La Ruota attraverso i secoli - Zangoni

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La Ruota attraverso i secoli - Zangoni
La Ruota attraverso i secoli
Per poter ripercorrere la lunga storia della “Ruota degli Esposti”, attiva in Europa per quasi sette secoli e
mezzo, conviene soffermarci un po' sulla comparsa della figura dell'Esposto fin dalle più antiche civiltà.

(…)

Anticamente il termine “esposto” equivaleva a neonato abbandonato. Di qui la necessità di un rapido
excursus sulla concezione morale e giuridica del bambino nelle civiltà precedenti il Cristianesimo.
L'abbandono dei figli indesiderati era comune a tutti i popoli: nell'Egitto come nelle Indie, tra i cartaginesi
come tra i persiani. Il bambino, specie se appena nato, era considerato in genere come un oggetto.
Presso gli ebrei, in cui non era permessa l'uccisione del neonato, vigeva, tuttavia, la libertà
dell'abbandono e della vendita dei figli illegittimi. Presso i greci, le leggi di Licurgo e di Solone, uno dei
sette sapienti del mondo ellenico, e quelle di Numa presso i Romani, non solo permettevano
l'abbandono ma autorizzavano persino l'infanticidio.

(...)

Presso i romani il padre che non voleva riconoscere un neonato con il rito di levarlo da terra (donde
sembra sia derivato il verbo allevare), lo inviava alla “columna lactaria” affinché fosse esposto al
pubblico, dove lo attendeva la morte per fame o di divenire schiavo di chi lo prendeva. Di qui il termine
“esposizione”, divenuto sinonimo di “abbandono”; come pure di “esposto”, sinonimo di “abbandono”, e
successivamente di figlio illegittimo non riconosciuto da entrambi i genitori. Secondo quanto narrano
alcuni storici, gli esposti, oltre ad essere trattati come schiavi, venivano sacrificati per propiziare il favore
degli dei, o dati in pasto alle fiere, o storpiati per fini speculativi. E Decio Albini, nel suo “L'evoluzione dei
brefotrofi” (Roma 1919), sottolineava a qual punto lo stesso imperatore Augusto fosse loro nemico,
inveendo con la nota esclamazione: “Per gli esposti sia gioia la morte e sia supplizio la vita!” Esisteva,
quindi, una cultura della morte, sorretta sia dall'egoismo degli individui, perché il padre si liberava di
qualunque figlio a lui non gradito, sia della società, perché venivano eliminati i neonati in eccesso o
bisognosi di cure. Tuttavia è doveroso ricordare l'esistenza anche di espressioni in favore della cultura
della vita, ed in particolare due: una singola ed una collettiva. Ippocrate, il più celebre medico
dell'antichità, imponeva ai suoi allievi divenuti medici, un giuramento di alto valore deontologico in difesa
della vita, fatto di vari articoli, tra i quali uno contro l'eutanasia: “Non darò medicamento letale ad un
malato, neanche se spinto dalle preghiere di qualsiasi: non sarò autore di questo reato”. Il successivo si
riferiva all'aborto: “Né per la stessa ragione praticherò l'aborto a donna alcuna, ma casta e pura da ogni
atto scellerato, sia la mia vita, sia la mia arte sempre presterò”. Espressione di protezione della vita da
parte della collettività erano, invece, gli abitanti della Beozia. Come ricorda Claudio Eliano, sofista e
scrittore (Variae Historiae, 11,7) a Tebe, capitale di quella regione, i bambini abbandonati venivano
affidati ad un magistrato perché provvedesse al loro allevamento.

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Ma fu solo l'affermarsi del Cristianesimo nel IV secolo a conferire una efficace difesa e protezione. Fino
a quel secolo, ed in parte anche nel successivi, nelle piazze d'Italia continuarono la loro funzione di
luogo di raccolta le “columnae lactariae”. Con Costantino iniziò il primo concreto influsso del
Cristianesimo. Infatti, nel 315 emanò una legge affinchè il fisco soccorresse i bambini abbandonati o di
genitori poveri; nel 318 condannò alla pena del parricidio qualunque infanticida. Ciò nonostante
autorizzava i genitori a vendere i loro figli. Valentiniano e Valente dichiararono omicida chiunque
uccideva un bambino, e vietarono l'esposizione. Ma soltanto con Giustiniano, nel VI secolo d.C.,
l'abbandono venne equiparato all'infanticidio. Nel frattempo il Cristianesimo, anche in forza del Concilio
di Nicea (325 d.C.), aveva dato inizio ai primi brefotrofi. Verso il 370 d.C. sorsero in Medio Oriente le
“Case di Dio” per orfani ed abbandonati: a Sebaste per opera di San Giovanni Crisostomo, a Cesarea
per opera di San Basilio. In Occidente, invece, il primo ospizio istituito per i neonati abbandonati fu il

