Into the Night - seconda stagione, la recensione: come è difficile soddisfare le aspettative create da una serie TV di alta qualità - Il ...

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Into the Night - seconda stagione, la recensione: come è difficile soddisfare le aspettative create da una serie TV di alta qualità - Il ...
Into the Night – seconda
stagione, la recensione: come
è difficile soddisfare le
aspettative create da una
serie TV di alta qualità…

Into the Night è la prima serie Netflix prodotta in Belgio,
nel 2020, che ha stregato molti spettatori per la sua qualità.
Sei episodi di circa mezz’ora, ideali per il più classico dei
binge-watching, costruiti con mestiere e con un’idea di base
originale e intrigante.

Il sole è improvvisamente impazzito, e bombarda la Terra con
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radiazioni micidiali, che sterminano ogni forma di vita, anche
quella di chi si rifugia speranzoso nei bunker. Un gruppo
eterogeneo di passeggeri si ritrova su un volo dirottato da
quello che poi si rivela essere un ufficiale della NATO
italiano.

Una situazione apparentemente disperata, ma che in realtà è la
salvezza dei dirottati, che giocoforza si trovano a fare
gruppo anche con il militare che li minacciava brandendo un
mitra. Unica cosa possibile per sopravvivere: continuare a
volare verso la notte, sfuggendo alle mortali radiazioni
solari che all’alba annientano ogni forma di vita.

Una situazione paradossale, che ha dato il titolo alla serie,
che si è rivelata essere molto ben fatta anche grazie alla
buona recitazione degli interpreti e all’ottima scelta dei
personaggi, che costituiscono un complesso microcosmo,
convincente rappresentazione delle tensioni sociali presenti
nell’attuale società occidentale, globalizzata, multimediale e
multietnica.

La prima stagione si concludeva con l’arrivo dei nostri eroi
in una base militare NATO in Bulgaria, dotata di un bunker
sotterraneo schermato dal bacino idrico artificiale formato da
una diga, a quanto pare capace di fermare le misteriose e
mortali radiazioni solari. Un ottimo cliffhanger, che lasciava
molte domande senza risposta e implorava l’uscita della
seconda stagione.

Into the Night, seconda stagione: non male, ma non
all’altezza della prima
A settembre 2021 è finalmente uscita la seconda stagione, che
tuttavia ha perso la freschezza e l’originalità della prima.
Come spesso accade nelle serie TV, i vari personaggi tendono a
rivelare il loro passato, diventando prevedibili nel loro
modus operandi, e si formano delle coppie più o meno stabili,
cosa che rende le vicende meno dinamiche e sempre più
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scontate.

Certo, compaiono nuovi personaggi: i militari e personalità
politiche della NATO, tutti costretti ad assieparsi nel
bunker. Compaiono nuove dinamiche, peraltro molto prevedibili,
a cominciare dalla penuria di risorse, visto che le bocche da
sfamare sono aumentate, ma le riserve immagazzinate nel bunker
sono sempre le stesse.

Ovviamente accadono degli incidenti, provocati dalla forzata
convivenza di persone molto eterogenee. La rigida mentalità
militare e l’atteggiamento sessista di molti soldati non aiuta
di certo, vista anche la penuria di donne e la sovrabbondanza
di giovani maschi nel fiore della loro gioventù. Dinamiche
scontate, che comunque mantengono in moto la macchina
narrativa, anche se il ritmo non è più così serrato, e alle
volte si ha l’impressione che certi eventi siano narrati solo
per allungare di qualche minuto l’episodio.

Ulteriore elemento che si aggiunge, regalando una prospettiva
di salvezza ai protagonisti della serie, è l’esistenza di un
deposito di semi, che va raggiunto prima possibile, in quanto
l’unica possibilità di sopravvivenza nel lungo periodo è
quella di tornare a produrre generi alimentari, visto che
nessun magazzino di riserve dura all’infinito.

Ma (ovviamente) gli altri superstiti del pianeta non sembrano
essere disposti a condividere le risorse esistenti, per cui
scoppia un confuso conflitto tra gruppi armati sopravvissuti.

Into the Night, seconda stagione: quattro ore di
piacevole binge-watching
Se nella prima serie i conflitti avvengono prevalentemente
sull’aereo, alla disperata ricerca di un aeroporto prima
dell’alba, nella seconda la storia la narrazione ben presto si
scinde in due storie parallele: la prima che riguarda la
spedizione aerea in cerca dei semi salvifici, la seconda che
segue le vicende all’interno del bunker.
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E se nella prima serie erano le figure maschili quelle
dominanti, nella seconda la barra del timone viene presa
saldamente in mano dalle donne, nel bene e nel male.

Aumenta anche l’introspezione psicologica dei personaggi, dei
quali ci viene dettagliato il passato, al prezzo però di una
calo del ritmo e di una generale diminuzione della tensione.
Molti interrogativi lasciati aperti dalla prima stagione
trovano la loro brava risposta, ma la storia diventa meno
intrigante e più prevedibile.

Comunque la seconda stagione   si lascia nel complesso guardare
volentieri, e i sei episodi,   lunghi circa 35 minuti ciascuno,
garantiscono comunque circa    quattro ore di piacevole binge-
watching. Certo, si è persa     la magia della prima stagione.
Aspettando di vedere l’inevitabile terza…

A Classic Horror Story, la
recensione: molto più del
classico film dell’orrore
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All’inizio questo film original Netflix, diretto da Roberto De
Feo e Paolo Strippoli, sembra essere veramente quello che il
titolo pare suggerire: un assemblaggio di cose già viste.
Peraltro fatto molto bene.

La protagonista è una ragazza che affronta un viaggio in
carpooling su un camper, per interrompere una gravidanza
indesiderata su pressioni della madre. Il veicolo è di un
maldestro studente di cinema, che ospita anche un medico e una
coppia di giovani.

Durante la notte, mentre attraversa i boschi calabresi, nel
tentativo evitare il cadavere di un animale sulla carreggiata,
il camper si schianta su un albero. I cinque sfortunati
compagni di viaggio si risvegliano il giorno dopo, in una
radura al centro della quale c’è una strana casa. Il motore
del camper non si accende. Della strada nessuna traccia.
Ovviamente non c’è campo: impossibile contattare
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telefonicamente qualcuno per chiedere soccorso.

Un situazione drammatica e assurda, che peggiora ulteriormente
quando due dei sfortunati compagni di viaggio decidono di
affrontare l’incognita dei boschi per cercare aiuto: scoprono
gli inquietanti segni di presenze ostili nella natura
selvaggia.

