La manutenzione delle norme nell'Antico Regime. Ragioni pratiche e teorie giuspolitiche nelle società pre-rivoluzionarie
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FRANCESCO DI DONATO STUDI parlamentari e di politica costituzionale Anno 43 – N. 170 4° trimestre 2010 La manutenzione delle norme nell’Antico Regime. Ragioni pratiche e teorie giuspolitiche nelle società pre-rivoluzionarie “Les meilleures lois se corrompent avec le temps” (1). 1. Polisemie lessicali e polivocità giuridiche Derivata dal latino medievale manutentiōne(m), variante composta del latino manu (con la mano) e tenēre, la parola “manutenzione” indica il “man- tenimento” e la “conservazione in buono stato, in condizioni di efficienza e funzionalità” di un bene, nonché “il complesso delle operazioni che si devo- no eseguire a tale scopo” (2). Nelle principali lingue europee la semantica non ha sempre seguito la radice originaria: in francese l’idea della cura di un oggetto o di una proprietà immobiliare è resa con un sobrio entretien (la stessa parola che sta per “colloquio”); l’inglese, com’è di regola nelle paro- le della lingua colta, segue il francese antico e risolve con maintenance, che significa anche “sostentamento”, “aiuto” e “sostegno”. Lo spagnolo, invece, ha tre forme: una, manutención, simile all’italiano, che significa anche “man- tenimento” e “conservazione”; un’altra simile al francese, entretenimiento, (1) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, LGDJ, Paris, 1997 (ristampa dell’ed. Loysel, Paris, 1988), p. 211. (2) G. DEVOTO, G. C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, ediz. 1990; T. DE MAURO, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, Utet, 2000.
36 FRANCESCO DI DONATO che significa anche “divertimento”, “passatempo” e “mantenimento di per- sone”; e una terza più rara, affine all’inglese, mantenimiento, che significa per lo più “sostegno”, “alimento” e, al plurale, “viveri”, “vettovaglie”; ha poi anche il verbo manutener. Nel linguaggio strettamente tecnico-giuridico, specialmente nel campo del diritto civile, la “manutenzione” è propriamente “il diritto di reagire contro una molestia che incide sul possesso legittimo di un bene” (3). Essa manifesta quindi la volontà di un soggetto proprietario di conservare un bene-oggetto e di prendersene cura difendendo tale proprietà e possesso dalla rivendica giudiziale o dal tentativo altrui d’impossessarsene per le vie di fatto. Intrinseco al termine è dunque un senso di movimento, un darsi- da-fare utilizzando tutti i mezzi legittimi per impedire la degenerazione di una situazione favorevole in una sfavorevole. E così nella “manutenzione” vi è anche – sottesa – l’idea di prevenzione, l’idea cioè che sia necessario anticipare gli effetti negativi che possono derivare dall’invecchiamento di un sistema attraverso una previsione ragionata e il più possibile razionale tanto dei processi degenerativi quanto dei rimedi che possono essere util- mente adottati per farvi fronte. Nella lingua italiana pura, mentre vi sono alcuni sostantivi e aggettivi derivati (“manutentore”, “manutentivo”), non esiste il verbo corrispondente (“manutenere”), che invece compare nei dizionari dell’uso (4), il che indica un’esigenza predicativa crescente nella vita quotidiana in ordine all’attività di cura: un segno, nella società dell’indifferenza, dell’espansione sommersa del- l’heideggeriano “prendersi cura” come dimensione esistenziale e qualificativa del Dasein (5), nell’infinito sottobosco delle relazioni affettive ed effettive (6)? Lasciamo in sospeso questa domanda e spostiamo l’attenzione su un altro piano concettuale, peraltro inevitabilmente collegato al “peso seman- tico” appena delineato (7): se riferita al diritto e in particolare alla produ- zione delle norme giuridiche (il life-cycle of regulation (8)), l’idea della “manutenzione” assume un immediato ed evidente significato (teor)etico e, (3) Ibid. (4) Ibid. (5) L’idea dell’esperienza esistenziale umana intesa come “cura” (Sorge), “aver cura [di persone]” (Fürsorge) e “prendersi cura [di cose]” (Besorgen), fu elaborata, com’è noto, da M. HEIDEGGER, Essere e tempo [1927], trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, VI edizione, spec. pp. 81, 227 ss., 365 ss. (6) Per questo concetto, fondamentale nel campo delle scienze sociali, di “relazioni effettive”, cfr. R. MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, a cura di chi scrive, Napoli, Esi, 2002, pp. 5, 7 e 153. (7) Sulla stretta interdipendenza tra “peso semantico” e analisi dei concetti, cfr. G. SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 83-86 e soprattutto pp. 143-214. (8) Cfr. M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 47ss.: 50-53 e 198.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 37 nel contempo, politico sotteso all’indispensabile veste tecnico-giuridica. Prendersi cura di un ordinamento giuridico implica, infatti, l’idea che i sistemi normativi di questo tipo non vivono – come le piante grasse nel deserto – senza una continua e paziente opera di aggiornamento (9); il che implica, come nel lavoro dei campi, rinnovamento dei germogli, soppres- sione dei rami secchi ed estirpazione dei rovi e delle erbacce, potatura periodica, piantagione di nuove sementi e scelta (politica, ossia discrezio- nale) di quali debbano essere e dove debbano essere piantate. Ora, se la vita degli ordinamenti giuridici è pari a quella di ogni materia organica, ciò non solo implica l’idea di una dinamica transeunte ed evolutiva, ma comporta anche la negazione di ogni Verbum definitivo, di ogni ontologi- smo normativo, in definitiva di ogni idea di Verità. Se il diritto vive mutando, come ogni corpo vivente, bisogna ammettere che esso può morire e anzi che di regola morirà un giorno seguendo il suo ciclo naturale. Le sue cellule (le sin- gole norme) sono sottoposte alla legge della “grande catena dell’essere” (10), in base alla quale al ciclo vitale di una segue la sua fine e la sua sostituzione con altre cellule-norme nuove che a loro volta saranno soggette alla caducità progressiva. Chiunque operi nel campo giuridico sa perfettamente, perché lo sperimenta nell’attività diuturna, che a dispetto del suo intrinseco e naturale rigore – indispensabile per diffondere nella psicologia sociale l’idea della cer- tezza giuridica e, nelle società democratiche, il senso dell’eguaglianza dinanzi alla legge – il diritto è in realtà un “flessibile diritto” (11). Questo significa, in definitiva, due cose: per un verso, che la “manu- tenzione” delle norme ha come scopo ultimo e fondamentale l’eliminazione o quantomeno la riduzione del rischio di eterogenesi dei fini nel percorso che va dalla formulazione della norma alla sua attuazione concreta, con la produzione di effetti che possono non corrispondere all’intenzione del legi- slatore e per certi versi possono addirittura essere del tutto opposti a quel- la (12). Per un altro verso, il discorso appena delineato implica che l’idea stes- (9) Ivi, pp. 197-198: la “concezione di manutenzione” delle norme giuridiche è ormai generalmente intesa non più come un “rimedio (rispetto a una patologia, come l’impossibilità di accedere alle regole, la necessità di correggerle, la necessità di riformarle)”, ma piuttosto come una “vera e propria funzione (parte essenziale del ciclo della regolazione)”. (10) Mutuo l’espressione dal classico di A. O. LOVEJOY, La grande catena dell’essere, trad. it. di L. Formigari, Milano, Feltrinelli, 1966. (11) Cfr. J. CARBONNIER, Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore, trad. it. di A. De Vita, Milano, Giuffrè, 1997. (12) Sull’eterogenesi dei fini e il suo impatto sul fenomeno giuridico, mi sia consentito rinviare al mio La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea, Bologna, Il Mulino, 2010, ad indicem. Molto opportunamente M. DE BENEDETTO, Manutenzione delle regole, in M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 101, sottolinea come la manutenzione abbia “lo scopo di assicurare specificamente la persistente adeguatezza della regola rispetto agli obiettivi della regolazione”; altre considerazioni molto acute sul punto ivi, pp. 197 ss. Su questo punto, cfr. infra, nota 36 e testo corrispondente.
