DA BABELE ALLA CITTÀ ETERNA

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                     DA BABELE ALLA CITTÀ ETERNA
                La storia del corpo delle città. Il centro storico come invariante e accumulo

Nel 1979 ho partecipato a un convegno in Svizzera sulle città nel Medio Oriente in cui
c'era una sezione organizzata in occasione della pubblicazione della traduzione ecu-
menica della Bibbia. Si è trattato di un avvenimento culturale di grande importanza,
non solo perché la traduzione ecumenica significò ebrei e cristiani insieme a studiare
per decenni il testo biblico, ma anche perché alcuni dei passaggi più tradizionali della
Bibbia sono usciti abbastanza mutati da questo lavoro filologico.
In quel convegno svizzero ci si interessò particolarmente del paragrafo 9 della Genesi.
Il paragrafo 9 della Genesi riguarda la "torre di Babele", ma la parola che viene nor-
malmente tradotta da secoli con torre, acquista il significato di torre solo a partire da
un certo momento del Medio Evo, il periodo in cui esiste l'immagine di torre, esistono
le torri. Mentre, nell'aramaico o nel greco delle trascrizioni più antiche e più attendibi-
li della Bibbia, la parola che corrisponde a torre, in realtà, ha un significato molto più
vasto e in quel convegno gli studiosi concordavano sul fatto che la parola moderna che
può corrispondere più propriamente a quel vasto significato è città. Quindi non biso-
gnerebbe parlare di "torre di Babele" ma di "città di Babele". Gli uomini, cioè, comin-
ciarono a costruire una città per raggiungere Dio e il cielo, non a costruire una torre.
L'immagine di una costruzione che va in alto verso il cielo è posticcia e impropria, è
un'immagine "aggiunta" che dal lavoro filologico sui testi originali della Bibbia è stata
soppressa. Gli uomini di quel tempo pensavano di raggiungere Dio attraverso una cosa
chiamata città; al tempo stesso Dio non voleva che questa "cosa" venisse costruita.
Quindi il discorso diventa complesso, ed è un discorso che mi permetterei di ripropor-
re in questa sede perché probabilmente questa immagine di "città di Babele" è un'im-
magine molto moderna, è un'immagine su cui ci ritroviamo nelle nostre città (Roma,
Pisa, Palermo, Napoli, Venezia) molto più facilmente di quanto non ci si ritrovassero i
traduttori della Bibbia di qualche secolo fa. Dentro a questa "città di Babele" ci sono
delle parti costruite pochi anni fa, della parti costruite qualche decennio fa, delle parti
costruite qualche secolo fa, delle parti costruite qualche millennio fa e che nei millen-
ni, secoli, decenni, anni hanno avuto avventure, vicende, trasformazioni, costruzioni,
distruzioni, ricostruzioni e via di seguito. In quelle zone dove questi complessi hanno
un certo spessore siamo soliti segnare delle zone urbanisticamente contraddistinte con
la lettera A rossa, e queste zone le chiamiamo "centro storico". Si è parlato giusta-
mente dei rischi negativi dell'etichetta "centro-storico", infatti, non è detto che queste

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zone siano dei centri. Queste zone sono state tutta la città fino a un certo momento;
oggi, forse in qualche caso, lo sono ancora. Monteriggioni, per esempio, credo sia sem-
pre costituita da quattro case dentro le sue mura; ma nella maggior parte quelle case
che una volta erano tutta la città ora sono un pezzo di complessi urbani molto più gran-
di, e non è detto che quel pezzo sia il centro. Palermo (come Bari, del resto) è una città
in cui nell'Ottocento è stata assunta una direzione unica (o quasi) per l'ampliamento
della città, e la zona che era la città precedente è rimasta isolata. A Palermo o a Bari
quando i palermitani o i baresi dicono andiamo in centro non pensano di andare nel
centro storico ma pensano di andare in un punto della città costruita nell'ultimo seco-
lo a Palermo, o in un punto di collegamento tra la città morattiana e la città del vente-
simo secolo a Bari che è ben lontana dal promontorio della città antica. In altri casi,
invece, la città si è sviluppata intorno a quello che era il suo nucleo nei secoli prece-
denti, e quindi il termine "centro" per le zone storiche è topograficamente, e spesso
anche socialmente e culturalmente, pertinente. Questo mi serve per enunciare una tesi
che io credo fondamentale: quella che i centri storici sono forse fra tutte le parti delle
nostre città e del nostro territorio le meno generalizzabili.
Ogni zona storica, centro o non centro che sia, richiede uno studio specifico, una indi-
viduazione di quelle che sono le sue caratteristiche.

