Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo

Pagina creata da Matteo Pozzi
 
CONTINUA A LEGGERE
Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo

“Dopo il Covid-19 nulla sarà più come prima”.

Quante volte abbiamo sentito questa frase? La pandemia come spartiacque. La pandemia come crisi
capace di offrirci la via d’uscita, il momento epocale da cogliere, il portale verso un altro mondo
possibile. L’emergenza che apre uno squarcio nel futuro. Proprio quel futuro che così a lungo ci
eravamo dimenticati di pensare, appiattendoci su un eterno presente che degenerava stanco.

Dobbiamo evitare la scorciatoia dell’apocalisse. L’idea che sia la catastrofe a restituirci quelle redini
del tempo che ci parevano sfuggite di mano. Perché forse non esiste un momento catartico.
Un’interruzione definitiva, una sincope storica, una scelta netta fra perdizione o salvezza. Forse è
proprio il nostro concetto di progresso e di avanzamento storico attraverso le crisi ad averci portarci
sul baratro.

Forse la pandemia ci presenta l’occasione di
intendere e vivere il cambiamento in maniera
diversa
Forse la pandemia ci presenta invece l’occasione di intendere e vivere il cambiamento in maniera
diversa. Di tornare, sì, a pensare il futuro, ma di farlo ricostruendo il nostro rapporto proprio nei
confronti del tempo. E di costruire così una società che non abbia bisogno di alcuna catastrofe per
sbocciare in ciò che già potrebbe essere.*

“Gli eventi correvano più veloci della mia penna… scrivevo su un vascello durante una tempesta e
pretendevo di dipingere come oggetti fissi le rive fuggitive che passavano e s’inabissavano lungo il
bordo”

Chateaubriand ci lascia queste parole riflettendo sulla propria esperienza di storico e
contemporaneo della Rivoluzione francese. Insinua così un tema che accompagnerà tutta
l’esperienza moderna: l’accelerazione della storia.

La Rivoluzione francese introduce infatti una caratteristica fondante della modernità: il
sovvertimento del presente come proiezione futura e collettiva. Così come l’individuo diviene
costruttore della propria storia personale, ecco ora che l’umanità stessa diviene costruttrice della
propria storia collettiva. E inizia a navigare le acque del tempo, forgiando vele capaci di governare il
vento grazie alla propria arguzia e libertà. Sarà attraverso un’inclinazione collettiva che si potrà
trasformare e fare la storia. Una storia che appartiene all’uomo, come scrive Schelling nel 1798,
“non perché vi partecipa, ma perché la produce”.
È da qui che il pensiero acquisisce la sua proiezione futura. La storia diviene flusso, progresso, e il
compito dell’umanità è di farla avanzare fino al compimento della promessa. Non è un caso che
proprio in questo contesto la parola crisi emerga nella sua accezione contemporanea. Nell’antica
Grecia krisis stava ad indicare il momento di svolta in un processo giuridico, medico o teologico.
L’attimo della scelta: torto o ragione, vita o morte, salvezza o dannazione. Ma nuovo sarà il suo
utilizzo in ambito politico ed economico.

Crisi servirà a definire una fase storica di passaggio, quello che Reinhart Koselleck chiamerà un
concetto epocale, capace, dunque, di marcare i diversi stadi dell’avanzamento del tempo. Da qui
deriva anche la connotazione di opportunità. Perché, come recita Schiller, ciò “che offre il momento
e non si prende / Nessuna eternità lo rende”. Carpe diem. L’inclinazione moderna ci chiama a
cogliere l’attimo della possibilità di una nuova epoca.

Il concetto di crisi porta in dote il combustibile che alimenterà il motore della modernità per il suo
fantastico viaggio verso il futuro. I panorami promessi al viaggiatore non hanno eguali nella storia
umana, superando in ambizione, dettaglio e creatività molte delle descrizioni dell’al di là
propagandate dalle vecchie religioni. Ma nonostante le migliori aspirazioni, è oggi sempre più
diffusa la percezione che questo motore stia portando la nostro traballante umanità a schiantarsi
contro un muro.