Anche dal sopralluogo all’interno della strana casa emergono
particolari angoscianti, tingendo la storia di elementi
metafisici e soprannaturali. Ma la spiegazione dei fatti
assurdi e drammatici vissuti dai cinque compagni di viaggio,
alcuni dei quali troveranno la morte in circostanze atroci,
coglierà di sorpresa anche lo spettatore più smaliziato.

A Classic Horror Story: ben oltre la citazione cinematografica

Come lo stesso studente di cinematografia sottolinea nella
pellicola, il film propone una serie di situazioni già viste
mille volte al cinema: l’incidente automobilistico nel
profondo della natura selvaggia, il piccolo ed eterogeneo
gruppo di persone che lotta per sopravvivere in un ambiente
ostile, la bizzarra casa isolata nel bel mezzo del nulla,
teste di animali mozzate e strani pupazzi nei boschi, figure
mascherate pronte a gesti efferati, riti sacrileghi legati a
culti dimenticati, solo per citarne qualcuno.

Tutti elementi peraltro assemblati con efficacia, ennesima
dimostrazione che, anche con risorse limitate, è possibile
costruire una storia avvincente anche ricadendo negli
stereotipi, se si ha il mestiere per farlo. Specie se si ha
voglia di giocare con le citazioni cinematografiche.

Ma A Classic Horror Story va molto oltre. Diventando una
pellicola intrinsecamente metacinematografica, in modo
completamente inaspettato, proprio mentre la storia sembra
imboccare una strada prevedibile, e quindi perdere di
mordente.
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Un colpo di reni narrativo altamente apprezzabile, che
conferisce a questa riuscita pellicola una marcia in più,
permettendole di distinguersi nell’anonimo mare di film senza
infamia e senza lode che inonda Netflix (e non solo).

Perché questo film parla anche del rapporto tra cinema horror
e spettatore medio, e più in generale della fame abulica che
il cittadino – diventato ormai videodipendente e consumatore
passivo – ha per le notizie negative e drammatiche, fatto che
spesso lo trasforma in un vojeur al limite della psicopatia.

E parla di queste cose in modo avvincente, comunicativamente
mille volte più efficace del solito sproloquio
autoreferenziale del pensoso pseudo-intellettuale di turno da
salotto televisivo. Tanto di cappello.

A Classic Horror Story: inaspettatamente, anche un film di
critica sociale

Ma gli elementi di critica sociale presenti in questa
pellicola vanno molto oltre la condanna della videodipendenza
in generale e di un certo vojeurismo malato in particolare.
Questo film infatti ricicla la leggenda di Osso, Mastrosso e
Carcagnosso, figure mitiche che la tradizione vuole siano i
fondatori di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della Camorra.
Un leggenda che vorrebbe conferire un’aura di nobiltà ad
associazioni criminali che di nobile non hanno proprio niente.

Nella storia essi diventano tre fratelli dalle fattezze
mostruose provenienti da un mondo parallelo, fondatori di un
culto raccapricciante. Senza volere spoilerare nel dettaglio
questa pellicola, la critica che viene fatta al mondo della
mafia va ben oltre l’accostamento del nome dei tre (presunti)
nobili cavalieri, fondatori delle corrispettive associazioni
criminali, a quello di entità malefiche provenienti da
dimensioni oscure.

Perché il mafioso descritto nel film è una persona
apparentemente comune, non è possibile distinguerlo da un
normale cittadino. Ed è una persona che obbedisce al potere in
modo supino, eseguendo senza battere ciglio le atrocità più
efferate, anche quando fa parte delle istituzioni. E gode nel
vedere le sofferenze altrui.

Insomma, A Classic Horror Story inaspettatamente prosegue
nella tradizione di molti film classici dell’orrore, a partire
da quelli di Romero e di Carpenter, metafore dei mali della
società del loro tempo.

A Classic Horror Story: la dimostrazione pratica che con pochi
mezzi si può fare un ottimo film, capace sia di intrattenere
che di far riflettere

Al di là di qualche passaggio forse un po’ troppo prevedibile,
che all’inizio della storia sembra fare vacillare la pellicola
in direzione del déjà vu a ripetizione, nel complesso stiamo
parlando di un prodotto ben riuscito, con una storia che nel
complesso rende bene, dotata di un buon ritmo, di un ottima
fotografia e con un buon livello di recitazione. Spicca
soprattutto la giovane protagonista, Matilda Lutz. Brava
davvero.

Il film dà il meglio di sé nella seconda parte, quando
improvvisamente il racconto sterza in direzioni inaspettate,
con modalità originali e coinvolgenti.

Una pellicola che, ancora una volta, dimostra come non servono
affatto mezzi ingenti per creare una pellicola riuscita. Gli
elementi essenziali sono una buona storia e buoni attori,
diretti con mestiere e creatività. A Classic Horror Story li
possiede tutti.

Da vedere. Assolutamente.
Black Summer 2: recensione
della seconda stagione della
serie tv di Netflix

La prima stagione di Black Summer terminava con
l’agognato ricongiungimento di Rose (Jamie King) con
sua figlia Anna (Zoe Marlett), nello stadio dove gli
ultimi superstiti dell’apocalisse zombie cercavano
rifugio, in un mondo ormai dominato dagli agili e
famelici morti viventi.

Nella seconda stagione, Rose ad Anna sono finalmente
insieme, ma si muovono in un ambiente sempre più
pericoloso perché, oltre che dagli zombie, i
superstiti devono proteggersi anche dal freddo
glaciale e da bande armate di predoni umani, pronti
a qualsiasi efferatezza per un pugno di cibo o
qualche arma in più.

Se nel primo capitolo di Black Summer l’unica
speranza dei superstiti era potere raggiungere uno
stadio protetto dai militari, nel secondo i pochi
sopravvissuti si battono per scoprire dove un
misterioso aereo, che volteggia regolarmente sulla
landa desolata dove si muovono, ha la propria pista
di atterraggio.

Molti vogliono solo depredare gli aiuti che l’aereo
paracaduta periodicamente, alcuni invece sognano la
fuga in una terra ospitale, ovunque essa possa
essere. Quello che è certo è che pochi arriveranno
vivi all’appuntamento finale. Ma la colpa non è
tanto degli zombie, quanto della miseria e della
spietatezza umana.

Black Summer 2: ritratto     di   un’umanità   senza
speranza e senza morale

Il passaggio alla seconda stagione registra un
cambiamento del focus della serie, che lascia
maggiore spazio ai dialoghi per permettere allo
spettatore di immedesimarsi maggiormente nei
personaggi, che nei due capitoli percorrono un
significativo arco narrativo.

