Incontro assemblea santa CateGio 14 settembre 2019
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… Un’esperienza molto significativa quella che ci racconta il vescovo di San Marino, mons. Andrea Turazzi, che dimostra quanto siamo distanti dalla vita reale e la fatica che facciamo ad accorciare le distanze. Non è più solo un problema di fare manutenzione delle vecchie modalità con cui si viveva la missione, ma di assumere nuove forme della vita missionaria. La missione ad gentes, ci ricorda il nostro vescovo, mons Perego, deve essere contestualmente una missione inter gentes, ovvero fra noi. Siamo chiamati a cambiare, sollecitati dalle provocazioni dello Spirito e non per conformarci alle mode del mondo. La vita dei giovani, ma, in generale, delle persone è caotica e frequentemente conduce al dis-adattamento sociale. È la vita di chi torna a casa la sera devastato dal lavoro e si rende conto che ha il frigorifero vuoto. Questo soggetto post- moderno si immette allora con un po’ di disperazione nel traffico, facendo esperienza di intolleranza e frustrazione, e raggiunge il primo ipermercato, dove, una volta arrivato, si accorge di risultare invisibile agli altri esasperati conducenti di carrelli con almeno una ruota non funzionante. Al termine dell’impresa consumistica fra le corsie impazzite, dovrà prendere al volo i prodotti della sua spesa, che gli vengono lanciati dall’iracondo cassiere… Tutti quelli che incontriamo, in questi frangenti quotidiani, possono apparirci come mostri privi di cuore e incapaci di atteggiamenti civili. Ma questa è la modalità predefinita di vedere le cose. Abbiamo anche un’altra scelta, quella di vedere oltre. Immaginare che la signora con gli occhi gonfi e il trucco disfatto, che ti ha appena urtato il carrello, faticosamente condotto di sbieco, è forse una di quelle donne che stanno accudendo da mesi un marito malato. Magari non dorme da diversi giorni. Oppure è la stessa gentile impiegata, che al sindacato ha aiutato tua moglie, qualche giorno prima, a disbrigare una faccenda amministrativa intricatissima e ha speso nel lavoro ogni residuo di energia. E la cassiera? Chissà se a causa di orari pazzeschi e straordinari sottopagati, abbia raggiunto l’apice della stanchezza e dell’intolleranza. Si, possiamo immaginare che la vita degli altri non sia necessariamente migliore della nostra e iniziare a vedere le cose un po’ diversamente. Come affermava David Foster Wallace (da cui ho pedestremente rubato queste immagini) si tratta di recuperare la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, iper-consumistica, trovandola non solo significativa, ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Il problema è sempre lo stesso con giovani e adulti: dimmi come pensi gli altri e ti dirò a che dio ti sei votato, ovvero quale ‘assoluto’ veneri nella tua vita. A dire il vero, parlando di assoluti, ce n’è uno solo, che io conosca, capace di svuotarsi di tutte le sue prerogative, per essere dalla nostra parte. È il Dio dal volto umano. Quel Signore di Emmaus che ha fatto la strada allontanandosi dal tempio, nella direzione dei dubbi e della tristezza dei due discepoli, che proprio non avevano intuito nulla. Ecco camminare dentro il cammino dell’altro è davvero difficile, uno stile, per certi aspetti, rivoluzionario. Camminare e dare la parola: Gesù, il Signore, non fa prediche sulla virtù della pazienza o della perseveranza, ma suscita domande. ‘Di cosa stavate parlando lungo il percorso?’. Per la società delle risposte preconfezionate questa è una grande sfida: aiutare le persone a chiedere, ad interrogare e ad interrogarsi. Far sorgere in ciascuno prepotente il diritto soggettivo di guardare a fondo le esperienze e se possibile di trasformarle col nostro umile contributo. Non serve una buona notizia ad un mondo assuefatto, che non cerca più niente, che non ha più alcun desiderio. Dalle domande si deve passare alla luce del vangelo, il resto, come direbbe il Califfo è noia, meglio è retorica. Ma poi c’è lo straniero ad Emmaus. Paroikeo è il termine usato: ‘tu solo sei così straniero? Non lo avevano scambiato di certo per il parroco di Gerusalemme, semplicemente era estraneo ai discorsi che facevano. Ma probabilmente Gesù denunciava la propria estraneità ad un kerygma capace di annunciare solo di morte. Accogliere lo straniero è un tonico per una fede che si affievolisce. Significa non dare gli altri per scontati. E poi l’eucarestia, la forza che trasforma tutta la vita cristiana, come ci insegna l’ultimo meraviglioso capitolo di Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI. Esistenza eucaristica, ecco la forma della missione. Gesù riconosciuto è già avanti che precede il nostro cammino. Eucarestia, tutta per la missione; missione, tutta per la comunione. Undici Km, per tornare da Emmaus a Gerusalemme, ma questa volta col cuore caldo e pieno di speranza.