38 FRANCESCO DI DONATO sa di “manutenzione” delle norme e dei sistemi che le raggruppano (13) determina il superamento della fallacia idealistica e richiede l’accettazione (tutt’altro che semplice per i giuristi) dello sfasamento tra fatti e valori, tra essere e dover (o voler) essere, tra realtà e normatività (14). A questo medesi- mo discorso è sottesa altresì l’idea che il diritto è orientato per sua natura a delineare un mondo diverso da quello che esiste, poiché la volontà nomoteti- ca che lo alimenta ritiene lo status quo (sia quello della realtà sociale sia quel- lo della realtà giuridico-normativa) sempre insoddisfacente e perfettibile (15). 2. La tensione essenziale delle norme: valori contro fatti Senonché quest’idea del mutamento perenne contrasta radicalmente con l’esigenza che sta al fondo del fenomeno giuridico: la necessità di dare un ordine stabile al caos delle relazioni umane (16). Antropologicamente il diritto nasce come strumento normativo determinato dall’esigenza di stabi- lire delle regole riconosciute da tutti e che servano per garantire certezza alle relazioni sociali. E così è indispensabile che il sistema giuridico debba “man- tenere una qualche rigidità per assolvere al proprio ruolo”, perché “occorre dare certezza ai cittadini. E dar loro insicurezza sotto forma di norma giuri- dica non sarebbe una buona soluzione, tradirebbe la loro fiducia. In effetti, il diritto non può permettersi di riflettere l’incertezza della realtà sociale” (17). (13) Sui quali, più utili di molti trattati giuridici sono le pagine di L. V. BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi, trad. it. di E. Bellone, Milano, Mondadori, 1983 (ed. utilizzata Oscar saggi, 2004), spec. pp. 25-61 e 285-311. (14) Di “sfasamento tra norma e fatto” parla esplicitamente M. DE BENEDETTO, op. cit., p. 199, che con- nette questo problema al “rapporto fra regole e tempo”. (15) L’idea stessa della “manutenzione” di un ordinamento comporta l’abbandono di ogni messiani- smo politico e la definitiva rinuncia al cognitivismo etico in ogni sua forma. La filosofia politica che meglio si addice alla pratica della manutenzione è un esistenzialismo realista con forti propensioni riformistiche. Questa Weltanschauung si fonda sull’idea basilare secondo la quale la realtà non ha in sé delle oggettività fisse e immutabili, ma consiste in un divenire cangiante che lo sforzo razionale degli uomini deve conti- nuamente interpretare, cercando, il più possibile, d’indirizzarlo ai suoi fini e interessi (auspicabilmente paci- fici ed egualitari). Sul concetto di “fallacia idealistica”, cfr. R. AJELLO, Formalismo medievale e moderno, Napoli, Jovene, 1990, pp. 104-136 e ss.; sul problema della sfasatura fatti/valori e il suo impatto sugli ordinamenti giuridici, cfr. ID., Dalla ‘Scientia juris’ alle esperienze giuridiche: le dimensioni storiche; e ID., Continuità e trasfor- mazione dei valori giuridici, entrambi in ID., Epistemologia moderna e storia delle esperienze giuridiche, Napoli, Jovene, 1986, rispettivam. pp. 1-49 e 51-80. (16) Cfr. A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche. I. Il concetto di diritto, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 5-29: 12 (dove recupera e sviluppa un’idea di H. Lévy-Bruhl, secondo il quale nessuna società potrebbe esi- stere senza un minimo di organizzazione giuridica che dia stabilità a regole condivise) e 16 (“il mondo è ovunque retto da leggi”); N. ROULAND, Anthropologie juridique, Paris, PUF, 1995; F. TERRÉ, Le droit, Paris, Flammarion, 1999, pp. 15-22: 16, che ben sottolinea la “non-intemporalità e non-universalità” del diritto; A. SUPIOT, Homo juridicus. Essai sur la fonction anthropologique du Droit, Paris, Seuil, 2005, pp. 37 ss. (dove svi- luppa l’idea della “constitution normative de l’être humain”). (17) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 39 L’istituzione di regole rigide è dunque coessenziale all’idea (e all’esi- genza) di stabilità e quest’ultima è condizione fondativa della società; è, propriamente, ciò che determina il passaggio dalla semplice comunità (di singoli, di famiglie o di gruppi) alla società organizzata. Secondo l’antico e fin troppo noto brocardo romano, il diritto è costitutivo della società al punto da identificarsi con essa: ubi societas, ibi jus; reversibile nel chiasmo: ubi jus, ibi societas (18). Del resto, la radice originaria dei termini “istituzio- ne”, “costituzione” e “Stato” è comune; ed è rinvenibile nell’indoeuropeo stā o st∂ che contiene in sé due idee concentriche: quella di “disporre”, ”ordinare” e quella di “dimorare nel tempo”, ”durare” (anche la parola “stabilità” contiene la medesima radice etimologica) (19). La domanda in nuce al nostro tema è allora: come si può conciliare l’i- dea di fondo cui s’ispira il senso stesso del diritto, la sua ragion d’essere (quella della stabilità e della certezza delle regole), con l’altra idea opposta di mutamento continuo insita nella “manutenzione” dell’ordinamento giu- ridico (20)? E come hanno affrontato il problema le società che hanno pre- ceduto la nostra attuale? La domanda contiene in sé un paradosso logico: nessuno darebbe credi- to a regole che non si vogliano – e nel contempo che non siano generalmente considerate – eterne, cioè valide in se stesse e indipendentemente dal conte- sto al quale sono destinate. Un jus percepito come disgiunto dal justum non susciterebbe alcun rispetto, e potrebbe essere osservato solo per la minaccia della pura forza, cioè per costrizione, come acutamente intuì Pascal nel noto aforisma 298 delle Pensées dedicato al rapporto tra “giustizia” e “forza” (21). A maggior ragione nessuno obbedirebbe a una norma che nel momen- to stesso in cui disponga il suo comando affermi anche la sua