Un’evoluzione particolarmente evidente in quello che
forse è il personaggio più importante: Rose. Se nel
primo capitolo voleva risolutamente conservare la
propria dimensione umana, anche rischiando la
propria vita, nel secondo diventa cinica e spietata,
perseguendo un solo obiettivo: la salvezza della
propria figlia. Tutto il resto è sacrificabile, come
lei stessa afferma più volte nei vari episodi.
Anche Anna, nonostante la sua giovane età, è ormai
capace di uccidere a sangue freddo, anche se sotto
la dura scorza superficiale è forse rimasta più
umana di sua madre.

Comunque    la coppia Rose-Anna monopolizzano buona
parte di    questa seconda stagione, che vede quindi
spostato   l’equilibrio verso una classica dimensione
dei film   post-apocalittici: quella del rapporto tra
genitori   e figli.

Un altro personaggio importante ereditato dalla
prima serie è Spears (Justin Chu Cary), del quale ci
viene rivelato parte del suo misterioso e oscuro
passato, ma che non reggerà bene lo stress
dell’allucinante      situazione    in   cui   deve
sopravvivere.

In generale la maggior parte dei protagonisti della
prima stagione (almeno quelli che sopravvivono)
vengono psicologicamente devastati durante la
seconda, che dipinge un’umanità senza speranza,
abbruttita dalla necessità di salvarsi in un
ambiente completamente ostile.

Black Summer 2: meno azione, più dialoghi

Il mondo distopico descritto da Black Summer
richiede ai sopravvissuti di muoversi continuamente,
alla ricerca di cibo, armi e, soprattutto, di un
posto    sicuro     dove    rifugiarsi,      almeno
temporaneamente.

Mentre nella prima stagione dominava incontrastata
l’azione, con un ritmo molto più sostenuto e scene
mozzafiato, nelle quali relativamente lunghi silenzi
venivano interrotti dalle urla agghiaccianti degli
zombie, nella seconda viene lasciato ampio spazio
all’introspezione psicologica e ai dialoghi.
Forse talvolta anche troppo, a dire il vero, almeno
per quanto riguarda la vicende vissute da Spears. In
effetti se una critica può essere fatta a questa
seconda stagione, è che alle volte il ritmo scende
troppo e i dialoghi possono essere percepiti quasi
come un riempitivo.

Nel complesso è però difficile non apprezzare
l’evoluzione della serie, diventata paradossalmente
molto più umana e credibile, pur nella sua
dimensione fantascientifica e quindi improbabile. Ma
si sa, più i personaggi diventano umani, sia pure in
modo meschino e antieroico, più è facile farsi
rapire dalla narrazione.

Black Summer 2: chi ha apprezzato la prima stagione
si godrà molto di più la seconda

Diciamolo pure: il tema delle apocalissi zombie è
talmente inflazionato che è veramente difficile
inventare qualcosa di nuovo per confezionare un
prodotto godibile. Il rischio, anche potendo
spendere montagne di soldi, è di produrre banalità o
ricadere in stereotipi ritriti, come ha dimostrato
il recente e insipido Army of the Dead, poco più di
un videogioco da guardare bevendo una birra con gli
amici.

Eppure Black Summer è una serie che è riuscita
nell’intento di mettere insieme cose già viste in
modo efficace, grazie anche alla scelta stilistica
di frammentare la storia in numerosi sottocapitoli,
che grazie a continui flashback e flashforward
permette allo spettatore di guardare i vari
accadimenti da diverse angolazioni, secondo il punto
di vista dei vari personaggi, zombie inclusi.

Una scelta apprezzabile, che conferisce a questa
serie una marcia in più, tanto che non si sente la
mancanza di effetti speciali particolarmente
elaborati. Del resto questi ultimi dovrebbero essere
solo un accessorio a una storia che è capace di
stare in piedi da sola, e non il motivo di esistenza
di una pellicola.

Ancora   più apprezzabile è che alle due stagioni, pur
in una   logica di continuità dei personaggi e della
storia    narrata, è stato dato un taglio diverso,
sempre   godibile.

Insomma nel complesso Black Summer si è rivelato
essere un prodotto interessante in entrambe le
stagioni finora uscite, e sarà ancora più
interessante vedere se anche la terza serie sarà
all’altezza delle prime due…

Awake: recensione del nuovo
thriller post-apocalittico di
Netflix
Jill (Gina Rodriguez) è la madre di un ragazzo
adolescente, Noah (Lucius Hoyos), e di una bambina,
Matilda (Ariana Greenblatt). La donna è una veterana
di guerra, e i suoi figli sono stati affidati in
custodia alla loro nonna paterna, dopo la morte di
loro padre al fronte.

Jill lavora come guardia di sicurezza in una
università, e cerca di superare il forte stress
post-traumatico che gli ha lasciato in eredità la
sua drammatica esperienza militare.

Mentre viaggia in auto con i suoi figli,
improvvisamente e inspiegabilmente tutti gli
strumenti elettronici smettono di funzionare.
Scoppia il caos. Ben presto ci si accorge non solo
che il fenomeno ha una porata globale, ma che anche
tutto il genere umano ha perso la capacità di
dormire.

La deprivazione da sonno ben presto ha effetti
devastanti sulla popolazione, che impazzisce
abbandonandosi a saccheggi, razzie e comportamenti
schizofrenici.

Matilda sembra essere una delle pochissime persone
capaci ancora di addormentarsi, ma questo la rende
appetibile sia ai soliti militari cattivoni,
desiderosi di scoprire il suo segreto con mezzi non
proprio ortodossi, sia ai consueti fanatici
religiosi, bramosi di sacrificarla per guadagnarsi
il favore celeste.

Jill riesce a scappare con i suoi figli, ma il mondo
in cui si muove è ormai impazzito…

Awake: un film post-apocalittico che non entusiasma
per niente
Awake si inserisce in un filone ormai inflazionato,
quello post-apocalittico, ma non regge il confronto
con pellicole come A Quiet Place (del quale uscirà
il 24 di giugno l’atteso sequel, finalmente al
cinema!) o Birdbox. Fermo restando che essere
veramente originali è ormai diventato praticamente
molto difficile, questa pellicola non eccelle certo
per fantasia e approfondimento dei personaggi.

