Ilva. Confindustria, Federacciai e Gozzi hanno la memoria corta
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Ilva. Confindustria, Federacciai e Gozzi hanno la memoria corta… Era il 2 settembre del 2014 quando Antonio Gozzi presidente della Federacciai (associazione aderente a Confindustria) invitato ad un dibattito alla Festa dell’Unità di Genova, disse: ‘Fino al 2012, gli italiani in grado di gestire l’ILVA c’erano, ed erano i Riva. In 16 anni non hanno mai chiesto soldi allo Stato e hanno sempre dato reddito ai lavoratori‘”. Per Gozzi dunque non era importante che a causa dei veleni dell’ Ilva le indagini epidemiologiche hanno stabilito che i bambini di Taranto muoiono il 21% in più e si ammalano di tumore per il 54% in più rispetto alla media pugliese. Sempre Gozzi l’anno successivo intervistato dal programma radiofonico “Fabbrica 2.4″ condotto da Filippo Astone su Radio 24 ( di proprietà di Confindustria n.d.r.) sosteneva che “L’incriminazione dei commissari dell’ ILVA, Enrico Bondi e Piero Gnudi e’ spiegabile con l’accanimento della magistratura nei confronti dell’ILVA e con un rigore eccessivo rispetto alla realta’ delle cose“. Per Gozzi, lo scopo finale della magistratura sarebbe di chiudere l’ILVA, provocando danni importanti all’industria italiana e all’occupazione in Puglia. “Da parte di settori dell’opinione pubblica, e anche da parte di qualche sostituto procuratore o giudice delle indagini preliminari, si pensa che nel rapporto costi/benefici della situazione tarantina sarebbe meglio che l’ILVA fosse chiusa. In molti casi – ha proseguito Cozzi – la magistratura ha avuto un ruolo esorbitante“ Gozzi ha sempre preso le difese della famiglia Riva definendoli durante l’intervista sia “eroi“, sia “agnelli sacrificali”. Per Gozzi, che non ritiene che le morti a Taranto siano ascrivibili all’ILVA, i Riva sono “bravi imprenditori per quello che hanno fatto in 50 anni di storia, gestendo molto bene le loro aziende“. Per Antonio Gozzi, il presidente e proprietario dell’Entella calcio, un industriale che ha fatto fortuna nella “bassa” bresciana, la statalizzazione dell’ILVA sino a poco tempo fa era una buona idea, in tempi di privatizzazioni forzate. Quindi in controtendenza rispetto alle scelte governative dalla fine degli anni novanta in poi, una scelta marcatamente di sinistra. Gozzi spiega: “In una situazione così grave e straordinaria come quella dell’ ILVA non mi scandalizza che il presidente del Consiglio abbia pensato a un intervento dello Stato come a una delle possibili opzioni“. Gozzi continuava: “Il problema è che pragmaticamente bisogna affrontare il tema di una grande fabbrica che fino a quando ha avuto una gestione privata è stata in piedi e che dopo due anni di choc provocata dallo Stato nelle sue diverse
articolazioni (magistratura, commissari, eccetera) è praticamente sull’orlo del fallimento“. Ieri Gozzi rispondendo alle domande dei giornalisti sull’attuale situazione dell’ ILVA di Taranto, prima dell’inizio degli Stati Generali dell’acciaio che si sono svolti a Milano alle Officine del Volo, è ritornato sull’argomento “Sottolineiamo da tempo i moltissimi errori che sono stati fatti in questa vicenda, a partire dai commissariamenti che non hanno dato niente se non una gigantesca distruzione di ricchezza. Hanno violato principi fondamentali del diritto e rappresentato un’ombra sulla reputazione internazionale del Paese” aggiungendo “quando si espropriano le aziende senza indennizzo e poi si fanno fallire, l’investitore straniero ci pensa 50 volte per venire ad investire“. nella foto Antonio ed Emma Marcegaglia Dichiarazioni quelle di Gozzi, come sempre smentite dai fatti. Infatti Arcelor Mittal, multinazionale franco-indiano leader del settore siderurgico è in prima fila per rilevare lo stabilimento di Taranto, insieme al gruppo Marcegaglia. “Noi – ha replicato l’amministratore delegato Antonio Marcegaglia – siamo da sempre schierati a