provvisorietà (18) Cfr. A. GUARINO, L'ordinamento giuridico romano [1949], Napoli, Jovene, 1990, V edizione, pp. 97 ss.; M. TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano, Milano, Giuffrè, 2001, p. 1, che parla di “correlazione biunivoca” tra l’organizzazione sociale e l’ordinamento giuridico; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005. (19) Sul punto, cfr. G. MIGLIO, “Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’”, in Stato e senso dello Stato oggi in Italia, Atti del 51° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Pescara, 20-25 set- tembre 1981, Milano, Vita e Pensiero, 1981, pp. 66-86, ora in ID., Le regolarità della politica, 2 voll., Milano, Giuffrè, 1988, II, pp. 799-832: 804-5. (20) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX: “Come conciliare la flessibilità […] con la certezza del diritto? […] La flessibilità si situa all’interno di una certa rigidità conforme alla natura stessa del diritto, inte- sa a dare sicurezza ai consociati”. Per l’insigne A. la soluzione sta in primo luogo nelle “possibilità di opzio- ne. Ad esempio, su determinati fatti il sistema giuridico offrirà sfumature molteplici di regolamentazione, fra cui gli interessati sceglieranno”. (21) B. PASCAL, Pensieri, trad. it. di M. Ferrario Barilli (sull’ed. Brunschvicg), Milano, Bietti, 1965, p. 197: “La giustizia senza forza è impotente; la forza senza giustizia è tirannica. […] Bisogna quindi unire la giu- stizia e la forza; e per giungere a ciò occorre che quel che è giusto sia forte, o quel che è forte sia giusto [… Ma finalmente] non s’è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che essa è ingiusta, e solo la forza è giusta. Non potendo, pertanto, far sì che quel ch’è giusto sia forte, s’è fatto in modo che quel ch’è forte sia giusto”.
40 FRANCESCO DI DONATO e/o relatività o (peggio ancora) la sua inadeguatezza o parzialità. Aristotele “codificò” questo principio nella Crematistica: il mutamento delle leggi è un male in sé poiché mutandole si screditano e con esse si scredita l’autorità che le ha poste (22). A distanza di venti secoli, fu Rousseau – e ciò è tanto più sorprendente in un grande innovatore come lui – a riprendere quel con- cetto e a rilanciarlo: “Le leggi sono rese sante e venerabili soprattutto dalla loro grande antichità”, scrisse il genio ginevrino nel celebre Discours sur l’o- rigine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, e perciò “il popolo pre- sto dispregia quelle leggi che vede mutarsi da un giorno all’altro e, abi- tuandosi a trascurare le vecchie usanze con il pretesto di fare meglio, si introducono spesso dei grandi mali per correggerne dei minori” (23). Il cardine di ogni diritto – come ben comprese Hans Kelsen, che costruì proprio su questo assunto, di chiara matrice ebraico-monoteistica, la sua teo- ria della Grundnorm (24) – è il comandamento primo che vi è sott(int)eso: “Non avrete altro Diritto al di fuori di me”. Ogni diritto custodisce quindi in sé il valore dell’assolutezza, senza la quale non risulterebbe né sufficiente- mente autorevole né credibile. Senza questo valore intrinseco nessun diritto (come nessun Dio) acquisirebbe la necessaria perentorietà, fondamento di ogni prescrittività, perdendo così la connotazione stessa di diritto (25). Con riferimento specifico a una società come quella di Antico Regime, tutta fondata sull’idea di fondo dell’immutabilità e dell’aeternitas dei valori, occorrerebbe tout-court concludere – prim’ancora d’iniziare il discorso – che essa escludeva a priori ogni idea di “manutenzione” delle norme. Il diritto era la quintessenza dell’idea di stabilità, espressa in una massima che ebbe molto successo in tutto l’Occidente cristiano: “Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, hoc teneatur” (26). Il criterio per giudicare della (22) ARISTOTELE, La politica, Bari, Laterza, 1969, IV edizione, lib. II, § 3, pp. 53-54. È per questo che le legislazioni moderne hanno inventato l’istituto mitigante della deroga. Quest’ultima intende conciliare, infatti, l’esigenza di mantenere l’auctoritas della norma (e del potere che l’ha statuita) con la necessità di bloc- carne o temperarne gli effetti giuridici in alcuni casi. Tuttavia il suo abuso è un rimedio peggiore del male. (23) J. J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza [1755], trad. it di G. Preti, Milano, Feltrinelli, 2004, VIII edizione, p. 19. È molto significativo altresì che questa frase di Rousseau sia stata posta in esergo alla rac- colta delle leggi francesi realizzata da A. J. L. JOURDAN, DECRUSY, F. A. ISAMBERT, Recueil général des anciennes lois françaises, depuis l’an 420 jusqu’à la Révolution de 1789…, 29 voll., Paris, Belin-Leprieur e Plon, 1821-1833, t. I, Prolégomènes (par Isambert), p. 1. (24) Su cui cfr. M. TROPER, Cos’è la filosofia del diritto, trad. it. di R. Guastini, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 27-32 e 36-41; C. M. HERRERA, La philosophie de Hans Kelsen, Quebec, Presses Univ. de Laval, 2004, pp. 49-51. (25) Su questo filone, restano limpide e profonde le riflessioni sviluppate da A. ROSS (a mio avviso il maggiore teorico del diritto del Novecento), Critica del diritto e analisi del linguaggio, trad. it. di A. Febbrajo e R. Guastini, Bologna, Il Mulino, 1982. (26) Espunta da un padre del V secolo d. C., Vincent de Lérins (Vincenzo di Lerino), che l’aveva ela- borata nel confronto con testi di autori classici precedenti (Seneca, Tertulliano, S. Agostino) e “codificata” nella sua opera Commonitorium, scritta alcuni anni prima del Concilio di Efeso (450 d.C.), questa massima attraversa pressoché tutta la storia del cristianesimo e della Chiesa, tanto da essere stata ancora oggetto di vivaci discussioni al Concilio Vaticano I.