Analogamente a tanti film che si sono visti
recentemente, dopo un inizio interessante
l’impressione di assistere a un dèjà-vu è molto
forte, e la prevedibilità di molte scene può rendere
la storia raccontata abbastanza soporifera per lo
spettatore smaliziato, tanto che il titolo può fare
sorridere, visto che rimanere … awake (sveglio) può
diventare un problema.
Non solo i pochi personaggi sono tratteggiati
superficialmente e appaiono stereotipati, ma la
storia nel suo complesso lascia alquanto perplessi,
tanto che non è semplice mantenere la sospensione
dell’incredulità per rimanere immersi nella
narrazione.

Non si capisce per quale motivo dopo 24 ore di
insonnia tutti debbano diventare degli psicopatici
saccheggiatori, tra l’altro bruciando in tal modo
tutta la tensione che dovrebbe lentamente crescere
nella prima parte di questo tipo di film, dal
momento che in una manciata di minuti la cittadina
dove vive Jill viene trasformata in una distopia
alla Mad Max. Peccato.

La stessa vita passata di Jill rimane alquanto
nebulosa, rendendo difficile immedesimarsi nel
personaggio protagonista, del quale ci vengono
forniti scampoli di informazioni sul suo passato qua
e là, quasi a casaccio.

Cosa molto fastidiosa, anche perché la sua relazione
passata con i militari che incontra durante la
storia avrebbe potuto alimentare il motore
narrativo, dando brio al film. Gli altri personaggi
sono ancora meno definiti, in alcuni casi ridotti a
presenze    stereotipate,     dal    comportamento
prevedibile.

Ancora una volta, peccato.

Awake: un film che si perderà nel mare di Netflix e
del quale non si ricorderà nessuno
Insomma, parliamo di una pellicola senza lodi ma con
molti punti deboli. Altra nota dolente è la
superficialità con la quale viene trattata la
relazione madre-figlio. In genere i film di questo
filone sono una opportunità per trattare questo
tema.

Basti pensare al non eccelso ma sicuramente godibile
Light of My Life, scritto, diretto e interpretato da
Casey Afflect, del 2019, in cui lo scenario post-
apocalittico era in pratica solo un’opportunità per
parlare del rapporto tra padre e figlia.

In Awake questo aspetto è trattato con molta
superficialità, visto anche lo scarso spessore dei
personaggi, facendo perdere forza alla narrazione.

Anche l’interessante tema del confronto tra
atteggiamento scientifico e fanatismo religioso,
molto interessante e attuale in tempo di pandemia da
COVID-19, è trattato in modo stereotipato e
prevedibile.

Nessuno pretendeva che tale argomento diventasse
centrale nella pellicola, come lo era in The Mist,
apprezzabile film horror del 2007, di Franc
Darabont, ma in Awake è stato usato come prevedile
riempitivo in una sequenza, che probabilmente ha
attivato i centri neuronali del sonno in qualche
spettatore.

Per l’ennesima volta, peccato.

Anche perché nella pellicola sono presenti attori
capaci, a cominciare da Gina Rodriguez, che sono
stati costretti ad appiattirsi in personaggi senza
spessore.

Comunque tranquilli: di Awake tra un paio di
settimane non si ricorderà nessuno, e andrà disperso
nel mare ormai sconfinato di Netflix.
Oxygène:    recensione   del
thriller fantascientifico di
Alexandre Aja su Netflix

Elizabeth (Mèlanie Laurent) si risveglia
improvvisamente in quella che ben presto si rivela
essere una capsula criogenica. Non può uscire. Non
riesce a vedere l’esterno. Non ricorda nulla del suo
passato, se non qualche sporadico flashback alquanto
fumoso.

Non può muoversi, se non con estrema difficoltà,
perché avvolta da un sudario ipertecnologico alla
quale è connessa tramite una rete di tubi, cavi e
cinghie.

Una situazione angosciante, resa sempre più
drammatica dal fatto che ben presto comincia ad
avere problemi respiratori: l’ossigeno è in calo
costante e basterà per solo altri cento minuti.

Elizabeth può comunicare solo con MILO, il computer
che gestisce tutti i dispositivi che la hanno fino a
quel momento tenuta in vita.

Cerca disperatamente di scoprire prima la propria
identità e poi di sapere come possa essere finita in
una situazione tanto insostenibile. La verità emerge
lentamente, ma è dura da digerire.

Oxigène: un thriller claustrofobico in tempo reale

Elizabeth ha solo 100 minuti di ossigeno a sua
disposizione: esattamente la durata del film, che di
fatto permette di seguire in tempo reale le vicende
della protagonista, senza mai uscire dalla capsula
criogenica, se non per qualche flashback dei suoi
vaghi ricordi.

Una storia claustrofobica angosciante, simile a
quella narrata da Buried – Sepolto, del 2010, di
Rodrigo Cortés, nel quale il protagonista, Paul, si
ritrova sepolto vivo in una cassa di legno, e deve
trovare il modo di scappare prima che sia troppo
tardi.

Alexandre Aja ambienta il suo racconto in un
contesto completamente diverso, ipertecnologico e
futuribile, ma raccoglie comunque la sfida di
ambientare il suo film in uno spazio tanto
ristretto, e lo fa con molto mestiere.

Onore al merito anche a Mèlanie laurent, che di
fatto sostiene tutto il peso della recitazione,
riempiendo quasi tutte le scene del film.

Oxigène: un altro film figlio della pandemia da
COVID-19

Il protagonista di Buried – Sepolto è un civile
nordamericano, rapito in Iraq da terroristi che
vogliono un cospicuo riscatto. Un film che può
essere visto come una metafora della situazione in
cui le truppe statunitensi si sono trovate a vivere
per rovesciare il regime di Saddam Hussein.

Alexandre Aja ha attualizzato, proiettandolo in un
angoscioso futuro, uno dei temi classici
dell’horror, che forse trova le sue radici
letterarie nel racconto La Sepoltura Prematura, del
1844, di Edgar Allan Poe:

“Essere sepolti vivi è senza dubbio il più terribile
tra gli orrori estremi che siano mai toccati in
sorte ai semplici mortali. Che sia avvenuto spesso,
spessissimo, nessun essere pensante vorrà negarlo. I
limiti che dividono la Vita dalla Morte sono, nella
migliore delle ipotesi, vaghi e confusi. Chi può
dire dove finisca l’una e cominci l’altra?”

In Oxigène l’angoscia di trovarsi sepolti vivi e non
potere più respirare lascia ben presto il posto alla
curiosità di capire cosa sia successo alla
protagonista. A mano che la storia si dipana, si
capisce quanto questa pellicola sia figlia del
proprio tempo, in cui la mancanza di ossigeno è
forse metafora della vita isolata e claustrofobica
in cui l’era dei lockdown da COVID-19 ci ha
costretti.