“Marx dice che le rivoluzioni sono le locomotive della storia universale. Ma forse le cose stanno in
modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere
umano in viaggio su questo treno”

La dialettica della crisi procede attraverso un’accelerazione sempre maggiore nelle relazioni di vita,
nelle trasformazioni politiche e nella produzione economica. La danza si fa vorticosa e surriscaldata,
con una posta sempre più alta e distruttiva. È Walter Benjamin a invocare esplicitamente il freno.
Sovvertendo così il concetto stesso di rivoluzione. Non più tensione verso l’avvenire, ma meccanismo
di blocco di un treno destinato allo schianto.

Non dovrebbe essere questa un’immagine, e un’emozione, oggi così estranea. Quante volte abbiamo
sentito dire, durante la pandemia del Covid-19, parole come “il pianeta respira”; quante volte
abbiamo sentito invocare il blocco, il freno, che avrebbe posto il virus alla danza macabra della
nostra civiltà distruttrice. Costringendoci, seppur temporaneamente, a fermarci.

Il sentimento dominante della nostra epoca è quello di un incipiente, indicibile collasso generale. La
promessa della libertà e dell’emancipazione si presenta con le vesti stracciate dell’impotenza
collettiva dinnanzi ai grandi cambiamenti della nostra epoca. Il futuro ci pare abbandonare ogni
dimensione di progresso e diventare costante degenerazione. Più che l’uomo costruttore di storia
abitiamo ora una realtà in cui la storia, fugace come un fascio di luce, ci lascia ansimanti e alla
rincorsa, attrezzati di una politica divenuta suono flebile e in costante, tragico ritardo.

La promessa dell’abbondanza materiale è divenuta la premessa del collasso climatico come ultimo
lascito della moderna società termoindustriale. E questo sulle ali di un meccanismo che riesce nella
miracolosa combinazione di produrre così tanto da portare all’implosione dell’ecosistema e di farlo
in maniera così ingiusta da mantenere una straordinaria ineguaglianza di accesso alla sua
iperproduzione mortifera.
La promessa dell’abbondanza materiale è
divenuta la premessa del collasso climatico
Il freno a mano non ha funzionato. E il treno sta per colpire il muro. Il futuro si ripiega su sé stesso.
E appare che solo un disastro potrà restituirci quella capacità di dare forma al tempo che sembriamo
avere perduto. La catastrofe come momento catartico capace di espiare i nostri peccati, come deus
ex machina pronto ad intervenire e donarci quel futuro mondo possibile che non ci sentiamo più
capaci di costruire con le nostre mani. È questo l’indicibile che si cela dietro all’espressione tutto
cambierà dopo il Covid-19.

Mi sento di dire questo: non aspettatevi troppo dalla fine del mondo.

Non esiste freno della storia. Dimenticate i sogni campestri di decelerazione. Basti pensare a questo
paradosso: l’accelerazione vorticosa del mondo e del tempo intorno a noi avviene attraverso una
crisi che ci costringe a rallentare. Sembra instaurarsi uno strano meccanismo per cui più ci
fermiamo più la realtà viene trasformata dal nostro stare a casa. Il Covid-19, lungi dal rallentare il
mondo, ha fortemente accelerato processi di trasformazione personale, politica ed economica già in
atto.

Questo paradosso è anche al centro della contraddizione delle nostre richieste verso il tempo:
chiediamo di rallentare il mondo – di fermare quella modernità che chiedeva sempre di più – ma una
trasformazione di questo genere rappresenterebbe essa stessa una straordinaria accelerazione del
cambiamento storico. Ecco un esempio: nei giorni della pandemia Giorgio Armani ha pubblicato un
testo per richiedere una decelerazione al mondo della moda. Che la moda torni a rispettare le
stagioni, anche se i consumatori vogliono acquistare lino in inverno. Che gli abiti siano pensati per
durare, anche se il guadagno ne risentirà. Che il lusso smetta di seguire la strada del fast fashion.
Giusto. Ma non basterà che il lusso si prenda il vezzo di distanziarsi dal fast fashion se quest’ultimo,
lo strumento di consumo della maggioranza, resterà così com’è. E trasformarlo comporterà una
gigantesca ricostruzione delle catene di produzione del valore, del nostro approccio alla felicità
materiale e alla gerarchia economica fra nazioni. È la totalità che andrà cambiata. E questo è un
patto quasi faustiano con la trasformazione storica – altro che rallentare!

