DELL'ISLAM di F.f - Sollevazione

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ERDOGAN:   L’ULTIMO                                 LEONE
DELL’ISLAM di F.f.

Riceviamo e pubblichiamo

Il nuovo ottomanesimo nella nuova fase strategica

Cercheremo di inquadrare le due grandi linee strategiche
dell’erdoganismo senza trascendere nell’antierdoganismo ma
tanto meno nel filoerdoganismo; la nostra prioritaria volontà
è quella di superare la classica interpretazione della
Sinistra radicale, laicista, progressista e globalistica, che
fa di Erdogan un campione del fascismo in salsa islamica.
Tenteremo di separare il giusto dall’errato, in base a una
concezione     dottrinaria     anzitutto    antiglobalista,
antiscientista e antilaicista. Il miglior modo per non
comprendere la cosiddetta “Turchia nera”, la Turchia profonda,
è proprio quella di leggerla con la lente deformante del
globalismo laicista di sinistra.
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Va premesso che la Sinistra rivoluzionaria turca, nelle sue
varie fazioni, ha sempre sostenuto esplicitamente il “Derin
Devlet”, lo Stato profondo kemalista e globalista e ha
rappresentato il kemalismo come un evento storico progressivo
nella storia della Turchia moderna.

Questo è     sostanzialmente avvenuto anche in piena guerra
fredda; i    neokemalisti della NATO erano giudicati, mutadis
mutandis,    come qui i vecchi partigiani giudicavano i nuovi
quadri del   PCI, “compagni che sbagliano”.

Il giudizio di consistenti componenti della Sinistra
rivoluzionaria curda verso il kemalismo non poteva essere e
non può essere, evidentemente, dello stesso tono, in quanto
Kemal e i suoi sterminarono quando poterono i curdi, in
omaggio ad un nazionalismo regionale anti-imperiale, di radice
alevita, che praticava senza scrupoli la pulizia etnica.

Ma, si tenga bene in mente, la Sinistra radicale curda
contesta il kemalismo su base etnica, non sul piano della
visione del mondo, che fu di fatto la medesima tra
progressisti curdi e progressisti rivoluzionari kemalisti.
Cosa fu in sostanza il kemalismo? Fu il “risorgimento” turco.
Disse Dostoevski che il cavourismo laicista e machiavellico,
creando con il supporto strategico franco-inglese, la piccola
Nazione italiana subalterna all’Occidente protestante e
massonico, annientò l’italianismo universale che aveva in Roma
eterna il proprio centro. Fu la morte dell’Italia, secondo il
grande pensatore russo.

Kemal Ataturk fu in sintesi il Cavour turco: come
quest’ultimo, utilitarista puro, fu un eterodosso religioso,
Kemal e i suoi radicalizzarono l’eterodossia alevita,
trasformandola in teologia politica laicista, tentando
astrattamente di cancellare secoli di pratica imperiale
ottomana.

E’ ora fondamentale comprendere una cosa. Il kemalismo lesse
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la storia ottomana come una parodia. L’ottomanesimo non si
identificava affatto con l’Islam, come Kemal volle far
credere.

L’ideologia kemalista descrisse l’impero come una sorta di
versione premoderna dell’Arabia Saudita, ma ciò non stava né
in cielo né in terra. Sin dalle origini gli ottomani si
consideravano una potenza europea, il periodo teocratico fu
infatti una breve fase nella storia ottomana. Gli ottomani si
occidentalizzarono al punto che, alla fine dell’800, sotto
‘Abd ul-Hamid II, l’impero garantì istruzione alle donne, si
dotò di tribunali laici e insegnò ai sudditi, tra i quali il
giovane Ataturk, a tenere la religione fuori dalla vita
pubblica.

Il kemalismo fu così, a differenza di quanto la Sinistra
rivoluzionaria turca e il globalismo occidentale sostengono,
un fenomeno di continuità storica e politica con
l’ottomanesimo, in un contesto globale in cui si affermava ad
Oriente quasi ovunque l’ateismo di stato, ad Occidente il
laicismo scientifico agnostico e nichilista.

Ad Ataturk interessava abbattere, come detto, la cultura
imperiale, affermando un nazionalismo panturanico; ma la
visione del mondo di Ataturk era il laicismo progressista,
neo-illuminista, come è tipico delle élite globaliste. La
generazione islamica, che darà vita all’AKP, fu duramente
perseguitata nel regime kemalista o neokemalista, la religione
era illuministicamente degradata a “affare privato”.

L’astuzia da politico decisionista di Erdogan, dopo un lungo e
faticoso cammino, porta prima alla delegittimazione politica
dei militari mercenari dello Stato Profondo e della NATO, poi
a una politica democratica di massa fondata sulla re-
islamizzazione strategica della società. Il “nuovo Sultano”
recupera dell’ottomanesimo quei momenti storici, rarissimi, in
cui l’Islam fu centrale. Il suo è però più un “nuovo
ottomanesimo” che un mero neo-ottomanesimo, come abbiamo già
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cercato di spiegare.

Vladimir Putin, Mahmoud Ahmadinejad e Erdogan sono gli unici
statisti che hanno opposto, e stanno opponendo, una convinta
Ideocrazia conservatrice al globalismo progressista-nichilista
e laicista controideocratico.

Rimane il grande punto interrogativo sul primo ministro
israeliano Bibi Netanyahu, che sembra veramente rivoltarsi
ogni giorno di più al Deep State. Ma, arrivando al punto, è
veramente Recep Tayyip Erdogan un fascista islamico?
Formalmente sì, si colloca oggettivamente, usando parametri
storici italiani, tra una DC di destra ultraconservatrice
antiprogressista e in parte antiliberale (Pella, Andreotti,
Tambroni, De Carolis) fondata sulla volontà di rappresentare
il ceto medio e un fascismo di stato vero e proprio.

Erdogan ricerca un consenso attivo di massa, mobilita la
gioventù, il suo Partito Giustizia e Sviluppo è un movimento
di giovani ragazzi e giovani ragazze quotidianamente presenti
sulle piazze della provincia e delle metropoli, negli ultimi
anni tra i milioni di nuovi iscritti all’AKP il 65% tra questi
ha meno di 25 anni.

Il “nuovo Sultano” ha i suoi guerrieri e i suoi potenziali
martiri sul campo, pronti a entrare in azione. La base sociale
erdoganista è rappresentata dalla piccola e media impresa e da
quella sterminata “Turchia nera“ in perenne lotta con la
“Turchia bianca” dell’elite globalista e occidentalista.

Sostanzialmente, però, il mito politico dell’erdoganismo
diverge enormemente dal fascismo storico e anche da possibili
soluzione integraliste religiose come il franchismo spagnolo o
come il fascismo romeno ortodosso degli anni ‘30. Il mito
politico di Erdogan è la pura trascendenza senza alcuna
macchia di eretica immanenza.

“Una Turchia che marcia sulla via di Allah è una Turchia che
non ha ostacoli sulla via dell’ascesa mondiale”, è il leiv
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motiv dell’erdoganismo di stato. Più Bin Laden che Mussolini.