LA MANUTEZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 41 validità di un’innovazione stava dunque nella compatibilità della “novità” con la Tradizione, con ciò che sempre, ovunque e da parte di tutti si fosse ritenuto giusto. Il che, a ben vedere, costituiva un paradossale controsenso: una novità compatibile con la Tradizione è, infatti, una falsa novità, una novità solo apparente. La Traditio era, di per sé, la manifestazione del Verbo divino, cristallizzato nell’uniformità dell’obbedienza passiva e perenne- mente rinnovata in forme tipizzate alla parola del Creatore. Ora, si comprende agevolmente come l’applicazione di questa linea teorica al campo giuridico comportasse un’immobilità di fondo dell’ordo juris o quantomeno una grande difficoltà a determinare una sua evoluzio- ne. Nella monarchia assoluta legittimata dal diritto divino, le norme giuri- diche, attraverso la volontà del re, esprimevano la Volontà del Creatore. Essendo questa Volontà immutabile per definizione, ne derivava l’idea che anche il diritto – come Dio, avrebbero scritto un Bossuet o un De Maistre – era considerato immutabile. Possiamo fidarci di questa visione ontologistica, così inflessibile e rigo- rosa, che è poi quella – teorica e assiologica – che quel tipo di società nel suo complesso aveva istintiva tendenza a rappresentare (27)? Quanto le rappre- sentazioni sociali della propria identità risultano attendibili, e quanto le volontà e le intenzioni espresse descrivono l’effettiva realtà e non piuttosto l’interesse appunto a “rappresentarsi” in un certo modo? L’abito – lo sap- piamo bene noi italiani – non fa il monaco (o lo fa raramente). Deve allora l’osservatore storico credere sempre alle fonti dottrinali, quelle cioè che “codificavano” nell’astrazione concettuale i connotati teorici e assiologici di quella società, o non deve piuttosto sottoporre quelle elaborazioni a una rigorosa indagine critica condotta in comparazione con i dati reali? Che cosa conta di più per comprendere e descrivere un assetto socio-politico e il suo diritto: i programmi e le dottrine o i fatti? Le idee e gli auspìci o la dura res della storia concretizzata, della realtà così com’è (stata)? Se scegliessimo il metodo idealistico-normativistico, adottato dalla pre- valente storiografia giuridica, dovremmo concludere che l’analisi del piano ideale è esaustiva: nomina sunt res. Applicando questo metodo al nostro tema, se ne dovrebbe concludere che la società di Antico Regime non cono- sceva – e non poteva in alcun modo conoscere – il concetto di “manuten- zione delle norme”, poiché questa era negata in adjecto, come avrebbero asserito i giuristi di quell’epoca, dai valori costitutivi ossia dalle qualità intrinseche del corpo sociale. (27) Su questa sfasatura tra realtà e rappresentazione come elemento costitutivo della dimensione sociale, cfr. S. MOSCOVICI, Le rappresentazioni sociali, trad. it. di V. L. Zammuner, Bologna, Il Mulino, 2005 (estratto da R. M. FARR, S. MOSCOVICI (a cura di), Rappresentazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1989); ID. (a cura di), Psycologie sociale des rélations à autrui, Paris, Colin, 2006. Cfr. anche G. MEAD, Mente, sé e società [1934], trad. it. di R. Tettucci, Firenze, Giunti, 1966 (ult. ediz. 2010); H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà [1975], trad. it. di R. Cordeschi, Milano, Adelphi, 1987 (2004, III edizione).
42 FRANCESCO DI DONATO 3. La tensione essenziale della realtà: fatti contro valori I giuristi di Antico Regime, misoneisti ab imis fundamentis, si attennero scrupolosamente a questo principio. Nelle loro dottrine essi manifestarono sempre totale aderenza al cardine concettuale secondo cui il diritto non può e non dev’essere modificato dal potere, altrimenti quest’ultimo assu- me il connotato sinistro di tirannia e di arbitrio. Un sovrano che volesse palesemente innovare l’ordo juris era screditato come despota e per i giuri- sti era prima di tutto colpevole di empietà, poiché non avendo timore d’in- taccare i nuclei essenziali del diritto, eterni per definizione, mostrava non solo l’impudenza di violare la “costituzione del regno”, ma – a monte – di non avere quel timor di Dio, da cui tutto il diritto, imperniato sull’Ordine Universale, derivava. Il re innovatore (o, se si preferisce, “manutentore”) si macchiava perciò del peggiore dei crimini, quello della lesa-maestà divina. E un re definito “cristianissimo” o “cattolico”, come rispettivamente erano i sovrani francese e spagnolo, non avrebbe potuto infrangere quel limite sacro, senza conseguenze di assoluta gravità (28). Spesso, quando si parla di “monarchia assoluta”, si resta prigionieri di luoghi comuni e non si tiene conto dei contesti ideologici nei quali i prota- gonisti di quel mondo operavano. Trovando la sua causa prima nella divi- na Voluntas, il diritto dei re era, sul piano assiologico, intangibile. Neppure un re avrebbe potuto modificarlo nelle sue strutture portanti (cioè “costi- tuzionali”), poiché la sua volontà era pari a quella degli altri re suoi pre- decessori, e la volontà di tutti e di ciascuno di essi non era che il riflesso della Volontà di Dio. L’assolutismo monarchico si fondava proprio su que- sto principio, che si potrebbe definire teosofico-politico: poiché Dio aveva investito il re, quest’ultimo diventava “l’Unto del Signore” nella sacra e scenica rappresentazione dell’incoronazione. Da quel momento il re faceva le veci di Dio in terra e lo rappresentava nella sua onnipotente sovranità. Nel giuramento che pronunciava in quella solenne cerimonia, egli s’impe- gnava davanti a Dio a “rispettare i privilegi della Nazione”, il che, in una società di ordini, di status e di corpi, dove tutti (chi più chi meno, ma tutti) avevano dei privilegi, significava di fatto riconoscere una potente limita- zione del proprio raggio d’azione (29). La parola del re era dunque parola di Dio e di conseguenza non pote- (28) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, trad. it. di chi scrive, Roma-Bari, Laterza, 1998 (III ediz. inalterata 2002), pp. 41-2; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., pp. 119-123. Sulle conseguenze dell’empietà dei sovrani, si pensi solo allo sviluppo delle teorie monarcomache secondo le quali era legittimo per qualunque suddito uccidere il re sacrilego e non timoroso di Dio. (29) Cfr. M. DAVID, La souveraineté et les limites juridiques du pouvoir monarchique du IXe au XVe siècle, Paris, Dalloz, 1954, pp. 154-8 e 183-9; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., p. 306.