fianco di Arcelor Mittal e questa è una scelta precisa legata alla forza industriale e finanziaria di Mittal. E riteniamo – ha aggiunto – che Mittal sia il candidato più qualificato per una sfida così importante.” “L’impegno di Mittal“ ha spiegato l’industriale Marcegaglia “è assolutamente un investimento serio, solido e di medio termine. Non capisco chi lo dava per non fondato. Mittal è interessato genuinamente ad una maggiore presenza in Italia che sia certamente a rafforzamento del mercato. Il nostro piano industriale per l’ ILVA è valido, così come l’azienda è necessaria all’ Italia è assolutamente funzionale ai piani di Mittal“. A più di qualcuno sopratutto dalla memoria corta o a gettone, è sfuggito…che il Gruppo Marcegaglia è dell’omonima famiglia che ha espresso un recente presidente di Confindustria, e cioè Emma Marcegaglia, l’attuale multinazionale italiana nel settore energetico- petrolifero. Che qualcosa di industria ci capisce. La memoria corta e le tangenti di Gozzi. Il presidente di Federacciai, che nel marzo dello scorso anno è stato arrestato ( e poi
rilasciato) a Bruxelles, accusato di corruzione nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti pagate in Congo ad alcuni ufficiali pubblici per ottenere appalti. Il quotidiano regionale ligure Il Secolo XIX, citando alcuni quotidiani belgi, scriveva che “Gozzi era sospettato di aver escogitato con altre persone un piano per diversificare le attività del gruppo in Congo nel gioco d’azzardo (l’uomo politico ha anche presieduto una società congolese del settore) e nel sito Metallurgical Maluku. Kubla ha ammesso di aver dato 20.000 euro alla moglie del primo ministro congolese Adolphe Muzito durante una delle sue visite a Bruxelles, ma ha sostenuto che “si trattava del pagamento di una fattura”. L’ex ministro aveva inoltre fondato a Malta la Socagexi Ltd, che ha ricevuto dalla Duferco ( società di Gozzi – n.d.r.) un totale di 240.000 euro. Le fatture fanno riferimento a un “sondaggio sulle prospettive commerciali in paesi africani (Congo, Guinea)” e “costituzione di una società in Congo”. Quei bravi ragazzi dei Riva….. Gozzi nella moltitudine di elogi sperticato al Gruppo Riva, ha dimenticato filone di indagine per evasione fiscale guidato dal neo-procuratore capo di Milano Francesco Greco che ha portato al sequestro di 1.2 miliardi di euro detenuti dai trust promossi dai Riva in Jersey, una delle isole del Canale a sovranità britannica, utilizzate per gli affari “offshore”, di cui 1 miliardo circa è depositato presso Ubs Fiduciaria a Zurigo, e gli altri 200 milioni sono in Italia, presso Banca Aletti & Co. Secondo la ricostruzione degli investigatori, i Riva avrebbero fatto confluire il denaro nei trust di Jersey attraverso complesse operazioni societarie su finanziarie di diritto olandese e lussemburghese, a loro volta legate alle attività industriali del gruppo. In pratica, gli ex- padroni dell’ ILVA hanno prelevato denaro dalle casse delle aziende produttive per nasconderlo all’estero al riparo del Fisco. Il meccanismo finanziario messo a punto nel tempo dai Riva non temeva confronti con le più sofisticate alchimie studiate dai grandi banchieri internazionali. Ne sanno qualcosa gli investigatori che da mesi stanno cercando di ricostruire i flussi di denaro che in qualche modo fanno capo all’ottuagenario Emilio Riva insieme a figli e nipoti. Alla morte di Emilio, i figli hanno rinunciato in Italia all’eredità, ben consapevoli che i forzieri di famiglia stanno all’estero, ben protetti al riparo di paradisi fiscali come l’Olanda e il Lussemburgo. Del resto il patron Emilio era uomo di mondo, non solo per lo splendido villone di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, da decenni frequentato dalla famiglia. Più di vent’anni fa, alla caduta del Muro, l’imprenditore milanese fu il primo a precipitarsi in Germania Est per rilevare a prezzi di saldo alcune grandi acciaierie del posto.
