Into the Night - seconda stagione, la recensione: come è difficile soddisfare le aspettative create da una serie TV di alta qualità - Il ...
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Into the Night – seconda stagione, la recensione: come è difficile soddisfare le aspettative create da una serie TV di alta qualità… Into the Night è la prima serie Netflix prodotta in Belgio, nel 2020, che ha stregato molti spettatori per la sua qualità. Sei episodi di circa mezz’ora, ideali per il più classico dei binge-watching, costruiti con mestiere e con un’idea di base originale e intrigante. Il sole è improvvisamente impazzito, e bombarda la Terra con
radiazioni micidiali, che sterminano ogni forma di vita, anche quella di chi si rifugia speranzoso nei bunker. Un gruppo eterogeneo di passeggeri si ritrova su un volo dirottato da quello che poi si rivela essere un ufficiale della NATO italiano. Una situazione apparentemente disperata, ma che in realtà è la salvezza dei dirottati, che giocoforza si trovano a fare gruppo anche con il militare che li minacciava brandendo un mitra. Unica cosa possibile per sopravvivere: continuare a volare verso la notte, sfuggendo alle mortali radiazioni solari che all’alba annientano ogni forma di vita. Una situazione paradossale, che ha dato il titolo alla serie, che si è rivelata essere molto ben fatta anche grazie alla buona recitazione degli interpreti e all’ottima scelta dei personaggi, che costituiscono un complesso microcosmo, convincente rappresentazione delle tensioni sociali presenti nell’attuale società occidentale, globalizzata, multimediale e multietnica. La prima stagione si concludeva con l’arrivo dei nostri eroi in una base militare NATO in Bulgaria, dotata di un bunker sotterraneo schermato dal bacino idrico artificiale formato da una diga, a quanto pare capace di fermare le misteriose e mortali radiazioni solari. Un ottimo cliffhanger, che lasciava molte domande senza risposta e implorava l’uscita della seconda stagione. Into the Night, seconda stagione: non male, ma non all’altezza della prima A settembre 2021 è finalmente uscita la seconda stagione, che tuttavia ha perso la freschezza e l’originalità della prima. Come spesso accade nelle serie TV, i vari personaggi tendono a rivelare il loro passato, diventando prevedibili nel loro modus operandi, e si formano delle coppie più o meno stabili, cosa che rende le vicende meno dinamiche e sempre più
scontate. Certo, compaiono nuovi personaggi: i militari e personalità politiche della NATO, tutti costretti ad assieparsi nel bunker. Compaiono nuove dinamiche, peraltro molto prevedibili, a cominciare dalla penuria di risorse, visto che le bocche da sfamare sono aumentate, ma le riserve immagazzinate nel bunker sono sempre le stesse. Ovviamente accadono degli incidenti, provocati dalla forzata convivenza di persone molto eterogenee. La rigida mentalità militare e l’atteggiamento sessista di molti soldati non aiuta di certo, vista anche la penuria di donne e la sovrabbondanza di giovani maschi nel fiore della loro gioventù. Dinamiche scontate, che comunque mantengono in moto la macchina narrativa, anche se il ritmo non è più così serrato, e alle volte si ha l’impressione che certi eventi siano narrati solo per allungare di qualche minuto l’episodio. Ulteriore elemento che si aggiunge, regalando una prospettiva di salvezza ai protagonisti della serie, è l’esistenza di un deposito di semi, che va raggiunto prima possibile, in quanto l’unica possibilità di sopravvivenza nel lungo periodo è quella di tornare a produrre generi alimentari, visto che nessun magazzino di riserve dura all’infinito. Ma (ovviamente) gli altri superstiti del pianeta non sembrano essere disposti a condividere le risorse esistenti, per cui scoppia un confuso conflitto tra gruppi armati sopravvissuti. Into the Night, seconda stagione: quattro ore di piacevole binge-watching Se nella prima serie i conflitti avvengono prevalentemente sull’aereo, alla disperata ricerca di un aeroporto prima dell’alba, nella seconda la storia la narrazione ben presto si scinde in due storie parallele: la prima che riguarda la spedizione aerea in cerca dei semi salvifici, la seconda che segue le vicende all’interno del bunker.
E se nella prima serie erano le figure maschili quelle dominanti, nella seconda la barra del timone viene presa saldamente in mano dalle donne, nel bene e nel male. Aumenta anche l’introspezione psicologica dei personaggi, dei quali ci viene dettagliato il passato, al prezzo però di una calo del ritmo e di una generale diminuzione della tensione. Molti interrogativi lasciati aperti dalla prima stagione trovano la loro brava risposta, ma la storia diventa meno intrigante e più prevedibile. Comunque la seconda stagione si lascia nel complesso guardare volentieri, e i sei episodi, lunghi circa 35 minuti ciascuno, garantiscono comunque circa quattro ore di piacevole binge- watching. Certo, si è persa la magia della prima stagione. Aspettando di vedere l’inevitabile terza… A Classic Horror Story, la recensione: molto più del classico film dell’orrore
All’inizio questo film original Netflix, diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli, sembra essere veramente quello che il titolo pare suggerire: un assemblaggio di cose già viste. Peraltro fatto molto bene. La protagonista è una ragazza che affronta un viaggio in carpooling su un camper, per interrompere una gravidanza indesiderata su pressioni della madre. Il veicolo è di un maldestro studente di cinema, che ospita anche un medico e una coppia di giovani. Durante la notte, mentre attraversa i boschi calabresi, nel tentativo evitare il cadavere di un animale sulla carreggiata, il camper si schianta su un albero. I cinque sfortunati compagni di viaggio si risvegliano il giorno dopo, in una radura al centro della quale c’è una strana casa. Il motore del camper non si accende. Della strada nessuna traccia. Ovviamente non c’è campo: impossibile contattare
telefonicamente qualcuno per chiedere soccorso. Un situazione drammatica e assurda, che peggiora ulteriormente quando due dei sfortunati compagni di viaggio decidono di affrontare l’incognita dei boschi per cercare aiuto: scoprono gli inquietanti segni di presenze ostili nella natura selvaggia. Anche dal sopralluogo all’interno della strana casa emergono particolari angoscianti, tingendo la storia di elementi metafisici e soprannaturali. Ma la spiegazione dei fatti assurdi e drammatici vissuti dai cinque compagni di viaggio, alcuni dei quali troveranno la morte in circostanze atroci, coglierà di sorpresa anche lo spettatore più smaliziato. A Classic Horror Story: ben oltre la citazione cinematografica Come lo stesso studente di cinematografia sottolinea nella pellicola, il film propone una serie di situazioni già viste mille volte al cinema: l’incidente automobilistico nel profondo della natura selvaggia, il piccolo ed eterogeneo gruppo di persone che lotta per sopravvivere in un ambiente ostile, la bizzarra casa isolata nel bel mezzo del nulla, teste di animali mozzate e strani pupazzi nei boschi, figure mascherate pronte a gesti efferati, riti sacrileghi legati a culti dimenticati, solo per citarne qualcuno. Tutti elementi peraltro assemblati con efficacia, ennesima dimostrazione che, anche con risorse limitate, è possibile costruire una storia avvincente anche ricadendo negli stereotipi, se si ha il mestiere per farlo. Specie se si ha voglia di giocare con le citazioni cinematografiche. Ma A Classic Horror Story va molto oltre. Diventando una pellicola intrinsecamente metacinematografica, in modo completamente inaspettato, proprio mentre la storia sembra imboccare una strada prevedibile, e quindi perdere di mordente.
