La magistratura in un "mare di melma". E con lei l'Italia intera

Pagina creata da Valentina Ricciardi
 
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La magistratura in un «mare di melma». E con lei l’Italia intera
Altro che Stati Generali. La prima emergenza è arginare l’unico vero potere
assoluto che c’è nel nostro paese: quello delle toghe. La lezione del caso
Palamara (e di Paolo Mieli).

Paolo Mieli, principe indiscusso del giornalismo italiano, ha recentemente
notato che «l’Italia – appena uscita dall’epidemia – non ha avuto il tempo per
accorgersi del mare di melma che sta sommergendo l’ordine giudiziario». La
citazione si riferisce a quell’Ordine di cui tutti conosciamo la centralità nella
società, politica ed economia italiana. Dunque, perché invece di divagare in
chiacchiere autocelebrative i partiti di governo e il premier Conte non hanno
“convocato” il tema della “melma” a Villa Pamphilj?

Quando Paolo Mieli fece la grande ammissione a Tempi («ci ho creduto,
ma adesso capisco che Mani pulite non è il nuovo… Perché ci sono voluti
tanti anni per capire che anche il Pci-Pds non era estraneo al sistema di
Tangentopoli?… Con Berlusconi abbiamo esagerato, mentre con l’Ulivo
siamo stati troppo cortigiani» eccetera) in una intervista datata 1 aprile 1998
che provocò a Giorgio Bocca uno sversamento di bile, Luca Palamara aveva
solo 29 anni. Ma doveva essere già un bel fenomeno visto che da un anno
era già sostituto procuratore a Reggio Calabria. «Dove si è tra l’altro
occupato di reati contro la pubblica amministrazione e di procedimenti di
competenza della direzione distrettuale antimafia» (così il sito del Csm,
Scheda Consigliere).

Molti anni dopo che da direttore del Corriere della Sera intonò la danza
funebre intorno ai partiti della Prima Repubblica (1992) per poi cantare il de
profundis (1994) anche al governo Berlusconi I, eccoci a ragionare a freddo
sull’editoriale del 5 giugno che Paolo Mieli ha dedicato alle vicende connesse
al magistrato fenomeno che da Reggio Calabria ha preso un treno lungo
lungo che lo ha portato ai vertici della rappresentanza giudiziaria (Csm, Anm,
sindacato). Divenendo infine il referente di una vasta rete di potere (e non
solo). Tant’è che, osserva Mieli, «le pagine in cui sono state verbalizzate le
chiacchiere dei tessitori di trame sarebbero sessantamila».

Ricordiamo che, come scrivemmo in tempi non sospetti, a nostro avviso il
caso Palamara è un incidente da bulimia del potere. È infatti noto che la
notizia dell’inchiesta per corruzione all’ex rais dell’Anm e del Csm
(inizialmente la procura di Perugia ipotizzò che Palamara si fosse venduto
una poltrona di capo procuratore per 50 mila euro, poi, due settimane orsono,
l’accusa è caduta) esplode nel maggio del 2019 in un contesto di lotta
all’arma bianca tra le correnti sindacali interne alla magistratura per
accaparrarsi le poltrone più ambite nelle diverse procure. In particolare, il
posto di capo procuratore a Roma che Giuseppe Pignatone lascia scoperto il
9 maggio dello scorso anno.

Esattamente un anno dopo, mentre Pignatone diventa editorialista di
Repubblica (ancora in epoca De Benedetti) e il 3 ottobre 2019 viene chiamato
da papa Francesco al vertice del tribunale Vaticano, quasi in concomitanza
con la chiusura dell’inchiesta su Palamara, il “nodo” della procura di Roma è
pacificamente sciolto, trovandosi un capo procuratore «in linea di continuità
con la gestione Pignatone» (Liana Milella, Repubblica 4 marzo 2020, leggi:
stessa corrente di Pignatone e nome indicato dallo stesso Pignatone). «Lo
scontro tra le correnti però è stato durissimo». (Liana Milella ibidem).

Vale a dire: dato che la sinistra giudiziaria ha perso molti consensi, nell’ultimo
giro di nomine ha subìto molte sconfitte. Rischiava di perdere anche Roma.
Comprensibilmente l’antica nobiltà rossa di Md – Magistratura democratica:
tanto per intenderci, quella dello scomparso ex procuratore capo di Milano e
poi senatore Pd Gerardo D’Ambrosio – non avrebbe certo digerito l’affronto.
Ed ecco che un “incidente” abbatte l’uomo forte delle trattative e spiana la
strada alla soluzione «in linea di continuità con Pignatone».

La faccenda dovrebbe chiudersi lì, con quest’ultima sofferta e molto
contrastata nomina. In realtà, depositati agli inizi del maggio scorso gli atti di
inchiesta e le 60 mila pagine di intercettazioni, iniziano a uscire sui giornali le
conversazioni captate a Palamara in un anno di generoso trojan. Dopo di
che, hai voglia a esibire mea culpa, promesse di redenzione o anche solo la
spavalderia dei congiunti che fanno le star tv (magistrati e direttori di giornali).
Come saggiamente segnala Mieli, con 60 mila pagine di brogliacci «possiamo
immaginare che le indiscrezioni continueranno ad essere distillate a lungo».

