   1   R. Ellmann, Oscar Wilde, Mondadori, 2000, p. 187.

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È cosa nota che Wilde, proprio mentre si trovava all’a-
              pice della sua carriera letteraria, mentre era adorato e ricer-
              cato dal bel mondo londinese e parigino, e le sue brillanti
              commedie acclamate nei più importanti teatri inglesi, venne
              costretto in giudizio e condannato a due anni di detenzione
              con la pena accessoria del lavoro forzato.
                  Innamorato di se stesso, Wilde aveva commesso l’errore
              di sedurre la persona sbagliata e, come egli stesso scrive-
              rà nell’ultimo poema della sua vita, la famosa Ballata del
              carcere di Reading, «Ogni uomo uccide ciò che ama, e per
              questo deve morire».
                  La fine per Wilde ebbe una portata devastante perché il
              carcere decretò il suo crollo artistico, sociale, economico e
              familiare.
                  In pochi mesi perse tutto ciò che aveva e tutto ciò che era.
                  Si ritrovò all’improvviso solo e impotente di fronte alle
              aste giudiziarie, dove si vendevano, per pochi spiccioli, i
              suoi beni più preziosi e collezionati con cura e passione. Ve-
              stito di stracci e ammanettato, con i suoi lunghi capelli rasati
              quasi a zero, senza la possibilità di parlare con nessuno, sen-
              za cibo sufficiente, al freddo di una buia cella sopra una dura
              panca di legno, costretto a lavori umilianti, abbandonato da
              chi diceva di amarlo e con l’amara consapevolezza di aver
              distrutto per sempre la propria vita.
                  In questa situazione, già terribile di per sé, ogni sorta di
              disgrazia è arrivata ad aggravare la sua condizione. Pochi
              mesi dopo la sua incarcerazione, infatti, Wilde venne a sape-
              re della morte della sua amatissima madre Speranza e della
              perdita dei suoi due figli, Vivyan e Cyril, strappatigli a forza
              dalla legge che arrivò a negargli la patria potestà. Dovette as-
              sistere alla brutale impiccagione di un detenuto condannato
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per omicidio, Charles Thomas Wooldridge, al quale dedicò
              la famosa Ballata del carcere di Reading, composta pochi
              mesi dopo essere uscito di prigione.
                 Affrontò la sua incredibile e immensa tragedia come un
              eroe, aggrappandosi a se stesso e trovando in sé la forza non
              solo di sopravvivere ma ancor più di trasformare la propria
              terribile esperienza in una risorsa in grado di determinare
              una crescita personale intima e profonda.
                 Durante tutto il primo anno di prigionia Wilde non ave-
              va il permesso né di leggere né di scrivere, fatta eccezione
              per una o due lettere ogni tre mesi. E lo stesso regime duro
              valeva per le visite di parenti o amici, che avevano luogo
              secondo modalità particolarmente umilianti tanto per i car-
              cerati quanto per i visitatori, che dovevano parlare a distan-
              za chiusi tra due gabbie. Le condizioni di vita nelle carceri
              inglesi alla fine del 1800 erano insostenibili e Wilde stesso
              scrisse a diversi giornali per denunciare fatti e circostanze
              molto gravi. I detenuti vivevano non soltanto in regime di
              costante malnutrizione ma anche in condizioni igienico sa-
              nitarie assolutamente indecenti.
                 Gli ultimi mesi di reclusione furono un po’ meno duri,
              grazie all’arrivo di un nuovo direttore nella struttura peniten-
              ziaria dove lo scrittore era detenuto, il maggiore J.O. Nelson,
              che mitigò lo stretto rigore punitivo a cui venivano sottoposti
              i carcerati. Nello stesso periodo giunse a Reading anche una
              nuova guardia carceraria, Thomas Martin, che si dimostrò
              con Wilde, e con altri detenuti, particolarmente benevolo e
              generoso, portando loro di nascosto giornali e cibo supple-
              mentare. Un giorno la guardia ebbe tanta pietà per due bam-
              bini, detenuti per furto, da regalare loro dei biscotti per farli
              smettere di piangere, e questo gli costò il licenziamento.
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Durante gli ultimi mesi di prigionia venne concesso a
              Wilde un regime alimentare più adeguato alla sua imponen-
              te struttura corporea, l’esonero dai lavori forzati, la possibi-
              lità di far ricrescere i capelli, e, non solo di avere finalmente
              dei libri ma anche di poter scrivere ogni giorno per tre mesi
              una lunga lettera che Wilde intitolò semplicemente Episto-
              la: in carcere et vinculis e alla quale venne successivamente
              dato il titolo di De profundis dall’amico Robert Ross, una
              figura fondamentale nella vita di Oscar Wilde.
                  La lettera, composta tra gennaio e marzo del 1897, è in-
              dirizzata a Lord Alfred Douglas, suo giovane amante e re-
              sponsabile diretto del crollo di Wilde.
                  Douglas era studente universitario quando ebbe modo di
              conoscere e frequentare Oscar Wilde, viziato dalla madre e
              roso da pessimi rapporti col padre, trovò forse nella figura
              del commediografo di successo un piedistallo dorato dove
              mettere in bella mostra il proprio incurabile narcisismo. Il
              padre, che non poteva tollerare questa relazione, iniziò a
              provocare Oscar Wilde con scenate pubbliche e bigliettini
              ingiuriosi tanto da finire davanti al giudice in un processo
              in cui Wilde da accusatore divenne, ben presto, accusato. Il
              conflitto giudiziario, infatti, che per Wilde si rivelò fatale,
              fece emergere nelle aule di tribunale una rete di relazioni
              considerate scandalose in quell’epoca, in cui tutto si poteva
              fare ma niente si poteva dire.
                  Wilde viene da molti considerato un vero e proprio mar-
              tire, vittima di una società ipocrita da un lato, e di se stesso
              dall’altro.
                  La lettera, probabilmente la più lunga di tutta la storia
              della letteratura epistolare, venne scritta su grandi fogli di
              colore grigio che venivano consegnati ogni mattina e ritirati
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ogni sera dal secondino di turno. Alcune pagine sembrano
              riportare i segni del dolore in grandi macchie di inchiostro,
              probabilmente intriso di lacrime.
                  Quando l’ebbe finita, non gli fu concesso di spedirla al
              destinatario ma venne conservata dal Direttore del carcere
              che gliela consegnò come promesso il giorno del suo rila-
              scio, avvenuto il 19 maggio 1897.
                  Wilde affidò il manoscritto a Robert Ross, suo esecutore
              letterario oltre che amico fedele e devoto, che ne pubblicò
              una parte nel 1905, epurandola di ogni riferimento a Dou-
              glas, e ne produsse una copia fedele per il figlio di Wilde,
              Vyvyan Holland, che dopo la condanna del padre fu costret-
              to a modificare il suo cognome e a trasferirsi all’estero.
                  Wilde, una volta tornato in libertà, non rivide mai più
              la sua famiglia e visse in esilio e in povertà tra la Francia e
              l’Italia, errando sotto il falso nome di Sebastian Melmoth.
                  Questo lavoro nasce da una epifania: dal ritrovamento
              inaspettato di un vecchio libro letto durante il liceo. A di-
              stanza di anni, con lo sguardo dell’Anima reso più profon-
              do dalle cicatrici della vita, la rilettura del De profundis di
              Oscar Wilde mi è apparsa rivelatrice di verità di immenso
              valore, di insegnamenti che ho visto come delle fiaccole
              nella notte.
                  Nel suo testo per il teatro Voci di tenebra azzurra Marian-
              gela Gualtieri scrive «Questa è la cosa più bella, la più bella
              cosa che dite: trasformare il dolore in bellezza. Vale una vita
              questo»2.
                  I versi della Gualtieri esprimono con impareggiabile
              intensità l’intento di quest’opera che è quella di nutrire la
                 2 M. Gualtieri, Voci di tenebra azzurra, I quaderni de Le Collane a cura di Maurizio

