Italo Fiorin, La buona scuola. Processi di riforma e nuovi
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Italo Fiorin, La buona scuola. Processi di riforma e nuovi orientamenti didattici, La Scuola, Brescia, 2008 di Ermanno Puricelli Il volume di I.Fiorin recentemente pubblicato dall’editrice La Scuola appartiene al genere piuttosto frequentato della letteratura pedagogica riformista. Il titolo scelto appare tanto impegnativo quanto rischioso: “La buona scuola. Processi di riforma e nuovi orientamenti didattici.” Pare ovvio che, per non trasformarsi nel più banale “Le opinioni di un professore sulla buona scuola”, il libro dovrebbe essere denso di riflessioni teoriche e concettuali su ciò che è scuola e buona scuola; oppure dovrebbe fondarsi su una montagna di dati empirici per mostrare, nei fatti, in che senso la buona scuola si distingue da quella cattiva. In caso contrario, si rischia di scadere nell’ennesimo esercizio di immaginazione pedagogica, vale a dire di ricostruzione fantastica del puzzle della scuola, attraverso un’oculata scelta di tasselli ritenuti coerenti con la propria idea. Lasciamo naturalmente ai lettori il giudizio se, e quanto, I. Fiorin sia riuscito ad evitare questa deriva. Ma il libro non è solo questo: come lascia intendere il sottotitolo, esso si presenta come lavoro di chiarimento della trama di pensieri che sono alla base delle Indicazioni nazionali per il curricolo (2007). Quello che abbiamo di fronte è, dunque, un libro che si innesta in un dibattito e si propone come manifesto per l’azione, il che ci induce a pensare che, alla fine, il suo scopo neppure tanto nascosto è quello di invitarci a pensare che la buona scuola è quella che ha tentato di realizzare il governo Prodi. E’ su questo aspetto in particolare che abbiamo cercato di concentrare la nostra attenzione, anche in senso critico, il che non significa, ovviamente, che non vi siano tesi e opinioni condivisibili. Il volume si articola in 6 agili capitoli, che esplorano ordinatamente tutti i principali aspetti della realtà scolastica, necessariamente in modo rapido. I temi trattati riguardano i processi di riforma, il curricolo nella scuola dell’autonomia, la scuola dell’apprendimento, la qualità dell’insegnamento, i contenuti dell’insegnamento e la cultura organizzativa della scuola. Per quanto concerne il concetto di “buona scuola”, l’Autore non ci tiene troppo in sospeso ed entra subito nel merito: “Oggi sono disponibili due grandi modelli…che sembrano porsi come reciprocamente alternativi, quello funzionalista e quello antropocentrico.” Il primo intende la scuola al servizio del progresso economico e considera corretto che sia il mercato a dettare gli indirizzi; il secondo si fonda invece sulle esigenze profonde di sviluppo della persona. La buona scuola è, naturalmente, quella antropocentrica1, senza dimenticare però le esigenze della professionalità e del mercato. Con questa prima mossa non solo ci vengono fornite le coordinate generali di tutto il discorso, ma ci viene anche offerto un saggio di tecnica narrativa di tipo binario: così come per la scuola in generale, anche per ogni aspetto particolare, c’è il buono e il cattivo, tra cui occorre scegliere. Data questa impostazione, come non essere d’accordo, di volta in volta, con quanto proposto? Come scegliere l’alternativa sbagliata, senza provare poi il tormento dei sensi di colpa? La forza di 1 Perché non chiamarla “personalista”, considerato che una visione solo antropocentrica e, dunque, naturalistica non sembra tale da contrastare adeguatamente il funzionalismo? 1
una parte considerevole dell’arte pedagogia consiste appunto in questo: nell’affermare l’esistenza di un “buono a priori”, senza tormentarsi troppo con l’onere della prova. Ma veniamo ai particolari. Il primo capitolo mette sul tappeto il problema della riforma dei sistemi scolastici e, secondo un clichè ormai consolidato, ne rintraccia la necessità nei grandi mutamenti del contesto socio-culturale generale. La tesi che si sostiene è che, per la scuola, i cambiamenti saranno un dato perenne, con buona pace di chi dentro la scuola ci lavora: “Quello che stiamo vivendo non è un momento congiunturale, ma rappresenta uno scenario da considerarsi durevole e la precarietà che lo caratterizza non è eliminabile.”