Un affarone. Ma c’è dell’altro, molto altro. I documenti ufficiali raccontano di movimenti per miliardi tra le società oltrefrontiera “targate” Riva. Questo denaro serve in buona parte ad alimentare un colosso industriale come l’ILVA, ma risalendo controcorrente il gran fiume dei soldi non è escluso che possano emergere nuove sorprese. A Torino, per esempio, i controlli dell’Agenzia delle entrate si sono concentrati su un’operazione di rimpatrio che in qualche modo sembra ricondurre ai Riva. Una somma importante, una cinquantina di milioni di euro, è rientrata dall’estero in Italia grazie allo scudo fiscale varato negli anni scorsi dalla premiata coppia Berlusconi-Tremonti. Quel denaro, anche se formalmente gestito da un professionista, sarebbe in realtà riconducibile ai padroni dell’ ILVA. Questo almeno è il sospetto degli ispettori del Fisco nostrano, che hanno messo nel mirino quel movimento anomalo. Resta da vedere se le indagini verranno davvero a capo di qualche irregolarità. In generale, però, l’individuazione del patrimonio dei Riva può rivelarsi fondamentale per quello che in termini giuridici viene definito “sequestro per equivalente“. E cioè le somme che eventualmente potrebbero servire per far fronte al risarcimento per i danni ambientali causati dallo stabilimento ILVA di Taranto. Riva, Berlusconi e Bersani. Intanto però lo scandalo dei veleni che ha travolto l’acciaieria, con gli arresti e il sospetto di mazzette a funzionari pubblici, bastano (e avanzano) per proiettare una luce sinistra sull’impero finanziario di una delle grandi famiglie del capitalismo italiano, imprenditori che negli anni scorsi sono stati in prima linea nel finanziamento a partiti e uomini politici, da Forza Italia a Pier Luigi Bersani, e che ai tempi del governo Berlusconi non si sono fatti pregare per intervenire nel mancato salvataggio di Alitalia, di cui il gruppo Riva (con un investimento di 120 milioni di euro) era di di fatto il terzo azionista dopo Air France e il gruppo di società riconducibili a Banca Intesa. Sarà un caso, ma l’istituto che all’epoca dei fatti guidato dall’ex- ministro Corrado Passera si è distinto come uno dei più importanti finanziatori della galassia d’attività della famiglia milanese. Una galassia in continua evoluzione, come dimostrano le novità di queste ultime settimane. L’inchiesta dell’ Espresso. In un dettagliato reportage dell’ottimo collega Vittorio Malagutti si evidenziava che non è difficile non notare, infatti, che i Riva hanno messo mano al sistema delle loro holding d’oltreconfine. Scissioni, scorpori, fusioni varate proprio nelle settimane calde dell’inchiesta giudiziaria sull’acciaieria di Taranto, con l’arresto, tra gli altri, di Emilio (ai domiciliari vicino a Varese, prima di morire di tumore) e del figlio Fabio, che è
fuggito all’estero per evitare il carcere, e rimpatriato con rogatoria internazionale si trova attualmente in carcere in Lombardi, dove si sta curando dal tumore che ha colpito anche lui. Quella maledetta malattia di cui rideva al telefono minimalizzandola quando parlava del calvario dei molteplici tumori tarantini. La lussemburghese Stahlbeteiligungen holding (d’ora in poi, per semplicità, Stahl holding) ha girato la propria quota nell’ ILVA (il 25,3 per cento) alla Siderlux, un’altra società lussemburghese creata in quei giorni dai Riva. Poche settimane prima, invece, a fine luglio, la stessa Stahl holding si era fusa con la controllata Parfinex, anche questa con base nel Granducato. Le “scatole cinesi” dei Riva all’estero per evadere il Fisco. In cima alla catena societaria troviamo la Utia. Cioè la finanziaria che controlla la quota