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Xenodochio, fondato a Milano nel 787 dall'arciprete Dateo, come afferma il Muratori nelle “Antiquitates
Italicae”

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Ma la comparsa della “Ruota degli Esposti” era ancora lontana di quattro secoli, ed ebbe origine in
Francia. Questo semplice congegno, ideato appositamente per nascondere all'accettante il portatore di
un neonato, consisteva in un cilindro di legno nella cui cavità, attraverso un'apertura, veniva messo un
infante. Situato verticalmente nel vano di una finestra prospiciente la strada, ruotava su di un perno. La
persona addetta all'accettazione, avvisata dal campanello, faceva girare l'apertura e accoglieva il
neonato senza poter veder nulla. Alla fine del secolo XII, infatti, nell'Ospedale dei Canonici di Marsiglia
iniziò a funzionare la prima “ruota”, e precisamente nel 1188, seguita poco dopo da quella di Aix en
Provence e di Tolone. A diffonderla contribuì probabilmente il messaggio caritativo dei frati ospitalieri di
Santo Spirito, fondati dal monaco francese Guido di Montepellier nel 1178. Secondo la tradizione la
prima “ruota” in Italia avrebbe fatto la sua apparizione a breve distanza. Il Papa Innocenzo III, che nel
1198 aveva istituito l'Ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma, impressionato dal frequente
ritrovamento di cadaverini nelle reti dei pescatori del Tevere, volle che vi si accogliessero in esso anche
gli esposti. A tale periodo (la nascita giuridica dell'Ospedale è documentata da un “breve pontificio” del
1201) e a tale istituto sarebbe legata la prima “ruota” nella nostra penisola. Ciò appare possibile perché
Innocenzo III affidò al monaco francese, con bolla del 19 giugno 1204, la cura dell'ospedale da lui
fondato. Le “ruote” si diffusero in Francia, Italia, Spagna e Grecia, non nei Paesi germanici ed
anglosassoni.

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La diffusione fu tale che all'inizio della seconda metà dell'Ottocento si calcolava vi fossero in Italia circa
1200 “ruote”. Esistevano non solo in ogni Istituto centrale degli esposti del capoluogo di provincia, ma
anche presso le sue succursali: piccoli ospizi momentanei che successivamente inviavano gli ospiti alla
sede centrale. Basti pensare che esistevano in paesi come Minerbe nel Veronese, allora di circa
quattromila abitanti. Il più famoso fruitore della “ruota” fu Gian Giacomo Rousseau, che vi fece portare i
suoi cinque figli. Dalle accuse di Voltaire per tale comportamento, si difese nel suo libro “Le Confessioni”
scrivendo: “Affidando i miei figli alla pubblica educazione, non potendoli allevare io stesso, destinandoli
ad un avvenire di operai e di contadini piuttosto che di avventurieri o di cacciatori di dote, ritenni di
compiere un atto di cittadino e di padre e mi considerai un membro della Repubblica di Platone”.
Esposti famosi del Medioevo, ma non certo figli della “ruota”, furono, secondo gli studi di Tamara
Molinari, Gengis Khan e papa Gregorio VII. Pure un esposto sembra sia stato Bartolo da Sassoferrato,
uno dei più celebri giureconsulti italiani. Tre i figli della “ruota” vicini al nostro tempo, va ricordato
Vincenzo Gemito, uno dei più celebri scultori dell'Ottocento; ma non è escluso qualche altro nome
illustre, nascosto dalla adozione.

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La validità dell'antico strumento di consegna cominciò ad essere discussa all'inizio dell'ottocento.
Parallelamente alla crescita demografica europea (dal 1750 al 1850 la popolazione era salita da 100
milioni a circa 200) era avvenuto un notevole aumento degli esposti, creando gravi problemi economici
alle amministrazioni. Per far fronte alle aumentate spese si cercò di diminuire il numero degli assistiti. A
tale scopo nacque e si rafforzò in Francia l'idea di abolire la “ruota”, ritenuta un mezzo incivile e rozzo,
causa di numerosi abusi: in particolare quello di accogliere anche i figli legittimi. Si pensò di sostituirla
con un ufficio di accettazione, in cui l'impiegato, vincolato dal segreto d'ufficio, potesse accertare
dall'atto battesimale o dal certificato anagrafico, o da altre circostanze, il mancato riconoscimento da
parte della genitrice.