Un colpo di reni narrativo altamente apprezzabile, che conferisce a questa riuscita pellicola una marcia in più, permettendole di distinguersi nell’anonimo mare di film senza infamia e senza lode che inonda Netflix (e non solo). Perché questo film parla anche del rapporto tra cinema horror e spettatore medio, e più in generale della fame abulica che il cittadino – diventato ormai videodipendente e consumatore passivo – ha per le notizie negative e drammatiche, fatto che spesso lo trasforma in un vojeur al limite della psicopatia. E parla di queste cose in modo avvincente, comunicativamente mille volte più efficace del solito sproloquio autoreferenziale del pensoso pseudo-intellettuale di turno da salotto televisivo. Tanto di cappello. A Classic Horror Story: inaspettatamente, anche un film di critica sociale Ma gli elementi di critica sociale presenti in questa pellicola vanno molto oltre la condanna della videodipendenza in generale e di un certo vojeurismo malato in particolare. Questo film infatti ricicla la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, figure mitiche che la tradizione vuole siano i fondatori di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della Camorra. Un leggenda che vorrebbe conferire un’aura di nobiltà ad associazioni criminali che di nobile non hanno proprio niente. Nella storia essi diventano tre fratelli dalle fattezze mostruose provenienti da un mondo parallelo, fondatori di un culto raccapricciante. Senza volere spoilerare nel dettaglio questa pellicola, la critica che viene fatta al mondo della mafia va ben oltre l’accostamento del nome dei tre (presunti) nobili cavalieri, fondatori delle corrispettive associazioni criminali, a quello di entità malefiche provenienti da dimensioni oscure. Perché il mafioso descritto nel film è una persona apparentemente comune, non è possibile distinguerlo da un
normale cittadino. Ed è una persona che obbedisce al potere in modo supino, eseguendo senza battere ciglio le atrocità più efferate, anche quando fa parte delle istituzioni. E gode nel vedere le sofferenze altrui. Insomma, A Classic Horror Story inaspettatamente prosegue nella tradizione di molti film classici dell’orrore, a partire da quelli di Romero e di Carpenter, metafore dei mali della società del loro tempo. A Classic Horror Story: la dimostrazione pratica che con pochi mezzi si può fare un ottimo film, capace sia di intrattenere che di far riflettere Al di là di qualche passaggio forse un po’ troppo prevedibile, che all’inizio della storia sembra fare vacillare la pellicola in direzione del déjà vu a ripetizione, nel complesso stiamo parlando di un prodotto ben riuscito, con una storia che nel complesso rende bene, dotata di un buon ritmo, di un ottima fotografia e con un buon livello di recitazione. Spicca soprattutto la giovane protagonista, Matilda Lutz. Brava davvero. Il film dà il meglio di sé nella seconda parte, quando improvvisamente il racconto sterza in direzioni inaspettate, con modalità originali e coinvolgenti. Una pellicola che, ancora una volta, dimostra come non servono affatto mezzi ingenti per creare una pellicola riuscita. Gli elementi essenziali sono una buona storia e buoni attori, diretti con mestiere e creatività. A Classic Horror Story li possiede tutti. Da vedere. Assolutamente.
Black Summer 2: recensione della seconda stagione della serie tv di Netflix La prima stagione di Black Summer terminava con l’agognato ricongiungimento di Rose (Jamie King) con sua figlia Anna (Zoe Marlett), nello stadio dove gli ultimi superstiti dell’apocalisse zombie cercavano rifugio, in un mondo ormai dominato dagli agili e famelici morti viventi. Nella seconda stagione, Rose ad Anna sono finalmente insieme, ma si muovono in un ambiente sempre più pericoloso perché, oltre che dagli zombie, i superstiti devono proteggersi anche dal freddo
glaciale e da bande armate di predoni umani, pronti a qualsiasi efferatezza per un pugno di cibo o qualche arma in più. Se nel primo capitolo di Black Summer l’unica speranza dei superstiti era potere raggiungere uno stadio protetto dai militari, nel secondo i pochi sopravvissuti si battono per scoprire dove un misterioso aereo, che volteggia regolarmente sulla landa desolata dove si muovono, ha la propria pista di atterraggio. Molti vogliono solo depredare gli aiuti che l’aereo paracaduta periodicamente, alcuni invece sognano la fuga in una terra ospitale, ovunque essa possa essere. Quello che è certo è che pochi arriveranno vivi all’appuntamento finale. Ma la colpa non è tanto degli zombie, quanto della miseria e della spietatezza umana. Black Summer 2: ritratto di un’umanità senza speranza e senza morale Il passaggio alla seconda stagione registra un cambiamento del focus della serie, che lascia maggiore spazio ai dialoghi per permettere allo spettatore di immedesimarsi maggiormente nei personaggi, che nei due capitoli percorrono un significativo arco narrativo. Un’evoluzione particolarmente evidente in quello che forse è il personaggio più importante: Rose. Se nel primo capitolo voleva risolutamente conservare la propria dimensione umana, anche rischiando la propria vita, nel secondo diventa cinica e spietata, perseguendo un solo obiettivo: la salvezza della propria figlia. Tutto il resto è sacrificabile, come lei stessa afferma più volte nei vari episodi.