Inoltre, ogni nostro giudizio sarebbe fuori luogo, o astratto,
verso questo statista di razza che nel giro di pochi anni ha
dotato la Turchia di un peso strategico che compete con quello
di Usa, Cina, Russia. E’ oggi, di certo, uno stretto alleato
di Angela Merkel.

Ma sino a pochi anni fa era alleato di Obama, in funzione
antirussa. Avremmo poi veduto come si sarebbe concluso quel
rapporto. Devoto sommamente alla pura trascendenza
muhammadiana, è anche maestro di Realpolitik come quasi nessun
altro nel contesto attuale.

Lo si chiami però come vorrebbe essere chiamato, per onestà,
anche qualora si sia suoi avversari: un piccolo e leale leone
dell’Islam.

L’erdoganismo ha mostrato, nei fatti, che la re-islamizzazione
dal basso è più forte e affascinante, per milioni e milioni di
giovani, di ogni nichilismo progressista e globalista. Di
questo dobbiamo dare a Erdogan il merito storico. Se sul piano
dei valori è di certo un conservatore o controrivoluzionario
su quello politico è un rivoluzionario puro.

STATI UNITI: DISUGUAGLIANZE
SOCIALI ED ELEZIONI di Jaehee
Choi e James Galbraith
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Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e
 risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono
 analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati
 degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo
 per i democratici.

Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e
risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono
analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati
degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo
per i democratici.

La crescente disuguaglianza economica negli Stati Uniti è
strettamente legata all’elevata concentrazione della proprietà
del capitale, in particolare patrimoni immobiliari e azioni
delle imprese, e all’aumento del prezzo di tali attività negli
ultimi decenni. Questi fenomeni a loro volta sono strettamente
legati alla trasformazione strutturale dell’economia Usa negli
ultimi cinquant’anni, in particolare il declino dell’industria
manifatturiera con lavoratori sindacalizzati nel Midwest,
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l’ascesa della finanza sulla costa orientale del paese e delle
attività ad alta tecnologia – soprattutto i settori legati
alle tecnologie dell’informazione e all’aerospaziale – sulla
costa occidentale.

A livello nazionale, questo processo ha avuto due effetti
principali sulla vita politica americana. Uno è l’ascesa degli
oligarchi e dei loro sostenitori, in particolare nel Partito
Democratico, inizialmente nell’era di Clinton, al punto che
oggi i miliardari contestano apertamente la nomina del partito
alla Presidenza. Gli oligarchi hanno dominato a lungo il
Partito Repubblicano, e così la politica americana è diventata
in larga misura una contesa tra miliardari di diverso tipo,
con la mediazione di altri miliardari che controllano i
principali media, sia tradizionali che social. Ciò è ovvio per
qualsiasi osservatore.

Molto meno ovvio è stato l’effetto delle nuove disuguaglianze
americane sull’esito delle elezioni presidenziali. Il
peculiare contesto istituzionale di quelle elezioni è che sono
indirette, condotte attraverso un Collegio elettorale – il
sistema di delegati che vota per il Presidente del
paese – suddiviso approssimativamente in base alla popolazione
ed eletto Stato per Stato, per lo più con un sistema
maggioritario: chi prende più voti, ottiene tutti i delegati
dello Stato. Se da un lato la crescente disuguaglianza a
livello nazionale non ha avuto un chiaro effetto sul voto
popolare ai due principali partiti, abbiamo dimostrato in un
nuovo studio che nelle elezioni più combattute a partire dal
1992, le crescenti disuguaglianze all’interno degli Stati
americani sono state un fattore decisivo nel determinare i
risultati Stato per Stato, l’esito nel Collegio elettorale, e
quindi la presidenza.

La logica di questa dinamica è nella base economica dei due
grandi partiti americani. Un tempo i democratici erano
un’alleanza multirazziale di lavoratori del Nord e bianchi del
Sud nell’era del razzismo istituzionalizzato. Sono diventati
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poi una coalizione di abitanti benestanti delle città, per lo
più professionisti e impiegati, e minoranze a basso reddito,
sia nere che ispaniche. Il partito quindi in linea di massima
prevale nelle due estremità della distribuzione del reddito,
la più alta e la più bassa. I repubblicani, anche se sempre
dominati dai ‘super-ricchi’ del paese, hanno ora la loro base
elettorale nelle aree suburbane, nelle città minori e nelle
aree rurali, in gran parte bianche e, in generale, con una
posizione centrale nella distribuzione del reddito.

Il nostro approccio a quest’analisi si basa sulle tecniche
sviluppate per misurare la disuguaglianza all’interno dei
paesi, utilizzando dati settoriali su salari e occupazione, e
applicati     per   oltre    vent’anni     nell’Inequality
Project dell’Università del Texas. L’adattamento di queste
tecniche ai dati sugli Stati Uniti ci ha permesso di
sviluppare buone stime sul cambiamento della disuguaglianza
all’interno degli Stati federali su base annua dal 1969 fino
al 2014 e successivamente. Precedentemente, le misure della
disuguaglianza all’interno degli Stati erano disponibili solo
per gli anni prima del 2000 su base decennale, poiché molti
Stati sono troppo piccoli per consentire al tradizionale
Current Population Survey di fornire stime affidabili della
disuguaglianza. Siamo stati così in grado di valutare la
relazione tra le mutevoli disuguaglianze economiche dopo il
1969 in ciascuno Stato e i risultati del relativo Collegio
Elettorale per tutte le elezioni di questo secolo, in
particolare 2000, 2004, 2012 e 2016.

Fino agli anni ’80, la disuguaglianza all’interno degli Stati
americani era generalmente maggiore nel profondo Sud, e
rifletteva il divario razziale, il sottosviluppo economico e
l’eredità della schiavitù nelle piantagioni. Negli anni più
recenti, il luogo della crescita maggiore delle disparità si è
spostato a Nord e a Ovest. La California, un esempio
importante, un tempo era principalmente bianca e suburbana, e
sosteneva in modo stabile i repubblicani, da Nixon a Reagan.
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Oggi è una scacchiera di ricchezza tecnologica, ispano-
americani e immigrati a basso reddito, tutti solidamente
democratici.

Le nostre misure annuali sulla disuguaglianza in ogni Stato
americano mostrano che i maggiori aumenti dal 1989 al 2014 si
sono verificati in California, New York, Connecticut, New
Jersey, Maryland, Nevada, Rhode Island, Massachusetts, Hawaii,
New Hampshire, Washington, Illinois e nel distretto della
Columbia. Tutti questi Stati hanno votato per Hillary Clinton
nel 2016. E dei venti Stati con il minor aumento della
disuguaglianza, tutti tranne due (New Mexico e Minnesota)
hanno votato per Donald Trump, mentre nel caso del Minnesota
il margine per Hillary Clinton è stato di un mero 1,2%.