LA MANUTEZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 43 va essere smentita da alcuno. Essa aveva la stessa pesanteur della parola divina. Era in teoria un potere illimitato. Ma in pratica no. Proprio per il fatto di rappresentare Dio in terra, il comportamento del re era incanalato entro una dimensione ben precisa e invalicabile. Ciò che Dio non avrebbe mai fatto, non avrebbe certo potuto fare il re. Egli incarnava il Bene e quin- di ogni atto riprovevole alla coscienza cristiana non poteva compierlo (30). Nei fatti, l’azione del re era quindi ben delimitata. Il re, si diceva, è sì asso- luto, ma “per far regnare la giustizia” (31). E il concetto di giustizia era emi- nentemente legato al valore del senso cristiano della parola. Alcuni storici del diritto, fondandosi sull’analisi delle sole dottrine pro- dotte dalla letteratura politica filo-assolutistica, hanno creduto invece all’i- dea che l’assolutismo monarchico fosse veramente tale (32) e che di conse- guenza fosse concettualmente e istituzionalmente opposto al regime costi- tuzionale (che avrebbe poi trionfato nella Rivoluzione) (33). Ma è un grave errore di metodo, distorsivo della realtà, dar credito solo all’elaborazione dei teorici e, men che meno, considerare solo l’aspetto formale delle norme e dei princìpi e non (soprattutto) la loro applicazione concreta, la loro decli- natio nella complessa e difficile vita delle “relazioni effettive”. (30) Fu proprio questo l’argomento base (noto come “teoria dei freni”) utilizzato da Claude de Seyssel nel suo celeberrimo trattato La monarchia di Francia pubblicato nel 1519: D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 44: “Questi ‘freni’ sono anzitutto gli obblighi di coscienza del re fissati nei comandamenti divini”. Sul punto, cfr. E. SCIACCA, Le radici teoriche dell’assolutismo nel pensiero politico francese del primo Cinquecento (1498- 1519), Milano, Giuffrè, 1975, pp. 87 ss.: 117 ss. (31) Rinvio, per un approfondimento sul punto, al mio La rinascita, cit., pp. 191 e 196-199. (32) Ad esempio, B. VONGLIS, L’État c’était bien lui. Essai sur la monarchie absolue, Paris, Éditions Cujas, 1997; ID., La monarchie absolue française. Définition, datation, analyse d’un régime politique controversé, Paris, L’Harmattan, 2006. Analisi di questo tipo, basate sul dover essere programmatico e non sulla descrizione dell’essere così com’è, portano dritto a disegnare una dimensione fantastica (magari assai più affascinante e colorita), ma non una realtà storica (per definizione sempre più cruda e dura dei valori formali che espri- me). Per realizzare invece un’analisi seria di una data società in un dato momento storico non bisogna limi- tarsi solo all’ordine dei discorsi formali (al cui novero appartengono tanto programmi e proclami politici quanto le norme giuridiche), ma bisogna guardare piuttosto a come quei discorsi e quelle norme sono, attra- verso una determinata mentalità sociale e individuale, applicati e realizzati e soprattutto sentiti dalla mag- gioranza delle persone nella vita vissuta. Il che, tra l’altro, è molto più faticoso da ricercare e da trasfondere in una ricostruzione storiografica ordinata e comprensibile. (33) Al contrario, la monarchia assoluta fu, fin dalla sua genesi tardo-medievale (dal XIII al XV seco- lo), un regime fondato su un “blocco costituzionale, tanto scritto quanto consuetudinario”, come da ultimo ha mostrato, con esemplare chiarezza di stile, gran solidità di metodi di ricerca e poderosa costruzione sto- riografica, A. RIGAUDIÈRE, “Les fonctions du mot constitution dans le discours politique et juridique du bas Moyen Âge français”, in Revista Internacional de los Estudios Vascos, Cuadernos, 4, 2009, pp. 15-51: 17; del medesimo A. si veda soprattutto Penser et construire l’État dans la France du Moyen Age. XIIIe-XVe siècle, Paris, Comité pour l’Histoire économique et financière de la France, 2003. Sul punto (ormai oggetto di una copio- sa letteratura), cfr. almeno J. PH. GENET (a cura di), L’État moderne: Genèse. Bilans et perspectives, “Actes du Colloque tenu au Cnrs à Paris”, 19-20 sett. 1989, Paris, Éditions du Cnrs, 1990; J. KRYNEN, L’empire du roi. Idées et croyances politiques en France. XIIIe-XVe siècle, Paris, Gallimard, 1993; molti spunti in R. MOUSNIER, La costi- tuzione, cit., passim. Resta attestata sulla posizione di un “Medioevo senza Stato” larga parte della storiogra- fia giuridica italiana, esemplarmente racchiusa nell’opera di P. Grossi, la cui interpretazione al riguardo è sintetizzata in ID., L’Europa del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 16.