Anche Anna, nonostante la sua giovane età, è ormai capace di uccidere a sangue freddo, anche se sotto la dura scorza superficiale è forse rimasta più umana di sua madre. Comunque la coppia Rose-Anna monopolizzano buona parte di questa seconda stagione, che vede quindi spostato l’equilibrio verso una classica dimensione dei film post-apocalittici: quella del rapporto tra genitori e figli. Un altro personaggio importante ereditato dalla prima serie è Spears (Justin Chu Cary), del quale ci viene rivelato parte del suo misterioso e oscuro passato, ma che non reggerà bene lo stress dell’allucinante situazione in cui deve sopravvivere. In generale la maggior parte dei protagonisti della prima stagione (almeno quelli che sopravvivono) vengono psicologicamente devastati durante la seconda, che dipinge un’umanità senza speranza, abbruttita dalla necessità di salvarsi in un ambiente completamente ostile. Black Summer 2: meno azione, più dialoghi Il mondo distopico descritto da Black Summer richiede ai sopravvissuti di muoversi continuamente, alla ricerca di cibo, armi e, soprattutto, di un posto sicuro dove rifugiarsi, almeno temporaneamente. Mentre nella prima stagione dominava incontrastata l’azione, con un ritmo molto più sostenuto e scene mozzafiato, nelle quali relativamente lunghi silenzi venivano interrotti dalle urla agghiaccianti degli zombie, nella seconda viene lasciato ampio spazio all’introspezione psicologica e ai dialoghi.
Forse talvolta anche troppo, a dire il vero, almeno per quanto riguarda la vicende vissute da Spears. In effetti se una critica può essere fatta a questa seconda stagione, è che alle volte il ritmo scende troppo e i dialoghi possono essere percepiti quasi come un riempitivo. Nel complesso è però difficile non apprezzare l’evoluzione della serie, diventata paradossalmente molto più umana e credibile, pur nella sua dimensione fantascientifica e quindi improbabile. Ma si sa, più i personaggi diventano umani, sia pure in modo meschino e antieroico, più è facile farsi rapire dalla narrazione. Black Summer 2: chi ha apprezzato la prima stagione si godrà molto di più la seconda Diciamolo pure: il tema delle apocalissi zombie è talmente inflazionato che è veramente difficile inventare qualcosa di nuovo per confezionare un prodotto godibile. Il rischio, anche potendo spendere montagne di soldi, è di produrre banalità o ricadere in stereotipi ritriti, come ha dimostrato il recente e insipido Army of the Dead, poco più di un videogioco da guardare bevendo una birra con gli amici. Eppure Black Summer è una serie che è riuscita nell’intento di mettere insieme cose già viste in modo efficace, grazie anche alla scelta stilistica di frammentare la storia in numerosi sottocapitoli, che grazie a continui flashback e flashforward permette allo spettatore di guardare i vari accadimenti da diverse angolazioni, secondo il punto di vista dei vari personaggi, zombie inclusi. Una scelta apprezzabile, che conferisce a questa
serie una marcia in più, tanto che non si sente la mancanza di effetti speciali particolarmente elaborati. Del resto questi ultimi dovrebbero essere solo un accessorio a una storia che è capace di stare in piedi da sola, e non il motivo di esistenza di una pellicola. Ancora più apprezzabile è che alle due stagioni, pur in una logica di continuità dei personaggi e della storia narrata, è stato dato un taglio diverso, sempre godibile. Insomma nel complesso Black Summer si è rivelato essere un prodotto interessante in entrambe le stagioni finora uscite, e sarà ancora più interessante vedere se anche la terza serie sarà all’altezza delle prime due… Awake: recensione del nuovo thriller post-apocalittico di Netflix
Jill (Gina Rodriguez) è la madre di un ragazzo adolescente, Noah (Lucius Hoyos), e di una bambina, Matilda (Ariana Greenblatt). La donna è una veterana di guerra, e i suoi figli sono stati affidati in custodia alla loro nonna paterna, dopo la morte di loro padre al fronte. Jill lavora come guardia di sicurezza in una università, e cerca di superare il forte stress post-traumatico che gli ha lasciato in eredità la sua drammatica esperienza militare. Mentre viaggia in auto con i suoi figli, improvvisamente e inspiegabilmente tutti gli strumenti elettronici smettono di funzionare. Scoppia il caos. Ben presto ci si accorge non solo che il fenomeno ha una porata globale, ma che anche tutto il genere umano ha perso la capacità di
dormire. La deprivazione da sonno ben presto ha effetti devastanti sulla popolazione, che impazzisce abbandonandosi a saccheggi, razzie e comportamenti schizofrenici. Matilda sembra essere una delle pochissime persone capaci ancora di addormentarsi, ma questo la rende appetibile sia ai soliti militari cattivoni, desiderosi di scoprire il suo segreto con mezzi non proprio ortodossi, sia ai consueti fanatici religiosi, bramosi di sacrificarla per guadagnarsi il favore celeste. Jill riesce a scappare con i suoi figli, ma il mondo in cui si muove è ormai impazzito… Awake: un film post-apocalittico che non entusiasma per niente Awake si inserisce in un filone ormai inflazionato, quello post-apocalittico, ma non regge il confronto con pellicole come A Quiet Place (del quale uscirà il 24 di giugno l’atteso sequel, finalmente al cinema!) o Birdbox. Fermo restando che essere veramente originali è ormai diventato praticamente molto difficile, questa pellicola non eccelle certo per fantasia e approfondimento dei personaggi. Analogamente a tanti film che si sono visti recentemente, dopo un inizio interessante l’impressione di assistere a un dèjà-vu è molto forte, e la prevedibilità di molte scene può rendere la storia raccontata abbastanza soporifera per lo spettatore smaliziato, tanto che il titolo può fare sorridere, visto che rimanere … awake (sveglio) può diventare un problema.