              Cucchi, ed. Stampa2009, 2016, p. 15.

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speranza che il dolore si può superare, che per affrontare
              le tempeste della vita è necessario conservare l’Amore nel
              proprio cuore, mantenendo cioè la propria bellezza intatta,
              curandola e proteggendola proprio come faceva il Piccolo
              Principe con la sua rosa.
                 Accettare la Croce è in fondo uno dei massimi insegna-
              menti di Gesù.
                 Ciò che ho imparato, leggendo e rileggendo infinite volte
              alcuni passi del De profundis, è che, per quanto la sofferen-
              za possa sgualcire o avvelenare la nostra Anima, è nostro
              compito mantenere dentro di noi quel senso del Bello che
              ci permetta di vivere quotidianamente ispirandoci a valori
              etici e morali irrinunciabili e indisponibili. Permettiamo alla
              Poesia di irrompere nelle nostre vite, per renderci migliori
              abitanti di questo mondo, costretto a vivere costantemente
              sotto minaccia. Se coltiviamo in noi il Bello, esso ci alimen-
              terà rendendoci capaci di essere pienamente felici.
                 In conclusione, il mio saggio vuole essere una celebra-
              zione della Poesia e dell’Arte, della Bellezza che esse con-
              tribuiscono a diffondere, dei valori altissimi che dovrebbero
              indirizzare le nostre esistenze.
                 Cercando la bellezza in luoghi sbagliati, inseguendola er-
              roneamente nei beni di lusso, negli oggetti preziosi, nell’il-
              lusione dell’eterna giovinezza, Wilde è incappato nella bru-
              talità, nella cupidigia, nella volgarità. Attraverso il dolore,
              Wilde ha incontrato Dio. In carcere, solo e spogliato di tut-
              to, ha conosciuto la Verità, la Rivelazione. Vengono qui in
              mente alcuni versi di Jabès: «All’uomo, il potere eccessivo
              della parola, a Dio, il potere eccessivo del silenzio»3.
                   3   E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE Edizioni,
              1991.