L’accelerazione della storia ci proietta contro un muro. Ma non c’è modo di fermarsi e non sarà una
catastrofe a salvarci. Quindi?

意味

Il concetto cinese di YiWei combina il carattere del significato con il carattere del sapore. Indica una
consapevolezza che si mostra non già con la lucidità e la nettezza del pensiero logico ma con il
progressivo dispiegarsi di un gusto nella bocca. Un senso che avvolge la lingua e lentamente si
lascia intuire; un’idea che si trasforma, che non può essere definita in maniera statica ma che
evolve, sparisce e ritorna. Non vi è una logica binaria netta – ignoranza o comprensione. Non c’è un
momento eureka. Ecco: e se la nostra realtà attuale, più che uno stanco ripetersi della dialettica
della crisi, con la sua violenta temporalità precipitata nell’attimo, fosse qualcosa di più simile a
questa idea dell’apprendimento, inteso come un divenire dipanato nel tempo?

Pensate quanto poco del momento critico della krisis abbiano le nostre crisi (perdonate lo
scioglilingua). Parliamo così spesso di crisi climatica. Ma non vi è un momento di svolta: quella che
chiamiamo crisi agisce piuttosto come un piano inclinato. Un costante divenire di una natura che
risponde, drammaticamente, trasformandosi. E lo fa seguendo dinamiche che iniziano sempre più ad
essere indipendenti dal nostro comportamento – come nei circoli di rinforzo in cui lo scioglimento
del permafrost rilascia la Co2 immagazzinata sotto le nevi che a sua volta accelera lo scioglimento
del permafrost. La stessa retorica del collasso climatico potrebbe essere priva di alcun punto di
caduta. Nessuna implosione del sistema nella sua totalità ma un costante venire-meno e un nuovo
aggiustamento. Come immaginiamo la catastrofe climatica? Come una livella che porterà tutto
quanto a zero e l’umanità nel suo complesso a scomparire? O come un processo squisitamente
umano, con zone di privilegio e di esclusione, con gated communities e grandi sobborghi oramai
sotto il livello dell’acqua?

Quella che chiamiamo crisi agisce come un
piano inclinato. Un costante divenire di una
natura che risponde trasformandosi
Oppure insistiamo a chiamare il grande fenomeno migratorio crisi, mentre si tratta di un movimento
che non farà altro che crescere nel secolo in corso. E da più di un decennio parliamo di crisi
economica per descrivere il nostro presente. Ma così il momento epocale rappresentato dal concetto
di crisi sembra divenire sempre più ampio, fino a perdere di senso.

La stessa disintegrazione dell’Unione europea, così spesso invocata, è forse già accaduta. O, più
esattamente, non è forse da intendere come un singolo evento critico – la caduta – ma come un
graduale venire-meno di legami sociali, di solidarietà e dunque politici. Uno sfilacciamento più che
un collasso.

Nemmeno il Covid-19 farà saltare in aria il mondo. Ma potrà certamente portare a una sua ulteriore
degenerazione: i negozi artigianali potranno chiudere sempre più rapidamente a beneficio della
grande distribuzione organizzata, quella che schiaccia la filiera ed elude le tasse; in tanti potranno
diventare irrilevanti al processo produttivo, che si vorrà sempre più automatizzato così da potere
proseguire anche in futuri contesti pandemici; vi potrà essere un inasprimento delle misure di
austerità per espiare la colpa dell’indebitamento necessario; si potrà rafforzare la tendenza dei più
ricchi a prepararsi vie di fuga, accelerando il processo di distaccamento delle élite dalla propria
comunità nazionale.