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In Italia l'aumento degli esposti, veramente impressionante, venne preso in considerazione
successivamente alla Francia. Erano circa centocinquantamila, quasi tutti di età inferiore ai dieci anni, gli
assistiti di ogni anno; e dai trenta ai quarantamila i neonati abbandonati annualmente, poi rapidamente
ridotti di numero per l'altissima mortalità, favorita dalle pessime condizioni dei brefotrofi, stessi, incapaci
di accudirli adeguatamente.

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Va ricordato che in questo periodo in Inghilterra, dove mai vi furono le “ruote”, l'infanticidio non faceva
notizia. Nel 1878 il 6% degli omicidi erano infanticidi: cadaveri di neonati, strangolati o uccisi in altro
modo, venivano rinvenuti negli immondezzai e nelle fogne. Era, quindi, quanto mai logico il timore che
tali delitti potessero verificarsi anche in Italia, qualora fosse stata abolita la “ruota”, tanto più che la gente
stentava a credere nel segreto d'ufficio. Gli antiabolizionisti, inoltre, temevano un aumento degli aborti
procurati e degli abbandoni in luoghi pubblici. Ma a queste preoccupazioni veniva risposto che ovunque
il medioevale congegno era stato abolito, il numero degli esposti era diminuito senza che aumentassero
i temuti misfatti. Anzi, in Francia, in qualche località erano diminuiti per il miglioramento dei soccorsi
assistenziali, creati a tale scopo e chiamati “presepi”. Finirono per prevalere le motivazioni degli
abolizionisti, favoriti dalla incapacità economica dei brefotrofi, causa non ultima del triste destino di molti
esposti. La chiusura avvenne in date diverse, poiché ogni provincia agiva “motu proprio” in forza della
“legge provinciale” del 1865 che, sollevando lo Stato dalle spese per l'infanzia abbandonata, le
addossava alle amministrazioni provinciali.

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Interessante seguire il succedersi cronologico della abolizione delle “ruote” espressione delle diverse
concezioni etiche, dei dubbi sulla bontà dell'iniziativa, della maggiore o minore sensibilità al problema.
La prima città italiana fu Ferrara nel 1867. L'anno successivo Milano e Como; nel ’69 Torino, nel ’70
Novara, nel ’72 Roma; nel ’73 Cosenza e Udine; nel ’74 Genova e Napoli; nel ’75, Firenze, Siena,
Verona e Vicenza; nel ’76 Rovigo. Senza dubbio l'avvenimento scosse i sentimenti dell'opinione
pubblica. Egregiamente lo esprime la lapide mirata all'Ospedale degli Innocenti di Firenze, in piazza
Santissima Annunziata, nella nicchia in cui era posta la “ruota”. Dettata dall'illustre letterato e senatore
Isidoro Del Lungo, ben leggibile ancor oggi, s'impone per il concetto espresso e per lo stile: “questa fu
per quattro secoli fino al 1875 la Ruota degli Innocenti, segreto rifugio di miserie e di colpe, alle quali
perpetua soccorre quella carità che non serra porte”.

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Con tutta probabilità la “ruota” di Padova fu l'ultima ad essere tolta nell'Italia settentrionale, poiché
nell'86 era ancora in uso e venne chiusa ufficialmente nell'88, sebbene si possa dedurre - da quanto
scrive il De Kunert - che sia stata tolta definitivamente qualche anno prima della fine del secolo.
Particolarmente degno di considerazione è il fatto che le “ruote”, scese a 306 nel 1901, risalgono a 464
nel 1906. Perché ne vennero riaperte ben centocinquantotto? Quali i motivi? Le ricerche storiche non ne
parlano.

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                                        LA RUOTA DI PADOVA

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LA RUOTA DI PADOVA VISTA DA VICINO

Le “ruote” furono, infine, tutte soppresse ufficialmente nel 1923 con il “Regolamento generale per il
servizio d'assistenza agli Esposti” del primo governo Mussolini.

                                                     FERNANDO FLAVIO ZANGONI

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