. (p.16) Posto che sia davvero così, ci si chiede se non sia possibile evitare almeno quei cambiamenti che si verificano ad ogni cambio di governo e che non ci sembrano strettamente necessari. A questi grandi mutamenti di contesto, sono da ricondurre, sul piano nazionale, i processi cambiamento del sistema scolastico, a partire dalla Lg. 59/77 per arrivare alle Indicazioni nazionali per il curricolo (2007). A giudizio dell’Autore, il nodo centrale di tutto il processo di riforma, in Italia, è dato dal tema dell’autonomia (a cui si affiancano quello delle competenze e della qualità dell’esperienza di apprendimento): “Il momento più rilevante del processo di riforma in atto in Italia ha un riferimento temporale e normativo preciso: nel 1977 viene approvata una legge che…riconosce alle singole scuole l’autonomia.” (p. 32) La conseguenza decisiva dell’autonomia, sul piano educativo e didattico, consiste nel venire meno dei Programmi nazionali come strumento di governo degli orientamenti didattici delle scuole, sostituiti per un verso dalle Indicazioni nazionali e per l’altro dal POF. A questo proposito, I. Fiorin si lascia andare ad affermazioni a dir poco opinabili: “Lo strumento che, almeno in parte, sostituisce i Programmi nazionali e che viene elaborato dalle istituzioni scolastiche è il Piano dell’Offerta formativa, e come sua componente essenziale, il curricolo.” (p. 34). E poi a rincarare la dose, affinché non si insinuino dubbi: “…il ‘cuore’ didattico del POF è il curricolo, nel quale i docenti manifestano i loro orientamenti metodologici, esplicitano gli obiettivi del loro insegnamento, delineano i percorsi didattici, le soluzioni organizzative, le attività extracurricolari, le iniziative di verifica e valutazione” (p.35). Il curricolo, dunque, nella visione di Fiorin rivela un’insospettata natura onnivora: più che esserne il cuore, sembra assorbire in sé l’intero POF. Ma che cosa legittimerebbe queste affermazioni? L’art. 3 del DPR 275/99: “Il Piano è il documento fondamentale dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le scuole adottano nell’ambito della propria autonomia”. In tutta sincerità, facciamo fatica ad individuare in queste righe le ragioni dell’ entusiasmo curricolare di Fiorin. Ciò che a noi sembra di capire è che il cuore del POF è dato, piuttosto, dall’identità culturale e progettuale; quanto poi al versante della progettualità, quella curricolare si pone accanto, e non sopra, a quella extracurricolare, educativa e organizzativa. E poi a ben vedere si parla, più correttamente, di progettualità curricolare e non di curricolo, che ne è piuttosto il prodotto; il quale, peraltro, per “entrare” nel POF dovrebbe essere elaborato a priori e astrattamente, in contraddizione con quanto Fiorin afferma nel prosieguo, in merito alla centralità dell’apprendere, alla programmazione euristica, ecc. Che cosa pensare di tutto questo? Forse che dietro l’enfatizzazione del tema curricolare vi sia una presa di posizione di tipo ideologico, nei confronti delle Indicazioni nazionali del 2004. Per verificare l’ipotesi è necessario passare al capitolo secondo, dedicato appunto al curricolo nella scuola dell’autonomia. Dopo aver esplorato la materia curricolare nei suoi diversi aspetti - dalla definizione, alla natura, alle teorie, ai modelli didattici 2
ai percorsi, ecc. - si arriva al nodo centrale: quello dei rapporti tra curricolo e Programmi, da un lato, e tra curricolo e Indicazioni, dall’altro. L’assioma indiscusso su cui poggia tutto il ragionamento è che il curricolo rappresenta lo strumento ideale per la realizzazione dell’autonomia scolastica e, dunque, il complemento necessario delle Indicazioni nazionali. Questo assunto crea, però, al nostro Autore qualche imbarazzo, a causa di una lunga militanza dello stesso curricolo sotto le bandiere dei Programmi (dalla fine degli anni ’70 al 2004). Può essere il curricolo servitore di due padroni? Delle due l’una: o quelli degli anni ’70 non erano veri Programmi ma delle “quasi Indicazioni” ed il curricolo solo un “quasi curricolo”; oppure le attuali Indicazioni nazionali per il curricolo non sono vere Indicazioni ma dei “quasi programmi”, il che significa che il curricolo non è adatto a servire delle vere Indicazioni (o, quantomeno, necessita di profondi rimaneggiamenti). Anche se la risposta corretta è evidentemente la seconda, Fiorin imbocca senz’altro il primo corno dell’alternativa. Parlando dell’ultima generazione di Programmi egli scrive: “Progressivamente il loro tasso di prescrittività diviene sempre più debole e, di conseguenza aumenta la discrezionalità della scuola….Siamo, perciò, in presenza di Programmi prescrittivamente ‘deboli’, ma la loro debolezza è, in realtà, il loro maggior pregio.” (p. 53) Trattando poi del curricolo, ci assicura: “Non si è, ancora, pienamente entrati nella scuola ‘del curricolo’, ma si sta decisamente superando la scuola dei programmi” (p. 53). A questo punto dalla penna gli sfugge una perla: “In questo senso è sintomatica l’espressione ‘programmazione di tipo curricolare’.” (p. 54). Dunque: quello a cui abbiamo lavorato in questi anni non era il curricolo, ma una “programmazione di tipo curricolare” – solo con le Indicazioni del 2007 è arrivato il vero curricolo. A questo punto serve, però, un ultimo gioco di prestigio: dato che con l’autonomia scolastica alle scuole è conferita l’autonomia progettuale, non è più il caso di parlare di programmazione di tipo curricolare; bisognerà parlare di progettazione curricolare. Con l’approvazione delle leggi sull’autonomia: “I programmi nazionali cessano la loro funzione e viene riconosciuta l’autonomia progettuale (oltre che didattica, organizzativa e di ricerca) delle scuole.”