In un mondo nel quale alcuni scenari fino a poco
tempo fa futuribili e fantascientifici, come la
clonazione, la possibilità di ibernarsi e la lotta
contro epidemie devastanti, sembrano essere sempre
più reali e vicini a noi.

In un mondo nel quale il progresso medico e
tecnologico e il cambiamento sociale rendono sempre
più vaghi e confusi i limiti che dividono la vita
dalla morte.

Oxigène: un film che vale la pena vedere

Alexandre Aja ha confezionato un buon prodotto,
unendo con mestiere idee non originali (ma chi è in
grado di produrre ancora idee veramente originali,
dopo oltre un secolo di film?) mettendo in scena una
storia molto impegnativa dal punto di vista
cinematografico.

Diciamolo pure: ambientare praticamente tutto il
film in quella che in definitiva è una bara – sia
pure ipertecnologica – e utilizzare un solo
personaggio – peraltro in una storia che si snoda in
una singola unità spazio-temporale – sono scelte
difficili che pochi hanno affrontato.

Tanto di cappello anche alla brava Mèlanie Laurent,
che divide la scena con la voce di MILO, personaggio
virtuale che ricorda molto l’indimenticabile HAL di
2001 Odissea nello Spazio, il cult del 1968 di
Stanley Kubrick.

Un film interessante, che vale la pena vedere, che
ancora una volta testimonia come il cinema di
qualità ha come suo crescente punto di riferimento
le piattaforme di streaming.

Pieces   of   a  Woman:   la
recensione      del     film
disponibile su Netflix con
Vanessa Corby

Presentato ai festival di Venezia e Toronto, Pieces of a Woman
è ora disponibile in streaming su Netflix, piattaforma che si
conferma essere sempre più aperta al cinema d’autore.

La pellicola di Kornél Mundruczo mette in scena il dramma
vissuto da una coppia che perde il suo primo figlio. Martha
Weiss (una spettacolare Vanessa Kirby) e Sean Carson (Shia
LeBeouf) sono in attesa della nascita della loro primogenita.
Il travaglio è difficile, ma le cose sembrano andare per il
meglio. Purtroppo la bambina muore subito dopo il parto. A
mano che gli eventi si avvitano in una tragica spirale, il
film sposta gradualmente il punto di vista sul dramma umano
della protagonista femminile.

Pieces of a Woman: un eccezionale pianosequenza iniziale

Martha e Sean appartengono a differenti classi sociali: lei
proviene da una ricca famiglia ebrea, lui è di umili origini e
lavora alla costruzione di un ponte. Questa diversità sembra
all’inizio arricchire la coppia, piuttosto che dividerla.

Dopo poche scene che introducono efficacemente i personaggi,
la pellicola ci regala una piccola perla cinematografica: un
piano sequenza lungo oltre 20 minuti che ci fa vedere il
travagliato   parto  affrontato   dalla  protagonista,
ammirabilmente supportata dal suo compagno.

Una sequenza dal fortissimo impatto emotivo, che dipinge una
coppia cementata da un forte legame. Legame che tuttavia
vacilla davanti al tragico esito del parto.

Non per niente, il titolo del film compare dopo circa
mezz’ora, subito dopo che il dramma si è consumato. Dopo un
inizio così intenso, il ritmo del film cala, per permetterci
di osservare i due protagonisti nel lento e sofferto processo
di disgregazione della loro unione.

Pieces of a Woman: la costruzione di un ponte come metafora
della possibilità di superare le asprezze della vita

Il ponte a cui lavora Sean è in fase di costruzione, e nel
corso della pellicola ci viene mostrato il suo stato di
avanzamento, a mano che i due tronconi che partono dalla due
sponde opposte si avvicinano tra loro, verso il centro del
fiume.

Un ponte che tuttavia non è una metafora del venirsi incontro
dei due protagonisti, che invece si allontanano
progressivamente, quanto degli sforzi di Martha per ritornare
in contatto con sé stessa, dopo la tragedia della perdita
della bambina.

Mentre Sean rimane attaccato al passato e si dimostra incapace
di accettare quanto accaduto, Martha riesce invece a
metabolizzare il dramma e a voltare pagina.

Nonostante i tentativi della gelida madre (una bravissima
Ellen Burtyn) di imporre il suo punto di vista e scaricare la
responsabilità di quanto accaduto sull’ostetrica, che viene
citata in giudizio, la protagonista trova un suo nuovo
equilibrio, senza scappare dalle situazioni, come invece fa
alla fine il suo compagno, ma affrontandole con
determinazione.

Pieces of a Woman: un ottimo film basato su una recitazione di
alto livello

Pieces of Woman è nel suo complesso un film che si snoda
lentamente, dopo l’inizio intensissimo, ma che regala forti
emozioni, grazie sopratutto a una recitazione di qualità
superiore, a cominciare dalla superba prestazione fornita da
Vanessa Kirby, che al festival del Cinema di Venezia ha più
che meritatamente vinto la Coppa Volpi per la migliore
recitazione femminile. Bravissima veramente.

Questa pellicola mette al centro il mondo femminile, nelle sue
molteplici sfaccettare, mentre i maschi hanno un ruolo
subalterno, a partire da Sean, che dietro la sua barba incolta
e la tuta da cantiere nasconde una personalità fragile,
incapace di mantenere un punto di vista autonomo, e finisce
per subire le decisioni prese da altri.

Martha si trova al centro di forze disgreganti molto forti.
Dopo la morte della primogenita, sopporta le pressioni della
madre invadente, che è preoccupata della brutta immagine
sociale che quanto accaduto potrebbe avere, e preme per
rivalersi sull’ostetrica.
La sorella della protagonista sembra solo preoccuparsi del
mantenimento dello status quo, mentre Sean pare trovare
temporaneo sollievo nella bottiglia e in avventure senza
futuro. Martha può contare solo su sé stessa, ma alla fine
riesca a farcela, nonostante tutto e tutti.

Brava Martha, bravissima Vanessa Corby e complimenti a Kornél
Mundruczo, che ha diretto una pellicola di qualità che vale
veramente la pena di vedere.

The Midnight Sky: recensione
del film post-apocalittico
diretto e interpretato da
George Clooney
Netflix propone a partire dal 23 dicembre questo
film post-apocaliptico, ambientato nel 2049, che
vede George Clooney impegnato nel duplice ruolo di
regista e attore principale, nei panni dello
scienziato Augustine Lofthouse.