Questa chiara relazione può far prevedere gli sviluppi in
corso nella politica americana. Gli Stati dell’Upper Midwest,
decisivi per l’elezione di Trump nel 2016 – Michigan,
Pennsylvania e Wisconsin – si stanno allontanando dalla loro
tradizionale fedeltà democratica, man mano che le loro città
decadono, la loro popolazione lavoratrice declina, le
minoranze invecchiano. Nel 2016 l’esito in questi Stati è
stato molto combattuto e nel 2020 potrebbero essere vinti dai
Democratici con un piccolo cambiamento nell’opinione pubblica
generale, ma nei prossimi anni saranno sempre più difficili da
conquistare o mantenere per i candidati democratici. Al
contrario, nel Sud e nel Sud-Ovest, e in particolare in
Arizona, Texas e Georgia, le città e le popolazioni non
bianche stanno crescendo rispetto alle zone suburbane e
rurali. L’Arizona potrebbe passare ai democratici (come già la
California e il Nevada) già nel 2020; il Texas e la Georgia
sono più lontani da questo ribaltamento e soggetti a estese
campagne di limitazione del numero degli elettori (una vera e
propria voter suppression) volte a scoraggiare il voto delle
minoranze e a prolungare il dominio repubblicano. Ma i dati
demografici sono inesorabili e quegli ostacoli cadranno con il
tempo.
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L’attuale dilemma per i democratici è che l’era di Roosevelt è
finita da tempo e al tempo stesso la coalizione di Clinton non
è più sufficiente, logorata dalla de-industrializzazione e
dalla perdita di peso del sindacato – mentre la transizione
del Sud non è ancora matura. Quindi i democratici nel 2020
hanno di fronte a sè la scelta tra tentare di recuperare
l’Upper Midwest da un lato o lavorare per accelerare la
nascita di un Sud democratico dall’altro. Ciascuna strategia è
legata a politiche specifiche, in particolare per quanto
riguarda gli scambi commerciali, le infrastrutture e i
cambiamenti climatici, che possono non funzionare per i
problemi dell’altra regione. E non vi è alcuna garanzia che le
politiche e le promesse elettorali del 2020 – e eventualmente
realizzate in caso di vittoria democratica – siano ancora
appropriati per il 2024 e oltre.

È possibile, naturalmente, che le elezioni del 2020 saranno
decise da altre questioni, come i gravi temi della guerra e
della pace, o forse le profonde divisioni dell’opinione
pubblica sul presidente in carica, Donald Trump. È anche
possibile – sebbene lo riteniamo molto improbabile – che una
crisi economica o una recessione possano sopraggiungere e
decidere il risultato. Ma nel caso in cui il mondo sopravviva
alla burrascosa apertura dell’attuale anno elettorale e
l’economia americana continui nella sua crescita lenta ma
costante, la cosa più probabile è che le linee di divisione
del 2016 si formino di nuovo, e che le elezioni siano
combattute sullo stesso terreno. In tal caso, possiamo
prevedere che i risultati siano coerenti con quelli degli
ultimi anni, con il Sud un po’ più conteso dai democratici
rispetto al passato e il Midwest un po’ più difficile da
conquistare per loro. Come nel 2016, un vantaggio democratico
nel voto popolare complessivo potrebbe di nuovo rivelarsi
inutile, perché nel sistema americano le elezioni
presidenziali sono combattute e decise negli Stati
contendibili – e questi non sono né i più egualitari né i più
diseguali.
* Fonte: sbilanciamoci.info
**Quest’articolo appare anche sulla rivista Intereconomics,
www.intereconomics.eu. James Galbraith e Jaehee Choi fanno
parte dell’University of Texas Inequality Project alla LBJ
School of Public Affairs dell’Università del Texas ad Austin.

U.S.A.   VERSO   UNA  GURRA
CIVILE? di Robert Garner*

Il 2 giugno scorso vi avevo inviato le mie riflessioni
sull’ondata di rivolte dopo l’assassinio di George Floyd a
Minneapolis.

Mi spiegavo l’estensione e la radicalità delle sommosse anche
alla luce della durissima “lotta in seno al vertice del
capitalismo americano”. Vi dicevo che “mai c’era stata negli
USA una simile spietata lotta intestina. Una divisione che
attraversa non solo la cupola del regime, ma tutti i suoi
segmenti, i diverso comparti statuali”.

Da allora le rivolte, a macchia di leopardo non sono mai
cessate, tra una tregua e l’altra i due fronti di strada hanno
continuato a darsi battaglia, usando le pause per meglio
organizzarsi. Al contempo, in vista di elezioni presidenziali,
lo scontro in seno alla classe dominante, lo scontro tra la
frazione trumpiana e quella anti-trumpiana si è approfondito.
Sarebbe un errore pensare che tra la lotta di strada e quella
nel palazzo non ci sia una correlazione.

Nella mia lettera così concludevo:

«Non è una tempesta in un bicchiere d’acqua, non andrà a
finire a baci e abbracci. Siamo seduti sopra un vulcano. Non
dimenticate che l’evento più profondo che ha segnato in modo
indelebile la storia degli Stati Uniti, non è stata la Guerra
d’Indipendenza del XVIII secolo bensì la cruenta guerra civile
di quello successivo. Tra le due armate c’è adesso solo una
guerra a bassa intensità. Chi può escludere che si trasformi
in guerra civile…»

L’ennesimo omicidio a sangue freddo dell’afro-americano Jacob
Blake da parte di un poliziotto, avvenuto a Kenosha, una
cittadina sobborgo della grande Chicago (e se prendono fuoco
le periferie di Chicago…) ha riacceso la miccia della rivolta.

Il fatto davvero nuovo questa volta è l’ufficiale e cruenta
entrata in scena di pattuglie di vigilantes bianchi, vere e
proprie milizie paramilitari, armate in un doppio senso:
ideologicamente perché composte da estremisti suprematisti
bianchi, di fatto perché dispongono di armi d’assalto d’ogni
tipo. Così ci spieghiamo l’assassinio, da parte dello studente
Kyle Rittenhouse di due manifestanti. Li ha ammazzati con un
fucile automatico Ar-15 (lo stesso che venne usato dal
suprematista Nikolas Cruz per massacrare 17 persone innocenti
nella strage di San Valentino in Florida nel 2018). Non era
solo ma faceva parte di un gruppo paramilitare di estrema
destra. Negli ultimi mesi ne sono sorti tantissimi in giro per
gli Stati Uniti. Si raccolgono in un fronte denominato “Blue
Lives Matter” [le vite dei poliziotti contano, NdT], e non
nascondo di essere tutti filo-Trump. Trump, va detto, a più
riprese ha tentato di prender la distanze da questi miliziani,
ma con scarso successo.

Non è un segreto per nessuno che questo “Blue Lives Matter”,
fondato da poliziotti in pensione, arruoli anche quelli in
servizio e che goda di ampie simpatie nella Guardia nazionale
e negli altri corpi armati statunitensi. Del resto, a conferma
della radicalizzazione razzista e suprematista nei corpi di
polizia statali e nell’esercito federale, non ci sono solo
diversi sondaggi ma diverse inchieste del Congresso, che tutte
confermano come la polarizzazione sociale e ideologica
razziale abbia permeato a fondo gli apparati repressivi dello
Stato.