più rilevante del capitale della Riva fire, la holding italiana della famiglia. Utia ha formalmente sede in Lussemburgo, ma in pratica ha i connotati di una società svizzera. Il suo bilancio è espresso in franchi e lo statuto si basa sulle leggi della Confederazione. Ebbene, il 3 agosto scorso, nel pieno della bufera, Utia ha rafforzato il capitale di 20 milioni di franchi, circa 16,5 milioni di euro. Chi ha messo i soldi? Risposta: la Monomarch, un’altra finanziaria, questa volta olandese, che fa capo alla famiglia dei padroni dell’ILVA. Come si spiegano queste operazioni? Va detto che anche in passato i Riva hanno più volte rimescolato le carte nel mazzo del loro impero. E i riassetti sono sempre stati spiegati con l’esigenza di semplificare l’organigramma, nel senso di rendere più agevoli i flussi finanziari (dividendi e altro) verso i piani alti della catena di controllo. Certo che con l’aria che tira, e la minaccia di sequestri giudiziari sulle quote della famiglia, ogni passaggio azionario finisce per apparire di per sé non proprio casuale. Indagini a parte, per i Riva l’obiettivo numero uno è sempre stato quello di pagare meno tasse possibile. E allora, per ridurre al minimo indispensabile il carico fiscale, conviene tenere all’estero le casseforti e giocare di sponda sui finanziamenti alle controllate. La Stahl holding, per dire, a fine 2011 vantava un attivo di bilancio di 4,8 miliardi di euro con prestiti alle consociate per 1,8 miliardi. Ma c’è una cifra che più di tutte dà un’idea dell’enorme ricchezza parcheggiata all’estero dai Riva. Conti alla mano si scopre che la Stahl holding custodisce qualcosa come 1,6 miliardi alla voce “utili degli esercizi precedenti“. Cioè i profitti non distribuiti ai soci che sono andati a rafforzare il patrimonio della holding.
A volte, però, il gioco a rimpiattino con il Fisco finisce male. Nel 2011 il gruppo Riva ha patteggiato con l’Agenzia delle Entrate il pagamento di 97 milioni per sanare una serie di irregolarità che riguardano, recita il bilancio della holding Riva Fire, l’impiego di liquidità. La somma sarà versata all’Erario in tre rate annuali. Ma c’è anche un capitolo penale. Come ha rivelato a suo tempo il Corriere della Sera , il pm milanese Carlo Nocerino chiuse un’inchiesta con rinvio a giudizio a carico dei Riva, per frode fiscale che vedeva fra gli indagati Emilio Riva e alcuni manager dell’ILVA. In pratica sarebbero state costruite alcune operazioni all’estero al solo scopo di produrre perdite e quindi ridurre il carico d’imposte. Risultato: secondo l’accusa l’azienda siderurgica sarebbe così riuscita a risparmiare, in modo fraudolento, almeno 52 milioni sulle tasse. Il colpo grosso però fu un altro. Un affare da 400 milioni. anche questo un affare fiscale . In pratica sintesi, nei conti del 2011 i Riva erano riusciti a guadagnare qualcosa come 478 milioni di euro grazie a una capriola contabile. Nel bilancio consolidato della holding Riva Fire apparve la voce “imposte anticipate su perdite fiscali“. Praticamente, gli amministratori del gruppo hanno utilizzato da subito i risparmi d’imposta che prevedono di avere nei prossimi esercizi. E come per incanto alla fine il bilancio del 2011 si chiuse con 327 milioni di profitti. In realtà senza quel provvidenziale “giochetto” fiscale, però, i conti sarebbero in rosso per una trentina di milioni. Operazioni queste regolari almeno fino a prova contraria. Infatti questa manovra fiscale quando ricorrono particolari circostanze è consentita dalla legge . E i Riva, a quanto pare, ben consigliati hanno pensato bene di cogliere al volo l’occasione. Un’occasione, come detto, che vale 