Il chitarrone e il restauro: la città storica va suonata
Proprio per il fatto che queste zone sono la sovrapposizione di secoli, non è legittimo
considerarle tutte alla stessa maniera, come se tutti i secoli passati fossero uguali. Non
posso considerare un gruppo di case del periodo musulmano alla stregua di un gruppo
di case del periodo aragonese, o come un gruppo di case del periodo borbonico. Se sta-
bilisco una data e faccio un unico fascio di tutto ciò che è prima di quella data com-
metto un grave errore. Per dimostrarlo vorrei riferirmi a un'altra questione (che cito
approssimativamente): una decina di anni fa, nel Museo degli strumenti musicali di
Ginevra, è stato restaurato un chitarrone del seicento. In un museo come quello è
ovviamente consueto restaurare strumenti musicali. Questo chitarrone però richiedeva
studi e ricerche particolari, così il lavoro di restauro del chitarrone fu pubblicato.
Il restauratore (di cui purtroppo non ricordo il nome) inizia la sua relazione con una
frase che cito spesso: Per restaurare uno strumento antico bisogna innanzitutto cono-
scere bene la musica che veniva eseguita su quello strumento.
Il restauro di uno strumento, quindi, lo si compie per far suonare lo strumento, non per
metterlo in vetrina come soprammobile. E una volta restaurato, lo strumento deve
essere suonato con le sue musiche, perché uno strumento non suonato invecchia,
perde armonici, si trasforma in un pezzo di legno con alcune corde; restaurare uno
strumento musicale comporta un lavoro di conoscenza delle musiche che con esso
venivano eseguite, e contemporaneamente di ricerca o di formazione di qualcuno che

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continui a suonarle. Un museo di strumenti antichi è un museo in cui ogni settimana,
in un giorno fissato, ci sono delle persone esperte che vanno a fare dei concerti, non
solo per insegnare al pubblico come erano le musiche di quell'epoca, ma perché gli
strumenti hanno bisogno di essere suonati, e se non sono suonati il lavoro di restauro
non è completo. Ecco, io credo che dal chitarrone possiamo passare alle zone storiche,
alle architetture storiche, ai quartieri storici e ai centri storici, comunque li vogliamo
chiamare. Restaurarli è un'opera necessaria perché restaurarli significa farli vivere
oggi. Per restaurarli bisogna studiarli e conoscere molto bene la loro storia, e sapere
che cosa se ne può fare, perché quegli edifici, quel quartiere, quella parte di città con-
tinuando a vivere possa essere anche un museo.
Ho sempre rifiutato la definizione di museo come "zona morta"; il museo è vivissimo.
In Italia alcuni musei sono mal tenuti e mal gestiti, e funzionano male, ma i musei che
funzionano bene (anche nel senso più tradizionale e rigido della parola museo) non
sono affatto morti. I Musei Vaticani in Italia o il Museo delle Scienze a Londra non sono
assolutamente morti, pur essendo - credo - Musei nel senso più rigido della parola.
Quindi ritengo che noi urbanisti (e con noi i tanti che collaborano alla redazione e allo
studio di progetti urbanistici o di progetti che riguardano le zone storiche) dovremmo
tenere un atteggiamento di grande modestia proprio per conoscere, per studiare, per
dividere le varie parti del centro storico a seconda delle tante zone e delle tanti com-
ponenti che vi partecipano.
Passando a quello che operativamente può corrispondere a questa impostazione direi
che nella diversità con cui i problemi delle zone storiche devono essere posti ci sono
però alcune componenti che si ripresentano oggi (più o meno sempre e più o meno
dappertutto) e che sono dovute proprio al fatto che per molti decenni abbiamo consi-
derato le zone storiche come zone qualunque. Le abbiamo considerate come zone in
cui, a seconda di quella che era la città intorno, poteva avvenire una cosa o l'altra con
distruzioni, trasformazioni, conservazioni, commercializzazioni, terziarizzazioni, consi-
derando il fatto della storicità di queste zone non come una invariabile caratterizzante,
ma come un impiccio da superare in qualche modo. Ciò è molto strano perché di soli-
to colui che tiene i beni in cassaforte non li considera un impiccio ma una ricchezza, e,
all'occorrenza,   li   tira   fuori   dalla   cassaforte   per   utilizzarli   come   ricchezza.
Indubbiamente si può pensare che oggi cominciamo a muoverci con una certa distin-
zione, e cominciamo ad esaminare i vari problemi con coscienza del fatto che essi sono
diversi dalla normale routine di come adattare le zone A dei piani regolatori a quelle
che sono le zone B, le zone C, le zone D, e via di seguito.