Per concludere. Temo che una grande tempesta sia in arrivo.
Penso che siamo già dentro una guerra civile a bassa
intensità, che si protrarrà fino alle elezioni presidenziali
di novembre. C’è chi sostiene che svolte le elezioni tutto
tornerà come prima. Non penso affatto. La crisi economica e
sociale, anche a causa del Virus, è drammatica. E’ la crisi
profonda del capitalismo americano il vero carburante che
alimenta l’attuale scontro. Che si manifesti nuovamente come
scontro razziale non deve trarre in inganno. La questione
razziale è certo importante, ma lo è ancora più perché funge
da potente catalizzatore sociale e ideologico.

Azzardo un pronostico: chiunque sia il vincitore della
presidenziali, Biden o Trump, dopo le elezioni l’incendio
potrebbe diventare generale per cui, dalla bassa intensità ,
ci si incammininerà verso una guerra civile dispiegata.
* traduzione a cura della Redazione

LA VERITÀ IN BIELORUSSIA di
A. Vinco

*sullo stesso tema: BIELORUSSIA. SOSTENERE LUKASHENKO? di
Serguei Novikov

Secondo la stampa italiana mainstream (quindi anche quella
della sinistra globalista), Putin non vedrebbe l’ora di dare
avvio ad una lunga e permanente esercitazione militare in
terra bielorussa, che sia così da monito ad ogni futura
insorgenza nello spazio vicino.

In realtà, sia nella crisi di Minsk sia nella vicenda Navalny,
ciò che sta emergendo è la forte e centrale trazione
diplomatica e non militaristica esercitata dal Cremlino, di
contro ai propositi ben più aggressivi che la Cancelliera
(Kanzler) di Berlino e il rappresentante dell’UE, Josep
Borrell, stanno manifestando.

Questi ultimi, probabilmente già certi che i Dem, fanatici
russofobi anticristiani, tornino alla Casa Bianca per ridare
finalmente avvio a una lunga stagione di fuoco e tensione
nello spazio euro-russo assicurando alla Kanzler Frau Merkel e
alla moribonda Deutsche Bank il tanto sospirato e dirimente
Drang Nach Osten, sognano infatti una nuova Rivoluzione
Arancione o di velluto che però, spiace per loro…, non c’è, né
ci sarà.

Lo scenario bielorusso        è   ben   diverso   da   quello
dell’Euromaidan.

Non andrebbe dimenticato che in tempi recenti Lukashenko si
era distinto per una strategia di chiara dissimulazione
geoeconomica e geostrategica verso Mosca, aprendo su tutta la
linea a Pechino: in ballo non ci sono solo i due miliardi di
dollari che Xi aveva messo sul piatto per la “perla della Silk
Road Economic Belt”, un parco di futuristica avanguardia
tecnologica che la Cina avrebbe “donato” a Minsk, ma c’è
soprattutto una vera e propria linea strategica filoeuropea e
filocinese, portata avanti da Lukashenko negli ultimi tempi,
non gradita a Mosca.

Del resto, la stampa russa da tempo sottolineava come Minsk,
che aveva iniziato a importare petrolio occidentale mediante
la Lituania, si era anche messa a disposizione di Xi Jinping
per costruire un percorso di oleodotti alternativo a quello di
Gazprom, su cui Pechino è costretta obtorto collo per ora a
contare.

Il pesantissimo arresto, dello scorso luglio, di decine di
volontari russi di ritorno dall’Africa, dove si erano recati
per sostenere l’offensiva dell’Esercito Nazionale Libico di
Haftar, operato inspiegabilmente dal presidente bielorusso
avrebbe dovuto dire qualcosa alla stampa italiana, ma pare non
aver detto nulla.

Va del resto precisato che il più grande partner economico
della Bielorussia rimane comunque la Federazione russa con
circa il 40% dello scambio. La via bielorussa, quindi,
difficilmente anche su questo versante si potrà eccessivamente
rappresentare, anche in un futuro più o meno prossimo, come
eterodiretta da Berlino o da Pechino. Dmitry Peskov, di contro
ai propositi bellicosi di UE e Berlino ed in parte dello
stesso presidente bielorusso, ha gelato, proprio due giorni
fa, la controparte di Minsk con autentica doccia fredda
precisando che Mosca, allo stato attuale, non vede motivi per
un interventismo militare diretto in Bielorussia. Allo stesso
tempo, ha segnalato che non sarà tollerata alcuna interferenza
dei mercenari “Rivoluzionari” del Deep State euroatlantico sul
modello ucraino.

Ma anche tale prospettiva pare assai aleatoria e parlare di
Maidan bielorusso sarebbe forzato; lo stesso ministro degli
esteri russo Lavrov si è guardato bene dallo sposare su tutta
la linea la retorica del presidente bielorusso precisando che
le elezioni si sono svolte a Minsk “in modo non ideale” e le
iniziali proteste di massa sono state patriottiche.

Non a caso è atterrato in queste ore in Bielorussia Dragomir
Karic, console serbo di lungo corso, che sta trattando per una
uscita indolore di scena del presidente bielorusso. La stessa
Lituania ha risposto all’approccio diplomatico di Mosca,
ripudiando le fughe in avanti “rivoluzionarie” su cui ha
invece scommesso Berlino: il governo di Vilnius ha
immediatamente detto di non riconoscere la Tikhanovskaya, che
pur si trova in Lituania, come presidente.

Sia comunque chiaro che la stessa Tikhanovskaya rimanda a
figure che in un modo o nell’altro risponderebbero in ultima
istanza al capitalismo di stato moscovita o a Gazprom.

Al tempo stesso, però, va assolutamente dato il grande merito
storico a Lukashenko di aver rifiutato, nello scorso gennaio,
centinaia di milioni di dollari offertigli da OMS e FMI nel
caso in cui avesse imposto il lockdown in Bielorussia.

Quali conclusioni trarre da un quadro così caotico e mutevole?
Anzitutto che la stampa globalista italiana, russofobica nel
dna, prende come al solito lucciole per lanterne e i
sovranisti, “russofili di destra”, quasi in un strano gioco di
coppia, ne seguono le indicazioni, per arrivare a posizioni
solo apparentemente differenti. Globalismo di sinistra e
sovranismo di destra costituiscono anche in tal caso i
classici due volti della stessa moneta.

Immaginare un asse Pechino-Mosca è pura fantasia, come è pura
fantasia immaginare l’interferenza russa nella competizione
elettorale statunitense. Mosca non può avere alleati
strategici, per storia e conformazione geografica. Ci
torneremo su, se vi sarà modo, anche in relazione al contesto
italiano.

In secondo luogo l’opposizione a Lukhashenko non è affatto, in
larga maggioranza, russofoba e antiputinista. Tutt’altro.
Quando iniziarono le prime rivolte contro i risultati
elettorali, va ricordato, decine di combattenti patrioti della
Federazione russa erano, contro ogni logica, detenuti nelle
prigioni militari di Minsk e in Bielorussia lo sapevano tutti.

In terzo luogo, infine, va collegata la decisione del
presidente Putin di lasciare trasportare il malato Navalny in
un ospedale tedesco con l’approccio assolutamente diplomatico
riservato alla crisi bielorussa: siamo ancora in una fase
assolutamente interlocutoria, tutta tatticistica, in vista del
risultato elettorale del Novembre americano.