… Il modulo dello sbattezzo e una serie di sfortunati eventi. Che ne è del battesimo dei nostri giovani? Che ne è del battesimo di tante persone, attorno a noi? Che ne è del nostro battesimo, radice di ogni vocazione e del nostro essere discepoli-missionari? Proviamo dispiacere, quando una chiesa viene chiusa, una scuola materna parrocchiale soppressa, un’istituzione cattolica perde il suo senso e la sua funzione sociale. Immaginarsi quando i figli si allontanano dalla chiesa, mostrano un analfabetismo religioso devastante, o decidono di arrabbiarsi col… Vaticano, oppure, esito sempre più diffuso, ritengono semplicemente che la domanda di eccedenza, che nasce dalla vita, non abbia a che fare con Dio, ma come molti di noi ritengono, con la tecnologia in progress. Detto in altri termini, se Dio non è colui che può rispondere alla domanda: ‘come posso essere felice?’ (vedi giovane ricco), che me ne faccio? Non è un problema che possiamo risolvere con una bella ‘prova ontologica’ sull’esistenza di Dio, con buona pace di quel geniaccio di Sant’Anselmo. Tanto meno con un bel predicozzo morale. Se un automobilista, senza navigatore, ti chiede dove si trova il Castello Estense, la prima cosa che fai non è certo indicargli la strada per Comacchio, a meno che tu non sia un inguaribile burlone. Se, nella mia confusione, domando del centro, non mandarmi in periferia per favore. Perché è il centro il ‘caso serio’ che mi tocca, che mi interessa. Ecco la questione problematica, nei nostri stili di vita cristiani il centro è diventato periferico e la periferia è l’unica cosa, di cui sappiamo maldestramente parlare. Il centro non è più costitutivo della nostra vita. Il modulo per lo sbattezzo è solo l’ultimo effetto di una incomunicabilità della fede, che ci lascia sbigottiti, ma non ci cambia, purtroppo! Il battesimo è il fondamento, che sollecita la nostra conversione, che tocca la nostra esistenza. Una grazia risanante e trasformante, che attrae la nostra libertà. È la tensione, dentro un cambiamento di prospettiva capace di cambiare il nostro sguardo sulla realtà: Rinunci?...Credi? È, in sintesi, una questione di morte e di vita! Morire all’uomo vecchio conviene, ma solo per vivere in Cristo, il nuovo Adamo. Come ogni nuova nascita, non si tratta di niente di semplice. La difficoltà l’aveva intuita il buon Nicodemo: ‘come può un uomo tornare nel ventre di sua madre?’. Rinascere dall’alto è il trucco! Ma rinascere dall’alto significa che solo la santità è convincente, perché ha a che fare con la vita, è ricca di fascino. Come diceva Von Balthasar: solo l’amore è credibile! Allora contro l’ansia da sbattezzo e da sfortunati eventi, rimeditiamo la parabola del padre misericordioso. Un genitore atipico e silenziosamente amorevole che permette al figlio, senza battere ciglio, di abbandonare la casa, dilapidare l’eredità nell’impurità morale, inventarsi una scusa per tornare. Da dove comincia la pars costruens di questo papà? Una strategia celeste in 4 mosse. Benedice la libertà del figlio (tutto è grazia, ma la grazia esige la libertà). Non smette di essere in contatto con lui mentre è lontano (niente superiorità morale). Lo anticipa-accoglie restituendogli concretamente dignità filiale (Lo gnosticismo non sfama, non riveste, non fa compagnia, soprattutto non corre incontro a chi ritorna). Fa festa, provocando l’ira dei fedelissimi che non capiscono (prova a curare il figlio maggiore dai sintomi da pelagianesimo-volontaristico, proponendogli la mistica dell’incontro e del fratello…ritrovato). Soprattutto… non si preoccupa del modulo dello sbattezzo.