400 milioni di euro. Non caso un motivo la famiglia Riva sotto inchiesta per i veleni dell’ ILVA di Taranto da molti anni è ormai tra i migliori clienti dello studio fiscale Biscozzi Nobili, cioè una delle “firme” più rinomate della consulenza tributaria. I collegi sindacali delle principali società del gruppo Riva non a caso sono presidiati da professionisti dello studio Biscozzi Nobili. E spesso provengono anche dallo stesso studio i fiduciari che prendono parte alle assemblee societarie per conto della famiglia. In pratica, un servizio completo. Consulenti, rappresentanti e controllori, i commercialisti pagati dai Riva per rappresentare la famiglia e quelli che, secondo la legge dovrebbero vigilare sui conti del gruppo fanno capo al medesimo studio professionale. Quando si dice un pacchetto chiavi in mano. Conflitto d’interessi incluso.
nella foto il Procuratore Capo di Milano Francesco Greco I sequestri giudiziari della procura di Milano. Oltre agli 1.2 miliardi già sequestrati, la Procura di Milano ha congelato all’estero altri 700 milioni, che fanno capo ad Adriano Riva, fratello di Emilio, lo storico “patron” dell’ ILVA deceduto recentemente. La Procura di Milano segue altri tre filoni investigativi per frode fiscale nei confronti della famiglia Riva. Il primo riguarda un giro di derivati con Deutsche Bank, per cui ILVA ha già pagato 180 milioni di euro e il cui processo penale è attualmente in dibattimento a Milano. Un secondo filone di indagini per “truffa ai danni dello Stato“, legata all’utilizzo improprio di fondi Simest, ha portato in pochi mesi alla condanna a 6 anni e mezzo di Fabio Riva, attualmente detenuto in Lombardia. Nell’ambito di questo processo, ha spiegato il procuratore capo Greco, è avvenuta la confisca di 100 milioni di euro, in gran parte costituiti da denaro contante o immobili siti in Italia. Un ultimo filone di indagini riguarda le relazioni tra ILVA e Riva Fire. Il rapporto tra le società era regolato da un contratto che prevedeva un’erogazione media di circa 150 milioni annui di ILVA alla controllante (Riva Fire), cifra battezzata dal precedente Commissario Enrico Bondi la “tassa del Califfo”. Le analisi della società di revisione PwC hanno rilevato che il contratto di prestazione di servizi poteva vedere un’erogazione massima di 10-15 milioni annui. Il differenziale tra gli importi segnala una modalità alternativa di liquidazione degli utili di ILVA ai suoi soci, su cui gli inquirenti milanesi stanno accertando il reato di frode fiscale. Ma tutto questo Cozzi, la Federacciai, Confindustria quando parlano di ILVA e dei loro “amichetti” della famiglia Riva con i giornalisti lo dimenticano… sempre. Anche perchè tanto non glielo ricorda nessuno. Figuriamoci a Taranto dove i Riva hanno “oliato” la maggioranza delle testate e giornalisti locali, Federacciai e Confindustria: “La gestione commissariale Ilva è
fallimentare, occorrono nuovi investimenti” . Ma a spese dello Stato chiaramente…! Il Consiglio generale della Confindustria riunitosi ieri a Taranto, indica ancora una volta una propria cura per un “nuovo” Sud, guarda caso in prossimità della presentazione del prossimo Disegno di Legge di Stabilità e del Masterplan per il Mezzogiorno che il Governo si appresta ad adottare, approvando un proprio ventaglio di proposte per l’industria meridionale richiedendo “un credito di imposta per l’acquisizione di beni strumentali nuovi, da parte di imprese delle otto regioni del Mezzogiorno, di durata almeno triennale“, il “rifinanziamento dei Contratti di Sviluppo, finalizzati all’attrazione di investimenti di medio grandi dimensioni nelle regioni meridionali“; “il