Il punto è che la crisi non è più interruzione della normalità. La normalità è crisi. La crisi diviene il
lamento che sostituisce lo schianto nella famosa chiosa di TS Eliot. Diviene piano inclinato,
degenerazione, morbosità. La crisi non è più un momento decisivo, non più uno spartiacque, non più
il momento eroico. E dunque non è più un concetto utile.

L’idea di crisi va forse sostituita con un altro termine di origine medica: quello della lisi.

Il termine lisi porta con sé due accezioni diverse. Può riferirsi al processo di distacco o rimozione di
elementi patologici, così da restituire agibilità a un organo malato. In questo senso si riferisce anche
all’abbassamento graduale della febbre che accompagna il processo di guarigione. Oppure può
riferirsi al processo di distruzione di elementi, anche vitali, dell’organismo. Così come agiscono tanti
batteri o virus, che al termine del loro ciclo distruggono la cellula infetta.

Anche il concetto di lisi, dunque, contiene in sé una bipolarità, una duplicità di prospettiva. Cura o
degenerazione. Ma non vi è alcun riferimento a un momento topico, alla singolarità della scelta. Non
vi è eroismo nella lisi. Vi è invece un processo che si dispiega attraverso una pratica costante. Come
il senso-sapore che si dipana in bocca. Nel paradigma della lisi scompare il dilemma della crisi, la
scelta se accettare la scommessa dell’accelerazione, sperando di potere guidare il momento epocale
verso la vita e non verso la morte, o se provare, invece, a tirare il freno, a raffreddare i motori. Vi è
invece una processualità da gestire. D’altronde proprio a questo ci indirizzava Benjamin scrivendo
che ogni frammento di tempo, ogni singola azione, è la piccola porta da cui potrebbe entrare il
messia. Non nel senso di una possibilità dell’arrivo di qualcuno o qualcosa, del momento epocale,
della svolta. Ma perché ogni singolo atto va agito come se il messia fosse già arrivato. Ogni momento
è carico di potenza e significato. E ogni momento è un fine, non un semplice mezzo.

Accettare e non rinunciare il cambiamento.
Ma fare si che diventi una cura
Vi è movimento nella lisi. E vi è accelerazione. Ma ne viene cambiata la direzione. Non banalmente
indirizzandola, come su di un piano, verso un orientamento più prossimo all’emancipazione che
all’asservimento, alla felicità che alla distruzione. Cambiando strada, come dinnanzi a un bivio. Ma
trasformandone l’approccio bidimensionale. Non già qualcosa sempre più in là, qualcosa proteso
verso l’esterno e dunque verso l’accumulo di macerie. Ma ripiegato su sé stesso, capace di passare
dal piano al cubo, dalla bidimensionalità alla tridimensionalità. Un’accelerazione che non mira a
spostare in avanti l’Angelo della storia ma a scavare al suo interno. Distaccando gli elementi
patologici e restituendo agibilità agli organi malati. Accettare e non rinunciare il cambiamento. Ma
fare si che diventi una cura, nella doppia accezione medica e sentimentale, capace di farci
germogliare.

È una procedura che aggiunge potenza, che apre all’abbondanza, al più, non al meno, che porta
crescita, non decrescita. Ma che trasforma questi concetti, rendendoli intensivi e non più estensivi.
Ecco un esempio. Se dovessimo fare una lista delle cose che più ci sono mancate in questa
quarantena – esercizio utile, se non altro per rendersi conto di quanta poca importanza un certo
consumismo rivestisse nelle nostre vite – le relazioni umane sarebbe senz’altro ai primi posti. Ci
mancano gli amici. Ma proprio tutti? Incontriamo e ci rapportiamo con sempre più persone. E il
risultato è che diventa improbabile imbastire relazioni veramente significative. “Beviamo qualcosa”,
sì, ma senza andare troppo sul personale e senza instaurare legami troppo stretti.

Ma lo stiamo scoprendo: sono i legami a potenziarci. Legami con altre persone, con la natura – se
avete piante in casa, è cambiato nulla nel vostro rapporto durante la quarantena? – con gli animali,
con il mondo esterno e con il mondo interiore delle nostre favole. Ecco un primo gesto necessario:
sapere scegliere e su questa scelta sapere approfondire. Guardarsi negli occhi, parlarsi e sentirsi
veramente, sviluppare l’empatia. Ed ecco un esempio semplice di cosa significa superare la scelta
binaria fra crescita e decrescita. Meno amici e più amicizia.