… La fatica e la gioia di essere madre. Un noto catecheta ha affermato di recente, nel corso di un convegno, che chi non ha fatto l’esperienza di generare un figlio non può capire cosa sia l’iniziazione alla vita cristiana. Resosi conto della presenza massiccia di sacerdoti e religiose, ha, subito dopo, attenuato l’affermazione aggiungendo con un sorriso: ‘è chiaramente una metafora’. A quel punto la faccia del vescovo presente si è nuovamente rilassata. In effetti quando parliamo di comunità generativa, pensiamo proprio a questa esperienza di una madre. Vorrei però, anche in questo caso, fare alcune precisazioni. Spesso scambiamo la complessità del generare con la semplificazione di un trasmettere nozioni. Sembra che la sfida si limiti al livello cerebrale. Persino le nostre celebrazioni sembrano piuttosto ‘cerebrazioni’. Ora una domanda: ‘Dove sta l’origine? È possibile ridurre il mistero autore della vita ad un concetto?’. La comunità smette di essere generativa, quando diventa un riunionificio permanente, anche perché Gesù ha detto: ‘vieni e vedi’ non ‘vieni e siedi’. Cosa fa invece una mamma? Nella Bibbia c’è un’immagine che ci aiuta a capire quando un grembo non è generativo: è quella di Sara, o per lo meno di Sara prima maniera. Una donna (comunità) che si sostituisce a Dio (procura lei ad Abramo una giovane schiava; primo caso storico di utero in affitto). Rivendica la propria esclusività sul figlio dell’altra, come una padrona: non si fida né di Dio, né del prossimo. Si sente giudicata e dunque giudica. Dopo la nascita di Isacco non permetterà ai due bambini di giocare insieme, esercitando una sorta di protezionismo educativo, legato al proprio senso di inferiorità. Fuor di metafora, non occorre molta immaginazione per comprendere i danni che può fare una comunità di questo tipo. Una mamma invece vive l’attesa, accompagna ogni momento della sua creatura, promuove e festeggia ogni sua minima conquista, la sfama col cibo adatto, ne favorisce i processi di autonomia, aiuta il figlio a socializzare, trova modi e linguaggi diversi per stimolarlo, osserva con gioia il suo modo originale di gattonare, non si preoccupa se la strategia del piccolo bipede implume, per affrontare le prime sfide, è standardizzata… se tutti hanno sempre fatto così, suo figlio le sta mostrando una via nuova, che non va lasciata cadere. Le mamme costruiscono reti con le altre mamme, si aiutano, perché ogni esperienza venga valorizzata e nessuno si trovi nella difficoltà da solo. Quel genio di san Paolo ha inventato un termine meraviglioso per questo apporto alle condizioni di uno sviluppo della fede, una parola che nel testo greco suona così: synergói. Una parola ricca di significati, che traduciamo con ‘collaboratori’ e più precisamente collaboratori di Dio (1Cor 3,9). Letteralmente sono coloro che lavorano insieme, i colleghi. Basta pensare a come funziona un ufficio, dove i colleghi non vanno d’accordo o non condividono le finalità, per comprendere come sia importante in questa azione la sin-tonia. Il termine evoca anche i complici. Si può essere complici per il male, certo. Ma anche fare il bene, richiede una certa complicità: ‘Paolo ha piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere’ (1Cor 3,6). Infine, è una parola straordinaria perché ci spinge a parlare sempre, tenendo presente la comunità e non come araldi del nostro ego. San Paolo nelle sue lettere cita almeno una quarantina di questi collaboratori che agiscono insieme a lui. Pare avesse un carattere insopportabile e molti di questi signori lo abbandoneranno nel corso della sua missione e specialmente nel periodo della prigionia. L’unico che pare lo abbia sopportato fino in fondo è stato Luca, che doveva davvero essere un tipo ‘mite’, come testimonia il suo vangelo. Nonostante questo, anche quando Paolo è solo, parla sempre a nome di un ‘noi’, di un gruppo, un’equipe, una comunità. C’è un ultimo significato che si ottiene per contrasto con un altro atteggiamento possibile e diffuso nelle comunità, fin dai tempi di Paolo. Già da allora, chi esercitava un ministero nella chiesa aveva la tentazione pericolosissima di ergersi non a collaboratore, ma a kyrieuomen, signorotto, padrone della fede altrui (2Cor 1,24). Paolo dichiara la sua volontà ad essere collaboratore e non padrone della fede degli altri. Per noi vuol dire guardare ancora una volta alla ‘metafora’ materna. Non c’è nulla di più pericoloso di un figlio che sia il prolungamento dei desideri di una madre. Non siamo noi i padroni della vita degli altri e neppure siamo in grado di rispondere alle loro domande di pienezza e felicità, ma possiamo creare le condizioni, perché anche loro possano toccare, vedere, ascoltare, gustare, odorare il mistero della gioia.
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