Non solo i pochi personaggi sono tratteggiati superficialmente e appaiono stereotipati, ma la storia nel suo complesso lascia alquanto perplessi, tanto che non è semplice mantenere la sospensione dell’incredulità per rimanere immersi nella narrazione. Non si capisce per quale motivo dopo 24 ore di insonnia tutti debbano diventare degli psicopatici saccheggiatori, tra l’altro bruciando in tal modo tutta la tensione che dovrebbe lentamente crescere nella prima parte di questo tipo di film, dal momento che in una manciata di minuti la cittadina dove vive Jill viene trasformata in una distopia alla Mad Max. Peccato. La stessa vita passata di Jill rimane alquanto nebulosa, rendendo difficile immedesimarsi nel personaggio protagonista, del quale ci vengono forniti scampoli di informazioni sul suo passato qua e là, quasi a casaccio. Cosa molto fastidiosa, anche perché la sua relazione passata con i militari che incontra durante la storia avrebbe potuto alimentare il motore narrativo, dando brio al film. Gli altri personaggi sono ancora meno definiti, in alcuni casi ridotti a presenze stereotipate, dal comportamento prevedibile. Ancora una volta, peccato. Awake: un film che si perderà nel mare di Netflix e del quale non si ricorderà nessuno Insomma, parliamo di una pellicola senza lodi ma con molti punti deboli. Altra nota dolente è la superficialità con la quale viene trattata la
relazione madre-figlio. In genere i film di questo filone sono una opportunità per trattare questo tema. Basti pensare al non eccelso ma sicuramente godibile Light of My Life, scritto, diretto e interpretato da Casey Afflect, del 2019, in cui lo scenario post- apocalittico era in pratica solo un’opportunità per parlare del rapporto tra padre e figlia. In Awake questo aspetto è trattato con molta superficialità, visto anche lo scarso spessore dei personaggi, facendo perdere forza alla narrazione. Anche l’interessante tema del confronto tra atteggiamento scientifico e fanatismo religioso, molto interessante e attuale in tempo di pandemia da COVID-19, è trattato in modo stereotipato e prevedibile. Nessuno pretendeva che tale argomento diventasse centrale nella pellicola, come lo era in The Mist, apprezzabile film horror del 2007, di Franc Darabont, ma in Awake è stato usato come prevedile riempitivo in una sequenza, che probabilmente ha attivato i centri neuronali del sonno in qualche spettatore. Per l’ennesima volta, peccato. Anche perché nella pellicola sono presenti attori capaci, a cominciare da Gina Rodriguez, che sono stati costretti ad appiattirsi in personaggi senza spessore. Comunque tranquilli: di Awake tra un paio di settimane non si ricorderà nessuno, e andrà disperso nel mare ormai sconfinato di Netflix.
Oxygène: recensione del thriller fantascientifico di Alexandre Aja su Netflix Elizabeth (Mèlanie Laurent) si risveglia improvvisamente in quella che ben presto si rivela essere una capsula criogenica. Non può uscire. Non riesce a vedere l’esterno. Non ricorda nulla del suo passato, se non qualche sporadico flashback alquanto
fumoso. Non può muoversi, se non con estrema difficoltà, perché avvolta da un sudario ipertecnologico alla quale è connessa tramite una rete di tubi, cavi e cinghie. Una situazione angosciante, resa sempre più drammatica dal fatto che ben presto comincia ad avere problemi respiratori: l’ossigeno è in calo costante e basterà per solo altri cento minuti. Elizabeth può comunicare solo con MILO, il computer che gestisce tutti i dispositivi che la hanno fino a quel momento tenuta in vita. Cerca disperatamente di scoprire prima la propria identità e poi di sapere come possa essere finita in una situazione tanto insostenibile. La verità emerge lentamente, ma è dura da digerire. Oxigène: un thriller claustrofobico in tempo reale Elizabeth ha solo 100 minuti di ossigeno a sua disposizione: esattamente la durata del film, che di fatto permette di seguire in tempo reale le vicende della protagonista, senza mai uscire dalla capsula criogenica, se non per qualche flashback dei suoi vaghi ricordi. Una storia claustrofobica angosciante, simile a quella narrata da Buried – Sepolto, del 2010, di Rodrigo Cortés, nel quale il protagonista, Paul, si ritrova sepolto vivo in una cassa di legno, e deve trovare il modo di scappare prima che sia troppo tardi. Alexandre Aja ambienta il suo racconto in un contesto completamente diverso, ipertecnologico e
futuribile, ma raccoglie comunque la sfida di ambientare il suo film in uno spazio tanto ristretto, e lo fa con molto mestiere. Onore al merito anche a Mèlanie laurent, che di fatto sostiene tutto il peso della recitazione, riempiendo quasi tutte le scene del film. Oxigène: un altro film figlio della pandemia da COVID-19 Il protagonista di Buried – Sepolto è un civile nordamericano, rapito in Iraq da terroristi che vogliono un cospicuo riscatto. Un film che può essere visto come una metafora della situazione in cui le truppe statunitensi si sono trovate a vivere per rovesciare il regime di Saddam Hussein. Alexandre Aja ha attualizzato, proiettandolo in un angoscioso futuro, uno dei temi classici dell’horror, che forse trova le sue radici letterarie nel racconto La Sepoltura Prematura, del 1844, di Edgar Allan Poe: “Essere sepolti vivi è senza dubbio il più terribile tra gli orrori estremi che siano mai toccati in sorte ai semplici mortali. Che sia avvenuto spesso, spessissimo, nessun essere pensante vorrà negarlo. I limiti che dividono la Vita dalla Morte sono, nella migliore delle ipotesi, vaghi e confusi. Chi può dire dove finisca l’una e cominci l’altra?” In Oxigène l’angoscia di trovarsi sepolti vivi e non potere più respirare lascia ben presto il posto alla curiosità di capire cosa sia successo alla protagonista. A mano che la storia si dipana, si capisce quanto questa pellicola sia figlia del proprio tempo, in cui la mancanza di ossigeno è forse metafora della vita isolata e claustrofobica