Questi è un malato terminale, che si rifiuta di
abbandonare la stazione di ricerca antartica Barbeau
Observatory, mentre un non meglio precisato evento
climatico sta spazzando via ogni forma di vita dal
nostro pianeta. Quello che resta dell’umanità si
ritira in cerca di precario riparo in alcuni rifugi
sotterranei, ma è evidente che non c’è speranza.

Augustine decide di affrontare il suo destino da
solo, anche perché ha una missione da compiere:
mettersi in contatto con la nave spaziale Aether, in
fase di rientro da una missione su una luna di
Giove, dove ha verificato la possibilità di creare
una colonia umana. Il suo obiettivo è di avvertire
gli astronauti di quanto sta accadendo sulla Terra.

The Midnight Sky: due storie parallele che si
congiungono nel finale
Buona parte delle due ore del film sono quindi
dicotomicamente divise in due ambienti diversi: da
un lato le vicende di Augustine, che ben presto deve
abbandonare il Barbeau Observatory per raggiungere
un’altra stazione con una antenna più potente,
dall’altro gli accadimenti sulla nave spaziale
Aether, alle prese con i pericoli presenti in una
regione dello spazio sconosciuta.

Il film scorre molto lentamente, e all’inizio mostra
solo la routine quotidiana del solitario e malato
Augustine, di cui ci vengono forniti alcuni flash-
back della sua vita passata. Il monotono tran-tran
viene però interrotto dalla scoperta che nel Barbeau
Observatory è rimasta anche la piccola Iris
(interpretata dalla bravissima esordiente Caoilinn
Springall), una silenziosa bambina di cui lo
scienziato deve obtorto collo prendersi cura.

I due poi devono affrontare insieme i pericoli del
viaggio verso un altra stazione polare, affrontando
dure esperienze che cementeranno il loro rapporto.
Anche i membri della nave spaziale Aether devono
affrontare aventi non certo piacevoli, a cominciare
dal solito sciame di frammenti vari che danneggiano
il vascello.

Difficile non pensare a Gravity, film dove George
Clooney interpretava il ruolo di Matt Kowalswy,
comandante di uno space shuttle colpito da una
gragnuola di detriti spaziali. La vita a bordo della
Aether risente anche del fatto che uno dei membri
dell’equipaggio, Sully, la compagna del comandante,
è incinta.

Le due storie scorrono parallele, ma per buona parte
del film si fa fatica a percepire un nesso profondo
tra loro, fino al colpo di scena finale, che
tuttavia non salva un quadro d’insieme non
esaltante.

The Midnight Sky: un film lento e intimista, forse
anche troppo
In effetti forse è proprio la sceneggiatura di Mark
L. Smith il punto debole di questa pellicola, la cui
storia è tratta dal libro Good Morning, Midnight (La
Distanza tra le Stelle), di Lily Brooks-Dalton. Si
tratta dello stesso sceneggiatore di The Revenant,
film che viene in mente guardando alcune scene nelle
vicende antartiche di The Midnight Sky.

Insomma mentre questa pellicola scorre lentamente
davanti ai nostri occhi, è difficile non pensare che
sia un collage di cose già viste, un assemblaggio di
situazioni (il rapporto tra un vecchio e un bambino,
l’ultimo uomo sulla Terra, la missione spaziale alla
ricerca di un pianeta dove sopravvivere) che di per
sé funzionano, ma per come sono state messe insieme
formano un guazzabuglio eterogeneo, del quale si fa
fatica ad avere una visione d’insieme.

Troppi aspetti rimangono poco definiti, a cominciare
dalla caratterizzazione dei personaggi, nel
complesso scarsamente delineati e privi di arco
narrativo. Gli stessi eventi che portano l’umanità
all’autodistruzione non vengono esplicitati. Forse
in questa pellicola c’è una eccessiva pretesa di
autorialità da parte di George Clooney, che magari
ha fatto il passo più lungo della gamba, volendo
fare una pellicola troppo esistenzialista e
meditabonda, che alla fine rischia però di fare
sbadigliare lo spettatore.

The Midnight Sky: un film che non ricorderemo
Perché, nonostante gli sforzi profusi per calarsi
nel personaggio, che gli sono valsi anche un
ricovero in ospedale per gli effetti della dieta a
cui si è sottoposto per dimagrire, George Clooney
non è riuscito a dare spessore ad Augustine. Non
basta aggirarsi meditabondi in una base spaziale con
una bottiglia di whisky in mano per tenere gli
spettatori attaccati allo schermo.

Perché sono cose già viste. Perché, dopo un po’, ci
si chiede cosa stia succedendo veramente e che
storia abbia alle spalle il triste ubriacone che
vaga di water in water a vomitare dopo l’ennesima
sbronza solitaria. E in due ore di pellicola il
tempo per farsi domande non manca di certo, mentre
le risposte vengono centellinate e non sono mai
veramente esaustive.

Il discorso cambia se lo spettatore sceglie di farsi
trasportare dal lento flusso narrativo e di non
porsi mai domande, facendosi ipnotizzare dalle
malinconiche ambientazioni e dagli splendidi scenari
antartici e spaziali.

Perché gli effetti speciali sono di alta qualità e
la recitazione nel complesso è molto buona, a
cominciare dalla giovanissima ed esordiente Caoilinn
Springall, capace di dare vita a una convincente
Iris, che dà colore anche al personaggio di
Augustine.

Ma questo non basta per rimediare a una storia
zoppicante che ricicla molti cliché del cinema di
fantascienza. .

Peccato, perché l’idea di base non è male e la
pellicola comunque regala anche qualche momento di
forti emozioni, ma nel complesso questo film, tanto
atteso dal grande pubblico, scivola via senza
lasciare grossi ricordi.

Riprovaci ancora, George.

Mank: recensione del nuovo
film   di   David   Fincher
disponibile su Netflix
Questo film segna un ulteriore salto di qualità nella proposta
di Netflix, che ormai sfida il cinema tradizionale anche sul
fronte delle pellicole d’autore. Mank, diminutivo di Herman J.
Mankiewicz, è stato lo sceneggiatore del superlativo Citizen
Kane (uscito in Italia con il titolo di Quarto Potere), di
Orson Welles, film del 1941 che ha segnato una pietra miliare
nella storia del cinema.