Solo la Cancelliera, come è spesso avvenuto nella storia dello
stato maggiore germanico, confonde la strategia con la fase
tattica. Ben più diplomatico e assennato l’Eliseo francese,
non a caso. E lo stesso Presidente del Consiglio Conte, per
quante critiche gli si possano rivolgere su altri piani, non
ha giocato male le sue carte geopolitiche.

L’UE, meraviglioso esperimento di pace, ha bisogno di guerre e
continue Rivoluzioni Colorate per la propria sopravvivenza, da
Belgrado ‘99 ad Ucraina 2014 gli esempi non mancano: per
questo l’élite euro-germanica è gemellata con il clan
russofobo e bellicista dei Dem e dei neocons statunitensi e
per questo non possiamo considerare Conte un integrazionista
euro-germanico.

Quattro anni di sostanziale pacifismo trumpiano, più vicino di
quanto si creda alla Presidenza del Consiglio di Roma, hanno
non a caso azzerato il peso internazionale della
economicistica e mercantilistica UE condannandola a una stato
di insipienza politica.

Infine, l’approccio diplomatico del Cremlino, con le fiamme
alle porte di casa, può anche sembrare eccessivamente
moderato; ma è questa una regolarità e una costante della
storia russa. Nei momenti immediatamente precedenti a una
probabile, per quanto non ancora certa allo stato attuale,
pianificazione di grande aggressione strategica contro la
Russia, il Cremlino ha sempre concentrato al massimo le forze
al proprio interno evitando inutile dispendio di energie.

BIELORUSSIA:                            SOSTENERE
LUKASHENKO? di                        Sergeui A.
Novikov

Le elezioni svoltesi in Bielorussia hanno registrato una
schiacciante vittoria per Lukashenko ed una secca sconfitta
per i suoi avversari filo-occidentali.
Abbiamo chiesto ad uno dei più cari amici russi il suo punto
di vista.

In quanto parte del PCUS (Partito Comunista dell’Unione
Sovietica) il Partito Comunista Operaio Russo ha
un’organizzazione comunista in Bielorussia.

Essi criticano fortemente Lukashenko come fondatore e pilastro
del capitalismo di stato bielorusso, il quale non ha niente a
che fare con il socialismo affatto. Tuttavia, nel dibattito
tra la sinistra bielorussa prima delle elezioni per decidere
se votare contro tutti i candidati, oppure sostenere
Lukashenko, i nostri compagni hanno optato per quest’ultima
opzione.
Il motivo principale è che essi non vogliono un nuovo Maidan
(il rovesciamento politico a Kiev nel febbraio 2014) che
condurrebbe la Bielorussia a far parte della NATO, nonché ad
un’ampia privatizzazione del settore statale e tagli allo
stato sociale.

Per quanto riguarda i manifestanti anti-Lukashenko, ci sono
elementi dell’élite ed elementi popolari.

Ci sono, tra i manifestanti, molte persone assolutamente
sincere, che sono scontente della burocrazia di Lukashenko e
della crescente mancanza di democrazia, ma ci sono anche
elementi dell’élite, che strumentalizzano questi giusti
sentimenti per i loro fini. Va precisato che questi ultimi non
sono così radicali come in Ucraina, ma sono tutti molto molto
pro-occidentali e pro-americani.

Come sappiamo, il capitalismo di stato molto spesso si difende
in modo molto brutale. Tutti ricordiamo (e non dobbiamo
dimenticare) quel che accadde in Cina nel 1989. Non è un caso
che i primi a congratularsi con Lukashenko per la sua
cosiddetta vittoria sono state proprio le autorità cinesi.

Ed è qui che io vedo il problema principale.

Intendo la quastione del “male minore”.

Nella sinistra rivoluzionaria, c’è chi sostiene che, dal
momento che nessuna delle due parti in Bielorussia ha qualcosa
a che fare con il socialismo, allora non dovrebbe nemmeno
porsi la domanda su chi sostenere, perché tutti gli sforzi e
tutte le energie politiche dovrebbero essere concentrate
sull’alternativa socialista.

Di più, essi dicono, se uno è socialista, la cosa principale
da fare è denunciare con forza entrambe le parti e la loro
politica procapitalista, per quanto diversa essa spossa
essere. La cosa principale, essi dicono, è che siccome il
socialismo può essere raggiunto solo da una rivoluzione
violenta, la cosa più auspicabile è la situazione che aggrava
tutte le contraddizioni capitalistiche così da suscitare la
lotta proletaria, proveniente dal basso, piuttosto che agire
per il ripristino del socialismo dall’alto o di limitarsi alla
difesa minimale di alcuni dei suoi elementi.

Tuttavia, l’esempio dell’Ucraina mostra che i liberali e i
nazionalisti       escogitano      la     loro    cosiddetta
decomunistizzazione. Come risultato, molte persone di sinistra
hanno lasciato l’Ucraina dopo il febbraio 2014 e sono dovute
scappare in Russia chiedendo l’asilo politico.

I servizi segreti dell’Ucraina controllano e monitorano
strettamente tutti i comunisti attivi e le persone di
sinistra, apertamente sospettati di collaborazione con Mosca.
Inoltre, l’amministrazione ucraina, prima Poroshenko e ora
Zelensky, hanno distrutto completamente l’industria ucraina e
l’agricoltura. Basti dire che da quest’anno l’Ucraina ha
iniziato ad importare pomodori dalla Turchia.

Nessuno poteva nemmeno immaginare queata cosa, anche solo due
o tre anni fa, visto che la terra in Ucraina è molto fertile e
di solito esportavano prodotti agricoli piuttosto che
importarli. Ora Zelenskyj ha imposto una completa
privatizzazione delle terre. Il risultato è che la classe
operaia e la classe contadina sono state completamente fatte a
pezzi. Gli scioperi sono pochissimi e anche se ce ne sono,
sono piuttosto spontanei e spesso falliscono. Così, a prima
vista, lo spostamento filoamericano dell’Ucraina ha portato
all’emarginazione di ogni movimento comunista e di sinistra.

Lo stesso in Russia, dove Putin ha celebrato la sua vittoria
lo scorso luglio dopo il referendum sulle cosiddette modifiche
costituzionali, dove il punto principale era quello che può
rivendicare alla presidenza ancora per due mandati di 6 anni
ciascuno. Quando ho provato a denunciare questa frode
politica, ho sentito molte persone pronte a sostenere Putin a
qualsiasi costo perché loro non voglio tornare agli anni ’90,
cioè al capitalismo iniziale, molto brutale e pro-americano.
Alcuni di loro hanno addirittura affermato che sono
orgogliosi, che Putin non si arrende nella sua battaglia
contro il mondo dell’imperialismo. E, naturalmente, tutti
questi sentimenti sono stati motivati ​​dalla paura di un
Maidan in Russia.
Adesso si fa molta fatica a dimostrare che Putin è anch’egli
un liberale e che non c’è una grande differenza tra lui e i
suoi avversari filoamericani.