Fra gli articoli più inusuali apparsi durante la quarantena vi è quello di Jennifer Toon, scarcerata
dopo venti anni di reclusione proprio agli esordi del lockdown. L’esperienza della lunga detenzione
le ha portato la contezza che il tempo esista solamente in rapporto ad un’emozione o ad
un’esperienza e che possa dunque essere controllato tramite la capacità di essere presenti al
momento. Leggere un libro attentamente, ascoltare un’altra persona profondamente, seguire i
propri pensieri e le proprie attività consapevolmente. Tutto ciò ci rafforza e arricchisce. E allarga il
tempo di vita.

Noi proveniamo da un mondo che è quanto di più diverso ci possa essere da una cella di prigione. E
in cui accumulavamo sempre più esperienze, sempre più frenetica attività, sempre più multitasking
esistenziale. Riprendere in mano le esperienze, ridurne il numero ma restituirne senso e profondità,
non serve solo per vivere meglio, ma anche per vivere più a lungo e più intensamente. Vedete come
la dinamica dell’accrescimento moderno può essere ripiegata su sé stessa?

Questo semplice esempio, così umano, può essere esteso su tanti altri fronti. Vale lo stesso, ad
esempio, nel molto più freddo mondo delle costruzioni. La modernità chiedeva sempre più cemento e
sempre più impresa. Il balzo in avanti della Cina è definito in primis dalla straordinaria
trasformazione delle sue città. L’alternativa non è fermarsi o immaginare un semplice ritorno alle
campagne per tutti. Ma ricostruire o costruire-su-di-sé, ripiegando l’estensione esterna in intensità
interna. Trasformare il volto delle nostre città riducendo il consumo di suolo e rendendole
compatibili con la vita umana e naturale richiederebbe un dispiegamento di forze pari o forse
maggiore di quello alla base dello scempio edilizio degli ultimi decenni. Ma rappresenterebbe un
processo di cura invece che di degenerazione.

L’alternativa non è fermarsi, ma ricostruire o
costruire-su-di-sé
L’idea della lisi, la sostituzione del binomio freno e ripartenza con un concetto del degenerare o del
fiorire, significa prendere la modernità e rigirarla su sé stessa. Non ci sono più binari, non più un
treno da lanciare verso il progresso o arrestare. Ma una casa comune da accudire e abbellire,
utilizzando tutta la straordinaria potenza tecnologica ed economica di cui disponiamo.

Non è questo il luogo per indugiare oltre in esempi. Ma per capire come sia possibile scendere da
quel treno manca un ultimo tassello: capire come il concetto di lisi cambi il nostro rapporto al futuro.

“La rivoluzione non può trarre la sua poesia dal passato, ma solo dall’avvenire”

È dalle acque dell’umanesimo europeo che emerge l’isola di Utopia. Utopia è rottura rispetto a
questo mondo. Ma non è l’al di là, non è la visione mistica del paradiso oltre questa vita. È un altro
mondo possibile, desiderabile e forse perfino ottenibile. Con l’Illuminismo, e più generalmente con
l’entrata in scena preponderante del concetto di progresso, avviene un curioso slittamento
temporale. Laddove l’Utopia di Moore era contemporanea al presente – era un altrove geografico,
ma non temporale – ecco che ora Utopia non abiterà più oceani sconosciuti ma tempi futuri; ora ma
non qui diviene qui ma non ora. Questo slittamento della temporalità serve a dare concretezza e
raggiungibilità alla promessa utopica: perché l’uomo moderno si sente padrone del tempo ed è più
facile raggiungere il futuro che non una terra di cui non si conoscono le coordinate. Sarà la poesia
dell’avvenire, nelle belle parole di Marx, a guidare la rivoluzione.

Ecco, forse avremmo bisogno invece di un genere nuovo: la fantascienza del presente. Perché la lisi,
a differenza della dialettica della crisi, non guarda solo in avanti, ma si proietta dentro.