. Nella sostanza non cambia nulla, ma le parole hanno una loro importanza. Forse bisognerebbe riflettere più in profondità sul senso della progettualità e, più in particolare, sul fatto che essa consiste nel darsi da sé i propri obiettivi e rendicontare responsabilmente. E’ chiedere troppo? A questo punto, ci sembra chiaro perché, nell’ art. 3 del DPR 275/99, Fiorin riesca a leggere una sola parola, curricolo. Ciò che si intende avvalorare è una tesi di continuità: l’autonomia in fondo c’è sempre stata, per questo il passaggio dai Programmi alle Indicazioni nazionali, non può e non deve modificare più di tanto e i rapporti tra lo Stato e le scuola autonome. Rispetto a questa posizione il nostro dissenso è totale. Se Fiorin è per la continuità, noi ci schieriamo per la frattura con il passato e siamo per la ricerca di nuovi equilibri nei rapporti tra Stato e scuole autonome. Arriviamo così al capitolo terzo, dove si affronta la questione del passaggio dalla programmazione curricolare, in senso lato, alla progettazione dell’azione didattica da parte dei docenti (p.76). La progettazione dei docenti consiste nel delineare in termini molto concreti gli obiettivi, i contenuti di esperienza, le modalità metodologiche ed organizzative ritenute più efficaci (p.75). Tale progettazione, per essere buona, deve mettere al centro l’apprendimento; per rendere protagonista l’apprendimento, i docenti dovrebbero attenersi al seguente principio generale: “…insegnare il meno possibile, far scoprire il più possibile.” (p. 80). Il capitolo quarto è dedicato, poi, a tema della qualità dell’insegnamento: la buona scuola è la scuola del buon insegnamento, che è tale se produce il buon apprendimento, ossia un apprendimento significativo sotto il profilo cognitivo, 3
affettivo, scientifico e socio culturale. A questo punto l’Autore si pone il problema di tratteggiare le figura del buon insegnante, che viene identificato in colui che, oltre a conoscere la propria disciplina, sa comunicare ed entrare in relazione con gli studenti; il buon insegnante è, naturalmente, anche chi è esperto nei metodi didattici e nelle strategie. E, qui, il discorso cade sulla questione dell’individualizzazione e della personalizzazione. Nello specifico Fiorin avanza una garbata critica alle pretese della riforma Moratti di aver introdotto una novità: “Sembra tuttavia improprio ritenere che la novità consista nella affermazione di una concezione personalistica dell’educazione e, al suo interno, del primato della persona. In realtà la centralità della persona, affermata dalla nostra Costituzione, ha ricevuto una forte sottolineatura già dalla legge dell’autonomia…” Giusto. Bisognerebbe però ricordare che la legislazione italiana, dalla Costituzione in giù, è piena di affermazioni di principio tanto condivisibili quanto regolarmente disattese. Ciò che la riforma Moratti rivendica come proprio non è la novità di un principio, quanto piuttosto il tentativo di dar vita ad una scuola, capace di concretizzare e rendere praticabili questi principi. Ovviamente, il dissenso si estende anche al modo in cui Fiorin disegna i concetti di individualizzazione e personalizzazione: “[Nel caso dell’individualizzazione] Il punto focale è costituito dai contenuti dell’insegnamento e la preoccupazione prioritaria è che tutti possano possederli. L’attenzione alla personalizzazione sposta, invece, il focus dal piano dei contenuti di apprendimento a quello delle modalità messe in atto dal soggetto per farlo proprio.” (134) Libero, naturalmente, chiunque di dare alle parole il senso che preferisce, ma non è questo ciò che intendevano per personalizzazione le precedenti Indicazioni nazionali. Se è vero che l’individualizzazione è da intendersi come una strategia didattica con finalità compensative, non è così per la personalizzazione. Non si tratta di una strategia didattica complementare all’individualizzazione, ma di un’opzione pedagogia generale, che porta a ridisegnare completamente la scuola, non solo la didattica. Il capitolo quinto, intitolato “Insegnare che cosa?”, è dedicato al problema dei saperi disciplinari da trasmettere. I temi messi in campo si riferiscono alla distinzione tra discipline scientifiche e discipline scolastiche e alla presenza all’interno delle discipline scolastiche di una componente sintattica (metodo) e di una componente