Per quanto riguarda la Bielorussia, i comunisti bielorussi,
per quanto mi riguarda, fanno troppo affidamento su
Lukashenko.

Per quanto concerne la disputa territoriale tra Bielorussia e
Federazione Russa, non mi pare sia una questione davvero
importante, tale che possa provocare una pericolosa crescita
del nazionalismo. L’economia bielorussa è strettamente
associata con quella russa, molto più profondamente di quanto
non fosse stato con l’Ucraina. Non si creda che l’eventuale
sconfitta di Lukashenko trasformerà l’Ucraina in un nuovo
fantoccio degli Stati Uniti come è successo all’Ucraina.

Io spero che i nostri compagni bielorussi capiscano la
necessità di concentrarsi sul movimento operaio e sulla lotta
di classe invece di concetrarsi nel sostenere il cosiddetto
“male minore”. Ma mi rendo conto che questa soluzione rischia
di essere astratta, facile da difendere in teoria, ma molto
più difficile da mettere in pratica. Basti dire che se sei
contro Lukashenko, precipiti immediatamente nel campo di una
minoranza molto marginalizzata e proliberale.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, penso che la
vittoria di Lukashenko alle elezioni sia stata un pò truccata,
ma in realtà avrebbe vinto comunque. Forse non avrà ottenuto
l’80%, ma il 60 o anche il 55, si. E sebbene a molte persone
in Bielorussia non piaccia Lukashenko, meno ancora piacciono i
suoi 4 avversari. A proposito, uno degli oligarchi russi ha
affermato il mese scorso, che se per difendere Putin è
necessario privare del diritto di voto i giovani russi, quelli
che non sanno e nemmeno vogliono sapere cosa accadeva negli
anni ’90, allora che lo si faccia per evitare nuove difficoltà
e instabilità. Egli ha poi rettificato l’affermazione, ma è
piuttosto interessante come esempio per capire il dilemma: se
qualcun altro sale al Cremlino, perderemo la relativa
stabilità e persino un po ‘di benessere: chi è disposto a
tanto per avere la democrazia?

Per concludere, penso che i nostri compagni bielorussi abbiano
commesso un errore nel sostenere Lukashenko. Questo non è
tuttavia un grave errore. Può essere corretto se correttamente
compreso, anche se sono ben consapevole che l’opzione giusta
per la lotta di classe e per la campagna antiimperialista
contro UE e USA e contro gli imperialismi russo e cinese è
davvero molto difficile da perseguire. Può costare molte
vittime e marginalizzare ancora di più il partito, ma è
l’unica opzione che guardi al futuro, e non invece al passato.

LA   RIVOLUZIONE  COLORATA
CONTRO PUTIN PARTE DALLA
SIBERIA? di F. F.
Riceviamo e pubblichiamo.

Decine   di   migliaia   di   persone   sono   scese   in   piazza
nell’Estremo Oriente russo per il terzo sabato consecutivo per
l’ultimo raduno in un movimento di protesta senza precedenti
che sta guadagnando slancio e sta prendendo una piega contro
il Cremlino.

Entrando ora nella loro terza settimana, le proteste nella
regione di Chabarovsk al confine con la Cina sono iniziate
dopo l’arresto del governatore Sergei Furgal, accusato per
aver commissionato tre omicidi nel 2004 e 2005. Questa
settimana il movimento di protesta è stato stimolato dalla
decisione del Cremlino di martedì di sostituire Furgal con un
nuovo governatore che non ha mai vissuto nella regione.

Eletto in una vittoria a sorpresa nel 2018 a seguito di un
voto di protesta, Furgal è diventato rapidamente il cosiddetto
“governatore popolare”. La sua diffusa popolarità è cresciuta
dopo che ha fatto diverse mosse populiste una volta in carica
e ha aiutato il suo Partito liberale democratico della Russia
(LDPR), di destra radicale, a prendere il controllo della
città di Khabarovsk e dei parlamenti regionali l’anno
successivo. Dopo essere stato arrestato e portato a Mosca il 9
luglio, circa 40.000 persone sono scese in strada nella città
principale di Khabarovsk, a circa 6.100 chilometri a est della
capitale russa. Da allora ci sono stati raduni, con
manifestazioni principali che si svolgono il sabato. Sabato
scorso, le stime hanno messo i numeri totali a circa 50.000 in
una città con una popolazione di 600.000.

Nell’ultimo sabato, i giornalisti che hanno riportato le news
delle proteste sin dall’inizio hanno affermato che il rally
della giornata è stato di gran lunga il più grande, anche se
le stime sono variate notevolmente. Mentre i canali dei social
media a favore dell’opposizione hanno collocato il totale a
circa 90.000, le autorità di Khabarovsk hanno affermato che
6.500 persone hanno partecipato al rally.

Il movimento di protesta non ha leader e la polizia aveva sino
a giorni fa lasciato sempre libertà di manifestazione in
quanto si tratta di una protesta pacifica, non violenta. Ma
dopo che il presidente Vladimir Putin ha nominato Mikhail
Degtyaryov (sempre in forza al LDPR) governatore ad interim
per sostituire Furgal lunedì, il tono delle manifestazioni è
cambiato questa settimana, assumendo un chiaro intento
insurrezionale.

Al centro del movimento di protesta c’è la richiesta che il
processo dell’ex governatore Sergei Furgal sulle accuse di
omicidio venga tenuto a Khabarovsk.
Per prima cosa il nuovo governatore ha rifiutato l’invito a
incontrare i manifestanti, che avevano chiesto di ascoltare le
loro preoccupazioni e le loro richieste.
Sabato, i manifestanti si sono incontrati nel loro solito
luogo di ritrovo in Piazza Lenin, di fronte all’edificio
dell’amministrazione regionale nel centro della città, prima
di partire per una marcia di due ore in un clima festoso. La
musica risuonava da macchine parcheggiate, i manifestanti
distribuivano snack e acqua, e macchine di passaggio e autobus
pubblici suonavano il clacson per il supporto.
Mentre i manifestanti camminavano, i loro canti includevano
“Furgal era la nostra scelta”, “Il Cremlino non è nazionalista
né patriota”.    All’inizio di questa settimana, il Primo
Ministro Mikhail Mishusti ha promesso di stanziare 1,3
trilioni di rubli ($ 18,2 milioni) in finanziamenti federali
per la regione, secondo Degtyaryov.
“Le proteste sono diventate molto più radicali”, ha detto
l’analista politico Alexander Kynev, che ha partecipato alla
manifestazione di sabato. “Puoi sentire che l’attenzione è
rivolta al presidente.” Ciò potrebbe comportare problemi per
il movimento lungo la strada. Già questa settimana, dopo che
Degtyaryov è stato nominato alla carica, ci sono stati segnali
che le autorità potrebbero iniziare a reprimere.