potenziamento, attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali europei, degli strumenti di garanzia per favorire l’accesso al credito delle imprese meridionali“. Tra i punti delle proposte confindustriali anche “L’utilizzo di voucher per l’internazionalizzazione da parte delle imprese del Mezzogiorno per migliorarne la capacità di esportare, la conoscenza dei mercati esteri e per favorire l’incontro con operatori internazionali specializzati; la definizione di un piano per le infrastrutture che dia attuazione, con tempi e risorse certi, agli interventi già definiti in materia di ferrovie, porti, aeroporti, strade e autostrade, dissesto idrogeologico, beni culturali, edilizia scolastica, riqualificazione urbana“. Il Consiglio di Confindustria nel suo documento propone “la previsione di un adeguato stanziamento per il 2016 di risorse destinate al Fondo per lo Sviluppo e la Coesione, da dedicare in particolare al finanziamento di infrastrutture, e l’accelerazione del processo di riparto di tutte le risorse del Fondo per il periodo 2014-2020; la definizione della governance della politica di coesione, attribuendo le deleghe a livello nazionale, costituendo la Cabina di Regia con le Regioni e rendendo pienamente operativa l’Agenzia per la Coesione“. nella foto Giorgio Squinzi presidente di CONFINDUSTRIA Il presidente degli industriali italiani Giorgio Squinzi ha voluto ricordare che il consiglio generale di Confindustria si è riunito
eccezionalmente a Taranto, città che per le vicende dell’ILVA, “è diventata l’emblema delle difficoltà di fare impresa in Italia e, soprattutto, al Sud“. L’Italia, ha aggiunto Squinzi, “non può rinunciare a un’industria siderurgica senza arretrare, passando da Paese di primo piano” ad uno inferiore. E’ per questo che Confindustria ha deciso di riunire ieri il suo Consiglio generale proprio a Taranto per lanciare un segnale sull’importanza dell’ ILVA e del Sud in generale. “Quest’anno – ha concluso Squinzi – ricorre il cinquantesimo anniversario dell’inaugurazione dello stabilimento di Taranto: il futuro di questo impianto è il simbolo del futuro manifatturiero del Sud e del Paese”. Nell’incontro con i giornalisti, inizialmente non previsto sino al giorno prima, Squinzi ha detto che “la produzione dell’ ILVA si è dimezzata da 10 milioni a 5 milioni di tonnellate di acciaio l’anno e ritengo che le perdite siano consistenti in questo periodo, nella misura di diverse decine di milioni di euro“. E ha aggiunto: “Pensiamo che si debba cercare di recuperare, anche in un momento congiunturale difficile come quello attuale per cui i consumi sono calati non solo sul mercato italiano. Occorre recuperare il più possibile e tornare vicino alle capacità reali di produzione dell’ ILVA, tenendo presente che il calo importante di produzione si riflette immediatamente sul conto economico per tutta una serie di costi che possono essere ammortizzati soltanto con i volumi di vendita“. Sentire parlare Squinzi dell’inadeguatezza di chi avrebbe costruito delle case intorno allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA di Taranto (ex Italsider) , facendo riferimento e prendendo ad esempio quanto accaduto al suo stabilimento industriale, è dir poco “ridicolo” e significa ammettere esplicitamente di non avere alcuna cognizione di causa sulla storia dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto e dell’adiacente quartiere dei Tamburi ! nella foto, Antonio Gozzi, presidente Federacciai Secondo Antonio Gozzi presidente di Federacciai, “la crisi dell’ Ilva di Taranto Dopo più di due anni di gestione commissariale, non è stata superata, il risanamento ambientale non è stato terminato e la produzione è diminuita del 50%”. Una perdita questa, stima Squinzi “di circa dieci milioni di euro. Ritengo che si debba tornare alle reali capacità di produzione dell’ Ilva. Sulla famiglia Riva – ha aggiunto il Presidente Squinzi – sono state scaricate delle colpe che andrebbero accertate. Ciò che è certo è che in questo periodo è