44 FRANCESCO DI DONATO La storia del diritto e delle istituzioni non dev’essere solo una storia delle dottrine e del pensiero giuridico, non deve interessarsi solo alla rico- struzione di norme e istituti che sono esistiti in un dato ordinamento, ma deve qualificarsi piuttosto come storia dell’esperienza giuridica e perciò osser- vare e descrivere non solo il piano ideale e deontico del diritto formale, bensì i “nessi che legano i processi evolutivi delle produzioni ideologico-scientifi- che [= norme e dottrine] alla prassi umano-sociale e alla storia reale” (34). Norme e istituti non possono certo essere estranei all’atelier de l’histoi- re du droit, ma vanno intesi e descritti nella loro “realtà effettuale”, ossia inquadrati nel contesto dinamico e nella dimensione di “precomprensio- ne” entro la quale acquistano il loro valore e la loro concreta qualificazio- ne (35). Nell’evoluzione della realtà, è fin troppo noto, rientrano le distor- sioni eterogenetiche – più o meno intenzionali – produttive di effetti che possono essere anche molto lontani e talvolta persino del tutto opposti alle rationes juris iniziali (36). 4. Il trionfo della prassi giurisdizionale: la manutenzione interpretativa Nella società di Antico Regime il fondamento metafisico-religioso ren- deva dunque l’idea stessa di “riforma”, e quindi di “manutenzione”, del tutto inimmaginabile. La parola “riforma” era impronunciabile da parte del giurista, che la percepiva come uno dei peggiori disvalori possibili (37). (34) La sfera dell’“esperienza”, infatti, contiene anche le fonti formali del diritto intese nel suo ambi- to come “fatto normativo”, mentre non si può dire l’inverso. Sulla definizione dell’“esperienza”, come fon- damentale concetto del metodo scientifico, restano molto utili le pp. di G. PRETI, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1957, recentem. rist. a cura di S. Veca, Milano, Bruno Mondadori, 2007; e, sulle cause della refrat- tarietà italiana a questo elementare paradigma al quale tutto il pensiero moderno delle società avanzate si è attenuto dalla rivoluzione scientifica in poi, cfr. M. ALCARO, La crociata anti-empiristica, Milano, Franco Angeli, 1981 (dal quale è tratta la citazione nel testo: p. 11). (35) Sulle strutture di precomprensione e la necessità di ricostruirne il senso e la forza d’influenza sulle produzioni culturali, cfr. P. BOURDIEU, Spiriti di Stato. Genesi e struttura del campo burocratico, trad. it. di R. Ferrara in ID., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995 (nuova ediz. 2009), pp. 89-131: 91-93 e 112-113. (36) A questo proposito, un libro che i giuristi (tanto i positivisti quanto gli storici) dovrebbero legge- re (e che non mi è mai capitato invece di vedere citato e discusso nella trattazione di temi consoni alle loro discipline) è quello di T. K. MERTON, E. G. BARBER, Viaggi e avventure della serendipity. Saggio di semantica socio- logica e sociologia della scienza, , trad. it. di M. L. Bassi, Bologna, Il Mulino, 2002. (37) Una testimonianza eloquente in proposito è quella di Niccolò Fraggianni, uno dei più colti e raf- finati giuristi del Settecento italiano, per il quale le “riforme” costituivano “torbide novità” frutto di “capric- ciosi progetti che tuttodì si eccitano e si fanno da […] teste ripiene di entusiasmi e di visioni”; l’attività rifor- matrice dell’ordo juris produceva quindi un enorme rischio per la tenuta del “sistema totale”; di conseguen- za, tutti coloro che si ponevano tra le fila dei “riformatori” non erano per lui che demolitori dell’interesse generale alla stabilità; occorreva perciò senza tentennamenti combattere e “biasima[re] coloro che colle nuove opinioni vogliono singolarizzarsi, et intorbidare la tranquillità dello Stato”: cfr. F. DI DONATO,
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 45 Nella lingua francese si usava un’espressione, réformation, capace appunto di distinguere l’attività di semplice ritocco della legislazione dalla réforme, percepita come uno stravolgimento profondo degli assetti consoli- dati. La réformation era quindi “una cosa completamente diversa dall’inno- vazione” e anzi ne era “l’esatto contrario”. Nessun re cercò “nel cambia- mento radicale dei princìpi il vero progresso legislativo”, ma l’obiettivo della corona fu costantemente “il ritorno ai princìpi primigèni delle istitu- zioni, princìpi che il tempo aveva corrotto”. Anche quando le “circostanze nuove imponevano continui ritocchi, degli aggiornamenti e dei perfeziona- menti”, queste operazioni “dovevano essere fatte nel senso degli antichi princìpi, nella linea della tradizione” (38). Il “modo di pensare” di quel mondo prevedeva un corpo sociale strut- turato ab imis fundamentis “in ranghi fissi e immutabili, in quanto conside- rati come elementi di un grande disegno permanente della natura regolata secondo ritorni ciclici che traducono in un divenire stabile le leggi naturali e la volontà di Dio” (39). Di fronte alla figura e al potere innovativo del re stava insomma – com’è stato scritto con una formula assai appropriata – la “Nazione organizzata” (40). E questa “organizzazione” consisteva prima di tutto in un’incondizionata difesa delle tradizioni coutumières. In un contesto di questo tipo la mentalità imperante era quindi l’esat- to opposto della nostra attuale: l’innovazione e il cambiamento erano visti con sospetto e negatività, mentre tutto ciò che era tradizionale, antico e stabile era considerato positivamente e con interesse (41). “Noi siamo ben lontani – recita una regia Déclaration del 24 agosto del 1780 che riassume, anche retrospettivamente, la questione – dal determinarci troppo facil- mente ad abolire le leggi antiche e legittimate da un lungo uso” (42). In ottemperanza di questo principio considerato sacro, né il re né i suoi mini- stri potevano “introdurre un diritto nuovo che sconvolgerebbe i princìpi conducendo gradualmente a innovazioni pericolose” (43). Il mutamento del diritto – tanto negato in teoria quanto, come in ogni organizzazione socio-giuridica, indispensabile nella pratica e segnatamente Esperienza e ideologia ministeriale nella crisi dell’Ancien Régime. Niccolò Fraggianni tra diritto, istituzioni e politica, 2 voll., Napoli, Jovene, 1996, pp. 52, 78-79, 323 e 508-509. (38) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 213. (39) Cfr. R. MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto, cit., p. 47. (40) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 222; si veda, al riguardo anche R. MOUSNIER, “La Nation organisée”, in Réaction, n. 1, 1991, pp. 73-91. (41) Ivi (ultime tre opp. citt.), passim; cfr. F. DI DONATO, La rinascita, cit., p. 466. (42) Cit. in F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 211. (43) Ibidem.