Naturalmente, a partire dagli inizi di maggio, ciascuno ha iniziato a pubblicare
le intercettazioni buone per la propria linea editoriale. Ciò non toglie che nelle
60 mila pagine di chiacchiere intercettate si mostri «la melma che sommerge
l’ordine giudiziario». Dove sta “la melma”? Sono sufficienti anche solo
mozziconi di frasi per intendere che si tratta di una rete di magistrati (e non
solo) che se ne fregano della Costituzione e sembrano a tal punto faziosi che
non hanno alcun ritegno a manomettere la democrazia («Salvini ha ragione
ma bisogna attaccarlo lo stesso»). Magistrati che si pensano in estrema
confidenza col Quirinale («Bisogna parlarne con Mattarella»). E chissà come
mai, magistrati che sembrano intimiditi dal nome di un direttore di giornale
(«Guarda che lo dico a Marco Travaglio»).

Insomma, ci vuole poco al giornalista che è stato il pivot mediatico-giudiziario
di Tangentopoli e il propulsore dell’affaire Berlusconi, per capire dove va a
parare il caso Palamara. Così, nell’editoriale da capitano di lungo corso in cui
Mieli si riserva anche il piacere di ricostruire puntualmente i passaggi del
caso Bonafede-Di Matteo, le conclusioni sono talmente degne di nota che
meritano di essere qui riportate integralmente:

«E qui siamo giunti al punto: le correnti della magistratura che sono
diventate qualcosa di assai anomalo. Non se ne conoscono più i motivi di
differenziazione ideologica. Appaiono centri di potere e come tali si muovono.
Sono fortissime, si alleano, si combattono. Si sa di pochi magistrati che
abbiano fatto carriera senza aver preso parte a questa particolare forma di
vita associativa. Ricorrono, le correnti, al linguaggio della politica – “destra”,
“sinistra” – ma è un’evidente finzione.

A questo punto è chiaro che il problema non è più, come in passato, quello di
porre rimedio a una subalternità alla politica. La politica è con le spalle al
muro. Il potere sono loro, i magistrati che hanno in mano le correnti. Della
crescita di questo potere hanno dato prova negli ultimi venticinque anni
contribuendo non marginalmente a far saltare in aria i governi di Silvio
Berlusconi e di Romano Prodi; mettendo alle corde Matteo Renzi e Matteo
Salvini; infilzando una gran quantità di politici di calibro minore. Pochissimi tra
questi uomini di partito piccoli e grandi hanno resistito, quando se ne è
presentata l’opportunità, alla tentazione di approfittare dei guai giudiziari dei
propri avversari. Tutti, allorché sono stati investiti dalle inchieste, si sono
aggrappati alla tenda e hanno pronunciato orazioni che, nei loro intenti,
avrebbero dovuto lasciar traccia nei libri di storia. Ma, di quei discorsi, nei libri
di storia ne resterà solo uno: quello di Bettino Craxi del 3 luglio 1992».

Altro che “Stati Generali”. Paolo Mieli sottolinea una volta per tutte (e da una
posizione completamente disinteressata, fuori da ogni logica e calcolo politici)
che l’Italia è un paese che va alla malora perché «la politica è con le spalle al
muro». Mentre «il potere sono loro, i magistrati che hanno in mano le
correnti».

Come se ne esce? Per Mieli

«un cambiamento virtuoso della giustizia italiana si avrà solo quando un
magistrato darà battaglia al sistema degenerato delle correnti. A testa alta,
mentre è ancora in servizio. Mettendo nel conto che subirà l’ostracismo dei
colleghi. Tutti. O quasi».

A noi queste ultime righe paiono un po’ deboli. Davvero la fuoriuscita dal
«mare di melma che sta sommergendo l’ordine giudiziario» può venire
dall’atto di eroismo di un magistrato (come Giovanni Falcone che fu tra i primi
a sostenere la necessità di riformare il Csm e la separazione delle
carriere)? Riflettiamo. Dopotutto, Luca Palamara non è affatto una “mela
marcia”. Al contrario. Egli ha rappresentato al meglio le dinamiche del
sistema di rappresentanza dell’ordine giudiziario italiano. Tanto è vero che,
se non fosse incorso nell’”incidente” e nel seguito che ha condotto a
conoscere le 60 mila pagine di chiacchiere, il sostituto procuratore Palamara
e poi giudice e poi sindacalista e poi vertice dell’Anm e poi membro togato del
Csm… sarebbe ancora lì, con i suoi colleghi e i suoi sodali (giornalisti) a
gestire strategie, posizioni, interessi e potere.