Una fantascienza del presente significa immaginare cosa, del futuro, è già fra noi. Ecco un esempio:
tutti, intimamente, sappiamo che si potrebbe, già ora, vivere degnamente. Ma, a fronte di una
produzione di beni senza precedenti, viviamo una generalizzata mancanza di benessere condiviso e
accettiamo l’esistenza di condizioni di lavoro abiette. Mentre oggi l’abbondanza è già qui. E non vi è
nessuna necessità di attendere oltre affinché venga equamente ripartita. Ciò di cui abbiamo bisogno
non è una proiezione verso l’avanti ma una capriola al nostro interno, un lavoro di cura di un sistema
malato e causa di degenerazione. È questo il senso di un reddito di base o di servizi universali
gratuiti. L’estensione di tali servizi sembra essersi arrestata con l’invenzione del Servizio Sanitario
Nazionale, di cui proprio in questo periodo scopriamo tutta la necessità. Ma perché? Condividere
l’abbondanza significa anche: trasporto pubblico gratuito ed universale; accesso ad internet gratuito
ed universale; quota base di consumo energetico, culturale e di informazione gratuito ed universale;
diritto universale a un alloggio degno. Viviamo già in un mondo di abbondanza. Ed è possibile e
giusto che una vita degna venga garantita come diritto inalienabile ed universale di ciascun
individuo. Qui ed ora.

Una fantascienza del presente significa immaginare cosa, del futuro, è già fra noi. E farlo sbocciare.
Ma una fantascienza del presente significa anche immaginare cosa, nel nostro presente, proietta già
verso il futuro. Ecco un esempio: il Covid-19 è paura. Una paura che ci ha portato a fare
l’inverosimile e quanto in molti ritenevano impossibile: modificare il nostro stile di vita. L’evoluzione
ci ha programmato proprio per utilizzarla, la paura, per garantirci la sopravvivenza. Ma l’evoluzione
pare essersi dimenticata di instillarvi una temporalità larga. Nel mondo animale essa è sempre
immediata: il predatore, la trappola, la fame.

Ed è così che stiamo rispondendo al Covid-19, spinti da una cascata di notizie catastrofiche che ci
assordano da mattina a sera. È comprensibile. Ma non è sufficiente. Perché non abbiamo futuro se
rimaniamo ancorati alla paura dell’immediato e non di ciò che l’immediato potrà scaturire. Ne
abbiamo un esempio evidente quanto banale nel nostro rapporto con la sanità pubblica. Abbiamo
paura del virus e abbiamo paura di non riuscire ad essere curati. Ma molto meno avevamo paura
quando anni di tagli alla sanità lasciavano intendere la potenzialità di un sistema sanitario incapace
di proteggerci. Per non parlare dell’emergenza climatica a venire. Impariamo allora a proiettarci in
avanti come prima non riuscivamo a fare, lanciandoci dentro noi stessi e futurizzando i nostri
sentimenti più atavici.

Trovare il futuro nel presente e aiutarlo a germogliare.

La verità è che abbiamo ancora le chiavi per una trasformazione epocale del nostro presente. Non
aspettando una catastrofe catartica, ma iniziando un lavoro di cura quotidiana. Una lisi che scavi al
nostro interno e apra a una possibile fantascienza del presente.

Ho scelto di utilizzare due termini inediti, per certi versi due neologismi, per segnalare che è proprio
il nostro approccio al tempo storico e la nostra teoria del cambiamento che andrà ripensata. Che c’è
qualcosa di insufficiente nella maniera in cui pensiamo alla drammatica fase storica che stiamo
attraversando.

Quante volte durante la pandemia abbiamo pensato “sembra di essere in un film”? Lasciamoci
contagiare da questo senso di possibilità di una trasformazione della totalità. Ma chiediamo al
pensiero di darci gli strumenti per superare il motore a scoppio della modernità.

Queste non sono che poche note maldestre di un lavoro attualmente in corso. Sono anche un invito a
portare avanti la discussione insieme.
Puoi anche leggere