46 FRANCESCO DI DONATO nell’attività di governo – passava quindi attraverso un altro canale. La legge, che non poteva essere innovata e di fatto nemmeno abrogata (44), poteva però essere interpretata dagli esegeti autorizzati a questa delicatissima atti- vità alla quale nessun altro, neppure i re, aveva accesso poiché richiedeva la juris peritia della quale soltanto i sacerdotes juris erano investiti. Ciò che era consentito ai sovrani era la modifica o la creazione delle norme “transeunti” ossia quelle che attenevano alla sfera superficiale degli “accidenti”, mai a quella delle “sostanze” o, come si diceva con il linguaggio della scolastica aristotelica, delle “quiddità”. I rispettivi preamboli di due ordi- nanze regie (una di Carlo VIII sulla riforma delle giustizia, emanata nel luglio del 1493; l’altra di Luigi XII del marzo 1498) ci spiegano alla perfezione questo principio di fondo secondo il quale la “varietà” delle situazioni e il “muta- mento dei tempi” potevano spingere i sovrani a intervenire sui testi di legge esistenti, ma mai per stravolgerli bensì solo per “aggiungere o diminuire” qualche aspetto di dettaglio e sempre per un palese e ineludibile bisogno di adattare le leggi alla realtà “per il bene della giustizia e dei nostri sudditi” (45). Tuttavia, anche su quelle norme (si pensi, ad esempio, alla materia fiscale, per definizione e necessità soggetta a continui mutamenti) i sovrani e i loro governi dovevano ottenere il consensus populi. E naturalmente anche in quest’àmbito i giuristi trovarono il modo d’interporre la loro mediazione patriarcale, ricorrendo al raffinato artificio del consensus gentium (46): il con- senso del popolo (al mutamento legislativo) era presunto, a condizione di essere “delibato” dagli organi giurisdizionali che di quel consenso e dei valori che esso veicolava si sentivano gli esclusivi depositari (47). (44) Su questa difficoltà all’abrogazione palese della legge nell’Antico Regime, cfr. ivi, p. 210, dove l’A. considera questo “un principe général de conservation” dell’ordinamento vigente “très net: le roi respecte, autant qu’il est possible, les lois de ses prédécesseurs” e pertanto egli è “en principe hostile aux nouveautés”. Sul medesimo punto, cfr. il mio La rinascita, cit., cap. 3, pp. 153-230, e spec. § 5.3 (pp. 187-192), § 5.5 (pp. 194-199) e § 5.6 (pp. 199-206), dedicati rispettivamente ai problemi della “gerarchia delle norme di rango equivalen- te”, alla “legge prigioniera della legge” e alla gerarchia normativa come “spada di Damocle sospesa sulla testa del re”. Cfr., inoltre, F. DI DONATO, La revisione costituzionale in una prospettiva storico-istituzionale. Il pro- blema del mutamento giuridico in relazione al mutamento sociale e culturale, in S. GAMBINO, G. D’IGNAZIO (a cura di), La revisione costituzionale e i suoi limiti. Fra teoria costituzionale diritto interno esperienze straniere, Milano, Giuffrè, pp. 555-578: 569-573. (45) Cit. in F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 211. (46) Cfr. D. LUONGO, Consensus Gentium. Criteri di legittimazione dell’ordine giuridico moderno, 2 voll.: I. Oltre il consenso metafisico; II. Verso il fondamento sociale del diritto, Napoli, Arte Tipografica Editrice, rispetti- vamente 2007 e 2008. (47) L’obiezione secondo la quale l’espressione del consenso ai provvedimenti fiscali spettava agli Stati generali e non ai parlamenti s’infrange contro lo scoglio della realtà per cui gli Stati non vennero più convocati dal 1614-15 fino al 1789. In questo vuoto totale i giuristi-magistrati s’incunearono abilmente ed ela- borarono la dottrina della sostituzione del Parlamento agli Stati in quanto unico organo (questo era il lin- guaggio usato) “rappresentativo della Nazione”: cfr. F. MAZZANTI PEPE, “Le aspirazioni del Parlamento di Parigi a una funzione sostitutiva degli Stati generali (1715-1771)”, in Annali della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova, I, 1973, pp. 609-650. Sulla complessa relazione tra corona e magistratura in ordine
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 47 Fu questa la via attraverso la quale i giuristi-magistrati di Antico Regime diventarono i veri padroni occulti della politica regia. La procedu- ra legislativa che prevedeva la “registrazione” obbligatoria (in Francia l’en- registrement parlementaire) fu intesa come un vero e proprio diritto di veto opposto al sovrano e ai suoi governi ministeriali. Molto spesso questo potentissimo strumento d’influenza politica servì a trasformare la jurisdictio in potere sovrano, non foss’altro che per la pratica della negoziazione che necessariamente si apriva tra la corona e la magistratura al fine di garanti- re l’approvazione di provvedimenti ritenuti indispensabili all’azione gover- namentale (48). E altrettanto spesso fu utilizzato dalla magistratura come barrage alla “manutenzione” legislativa tentata, spesso non senza razionali- tà, dai ministri regi e dai loro attrezzati uffici. In tal modo, all’ideale dichiarato dai giuristi di far coincidere potestas e jurisdictio corrispose nei fatti il tentativo, spesso riuscito, di far trionfare la legge interpretata (dai supremi organi giurisdizionali) (49). Il perno di que- sta linea giuspolitica era costituito dalla dottrina secondo la quale la volontà del re era priva di ogni effetto se non fosse stata rivestita della forma giuridica che solo l’approvazione dell’alta magistratura (in Francia il Parlamento) poteva confe- rire ai provvedimenti legislativi. Per questo, se non ci si sofferma solo all’esame delle astratte dottrine e si analizzano attentamente le pratiche del sistema, non si tarda ad accorgersi che i giuristi investiti della funzione giurisdizionale furono spesso nelle monarchie “assolute” i veri sovrani. Con una ineguagliabile subtilitas, essi assicurarono così la continuità formale dell’ordo juris, realizzando nel con- tempo i cambiamenti possibili e gl’interventi “manutentivi” ritenuti utili e non incompatibili con l’assetto consolidato del sistema; nel quale il perno era costituito dal potere esegetico dei grandi organi magistratuali che attraverso la giurisdizione riuscivano spesso ad arrivare al nucleo della sovranità poli- tica, orientando le scelte d’indirizzo o quantomeno riuscendo a imporre al governo un negoziato che le influenzava, non di rado anche sensibilmente. La tendenza dei giuristi a oltrepassare la funzione meramente applicati- va delle norme per ambire alla funzione nomotetica e d’indirizzo politico è dunque una costante della loro vicenda storica e mille sono i rivoli di questo alla politica fiscale, si veda il bel libro di A. ALIMENTO, Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV. Dalla ‘‘taille tarifée’’ al catasto generale, Firenze, Leo S. Olschki, s.d. [1995]. (48) Su questo cruciale problema della formazione effettiva della legge nella pratica del sistema di Antico Regime, è in corso uno studio monografico, fondato su ricerche archivistiche di prima mano, indi- rizzate e dirette da chi scrive, ad opera di G. Ambrosino, dottorando di ricerca presso l’École des Hautes Étu- des en Sciences Sociales di Parigi e presso l’Università di Messina. (49) Per lo sviluppo di questi temi, cfr. F. DI DONATO, L’ideologia dei robins nella Francia dei Lumi. Costituzionalismo e assolutismo nell’esperienza politico-istituzionale della magistratura di antico regime (1715-1788), Napoli, Esi, 2003, spec. pp. 326-336.