Questa pellicola mette in scena la storia della scrittura di
questo capolavoro, raccontandola dal punto di vista dello
stesso Mankiewicz (interpretato da un eccellente Gary Oldman),
autore geniale sul viale del tramonto, perennemente attaccato
al bottiglia e in conflitto con i potenti che comunque gli
davano da vivere.

David Fincher ha affrontato una sfida difficile, con una
pellicola in bianco e nero che affronta le le complesse
tematiche del rapporto tra potere e media, tra intellettuali e
cultura popolare, tra creatività e produzione di massa, il
tutto calato nel contesto della Hollywood ai tempi della
Grande Depressione.

Mank: un film complesso che è difficile apprezzare
se non si conosce la storia del cinema
Tutte queste tematiche hanno caratterizzato lo stesso Quarto
Potere di Orson Wells, pellicola a suo tempo di profonda
rottura, sia per quanto riguarda i contenuti che il linguaggio
utilizzato. Difficile riuscire a godersi tutte le sfumature di
Mank se non si conosce questa pellicola.

Quarto Potere metteva in scena la storia di un magnate dei
media, evidentemente ispirata alla vita di William Randolph
Hearst, milionario che con il suo impero mediatico poteva
condizionare l’opinione pubblica del tempo, che non aveva né
social media né televisione, ma doveva accontentarsi di
giornali cartacei e cinegiornali.

A differenza delle pellicole tradizionali, la struttura del
film era molto frammentata, cominciava dalla morte del
protagonista per proseguire con con innumerevoli flashback
guardati dal punto di vista di osservatori esterni. Del
magnate veniva fornita un’immagine tutt’altro che positiva,
sottolineandone la bassezza morale e la cupidigia.

Come risultato, al tempo della sua uscita nelle sale Hearst
scatenò tutta la potenza di fuoco dei suoi media e dei suoi
capitali per oscurare il film, giungendo a offrire alla RKO
una ingente cifra per distruggere la pellicola. Di conseguenza
il film riceve solo un Oscar, quello alla Miglior
Sceneggiatura Originale, che viene condiviso da Mank e Welles,
quest’ultimo accreditato come co-autore.

Ma il tempo renderà onore a questo capolavoro, mentre Hearst
vivrà gli ultimi anni della sua vita (morirà nel 1951, dieci
anni dopo l’uscita di Quarto Potere) assistendo al lento ma
inesorabile declino del suo impero.

Quarto Potere era un pellicola di rottura anche sotto altri
aspetti. Viene fatto un ampio uso dei piani-sequenza, con
inquadrature al tempo molto ardite e immagini con molta
profondità di campo, cosa proibita nel cinema classico, dove
invece dovevano essere messi a fuoco solo i protagonisti.
Veniva inoltre fatto un largo uso di chiaro-scuri e di ombre,
per dare maggiore teatralità alle scene.

Cosa forse più spiazzante di tutte, il punto di vista non era
quello del protagonista: la telecamera sembrava vagare di
nascosto nelle scene, inquadrando i personaggi con angolazioni
ardite, invitando lo spettatore a farsi una sua idea di quello
che vedeva. Cosa al tempo impensabile, per il grande pubblico.

Mank: un omaggio a un capolavoro del cinema
Anche la pellicola di David Fincher ha numerosi flash-back,
che gettano una finestra sulla Hollywood degli anni Trenta, in
piena Grande Depressione, seguiti dai flash-forward nel 1940,
in una isolata magione persa nel deserto, dove Mank,
immobilizzato a letto a causa di una frattura, scrive il suo
capolavoro, assistito da una stenografa inglese e da una
infermiera di origini tedesche, con l’inquieta presenza di
Orson Wells che si agita sullo sfondo.

I flash-back ci portano negli studi delle case di produzione
di David O.Selznik e di Louis B. Mayer, nelle quali gli
sceneggiatori spesso lavoravano con un salario fisso e non
venivano riconosciuti nei crediti, come era successo allo
stesso Mankiewitz molte volte. Anche per la scrittura di
Quarto Potere Mank inizialmente aveva accettato di non essere
riconosciuto, salvo cambiare idea dopo essersi reso conto di
avere scritto un capolavoro.

Al tempo la produzione cinematografica era una sorta di catena
di montaggio, dove le case di produzione facevano il bello e
cattivo tempo e lo spazio per la creatività personale era
ridotta all’osso. Fincher tratteggia Mank come una sorta di
antieroe, un intellettuale di razza costretto a venire a patti
con la squallida realtà degli studios, capace di difendersi
solo con la sua dialettica mordace nel mondo spietato
dell’industria della comunicazione nella società di massa.

E proprio in veste di giullare alla corte di William Randolph
Hearst, nella sua fantasmagorica residenza di Saint Simeon,
che Mank ci viene raffigurato mentre dà il peggio di sé,
ubriaco disfatto in una serata dell’alta società, prima di
essere gentilmente sbattuto fuori di casa dal magnate.

Il film indugia molto sul ruolo ormai subalterno della classe
intellettuale nella società di massa, dedicando molte scene
alla campagna elettorale del 1934 per l’elezione del
governatore della California, che vedeva lo scrittore
democratico Upton Sinclair opporsi al candidato repubblicano
Merriam, appoggiato da Hearst e Louis B. Mayer. I media
avranno un ruolo determinante nel determinare la vittoria dei
conservatori, mentre Mank riceve una sonora sconfitta
personale: in primo luogo perché scommette sulla vittoria
dello scrittore democratico, perdendo una ingente somma, e in
secondo luogo perché contribuirà involontariamente a concepire
le pellicole girate come spot elettorali per Merriam.

Mank: una chicca per cinefili
Fincher tratteggia un Mankiewitz sconfitto su tutti i fronti,
salvo quello della creazione intellettuale. E sarà proprio la
scrittura a permettergli di redimersi e di prendere la sua
rivincita contro il potere finanziario e dei media. In Quarto
Potere William Randolph Hearst diventa Charles Foster Kane, e
la sua immaginifica magione di Saint Simeon viene trasposta
nella fantastica Xanadu, dove alla fine more da solo,
abbandonato da tutti.

E lo stesso Mank descritto da Fincher è alla fin fine un
antieroe solitario, consapevole di essere arrivato alla fine
del suo ciclo, e dei limiti intrinseci del cinema come metodo
di rappresentare la realtà. “Non si può restituire l’intera
vita di un uomo in solo due ore, ma solo provare a darne
un’impressione”, ci ricorda il personaggio fincheriano.