Dalla mobilità all'accessibilità
Tra questi problemi uno dei più pesanti è quello cui ha dedicato la sua relazione
Silvestrini e cioè quello che (almeno dal rapporto Buchanan in poi) siamo abituati a

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chiamare mobilità. Io credo che la parola mobilità sia molto pertinente, perché rap-
presenta il fatto che nelle nostre città, a differenza di altre epoche e a differenza di
qualche altra parte del mondo, si abita a caso e si lavora a caso. Uno abita dove ha
trovato casa e lavora dove ha trovato lavoro. Se tra questi due posti ci sono un chilo-
metro o 10 chilometri è un fatto che viene dopo ed è indubbio che proprio per questa
casualità del nostro modo di insediarci e del nostro modo di vivere, la mobilità aumen-
ta in maniera enorme (il telelavoro è ancora un'attività lontana dalle grandi masse della
popolazione). Io credo che a parità di automobili (ammesso che si possa fare una sta-
tistica di questo genere) la mobilità e l'uso della automobile è andata enormemente
aumentando nel corso del tempo.
Mio nonno, ammesso che avesse già l'automobile, la usava infinitamente meno di quel-
lo che la uso io, perché tra la casa e il lavoro e il tempo libero e tutte le attività che
faceva mio nonno c'era una logica di relazione di spazio che oggi è completamente
scomparsa proprio per la filosofia con cui negli anni '60 è stata introdotta la parola
mobilità. La mobilità è stata intesa come "categoria" che permette, tramite l'automo-
bile, di andare da un punto qualunque ad un altro punto, che permette di superare
anche la rendita fondiaria, perché si può andare ad abitare in campagna, si può anda-
re a lavorare e a passare il tempo libero dove si vuole. Il principio è che con l'automo-
bile ci si dovrebbe muovere da qualunque punto in qualunque momento senza nessun
vincolo. Attualmente, però, si è visto che tutto questo è subordinato al fatto che ci
siano poche automobili, molte strade e molti parcheggi. Se così non fosse (e non lo è
per definizione) l'automobile finisce per essere un lento strumento con cui ci si muove,
a volte, a fatica. Io credo che siano molto interessanti gli studi che recentemente
hanno cominciato a essere fatti in area francese e tedesca sull'introduzione di un prin-
cipio diverso, quello della "accessibilità". Cioè sostituire al concetto che ci si deve muo-
vere il fatto che si deve accedere: si deve accedere al luogo di lavoro, si deve accede-
re al luogo di residenza, si deve accedere alla scuola, si deve accedere alle zone stori-
che. Se ci pensate la differenza è grossa perché anche se poi alla fine, comunque, ci si
muove in automobile o in tram o con qualche altro mezzo, con il concetto di accessibi-
lità non si indica la priorità del mezzo e del come ci si muove, ma sul perché si fanno
certe cose. Allora diventerà logico che l'accessibilità sarà compiuta, in certi casi a piedi,
in certi in bicicletta, in certi in motorino, in certi altri in tram, in autobus, in tramvia,
in metropolitana, in treno, in aeroplano.

Finanziamenti straordinari: catastrofi nazionali
Per concludere vorrei accennare a due iniziative che oggi ci pongono grossi punti inter-
rogativi, una in senso negativo e l'altra in senso positivo.
1. Mi riallaccio a quello che diceva Silvestrini a proposito del tram, e vorrei parlare
molto brevemente di Roma riprendendo l'accenno di Nicolini al "Giubileo come rischio