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Ho voluto “lasciar parlare” il testo di Wilde al punto tale
              da decidere di dare il titolo all’intero saggio, e ad ogni sin-
              golo capitolo, estrapolando frasi precise dal De profundis
              ognuna delle quali ha alzato il sipario su scenari diversi.
                 Ho cercato di illuminare le varie fasi del percorso di
              maturazione avvenuto durante la prigionia di Oscar Wilde,
              avendo cura di cercarne le radici nelle sue opere, poiché, si
              vedrà, in molte di queste veniva in qualche misura anticipa-
              to il suo destino.
                 L’Arte ha spesso legato insieme Bellezza, Amore e Mor-
              te e questo trittico, tanto nella produzione artistica quanto
              nella vita personale di Wilde, sembra aver assunto la forma
              di un altare sacrificale: vedremo in un intero capitolo come
              questo emerga chiaramente nel celebre romanzo Il ritratto
              di Dorian Gray e ancor di più nel dramma Salomè.
                 Tutta la vita di Wilde, in fondo, è stata un’opera d’arte.
                 Leggere e analizzare il De profundis è stato davvero come
              assistere ad un’opera teatrale: ogni atto un personaggio di-
              verso mi ha raccontato la sua storia come se ogni pagina
              della lettera mi avesse offerto la lettura di molte vite. Chi è
              stato protagonista, come Alfred Douglas, chi un po’ in om-
              bra e silente, come la moglie Constance, chi leggermente in
              disparte, ma pur sempre presente e attento, come il devoto
              amico Robert Ross, chi, lontano nello spazio e nel tempo,
              su una delle ultime timide file, ci regala i suoi pochi ricordi,
              come il figlio Vyvyan.
                 E Oscar, sulla soglia d’ingresso, con il suo garofano lilla
              all’occhiello, fuma una sigaretta e ci racconta la sua storia
              più vera.

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La sofferenza è un solo, lungo momento
                  Di tutte le opere di Oscar Wilde, questa lunga lettera ad
              Alfred Douglas, scritta negli ultimi mesi della detenzione
              nel carcere dei Reading, e significativamente intitolata De
              profundis1è forse meno conosciuta, ma senza ombra di dub-
              bio la più ricca e vera di tutta la sua bibliografia.
                  Non si può imbattersi nel De profundis, e scendere nelle
              sue oscurità, senza restarne abbagliati, come quando la scom-
              parsa di una persona cara ci cambia per sempre la vita, trasfi-
              gurando la nostra percezione delle cose del mondo e dando
              all’intera esistenza un significato nuovo e mai avuto prima.
                  Non è possibile non sentire, allo spirare dell’ultima pa-
              gina, tutta la propria anima intrisa e pervasa dall’intensità

                   1 «L’espressione De profundis, che, tradotta letteralmente, significa “dal profondo” è