Lo scorso giovedì la polizia ha accusato due manifestanti di
organizzare raduni non autorizzati. Secondo la legge russa, le
manifestazioni devono essere concordate in anticipo con le
autorità, che non hanno approvato nessuno dei raduni di
Khabarovsk.
Sempre lo scorso sabato, a Mosca, il leader della Sinistra
radicale antifascista Udalzov, nel corso di una manifestazione
non autorizzata ha parlato arringando i suoi di “colonialismo
fascista moscovita” nei confronti di Chabarovsk e della
Siberia. Il quadro è ora chiaro:

a) manifestazione spontanea di protesta (Chabarovsk) a causa
di un errore politico del presidente VVP che rimuove un ottimo
governatore della destra populista, Furgal;

b) immediata influenza con i suoi agenti da parte di una non
meglio precisata potenza straniera, come dichiara D. Peskov
(analista vicino al presidente), per disarcionare il putinismo
Conservatore e precipitare i russi nel nuovo abisso
progressista lgtb+;

c) obiettivo strategico finale di Rivoluzione anti-putiniana
 che sappia portare nel medesimo fronte il nazionalismo
spontaneo filorusso con il sovversivismo colorato della
sinistra radicale.

Quale potenza internazionale può avere interesse al
separatismo siberiano dal “fascismo di Mosca”? Con ogni logica
probabilità, la Cina globalista tatticamente alleata su tutta
la linea al Deep State angloamericano e alla Deep Church
romana.

Si iniziano già a vedere gli effetti della Rivoluzione
Democratica globale Biden, pacifista, antifascista,
antirazzista, egualitaria, progressista. Il mondo lo sta
sperimentando nelle sue carni lacerate e smembrate: dal Covid
19 alle furiose e selvagge violenze anticristiane e sataniche
negli USA. Mosca è l’obiettivo strategico finale della
congrega anticristiana e russofoba della Sinistra liberal
globalista. La Russia ha già sperimentato troppe inutili,
catastrofiste Rivoluzioni Colorate nella sua storia. Non vi
dovrà e non vi potrà essere spazio per un’altra catastrofe
russa.

LE VERITÀ SULLA RIVOLTA DI
BELGRADO di Goran Kadijević
Riceviamo   e
volentieri pubblichiamo.

Sulla rivolta in atto a Belgrado contro il governo di
Aleksandar Vucic (leader del cosiddetto Partito Progressista
Serbo) viene detto e scritto in Italia tutto e il contrario di
tutto.

L’attuale ribellione popolare non è un fulmine a ciel sereno;
essa sale sulle spalle delle proteste politicamante
trasversali dell’inverno scorso scattate per condannare la
politica di capitolazione sulla questione del Kosovo-Metohja.

Tra le tante sciocchezze, abbiamo ad esempio letto che i
rivoltosi contestavano il governo per la sua scelta di
ammorbidire la quarantena. Niente di più grottesco.

Come ben spiega questo reportage le radici della sollevazione
sono ben più profonde ed i motivi politici ben diversi.

Malgrado noi si sia lontani dalle opinioni politiche
dell’autore (riconducibili ad un nazionalismo serbo-ortodosso
radicale) abbiamo tradotto e pubblichiamo la sua
corrispondenza poiché getta un diverso ma illuminante fascio
di luce su quello che bolle in pentola in Serbia, ovvero nel
cuore stesso dell’area balcanica.
Non è del resto esatto che la rivolta in corso abbia, come
scrive il corrispondente, un univoco segno. Essa raccoglie,
per quanto quella nazionalistica sia quella dominante, diverse
correnti d’opinione contrarie al governo.

                            * * *

I mezzi di informazione occidentali dipingono l’attuale
rivolta serba come una sollevazione causata per lo più dalle
bugie del Governo Vucic sui dati del contagio. Ciò è falso.

La rivolta serba contro la biosorveglianza totalitaria
globalista e progressistica dell’elite del Deep State ha avuto
inizio nel momento stesso in cui il progressista Vucic impose
mesi fa il cosiddetto lock down all’intera Serbia.

La rivolta serba, essendo una rivolta politica conservatrice,
non è iniziata una settimana fa, ma mesi fa. Bosko Obradovic,
guida carismatica dell’Opposizione nazionalista serba,
occupando per due settimane di sciopero della fame i gradini
di fronte alla Camera dell’Assemblea Nazionale, era di fatto
il primo uomo politico della storia contemporanea, ben prima
del presidente statunitense Donald Trump, ben prima del
presidente Bolsonaro, ben prima dell’irruzione sulla scena del
BLM e di antifa americani e ben prima delle varie voci di
scienziati alternativi al progressismo totalitario sanitario,
a contestare la Rivoluzione colorata planetaria in atto.

E’ tipico del nazionalismo Serbo precorrere i fatti e le
grandi tendenze storiche: Gavrilo Princip Draza Mihajlovic
Ratko Mladic, guerrieri puri andati al martirio per essere
stati troppo in anticipo sui tempi, strateghi politici, prima
che militari, antagonisti totali, irriducibili, ai
rivoluzionari colorati della loro epoca, hanno perso, sono
stati demonizzati nella memoria eterna di più generazioni ma
hanno però aperto una nuova epoca storica e spirituale come
veri e propri eroi cosmici.

Il mondo dopo di loro è stato completamente differente dal
mondo prima di loro.

Bosko Obradovic non negava evidentemente mesi fa il fenomeno
Covid o l’epidemia di massa, ma contestava la strategia
politica da autentica guerra mondiale che i GAFA della Silicon
Valley con l’alleanza tattica elitista di Cina, Unione Europea
e altri paesi islamici stavano fomentando “contro il grande
popolo russo, contro Putin e contro i Conservatori di tutto il
mondo” (B. Obradovic Marzo 2020). E’ certamente vero che il
fattore immediato e scatenante sia stato rappresentato dal
fatto che il noto artista e patriota serbo, il sign. Ljubisa
Duric, sarebbe stato lasciato morire senza sostegni sanitari
nell’ospedale di Zemun, ma è altrettanto vero che
l’insofferenza verso il Partito Progressista di Vucic cova in
Serbia da settimane.

E’ del resto significativo che in questi giorni di aperta
Rivolta Conservativa, i media progressisti di Vucic stiano
sfoggiando una isteria russofoba e putinofoba che è tipica
dell’elitarismo dei Dem e dei Liberal della Sinistra
angloamericana e del britannico MI6. Ciò testimonia la piena
appartenenza ideologica di Alexander Vucic e dei socialisti,
suoi storici alleati, nel fronte del Deep State e del
superstato massonico globale. L’ambasciatore russo di stanza a
Belgrado è intervenuto nella questione il 9 luglio, cercando
di placare la furiosa russofobia del fronte elitista Vucic,
dichiarando che è “perverso” escogitare e propagandare
immaginarie connessioni russe dietro la rivolta popolare.