in cui l’era dei lockdown da COVID-19 ci ha costretti. In un mondo nel quale alcuni scenari fino a poco tempo fa futuribili e fantascientifici, come la clonazione, la possibilità di ibernarsi e la lotta contro epidemie devastanti, sembrano essere sempre più reali e vicini a noi. In un mondo nel quale il progresso medico e tecnologico e il cambiamento sociale rendono sempre più vaghi e confusi i limiti che dividono la vita dalla morte. Oxigène: un film che vale la pena vedere Alexandre Aja ha confezionato un buon prodotto, unendo con mestiere idee non originali (ma chi è in grado di produrre ancora idee veramente originali, dopo oltre un secolo di film?) mettendo in scena una storia molto impegnativa dal punto di vista cinematografico. Diciamolo pure: ambientare praticamente tutto il film in quella che in definitiva è una bara – sia pure ipertecnologica – e utilizzare un solo personaggio – peraltro in una storia che si snoda in una singola unità spazio-temporale – sono scelte difficili che pochi hanno affrontato. Tanto di cappello anche alla brava Mèlanie Laurent, che divide la scena con la voce di MILO, personaggio virtuale che ricorda molto l’indimenticabile HAL di 2001 Odissea nello Spazio, il cult del 1968 di Stanley Kubrick. Un film interessante, che vale la pena vedere, che ancora una volta testimonia come il cinema di qualità ha come suo crescente punto di riferimento
le piattaforme di streaming. Pieces of a Woman: la recensione del film disponibile su Netflix con Vanessa Corby Presentato ai festival di Venezia e Toronto, Pieces of a Woman è ora disponibile in streaming su Netflix, piattaforma che si conferma essere sempre più aperta al cinema d’autore. La pellicola di Kornél Mundruczo mette in scena il dramma vissuto da una coppia che perde il suo primo figlio. Martha Weiss (una spettacolare Vanessa Kirby) e Sean Carson (Shia LeBeouf) sono in attesa della nascita della loro primogenita.
Il travaglio è difficile, ma le cose sembrano andare per il meglio. Purtroppo la bambina muore subito dopo il parto. A mano che gli eventi si avvitano in una tragica spirale, il film sposta gradualmente il punto di vista sul dramma umano della protagonista femminile. Pieces of a Woman: un eccezionale pianosequenza iniziale Martha e Sean appartengono a differenti classi sociali: lei proviene da una ricca famiglia ebrea, lui è di umili origini e lavora alla costruzione di un ponte. Questa diversità sembra all’inizio arricchire la coppia, piuttosto che dividerla. Dopo poche scene che introducono efficacemente i personaggi, la pellicola ci regala una piccola perla cinematografica: un piano sequenza lungo oltre 20 minuti che ci fa vedere il travagliato parto affrontato dalla protagonista, ammirabilmente supportata dal suo compagno. Una sequenza dal fortissimo impatto emotivo, che dipinge una coppia cementata da un forte legame. Legame che tuttavia vacilla davanti al tragico esito del parto. Non per niente, il titolo del film compare dopo circa mezz’ora, subito dopo che il dramma si è consumato. Dopo un inizio così intenso, il ritmo del film cala, per permetterci di osservare i due protagonisti nel lento e sofferto processo di disgregazione della loro unione. Pieces of a Woman: la costruzione di un ponte come metafora della possibilità di superare le asprezze della vita Il ponte a cui lavora Sean è in fase di costruzione, e nel corso della pellicola ci viene mostrato il suo stato di avanzamento, a mano che i due tronconi che partono dalla due sponde opposte si avvicinano tra loro, verso il centro del fiume. Un ponte che tuttavia non è una metafora del venirsi incontro dei due protagonisti, che invece si allontanano
progressivamente, quanto degli sforzi di Martha per ritornare in contatto con sé stessa, dopo la tragedia della perdita della bambina. Mentre Sean rimane attaccato al passato e si dimostra incapace di accettare quanto accaduto, Martha riesce invece a metabolizzare il dramma e a voltare pagina. Nonostante i tentativi della gelida madre (una bravissima Ellen Burtyn) di imporre il suo punto di vista e scaricare la responsabilità di quanto accaduto sull’ostetrica, che viene citata in giudizio, la protagonista trova un suo nuovo equilibrio, senza scappare dalle situazioni, come invece fa alla fine il suo compagno, ma affrontandole con determinazione. Pieces of a Woman: un ottimo film basato su una recitazione di alto livello Pieces of Woman è nel suo complesso un film che si snoda lentamente, dopo l’inizio intensissimo, ma che regala forti emozioni, grazie sopratutto a una recitazione di qualità superiore, a cominciare dalla superba prestazione fornita da Vanessa Kirby, che al festival del Cinema di Venezia ha più che meritatamente vinto la Coppa Volpi per la migliore recitazione femminile. Bravissima veramente. Questa pellicola mette al centro il mondo femminile, nelle sue molteplici sfaccettare, mentre i maschi hanno un ruolo subalterno, a partire da Sean, che dietro la sua barba incolta e la tuta da cantiere nasconde una personalità fragile, incapace di mantenere un punto di vista autonomo, e finisce per subire le decisioni prese da altri. Martha si trova al centro di forze disgreganti molto forti. Dopo la morte della primogenita, sopporta le pressioni della madre invadente, che è preoccupata della brutta immagine sociale che quanto accaduto potrebbe avere, e preme per rivalersi sull’ostetrica.