Un Mank che alla fine rimane ancorato all’immagine
dell’intellettuale di alto livello che si oppone alla cultura
popolare, bene riassunta nella sua battuta: “Vieni a
Hollywood, puoi guadagnare milioni e i tuoi unici rivali sono
degli idioti”.

E forse questo film è stato concepito proprio per un pubblico
di intellettuali e di cinefili.

Viene naturale chiedersi cosa il buon vecchio Mank dipintoci
da Fincher potrebbe pensare del mondo dei media odierno. In
fin dei conti, a parte il progresso tecnologico, non è
cambiato molto. Anche oggi abbiamo problemi legati al
monopolio dell’informazione, dominato dai giganti del Web,
come Google, Twitter e Facebook, e ancora oggi c’è il problema
dell’imparzialità dei media nel confronto politico, come le
ultime elezioni presidenziali statunitensi sembrano
dimostrare, tanto per citare un esempio.

E il mondo dei media continua a mutare, anche a causa della
pandemia da COVID-19, che ha accelerato diverse tendenze già
in atto, come l’avvento delle piattaforme di streaming e la
crisi delle sale cinematografiche tradizionali. E Mank, non
per nulla, viene trasmesso da Netflix, che sempre di più
sembra proporre anche cinema d’autore…

Curon: recensione della serie
TV italiana disponibile su
Netflix
Questa serie TV horror/mistery made in Italy,
disponibile su Netflix, ruota intorno al tema del
dopplegänger, termine tedesco che allude
all’esistenza di un gemello maligno, situazione che
nella letteratura, nel folclore e nella mitologia è
una delle rappresentazioni dell’eterna lotta del
bene contro il male. Nel cinema questo concetto ha
visto innumerevoli trasposizioni, a cominciare dalle
numerose pellicole girate sul Dr. Jeckyll e Mr.
Hide, tanto per citare uno degli esempi più
conosciuti.

La serie TV deve il suo nome all’omonimo paese del
trentino Alto Adige, situato a circa 5 km dal
confine austriaco, una location affascinante ,
visivamente associata al campanile che emerge dalla
superficie del lago di Resia. Un manufatto del
Trecento sacrificato per creare un lago artificiale
nel Dopoguerra italiano. La serie reinventa una
storia soprannaturale su un dramma molto terreno e
umano: la distruzione di un paese per realizzare un
bacino idrico per la produzione di energia
elettrica.

Nonostante il fatto che le campane siano state
rimosse settant’anni fa, una leggenda locale
racconta che nelle giornate più ventose si sente
comunque ancora il loro rintocco. E su questa
narrazione legata al folclore locale è stata
sviluppata questo thriller metafisico, articolato in
sette episodi.

Una storia basata sulla contrapposizione tra opposti
Il racconto comincia con il ritorno da Milano nella
piccola Curon Venosta di Anna (Valeria Bilello) e
dei suoi due figli gemelli, Mauro (Federico Russo) e
Daria (Margherita Morchio).          Una classica
riproposizione del conflitto tra l’asettica civiltà
metropolitana e le vecchie tradizioni che resistono
nella periferia agreste e provinciale.

L’accoglienza non è delle migliori. Il padre di Anna
(Luca Lionello) le fa subito capire di avere
commesso un errore. Perché sulla sua famiglia, come
del resto su tutto il paese, pesa un oscuro passato
e aleggia una terribile maledizione. Anna capirà ben
presto che il padre ha ragione.

La storia si concentra subito sui due figli, che
hanno personalità opposte: Mauro è introverso,
razionale e riflessivo, mentre Daria è esuberante e
aperta a nuove esperienze. Superata l’iniziale
diffidenza dei nuovi compagni di scuola, i due
cominciano un difficile percorso di integrazione con
la comunità locale.

Un cammino accidentato, visti i profondi pregiudizi
degli autoctoni nei confronti della loro famiglia,
che ben presto si ferma, a causa del precipitare
degli eventi. E lo stesso microcosmo di Curon
ripropone la classica contrapposizione tra la
relativa normalità del centro abitato e gli
inquietanti boschi che lo circondano, popolati da
lupi. Ma non è certo dei lupi che i protagonisti
dovranno preoccuparsi.

La storia vede poi una profonda contrapposizione tra
il mondo degli adulti e quello degli adolescenti,
cosa abbastanza naturale per una serie di questo
tipo. Il conflitto generazionale è uno dei motori
narrativi delle vicende che accadono a Curon, reso
più inquietante dalla presenza dei dopplegänger, che
inesorabilmente compaiono quando qualcuno eccede nel
reprimere i propri impulsi. I conflitti interiori
degli abitanti si traducono quindi spesso
nell’azione distruttiva dei loro doppi. Spesso, ma
non sempre. Perché alcuni dopplegänger, alla fin
fine, poi così tanto cattivi non sono.

Curon: una onesta serie TV forse troppo bistrattata
da certa critica
Insomma questa serie TV ripropone molti luoghi
comuni e ambientazioni già viste in altre
produzioni, ma viviamo in mondo multimediale e
interconnesso dove ormai produrre qualcosa di
veramente originale è pressoché impossibile, vista
la sterminata produzione cinematografica che è stata
fatta a partire dalla fine dell’Ottocento.

In questo contesto la bravura dei creativi consiste
giocoforza non tanto nell’inventare qualcosa di
veramente nuovo, ma di risassemblare in modo
creativo e godibile elementi che qualcuno ha già
inventato. Quentin Tarantino ha prodotto capolavori
facendo questo, in fin dei conti, come da lui stesso
dichiarato.

Leggere in alcune recensioni che Curon è un prodotto
modesto perché avrebbe copiato – tra le altre cose –
dallo Shining di Kubrick l’ambientazione
dell’albergo del padre di Anna fa quindi francamente
sorridere. Certo, non stiamo parlando di un
capolavoro destinato a rimanere scolpito
nell’eternità, ma si tratta di un onesto prodotto a
basso budget, senza macchia e senza lode.

Certo, la storia ha dei momenti di caduta del ritmo,
la recitazione di alcuni personaggi alle volte è un
po’ di maniera (molto brava però l’esordiente
Margherita Morchio), ma nel complesso la narrazione
è accattivante, complice anche un’ottima fotografia
e la scelta delle suggestive location, ed è bello
lasciarsi trasportare nei misteri di questo paesino
sperduto sui monti.

Curon non fa certo dell’originalità la sua bandiera,
ma riesce bene nel suo scopo: intrattenere
piacevolmente il pubblico per qualche ora. Facendo
anche vedere in tutto il mondo uno scorcio della
nostra bella Italia. Attendiamo il suo seguito.
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