Non a caso, tra i manifestanti infiltratisi che provengono
dall’estero vi sarebbero cittadini ucraini, anarchici antifa
occidentali e attivisti di vari paesi islamici: è certo quindi
che alcuni elementi del Governo progressista Vucic stiano
fornendo la logistica per sabotare dall’interno la rivolta
conservatrice e avviare una nuova Rivoluzione Colorata che
rafforzi ancora di più il partito russofobo, già purtroppo
assai forte a Belgrado.
Dei presunti “nazisti russi” che dal Donbass starebbero
arrivando a Belgrado in sostegno degli anti-Vucic non c’è
invece traccia sebbene i mercenari progressisti, che hanno
imposto da mesi il terrore sull’intera Serbia, li annuncino in
arrivo un giorno sì e l’altro pure. Nei primissimi giorni di
rivolta popolare, la gioventù serba innalzava nelle strade i
tradizionali cori per il Kosmet Serbo e per la libertà
dell’Eroe Serbo Ratko Mladic e la rivolta pacifica e
democratica conservatrice sceglieva come proprio simbolo il
segno della croce di rito ortodosso in omaggio al defunto
artista, il sign. Liubisa, in contrapposizione ai simboli
rivoluzionari globalisti di BLM, attivisti antifa e violenti
agitatori.

Bandiere patriottiche serbe e croci cristiane ortodosse
campeggiano ovunque in questi giorni di rivolta. Come ha
reagito Vucic a questo magnifico spettacolo di pacifico e
Democratico patriottismo Serbo? Ha detto che stavano marciando
sulle strade della Serbia “i soliti cetnici fascisti” e che
non si deve mischiare religione e politica senno si è troppo
Conservatori fascisti, non si è buoni progressisti!

E’ assai strano che un uomo politico come Vucic che sino a
pochissimi anni fa si autorappresentava come il portavoce del
nazionalismo cetnico più ortodosso, arrivando alla personale
dedica di una delle più trafficate vie di Beograd al Generale
Mladic, benedetto quest’ultimo peraltro dal “santo vivo”
Patriarca Pavle I, si proponga nei fatti oggi come l’alfiere
del Deep State globalista-Russofobico dei vari Soros Biden e
Clinton.

Evidentemente Vucic si sente idealmente più vicino agli antifa
occidentali che bruciano le immagini di Arcangelo Michele e
Chiese cristiane. Vucic è anche il presidente che ha abdicato
su tutta la linea alla fallace storiografia dei “vincitori”
dei tribunali penali globalisti, filoislamisti e progressisti:
ha presenziato a Srebenica seguendo le indicazioni della
sinistra russofoba e filoturca, ben sapendo che quel luogo fu
il centro operativo strategico del terrorismo islamista di Al
Qaida sostenuto su tutta la linea dal Deep State clintonista e
che oggi Daesh è presente nelle stesse zone con il silenzio
complice di UE; ha sorvolato sul massacro pianificato di
centinaia di migliaia di innocenti serbi, sul genocidio delle
Krajine, sulla deportazione etnica antiserba e anticristiana,
sulle terribili stragi di massa della NATO accorsa in difesa
del terrorismo islamista; a differenza del grande e rimpianto
premier Kostunica, non ha mai trattato i serbi della Republika
Srpska come i nostri fratelli che sono e non ha mai contestato
con una seria squadra di giuristi l’ingannevole lavoro di
Tribunale Haag; ha mostrato autentico disprezzo verso la più
grande ideologa vivente del Conservatorismo nazionale serbo,
Biljana Plavsic, e totale indifferenza verso la persecuzione a
cui è sottoposto da anni Milorad Umenek, detto Legija,
distintosi in anni e anni nel fronte di salvezza serba e
contro-terrore, mentre è nota a livello internazionale la
vicinanza di Vucic al serbofobo Recep Erdogan; non ha
apportato nessun avanzamento tattico sulla questione del
Kosovo nonostante il tacito appoggio di Trump e Putin e in
definitiva in Kosovo il martirio di serbi come
l’islamizzazione filoturca continuano giorno dopo giorno a
ritmo forzato.

L’era Vucic è anche l’era in cui le manifestazioni di
eterofobia promosse direttamente dai Rotschild e condannate
dai patriarcati di Mosca e Belgrado, definite Gay Pride,
vengono imposte con metodi da tirannia e con dispiegamento di
forze da Stato di Polizia penale alla maggioranza dei serbi la
quale, nel migliore dei casi, non apprezza affatto simili
carnevalate fuori luogo e fuori tempo.

Le rivolte antiVucic sono quindi, pur nel contesto specifico
della difesa dal terrore planetario della nuova Rivoluzione
colorata mondiale Covid-19, un fenomeno nazionale serbo, in
continuità con le varie insurrezioni per il Kosovo serbo.
Assumono però evidentemente, dato il contesto, un significato
politico internazionale e mondiale.

Siamo chiaramente di fronte alla prima forma di Contro-
rivoluzione colorata, che esce dal territorio della minoranza
silenziosa impaurita e psicologicamente assoggettata ai media
della sinistra “evoluzionistica” scientista globalista.

Potrà questa   Contro-rivoluzione     colorata   avere   successo
pratico?

Dipenderà dal fatto che una eventuale elite nazionale
conservatrice serba sappia essere cinica, spregiudicata,
prediposta a ogni tattica, come hanno mostrato di esserlo le
elite progressiste nichiliste Covid -19. Ricordiamo Giulietto
Chiesa che nel dicembre 2018, in sostegno all’insurrezione di
quei giorni, scrisse: “Di che colore sarà la Rivoluzione
Serba?”.

Noi auspichiamo che, se verrà, sarà cristiana, conservatrice e
veramente serba, dunque antirivoluzionaria, antinichilista,
antiprogressistica, antiglobalista, anticolorata.

Nel ricordo sempre vivo di Liubisa Mauzer Savic (Bijeljina 7
giugno 2000) e di tutti i caduti

PUTIN FASCISTA? di A. Vinco
Dal 25
giugno al 1 luglio si è tenuto in Russia un referendum per
modificare la Costituzione che consente a Putin di restare in
sella fino al 2036. Risultato: un plebiscito di sì. Gran parte
della sinistra russa non solo si è opposta a quello che ha
definito un “plebiscito truccato”, ha denunciato il pericolo
di una “dittatura fascista”.

Ieri,    4   luglio,    a   Mosca,    vicino    all’edificio
dell’Amministrazione presidenziale della Federazione Russa,
circa 900 persone si sono radunate e hanno dichiarato di non
riconoscere i risultati del voto sugli emendamenti alla
Costituzione, in quanto organizzati a loro dire in un formato
fraudolento che non si presta al controllo pubblico oggettivo.
Udalzov Mosca Protesta anti-Putin 4 Luglio 2020

Il coordinatore del Fronte di sinistra Sergey Udalzov ha detto
ai giornalisti che l’opposizione sta chiedendo che le autorità
non consentano più un tale formato per il voto, poiché tale
pratica distrugge l’istituzione elettorale e porta alla
dittatura fascista sotto forma di “Democrazia protetta”.

Udalzov ha anche chiesto di fermare la persecuzione dei
rappresentanti dell’opposizione russa, di rilasciare
prigionieri politici e di revocare il divieto di svolgere
azioni di massa.

Tra i cittadini che sono giunti all’AP della Federazione Russa
c’erano rappresentanti del Fronte di Sinistra, del Soviet di
Mosca, del Partito Comunista di Gennady Zyuganov, del Partito
della Causa, di “Altra Russia”, di “Solidarietà civile”, di
Antifa Russia, di OKP e altre organizzazioni antifasciste e di
Sinistra radicale.

I manifestanti hanno fatto una lunga fila lungo l’edificio
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