La sorella della protagonista sembra solo preoccuparsi del mantenimento dello status quo, mentre Sean pare trovare temporaneo sollievo nella bottiglia e in avventure senza futuro. Martha può contare solo su sé stessa, ma alla fine riesca a farcela, nonostante tutto e tutti. Brava Martha, bravissima Vanessa Corby e complimenti a Kornél Mundruczo, che ha diretto una pellicola di qualità che vale veramente la pena di vedere. The Midnight Sky: recensione del film post-apocalittico diretto e interpretato da George Clooney
Netflix propone a partire dal 23 dicembre questo film post-apocaliptico, ambientato nel 2049, che vede George Clooney impegnato nel duplice ruolo di regista e attore principale, nei panni dello scienziato Augustine Lofthouse. Questi è un malato terminale, che si rifiuta di abbandonare la stazione di ricerca antartica Barbeau Observatory, mentre un non meglio precisato evento climatico sta spazzando via ogni forma di vita dal nostro pianeta. Quello che resta dell’umanità si ritira in cerca di precario riparo in alcuni rifugi sotterranei, ma è evidente che non c’è speranza. Augustine decide di affrontare il suo destino da solo, anche perché ha una missione da compiere: mettersi in contatto con la nave spaziale Aether, in fase di rientro da una missione su una luna di Giove, dove ha verificato la possibilità di creare
una colonia umana. Il suo obiettivo è di avvertire gli astronauti di quanto sta accadendo sulla Terra. The Midnight Sky: due storie parallele che si congiungono nel finale Buona parte delle due ore del film sono quindi dicotomicamente divise in due ambienti diversi: da un lato le vicende di Augustine, che ben presto deve abbandonare il Barbeau Observatory per raggiungere un’altra stazione con una antenna più potente, dall’altro gli accadimenti sulla nave spaziale Aether, alle prese con i pericoli presenti in una regione dello spazio sconosciuta. Il film scorre molto lentamente, e all’inizio mostra solo la routine quotidiana del solitario e malato Augustine, di cui ci vengono forniti alcuni flash- back della sua vita passata. Il monotono tran-tran viene però interrotto dalla scoperta che nel Barbeau Observatory è rimasta anche la piccola Iris (interpretata dalla bravissima esordiente Caoilinn Springall), una silenziosa bambina di cui lo scienziato deve obtorto collo prendersi cura. I due poi devono affrontare insieme i pericoli del viaggio verso un altra stazione polare, affrontando dure esperienze che cementeranno il loro rapporto. Anche i membri della nave spaziale Aether devono affrontare aventi non certo piacevoli, a cominciare dal solito sciame di frammenti vari che danneggiano il vascello. Difficile non pensare a Gravity, film dove George Clooney interpretava il ruolo di Matt Kowalswy, comandante di uno space shuttle colpito da una gragnuola di detriti spaziali. La vita a bordo della Aether risente anche del fatto che uno dei membri
dell’equipaggio, Sully, la compagna del comandante, è incinta. Le due storie scorrono parallele, ma per buona parte del film si fa fatica a percepire un nesso profondo tra loro, fino al colpo di scena finale, che tuttavia non salva un quadro d’insieme non esaltante. The Midnight Sky: un film lento e intimista, forse anche troppo In effetti forse è proprio la sceneggiatura di Mark L. Smith il punto debole di questa pellicola, la cui storia è tratta dal libro Good Morning, Midnight (La Distanza tra le Stelle), di Lily Brooks-Dalton. Si tratta dello stesso sceneggiatore di The Revenant, film che viene in mente guardando alcune scene nelle vicende antartiche di The Midnight Sky. Insomma mentre questa pellicola scorre lentamente davanti ai nostri occhi, è difficile non pensare che sia un collage di cose già viste, un assemblaggio di situazioni (il rapporto tra un vecchio e un bambino, l’ultimo uomo sulla Terra, la missione spaziale alla ricerca di un pianeta dove sopravvivere) che di per sé funzionano, ma per come sono state messe insieme formano un guazzabuglio eterogeneo, del quale si fa fatica ad avere una visione d’insieme. Troppi aspetti rimangono poco definiti, a cominciare dalla caratterizzazione dei personaggi, nel complesso scarsamente delineati e privi di arco narrativo. Gli stessi eventi che portano l’umanità all’autodistruzione non vengono esplicitati. Forse in questa pellicola c’è una eccessiva pretesa di autorialità da parte di George Clooney, che magari ha fatto il passo più lungo della gamba, volendo
fare una pellicola troppo esistenzialista e meditabonda, che alla fine rischia però di fare sbadigliare lo spettatore. The Midnight Sky: un film che non ricorderemo Perché, nonostante gli sforzi profusi per calarsi nel personaggio, che gli sono valsi anche un ricovero in ospedale per gli effetti della dieta a cui si è sottoposto per dimagrire, George Clooney non è riuscito a dare spessore ad Augustine. Non basta aggirarsi meditabondi in una base spaziale con una bottiglia di whisky in mano per tenere gli spettatori attaccati allo schermo. Perché sono cose già viste. Perché, dopo un po’, ci si chiede cosa stia succedendo veramente e che storia abbia alle spalle il triste ubriacone che vaga di water in water a vomitare dopo l’ennesima sbronza solitaria. E in due ore di pellicola il tempo per farsi domande non manca di certo, mentre le risposte vengono centellinate e non sono mai veramente esaustive. Il discorso cambia se lo spettatore sceglie di farsi trasportare dal lento flusso narrativo e di non porsi mai domande, facendosi ipnotizzare dalle malinconiche ambientazioni e dagli splendidi scenari antartici e spaziali. Perché gli effetti speciali sono di alta qualità e la recitazione nel complesso è molto buona, a cominciare dalla giovanissima ed esordiente Caoilinn Springall, capace di dare vita a una convincente Iris, che dà colore anche al personaggio di Augustine. Ma questo non basta per rimediare a una storia zoppicante che ricicla molti cliché del cinema di
fantascienza. . Peccato, perché l’idea di base non è male e la pellicola comunque regala anche qualche momento di forti emozioni, ma nel complesso questo film, tanto atteso dal grande pubblico, scivola via senza lasciare grossi ricordi. Riprovaci ancora, George. Mank: recensione del nuovo film di David Fincher disponibile su Netflix