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di   catastrofe".   Qualche    anno    fa,   quando   anche    a   Roma     si   è   insediata
un'Amministrazione comunale di tipo nuovo, il tram è stato posto al primo piano nella
riorganizzazione del trasporto pubblico e in particolare del trasporto pubblico delle zone
centrali della città. A distanza di tempo credo che il quadro sia molto diverso: dei tram
si continua a parlare soprattutto perché ci sono dei finanziamenti da non perdere. I
finanziamenti da non perdere - mi permetto di affermarlo - sono una delle più grandi
catastrofi nazionali.
Che cos'è il tram per i romani? Credo sia sempre il tram che conoscono da tempo.
Anche a Roma, come a Milano, i tram sono del 1927-1929, oppure degli anni '50. Si
tratta di tram rumorosi e scomodi. Non sono certamente i tram di Grenoble o di
Strasburgo neanche come rete di servizio, dato che a Roma, come a Torino e Milano, i
pezzi di rete che oggi funzionano sono gli avanzi delle reti distrutte negli anni '60, e
quindi avanzi con percorsi quasi casuali.
Oggi è molto difficile far passare l'idea positiva della ricollocazione dei tram, se i citta-
dini continuano a pensare che il tram è quella vecchia ferraglia di sessanta o settanta
anni fa. In mezzo a quest'indifferenza relativa ai tram si sono inserite le crisi delle
aziende di trasporto romane e, soprattutto, si è inserita l'idea che col Giubileo si pote-
vano trovare i soldi per fare una metropolitana. Così, tutti si sono gettati sulla metro-
politana.
La metropolitana costa cinque volte di più dei miliardi che occorrono per il tram, ma a
Roma, probabilmente, nel 2000 avremo cantieri aperti per una megametropolitana nel
centro. Mi rifiuto di credere che in 4 anni si possa fare una metropolitana: non è mai
stata fatta in nessuna parte del mondo in tempi così rapidi; Roma e l'Italia non brilla-
no per rapidità ed efficienza; non abbiamo grandi imprese che riescono a sfruttare a
pieno i mezzi della tecnologia. Il problema del trasporto pubblico a Roma si è quasi
ridotto al problema di costruire una metropolitana nel centro storico, risolvendo il pro-
blema dei parcheggi nel centro, proponendo, addirittura, la trasformazione del
Lungotevere in un megaparcheggio. Credo quindi che in questo momento dobbiamo
guardare a Roma ancora una volta con molto sconforto. [La parte superiore è stata evi-
denziata perché scritta nel 1995 sembra premonitrice di ciò che sta accadendo, ndr]
2. Recentemente, e un po' per caso, ho avuto modo di vedere i manifesti e di racco-
gliere qualche informazione sulla "Operazione pedoni" a Ginevra. L'operazione pedoni
è una cosa semplicissima e cioè è un manifesto attaccato su tutti i muri cittadini e un
depliant inserito in tutte le carte topografiche della città. Sulla pianta della città ci sono
alcune linee verdi che indicano i percorsi di Ginevra più frequentati e trafficati, su que-
ste linee verdi c'è scritto un tempo (10 minuti, 15 minuti, 8 minuti, 20 minuti, ecc.), e
sotto c'è scritto: Questo è il tempo che impiegate a piedi su questi itinerari.
Confrontatelo con il tempo che normalmente impiegate in automobile e vedrete che è
minore.

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Inoltre, in questi depliant si dice che lungo questi itinerari (dove naturalmente il pedo-
ne trova marciapiedi spaziosi e non ingombri di automobili in sosta) si possono vede-
re molte cose: il panorama del lago, il tal monumento, certi negozi, ecc.
Questa operazione così semplice ha avuto molti sponsor. Sono stati i bar e i caffè e i
negozi delle strade interessate che hanno capito che l'operazione pedoni era anche
un'operazione commerciale. In fondo il compito delle associazioni ambientaliste, com-
merciali, storico-artistiche, è quello di porre i problemi. Quello di trovare la soluzione
per i problemi è forse il compito dei professionisti e delle istituzioni culturali. Il compi-
to poi di trasformare questi progetti in cultura cittadina, in modo di vivere le nostre
zone storiche, è il compito delle Amministrazioni comunali, perché sono le uniche che
possono conoscere il quadro generale. Possono cioè capire come il centro e le zone sto-
riche sono influenzate dalle zone nuove, sono influenzate dalla periferia, come sono
queste che determinano usi, funzioni e trasformazioni delle parti storiche e quindi pos-
sono avere in mano non solo la parte conoscitiva e la parte di uso sociale e culturale,
ma la parte gestionale, produttiva, vitale della città che è quella dentro cui si deve tro-
vare l'equilibrio e quindi la forza e le capacità anche economiche per realizzare i vari
provvedimenti.

Eterno Goethe
Concludo con una citazione di Goethe. Quando il poeta tedesco fa il viaggio in Italia, a
proposito di Roma (ma, per estensione, a proposito di tutte le città storiche italiane)
dice: "Roma non è eterna perché esista da sempre o debba esistere per sempre. E'
eterna perché ogni secolo, ogni epoca è presente una sopra l'altra, tutte quante".
Nella nostra vita, nella vita di Goethe come visitatore di Roma, la conoscenza della
città, in genere, consiste proprio nell'andare a scoprire questa successione di epoche
che non sono lontane, ma sono oggi presenti, tutte, nella nostra vita quotidiana.

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