              tratta dal Salmo 129, una preghiera che dalla profondità più remota del nostro essere, dalla
              miseria che nemmeno noi stessi siamo in grado di vedere, sale a Dio. Si tratta di un salmo
              ascensionale, cantato nei pellegrinaggi. Ogni pellegrinaggio è infatti un cammino di purifica-
              zione e di liberazione interiore. Questo salmo viene utilizzato nella liturgia dei defunti. I versi
              accompagnano infatti il pellegrinaggio del defunto dalla propria casa terrena verso la casa del
              Signore» (Spiegazione tratta da Vincenzo Topa, autore del libro Un cantore medita i salmi,
              Ed. Vocazioniste, 2007). Così recita il Salmo:
                   «De profùndis clamàvi ad te, Dòmine/Dòmine, exàudi vocem meam. /Fiant àures tuae
              intendèntes in vocem deprecatiònis meae. /Si iniquitàtes observàveris, Dòmine, /Dòmine, quis
              sustinèbit?/Quia apud te propitiàtio est/et propter legem tuam sustìnui te, Dòmine./Sustìnuit
              ànima mea in verbo ejus,/speràvit ànima mea in Dòmino». Traduzione: «Dal profondo a te
              grido, o Signore;/Signore, ascolta la mia voce. /Siano i tuoi orecchi attenti/alla voce della mia
              supplica. /Se consideri le colpe, Signore, /Signore, chi ti può resistere? /Ma con te è il perdo-
              no:/così avremo il tuo timore. /Io spero, Signore. /Spera l’anima mia, attendo la sua parola.
              /L’anima mia è rivolta al Signore/più che le sentinelle all’aurora».

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del Dolore che l’autore così lucidamente descrive in tutte le
              fasi attraverso cui è passato, e che così umilmente ha saputo
              sublimare trasformandolo in un messaggio di Amore.
                 Wilde usa sempre la lettera maiuscola per indicare questi
              stati d’animo, come se i sentimenti fossero dei personaggi
              di una storia che racconta a se stesso, nella solitudine ango-
              sciante della piccola cella del carcere di Reading.
                 Questa lunga lettera sigilla “con liquido puro e divino”2 l’e-
              pilogo di una Vita, restituisce dignità all’Autore, mutilato nel
              profondo, e dalle sue ferite usciranno fiori e profumi, come
              solo la sapiente sensibilità di un Poeta avrebbe potuto fare.
                 Questo documento è il lascito di un grande artista e allo
              stesso tempo di un martire, condannato dalla società di cui
              lui stesso si prendeva gioco. I mezzi usati, potremmo dire
              oggi, troppo diversi e sproporzionati tra loro. Wilde si limi-
              tava, nelle commedie e nelle sue brillanti conversazioni, a
              fare dell’ironia, a rivelare le contraddizioni della società del
              suo tempo, mentre la società, quando ne ha avuto l’occasio-
              ne, ha scelto di strapparne le ali, tagliargli la lingua, spedirlo
              a marcire all’inferno e infangarne la reputazione.
                 Subito dopo la condanna il suo nome è stato cancellato
              dalle scuole che aveva frequentato, i suoi libri tolti dagli
              scaffali di tutte le librerie, le rappresentazioni delle sue com-
              medie cancellate.
                 Scrive Frank Harris, nel suo memoriale su Wilde, che
              gli inglesi hanno costretto all’esilio Byron, Shelley e Keats,
              «ma non hanno trattato nessuno dei loro artisti con la cru-
              deltà dimostrata contro Wilde. Il suo destino in Inghilterra
              è simbolico del destino di tutti gli artisti. (…) Oscar Wilde

                   2 Verso   di Baudelaire tratto da Elèvation, in I fiori del male, Einaudi,1992, p. 15.

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non è stato punito per il male che ha fatto: egli è stato punito
              per la sua popolarità e la sua grandezza, per la superiorità
              della sua mente e del suo animo»3.
                  Tanto è devastante il dolore per il proprio crollo, quanto
              grandioso è l’insegnamento che Wilde è riuscito a trarne.
              Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi, tanto delle nostre
              debolezze quanto delle nostre apparenti forze, anche se non
              ce ne avvediamo. Tradurre e trasmettere l’immenso portato
              di significato contenuto in quest’opera è un compito arduo,
              tanto è ricco il sottosuolo dal quale è emerso.
                  Occorre avere “il cuore di Cristo e la mente di Shakespe-
              are”, come lui stesso afferma nel mezzo di una lunga digres-
              sione squisitamente spirituale, nella parte centrale dell’ope-
              ra per posizione e significato, e forse è proprio questo lo spi-
              rito che si dovrebbe avere quando si legge il De profundis.
                  Con questo ideale Wilde si addentra, e sprofonda, in un
              lungo processo di elevazione interiore e caratteriale che lo
              porterà a superare i sentimenti di odio e ribellione “che oc-
              cludono le vie dell’anima”4.
                  Spogliato di ogni più piccola frivola vanità che distingue-
              va l’esteta rimane un uomo puro e semplice, che proprio alla
              semplicità della Natura chiede ristoro dopo la scarcerazione.
                  In queste lunga epistola ci troviamo di fronte ad uno scrittore
              intenso e lucido nelle sue analisi dettagliate di fatti e stati emo-
              tivi che, privato di tutto, nella solitudine e nell’angoscia della
              disperazione, tocca le corde più profonde della sua Anima, e nel
              buio della struttura penitenziaria risuonano parole di altissimo
              lirismo e profondissima spiritualità, dove l’Umiltà e l’Amore
              sanno restituire all’anima martoriata tutta la sua intatta bellezza.
                   3   F. Harris, op. cit., p. 53.
                   4   Citazione dal De Profundis.