Questo film segna un ulteriore salto di qualità nella proposta di Netflix, che ormai sfida il cinema tradizionale anche sul fronte delle pellicole d’autore. Mank, diminutivo di Herman J. Mankiewicz, è stato lo sceneggiatore del superlativo Citizen Kane (uscito in Italia con il titolo di Quarto Potere), di Orson Welles, film del 1941 che ha segnato una pietra miliare nella storia del cinema. Questa pellicola mette in scena la storia della scrittura di questo capolavoro, raccontandola dal punto di vista dello stesso Mankiewicz (interpretato da un eccellente Gary Oldman), autore geniale sul viale del tramonto, perennemente attaccato al bottiglia e in conflitto con i potenti che comunque gli davano da vivere. David Fincher ha affrontato una sfida difficile, con una pellicola in bianco e nero che affronta le le complesse tematiche del rapporto tra potere e media, tra intellettuali e cultura popolare, tra creatività e produzione di massa, il tutto calato nel contesto della Hollywood ai tempi della Grande Depressione. Mank: un film complesso che è difficile apprezzare se non si conosce la storia del cinema Tutte queste tematiche hanno caratterizzato lo stesso Quarto Potere di Orson Wells, pellicola a suo tempo di profonda rottura, sia per quanto riguarda i contenuti che il linguaggio utilizzato. Difficile riuscire a godersi tutte le sfumature di Mank se non si conosce questa pellicola. Quarto Potere metteva in scena la storia di un magnate dei media, evidentemente ispirata alla vita di William Randolph Hearst, milionario che con il suo impero mediatico poteva condizionare l’opinione pubblica del tempo, che non aveva né social media né televisione, ma doveva accontentarsi di giornali cartacei e cinegiornali. A differenza delle pellicole tradizionali, la struttura del
film era molto frammentata, cominciava dalla morte del protagonista per proseguire con con innumerevoli flashback guardati dal punto di vista di osservatori esterni. Del magnate veniva fornita un’immagine tutt’altro che positiva, sottolineandone la bassezza morale e la cupidigia. Come risultato, al tempo della sua uscita nelle sale Hearst scatenò tutta la potenza di fuoco dei suoi media e dei suoi capitali per oscurare il film, giungendo a offrire alla RKO una ingente cifra per distruggere la pellicola. Di conseguenza il film riceve solo un Oscar, quello alla Miglior Sceneggiatura Originale, che viene condiviso da Mank e Welles, quest’ultimo accreditato come co-autore. Ma il tempo renderà onore a questo capolavoro, mentre Hearst vivrà gli ultimi anni della sua vita (morirà nel 1951, dieci anni dopo l’uscita di Quarto Potere) assistendo al lento ma inesorabile declino del suo impero. Quarto Potere era un pellicola di rottura anche sotto altri aspetti. Viene fatto un ampio uso dei piani-sequenza, con inquadrature al tempo molto ardite e immagini con molta profondità di campo, cosa proibita nel cinema classico, dove invece dovevano essere messi a fuoco solo i protagonisti. Veniva inoltre fatto un largo uso di chiaro-scuri e di ombre, per dare maggiore teatralità alle scene. Cosa forse più spiazzante di tutte, il punto di vista non era quello del protagonista: la telecamera sembrava vagare di nascosto nelle scene, inquadrando i personaggi con angolazioni ardite, invitando lo spettatore a farsi una sua idea di quello che vedeva. Cosa al tempo impensabile, per il grande pubblico. Mank: un omaggio a un capolavoro del cinema Anche la pellicola di David Fincher ha numerosi flash-back, che gettano una finestra sulla Hollywood degli anni Trenta, in piena Grande Depressione, seguiti dai flash-forward nel 1940, in una isolata magione persa nel deserto, dove Mank,
immobilizzato a letto a causa di una frattura, scrive il suo capolavoro, assistito da una stenografa inglese e da una infermiera di origini tedesche, con l’inquieta presenza di Orson Wells che si agita sullo sfondo. I flash-back ci portano negli studi delle case di produzione di David O.Selznik e di Louis B. Mayer, nelle quali gli sceneggiatori spesso lavoravano con un salario fisso e non venivano riconosciuti nei crediti, come era successo allo stesso Mankiewitz molte volte. Anche per la scrittura di Quarto Potere Mank inizialmente aveva accettato di non essere riconosciuto, salvo cambiare idea dopo essersi reso conto di avere scritto un capolavoro. Al tempo la produzione cinematografica era una sorta di catena di montaggio, dove le case di produzione facevano il bello e cattivo tempo e lo spazio per la creatività personale era ridotta all’osso. Fincher tratteggia Mank come una sorta di antieroe, un intellettuale di razza costretto a venire a patti con la squallida realtà degli studios, capace di difendersi solo con la sua dialettica mordace nel mondo spietato dell’industria della comunicazione nella società di massa. E proprio in veste di giullare alla corte di William Randolph Hearst, nella sua fantasmagorica residenza di Saint Simeon, che Mank ci viene raffigurato mentre dà il peggio di sé, ubriaco disfatto in una serata dell’alta società, prima di essere gentilmente sbattuto fuori di casa dal magnate. Il film indugia molto sul ruolo ormai subalterno della classe intellettuale nella società di massa, dedicando molte scene alla campagna elettorale del 1934 per l’elezione del governatore della California, che vedeva lo scrittore democratico Upton Sinclair opporsi al candidato repubblicano Merriam, appoggiato da Hearst e Louis B. Mayer. I media avranno un ruolo determinante nel determinare la vittoria dei conservatori, mentre Mank riceve una sonora sconfitta personale: in primo luogo perché scommette sulla vittoria
dello scrittore democratico, perdendo una ingente somma, e in secondo luogo perché contribuirà involontariamente a concepire le pellicole girate come spot elettorali per Merriam. Mank: una chicca per cinefili Fincher tratteggia un Mankiewitz sconfitto su tutti i fronti, salvo quello della creazione intellettuale. E sarà proprio la scrittura a permettergli di redimersi e di prendere la sua rivincita contro il potere finanziario e dei media. In Quarto Potere William Randolph Hearst diventa Charles Foster Kane, e la sua immaginifica magione di Saint Simeon viene trasposta nella fantastica Xanadu, dove alla fine more da solo, abbandonato da tutti. E lo stesso Mank descritto da Fincher è alla fin fine un antieroe solitario, consapevole di essere arrivato alla fine del suo ciclo, e dei limiti intrinseci del cinema come metodo di rappresentare la realtà. “Non si può restituire l’intera vita di un uomo in solo due ore, ma solo provare a darne un’impressione”, ci ricorda il personaggio fincheriano. Un Mank che alla fine rimane ancorato all’immagine dell’intellettuale di alto livello che si oppone alla cultura popolare, bene riassunta nella sua battuta: “Vieni a Hollywood, puoi guadagnare milioni e i tuoi unici rivali sono degli idioti”. E forse questo film è stato concepito proprio per un pubblico di intellettuali e di cinefili. Viene naturale chiedersi cosa il buon vecchio Mank dipintoci da Fincher potrebbe pensare del mondo dei media odierno. In fin dei conti, a parte il progresso tecnologico, non è cambiato molto. Anche oggi abbiamo problemi legati al monopolio dell’informazione, dominato dai giganti del Web, come Google, Twitter e Facebook, e ancora oggi c’è il problema dell’imparzialità dei media nel confronto politico, come le ultime elezioni presidenziali statunitensi sembrano