48 FRANCESCO DI DONATO fiume carsico che scorre senza interruzione nei sottofondi delle società occi- dentali (e oggi non solo occidentali (50)). La “manutenzione” (occulta) del- l’ordo juris fu uno dei principali strumenti attraverso i quali la magistratura riuscì ad assicurarsi quel potere. Nell’Italia contemporanea le leggi vengono, in gran parte dei casi, scritte o ispirate da magistrati distaccati negli uffici legislativi dei ministeri o consultati riservatamente da ministri e uomini poli- tici. Nelle società di Antico Regime, variatis variandis, la situazione non era molto diversa. Nella Francia “assolutistica”, come in quasi tutti gli altri Paesi europeo-continentali che a quel modello – chi più chi meno – s’ispiravano, i giuristi-magistrati non si limitavano affatto ad applicare norme precostituite, ma partecipavano attivamente alla formazione e alla manutenzione delle leggi: in primis scrivendole materialmente (pensiamo solo al lavoro svolto in Francia dai maîtres des requêtes), poi influendo sui loro contenuti attraverso la procedura di registrazione (con le annesse negoziazioni a latere dell’iter for- male e gli accordi sous-table con il ministero), e poi ancora interpretandole nel- l’ordinaria attività giurisdizionale, dove avevano sempre buon gioco a “pie- garle” ai significati più graditi a seconda della convenienza corporativa det- tata dalle contingenze storico-politiche (51). In quest’ultima attività si realiz- zavano quegl’interventi di “manutenzione”, ossia quegli “aggiustamenti” progressivi, che sul piano legislativo erano interdetti dalla fissità assiologico- normativa, ossia dal carattere “ontico” del diritto (52). Colmo del paradosso, erano gli stessi magistrati a difendere accanitamente questo ontologismo giuridico, perché ciò consentiva loro di arginare il potere legislativo della sovranità politica della corona e dei suoi governi ministeriali, aprendo così spazi di manovra immensi per la jurisdictio. La manutenzione era, in tal modo, bloccata sul piano della funzione nomotetica esercitata dal potere politico e nel contempo era realizzata per via giurisprudenziale. (50) Cfr. C. N. TATE E T. VALLINDER, The Global Expansion of Judicial Power: the Judicialization of Politics, New York, New York Univ. Press, 1995. (51) Persino uno storico ultraregalista come F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, cit., p. 212, dové ammet- tere – anche se la formula adottata appare alquanto vaga e blanda – che la corretta traduzione in pratica delle leggi doveva fare i conti con “la négligence des officiers chargés de veiller à leur application”; era questa una “sorte de fatalité à laquelle le roi se résigne”. (52) Questo carattere del diritto, proveniente dall’ordine giuridico del Medioevo, sopravvive come “eredità” nell’Età moderna, attraverso la forma mentis dei giuristi e specialmente dei magistrati. La defini- zione del diritto medievale come diritto “ontico”, cioè costituito da un “ordine scritto nelle cose […] fisiche e sociali” e che attraverso l’interpretatio “può essere letto e tradotto in regole di vita” è di P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 14, 30 e passim; ID., Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 285-286 e passim; ID., L’Europa, cit., pp. 14 e passim; ID., Nobiltà del diritto: profili di giuristi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 242. Per la più acuta disamina critica degli effetti (a)sociali determinati da questa onticità (in questa prospettiva definita “ontologismo”), cfr. R. AJELLO, Epistemologia, cit., pp. 9 e 13-16; ID., L’esperienza critica del diritto. Lineamenti storici. I. Le radici medievali dell’attualità, Napoli, Jovene, 1999, pas- sim e spec. 119-159: 129-132, 185-189 e 355-364; ID., “L’asociale cordialità. Contributo alla storia delle mentali- tà in Italia”, in Frontiera d’Europa, anno XIII, n. 1, 2007, pp. 5-72 e da ultimo ID., Eredità medievali paralisi giudi- ziaria. Profilo storico di una patologia italiana, Napoli, Arte Tipografica Editrice, 2009, passim e spec. pp. 90-95.
LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 49 Si pensi ancora, a tal riguardo, al potentissimo strumento, utilizzato a piene mani dai parlamenti, delle “sentenze regolamentari” (gli arrêts de règle- ment), attraverso i quali l’alta magistratura dettava legge e – come si disse durante la Fronda di uno dei più potenti robins del tempo, il presidente Lamoignon – “faceva il bello e il cattivo tempo a Parigi e in Francia” (53). Questo tipo di provvedimenti – giurisdizionali solo in apparenza, in realtà veri e propri atti legislativi – servirono al corpo giudiziario per realizzare una manutenzione controllata dell’ordinamento che fosse sempre vantag- giosa in primo luogo per la magistratura (54). 5. La manutenzione giurisprudenziale, strumento arcano del governo politico del giureconsulto La manutenzione giurisprudenziale – l’unica possibile nei fragili e pre- cari equilibri politico-istituzionali dell’Antico Regime – realizzava, dunque, segretamente, una delle indispensabili funzioni connesse alla vita evolutiva degli ordinamenti giuridici. La pratica del diritto giurisprudenziale rende- va possibile ciò che la teoria e l’impalcatura formale del sistema impediva- no (55). Si può dire allora che gli interventi manutentivi si realizzavano tutti all’interno degli arcana juris nella dimensione del potere occulto che, in una sorta di anonimato istituzionale permanente, proteggeva i suoi autori mate- riali dalla responsabilità degli effetti prodotti. A dispetto delle vantate perfezioni formali dell’ordo juris, si realizzava così nella vita giuridica concreta un paradosso assurdo: i princìpi di fondo del sistema erano salvaguardati nel momento stesso in cui incisivamente si violavano. In tal modo si otteneva una perfetta coincidentia oppositorum: si assicurava all’ordo juris una indiscussa fissità assiologica nelle sue strutture formali ritenute (e propagandate come) perfette in quanto riflesso della Volontà divina e nel contempo si operava occultamente per realizzare il suo aggiornamento pressoché costante. (53) Sugli arrêts de règlement, cfr., per rapidi ed essenziali ragguagli, D. RICHET, Lo spirito delle istituzio- ni, cit., pp. 29-30; e, per l’analisi approfondita e documentata, P. PAYEN, Les arrêts de règlement du Parlement de Paris au XVIIIe siècle. Dimension et doctrine, Paris, Puf, 1997; ID., La physiologie de l’arrêt de règlement du Parlement de Paris au XVIIIe siècle, Paris, PUF, 1999. (54) La possibile obiezione che l’efficacia degli arrêts de règlement fosse limitata solo al ressort di ciascuna corte di giustizia è superata innanzitutto dal fatto che il circondario del Parlamento della capitale comprendeva un vastissimo territorio dell’esagono e in secondo luogo dal legame circolare stabilito tra i diversi parlamenti; un legame che nel Settecento sarebbe stato addirittura teorizzato da Louis-Adrien Le Paige, leader della robe par- lementaire, con la famosa tesi dell’union des classes, secondo la quale tutti i parlamenti non erano che le moltepli- ci espressioni sul territorio (“classi”, cioè sezioni) di un unico grande organo giuspolitico, il Parlement appunto. (55) Si veda al riguardo l’ormai classico studio di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurispru- denziale, Milano, Giuffrè, 1967 (rist. inalt. 1975), spec. pp. 79-199.
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