D’altra parte, così funzionano le cose in Italia da venticinque anni a questa
parte. E così, di conseguenza, ha agito Luca Palamara, comportandosi da
efficiente, determinato e spregiudicato rappresentante della corporazione
sindacal-giudiziaria. Siamo stati i primi qui a Tempi a parlare di “Stato
profondo”. Oggi tutti giochicchiano con l’inglesismo “deep state”. In quelle 60
mila pagine c’è la conferma (o perlomeno il riscontro più superficiale, perché
la Norimberga italiana deve ancora venire) di un potere che è consapevole di
avere gli strumenti per comandare e piegare tutto – dalla politica
all’economia, dal costume alla cronaca nera (chissà, magari ne sentiremo
ancora delle belle sulla saga del Mostro di Firenze) – alla misura delle proprie
strategie, interessi, determinazioni.

Chiaro che c’è una maggioranza di magistrati che non è attiva al livello di
Luca Palamara. Ma è altrettanto evidente che l’intera categoria è al corrente
di chi sono i referenti da cui si deve passare se si vuole ottenere un posto, un
passaggio di carriera, un emolumento economico, un insabbiamento di
procedura, un favore da contraccambiare… eccetera. Cioè, né più e né
meno, tutto il peggio che per anni abbiamo sentito narrare e condannare dei
politici. Con l’aggravante che i controllori si fanno beccare a sguazzare in «un
mare di melma».

Che fine può fare, al dunque dei nessi e connessi del caso Palamara, la
famosa “fiducia nella magistratura”, ora che si trova anche documentato in 60
mila file il tutt’altro che professionale connubio tra sistema giudiziario e
sistema mediatico?

Adesso è più chiaro in che modo giornali monotematici (e monomaniacali)
sono diventati ricche imprese commerciali invece di morire di fame: la loro
fortuna è stata supportare le carriere di alcuni magistrati e avere in cambio le
soffiate giuste al mercato delle notizie. Insieme, magistrati e giornalismo
incorporato alla magistratura, hanno diretto l’orchestra mentre vanamente si
agitavano la politica, l’economia o anche solo la semplice testimonianza civile
di un italiano impegnato.

Ecco infine di quali Stati Generali avrebbe bisogno l’Italia, visto e considerato
che è del tutto irrealistico immaginare la ribellione a questo sistema da parte
di qualche eroico magistrato. Non servono grandi riforme, basterebbero solo
due mosse per cominciare a svuotare il pozzo nero che da venticinque anni
fa navigare il paese nel «mare di melma» descritto da Mieli, rendendo gli
italiani materialmente sempre più poveri e sempre più arretrato ogni comparto
della società.

Prima mossa: bisogna abolire l’obbligatorietà dell’azione penale, il grande
alibi in cui sguazza la discrezionalità delle procure e che titilla la
politicizzazione dei procuratori. Avremmo già un cambiamento radicale se si
stabilissero ogni anno delle priorità circa i reati più gravi e di maggiore
allarme sociale da perseguire al posto dell’astratta obbligatorietà che finge di
perseguire tutto, cioè milioni reati (che poi, tradotto nei fatti, significa milioni di
faldoni impolverati e totale discrezionalità, perché qualsiasi pubblico ministero
può aprire il fascicolo che vuole e indagare chi vuole giacché non deve
misurarsi con alcun controllo e rispondere a nessun superiore).

Seconda mossa: separazione delle carriere creando un muro invalicabile tra
la carriera del pubblico ministero e quella del giudice. Abbiamo più volte
ricordato il motto sapienzale dell’insospettabile ex grande inquisitore Luciano
Violante: «Il magistrato deve essere un leone, ma un leone sotto il trono».
Oggi i magistrati sono al tempo stesso il leone e il trono. Un potere che non
esiste neppure nelle monarchie assolutiste. E che piuttosto ha una
inquietante analogia col ruolo che hanno i mullah, gli esperti di teologia e
legge islamica in repubbliche quali l’Iran. “Mullah”, come si vede nel «mare di
melma» esposto in pubblico dal caso Palamara, che si proteggono
vicendevolmente e trafficano diuturnamente all’ombra di un Consiglio
superiore della magistratura che più che essere un “organo di autocontrollo” è
una istituzione sacrilega dove si pratica il traffico delle carriere e delle
poltrone. La separazione delle carriere taglierebbe alla radice il sindacalismo
corporativo e, quindi, restituirebbe il Csm alla sua originaria funzione.

Naturalmente, separazione delle carriere e lotta alla simonia giudiziaria
comportano analoga separazione tra magistratura e giornalismo e contrasto
alla simonìa. Anche qui serve un muro invalicabile, visto che sono due
mestieri diversi ma che in Italia – e solo in Italia – si sono talmente identificati
da diventare un unico «mare di melma» insopportabile.

Luigi Amicone

15 giugno 2020

https://www.tempi.it/la-magistratura-in-un-mare-di-melma-e-con-lei-litalia-
intera/
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