dimostrare, tanto per citare un esempio. E il mondo dei media continua a mutare, anche a causa della pandemia da COVID-19, che ha accelerato diverse tendenze già in atto, come l’avvento delle piattaforme di streaming e la crisi delle sale cinematografiche tradizionali. E Mank, non per nulla, viene trasmesso da Netflix, che sempre di più sembra proporre anche cinema d’autore… Curon: recensione della serie TV italiana disponibile su Netflix
Questa serie TV horror/mistery made in Italy, disponibile su Netflix, ruota intorno al tema del dopplegänger, termine tedesco che allude all’esistenza di un gemello maligno, situazione che nella letteratura, nel folclore e nella mitologia è una delle rappresentazioni dell’eterna lotta del bene contro il male. Nel cinema questo concetto ha visto innumerevoli trasposizioni, a cominciare dalle numerose pellicole girate sul Dr. Jeckyll e Mr. Hide, tanto per citare uno degli esempi più conosciuti. La serie TV deve il suo nome all’omonimo paese del trentino Alto Adige, situato a circa 5 km dal confine austriaco, una location affascinante , visivamente associata al campanile che emerge dalla
superficie del lago di Resia. Un manufatto del Trecento sacrificato per creare un lago artificiale nel Dopoguerra italiano. La serie reinventa una storia soprannaturale su un dramma molto terreno e umano: la distruzione di un paese per realizzare un bacino idrico per la produzione di energia elettrica. Nonostante il fatto che le campane siano state rimosse settant’anni fa, una leggenda locale racconta che nelle giornate più ventose si sente comunque ancora il loro rintocco. E su questa narrazione legata al folclore locale è stata sviluppata questo thriller metafisico, articolato in sette episodi. Una storia basata sulla contrapposizione tra opposti Il racconto comincia con il ritorno da Milano nella piccola Curon Venosta di Anna (Valeria Bilello) e dei suoi due figli gemelli, Mauro (Federico Russo) e Daria (Margherita Morchio). Una classica riproposizione del conflitto tra l’asettica civiltà metropolitana e le vecchie tradizioni che resistono nella periferia agreste e provinciale. L’accoglienza non è delle migliori. Il padre di Anna (Luca Lionello) le fa subito capire di avere commesso un errore. Perché sulla sua famiglia, come del resto su tutto il paese, pesa un oscuro passato e aleggia una terribile maledizione. Anna capirà ben presto che il padre ha ragione. La storia si concentra subito sui due figli, che hanno personalità opposte: Mauro è introverso, razionale e riflessivo, mentre Daria è esuberante e aperta a nuove esperienze. Superata l’iniziale diffidenza dei nuovi compagni di scuola, i due
cominciano un difficile percorso di integrazione con la comunità locale. Un cammino accidentato, visti i profondi pregiudizi degli autoctoni nei confronti della loro famiglia, che ben presto si ferma, a causa del precipitare degli eventi. E lo stesso microcosmo di Curon ripropone la classica contrapposizione tra la relativa normalità del centro abitato e gli inquietanti boschi che lo circondano, popolati da lupi. Ma non è certo dei lupi che i protagonisti dovranno preoccuparsi. La storia vede poi una profonda contrapposizione tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti, cosa abbastanza naturale per una serie di questo tipo. Il conflitto generazionale è uno dei motori narrativi delle vicende che accadono a Curon, reso più inquietante dalla presenza dei dopplegänger, che inesorabilmente compaiono quando qualcuno eccede nel reprimere i propri impulsi. I conflitti interiori degli abitanti si traducono quindi spesso nell’azione distruttiva dei loro doppi. Spesso, ma non sempre. Perché alcuni dopplegänger, alla fin fine, poi così tanto cattivi non sono. Curon: una onesta serie TV forse troppo bistrattata da certa critica Insomma questa serie TV ripropone molti luoghi comuni e ambientazioni già viste in altre produzioni, ma viviamo in mondo multimediale e interconnesso dove ormai produrre qualcosa di veramente originale è pressoché impossibile, vista la sterminata produzione cinematografica che è stata fatta a partire dalla fine dell’Ottocento. In questo contesto la bravura dei creativi consiste
giocoforza non tanto nell’inventare qualcosa di veramente nuovo, ma di risassemblare in modo creativo e godibile elementi che qualcuno ha già inventato. Quentin Tarantino ha prodotto capolavori facendo questo, in fin dei conti, come da lui stesso dichiarato. Leggere in alcune recensioni che Curon è un prodotto modesto perché avrebbe copiato – tra le altre cose – dallo Shining di Kubrick l’ambientazione dell’albergo del padre di Anna fa quindi francamente sorridere. Certo, non stiamo parlando di un capolavoro destinato a rimanere scolpito nell’eternità, ma si tratta di un onesto prodotto a basso budget, senza macchia e senza lode. Certo, la storia ha dei momenti di caduta del ritmo, la recitazione di alcuni personaggi alle volte è un po’ di maniera (molto brava però l’esordiente Margherita Morchio), ma nel complesso la narrazione è accattivante, complice anche un’ottima fotografia e la scelta delle suggestive location, ed è bello lasciarsi trasportare nei misteri di questo paesino sperduto sui monti. Curon non fa certo dell’originalità la sua bandiera, ma riesce bene nel suo scopo: intrattenere piacevolmente il pubblico per qualche ora. Facendo anche vedere in tutto il mondo uno scorcio della nostra bella Italia. Attendiamo il suo seguito.
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