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Il centro entro cui si snoda l’opera offre al lettore una
              chiarissima rappresentazione dell’andamento evolutivo degli
              stati d’animo di Wilde che si muove dal rancore al perdono,
              dalla recriminazione all’accettazione, dall’autocondanna alla
              comprensione. Tutto, in quest’opera, ruota attorno al dolore,
              alla coscienza della propria condizione di miserabile, cadu-
              tagli addosso in parte per propria colpa, cosa di cui lo scrit-
              tore è perfettamente cosciente. Forse è vero ciò che scrive il
              suo più celebre biografo, Richard Elmann, quando afferma
              che «noi siamo naturalmente nemici di noi stessi, andiamo in
              cerca degli eventi che inconsciamente ci si addicono»5.
                 La vicissitudine processuale che lo ha portato alla con-
              danna a due anni di carcere con l’aggiunta dei lavori pesanti
              si è svolta con una certa rapidità, e la posizione di Wilde ha
              sempre oscillato tra l’imprudenza, fondata sulla fiducia che
              la società che tanto lo acclamava non si sarebbe spinta fino
              al punto di decretare per lui una sorte tanto ignobile, e l’au-
              dacia che lo aveva sempre contraddistinto nell’affrontare le
              avversità. “Non sopportava di vedersi come un fuggiasco”,
              scrive ancora Ellmann6, per questo ha sempre rifiutato di
              ascoltare i consigli di chi lo esortava a riparare sulle coste
              della Francia, per evitare di subire e scontare la condanna
              che, udienza dopo udienza, si profilava sempre più certa.
                 Il celebre esponente dell’Estetismo è costretto a subire
              una repentina e costante discesa agli inferi, una caduta tragi-
              camente pregna di eventi drammatici che si sono susseguiti
              uno dopo l’altro, e che lo porterà a realizzare una vera e
              propria ascesi spirituale, intima e mistica, con la lucidità del
              genio e la sensibilità dell’artista.
                   5   R. Ellmann, op. cit., p. 506.
                   6   R. Ellmann, op. cit., p. 523.

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Indubbiamente ha saputo trovare “il cuore di Cristo” gra-
              zie a “la mente di Shakespeare”.
                  Ogni vita va considerata all’interno della cornice entro
              cui si disegna, e nel preciso contesto storico e sociale in cui
              accade.
                  Non è circoscrizione, né contenimento.
                  È più una linea che separa il sé dal resto del mondo, e nel
              far questo lo distingue, senza tuttavia chiuderlo.
                  Viviamo in un’epoca profondamente utilitaristica in cui
              la voce dei poeti, purtroppo, è relegata a rimanere inascolta-
              ta. La Poesia non ha interessi, se non quello di dire una ve-
              rità, da sempre infatti la Letteratura mette l’uomo di fronte a
              se stesso, come uno specchio, o un ritratto.
                  La lunga lettera contenuta nel De profundis è la fotogra-
              fia più veritiera di un’opera d’Arte distrutta, proprio come
              nel finale de Il ritratto di Dorian Gray, e che ritrova la sua
              bellezza in qualcos’altro. Questo qualcosa d’altro è rimesso
              nelle nostre mani, come un messaggio segreto da decifrare e
              decodificare per trovare un tesoro nascosto. Vedremo, in un
              capitolo a sé stante, la specularità tra la vita e i caratteri del
              giovane Dorian Gray e la vita di Wilde; entrambi hanno nu-
              trito un desiderio irrealizzabile: vivere un’eterna giovinezza
              senza alcuna pena, senza sofferenza, finalizzando la propria
              esistenza esclusivamente al piacere. Quest’ambizione si è
              rivelata impossibile, tanto per Dorian, il cui corpo invec-
              chia, e muore nell’istante stesso in cui decide di squarcia-
              re la tela che ne mostra la sozzura dello spirito, quanto per
              Wilde, che, avendo tentato di sfuggire al dolore per tutta la
              vita, è costretto invece ad affrontarlo in ogni sua forma, e
              con la massima intensità, senza nessuna protezione, nessun
              appiglio, nessuna via di fuga.
                                                                             25

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