concettuale (materia). L’invito è quello di spostare l’insegnamento dalla materia al metodo, in quanto è ciò che è richiesto dal paradigma dell’apprendimento, senza dimenticare però i contenuti. I contenuti naturalmente devono essere ridotti, tenuto conto dei criteri della significatività epistemologica (puntare sui nuclei essenziali o fondanti) e culturale. Detto questo, si passa alla questione dell’interdisciplinarità. Secondo Fiorin, le discipline, se intese rigidamente, possono portare alla frammentazione del sapere, dannosa per la comprensione dei problemi. Per questo è necessario pensarle come “spazi aperti”, in senso interdisciplinare; quest’ultima è la modalità per realizzare momenti di sintesi, non secondo la logica dei centri di interesse o dei centri di argomento, ma alla luce del paradigma moriniano della complessità (p.163). Le discipline, in altri termini, sono chiamate ad interagire per dare risposte a problemi complessi. Nella parte conclusiva del capitolo si affronta la questione delle competenze e delle unità di apprendimento. Sulla scorta del concetto OCSE/PISA (DeSeCo), le competenze sono definite come qualcosa di trasversale rispetto ai settori di esperienza ed alle discipline. Ciò che caratterizza le competenze, in quanto apprendimenti, è il loro essere complesse, trasferibili in contesti diversi e incrementabili. Proprio perché incrementabile: “La competenza si presenta come un già e un non ancora, presente da subito, irraggiungibile sempre.” E’ questa la ragione per cui è bene parlare di “traguardi” per lo sviluppo della/delle competenze. Rinviamo direttamente al testo per quanto si dice a proposito delle unità di apprendimento. 4
Un esame critico approfondito di quanto Fiorin afferma all’interno di questo capitolo richiederebbe lunghe analisi; ci limiteremo solo a due osservazioni. In merito al tema dell’unità del sapere, la linea di pensiero sviluppata da Fiorin, a parte l’estrinseco richiamo a E. Morin, ci sembra rispondere ad una logica bottom/up: si parte della frammentazione disciplinare, considerata come dato insuperabile e vincolante anche dal punto di vista didattico, per individuare i punti di “collegamento” e le aree di “trasversalità” tra le discipline. Il fatto è che, se si parte da questo presupposto assunto acriticamente, l’unificazione del sapere resterà sempre problematica, a livello didattico. La logica seguita, in proposito, dalle Indicazioni 2004 è sostanzialmente diversa: lì si partiva dal presupposto dell’unitarietà dei saperi, visti come una mappa organica in cui ciascun nodo rinvia sempre ad ogni altro. A partire da questo reticolo realmente ”aperto, diventa possibile, di volta in volta, realizzare gli approfondimenti specifici e settoriali richiesti, in relazione a determinati problemi e competenze. La logica seguita, in altro termini, è del tipo top/down: dalla totalità del sapere, sempre presupposta, è sempre possibile muovere in direzione dell’approfondimento e della specializzazione. Per quanto riguarda le competenze, sebbene sia condivisibile la definizione OCSE/PISA (DeSeCo), non si può fare a meno di notare il persistere, nel pensiero di Fiorin, di una interpretazioni oggettuale delle competenze, che contrasta con una visione correttamente personalistica o, come preferisce, antropocentrica: “Le competenze sviluppate nell’ambito delle singole discipline concorrono a loro volta alla promozione di competenze ampie e trasversali.” (p. 170). Come non vedere in queste affermazioni una visione della competenza come oggetto (sia pure mentale) che si costruisce come un puzzle, pezzo dopo pezzo? Ma non si era detto che le competenze sono un “già” sempre e “non ancora”, il che significa relazioni di mondo ogni volta complete e, al tempo stesso, incomplete? Chiarire perché e come questa lettura inadeguata delle competenze sia da mettere in relazione con la questione dell’unità del sapere, è cosa che qui non è possibile affrontare. Il capitolo 6, che conclude il volume, si intitola “Insegnare e apprendere in una scuola comunità educativa” e si occupa della cultura e degli assetti organizzativi della scuola. L’alternativa che ci viene proposta è quella tra la scuola azienda (che siamo invitati a contrastare) e la scuola che si ispira, invece, al principio della comunità educativa: quest’ultima costituisce l’alternativa valida, in quanto rappresenta l’habitat ideale per la piena valorizzazione della persona. Il discorso si sposta successivamente al tema di che cosa significhi essere buoni insegnati, dirigenti e genitori nella scuola intesa come comunità. Ma non è nemmeno accennata la classica distinzione tra comunità e società, per cui non si capisce se l’autore sia un organicista oppure un personalista. 5
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