mancata una gestione imprenditoriale di Ilva. L’azienda adesso è al collasso perché diversamente dai vecchi proprietari, sono venuti meno ingenti investimenti che hanno determinato gravi problemi in ambito tecnologico e produttivo”. Il Presidente di Federacciai ha dichiarato che “riteniamo fallimentare il modello commissariale ed auspichiamo che ritorni ad occuparsi della siderurgia, chi realmente ne ha competenza. É inevitabile per rilanciare la fabbrica e rimetterla sul mercato”. In pratica, fra le righe…gli industriali privati vorrebbero influire nelle scelte del Governo sui Commissari ed il management aziendale, adducendo le conoscenze e professionalità dell’intero sistema industriale italiano, “nell’interesse del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, della nostra industria e di tutto il Paese”. “C onoscenze e professionalità” come quelle del Gruppo Riva, hanno seminato morti ed inquinamento nel capoluogo jonico ? Nessuno risponde. Squinzi ed il suo “sodale” Gozzi avrebbe dovuto sapere inoltre che a quella data Emilio Riva risultava peraltro gravato da due precedenti condanne relative a reati successivamente abrogati o depenalizzati e da due patteggiamenti (per lesioni colpose e per violazione delle norme sulla tutela delle acque) risalendo a fatti di vecchia data,di cui in Confindustria molti hanno fatto finta per lungo tempo di ignorare disapplicando il proprio codice etico. Ma non è finita qui. Infatti anche il figlio del patron dell’ ILVA, e cioè Fabio Nicola Riva, ha visto confermata dalla quarta Corte d’Appello Penale di Milano la condanna a sei anni e sei mesi a suo carico, per “associazione per delinquere e truffa“, confermando la multa da 1,5 milioni di euro per la RIVA Fire e la confisca complessiva di 90,8 milioni di euro e una provvisionale da 15 milioni di euro da versare al Ministero dello Sviluppo Economico, parte civile nel procedimento. Sempre per conoscenza del presidente di Confindustria, e del suo staff preoccupato di domande scomode…, ricordiamo che questo processo (arrivato al secondo grado) riguarda una presunta truffa dei Riva ai danni dello Stato dell’ammontare di circa 100 milioni di euro, che sarebbe stata realizzata attraverso l’ottenimento di contributi pubblici, erogati da Simest (società controllata da Cassa depositi e prestiti), per il sostegno alle imprese italiane che esportano. Secondo l’ipotesi accusatoria, confermata in 1° e 2° grado, il gruppo della famiglia Riva avrebbe ottenuto indebitamente contributi pubblici, interponendo in una serie di operazioni a Ilva spa la società svizzera del gruppo, Ilva sa. La legge Ossola, che sarebbe stata raggirata, prevede che a fronte di dilazioni di pagamento tra i 2 e i 5 anni da parte di acquirenti esteri, le imprese italiane possano accedere a contributi erogati da Simest.
Evidentemente il Presidente Squinzi non viene informato abbastanza dal suo staff… Se lo fosse, avrebbe potuto sapere che la Sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha giudicato definitivamente colpevoli i Riva con la sentenza n. 31413 dell’ 8 marzo-21 settembre 2006, cioè appena…9 anni fa , ha confermato la sentenza della Corte di Appello a carico di Emilio Riva (deceduto un anno fa) quale presidente del consiglio di amministrazione della Ilva spa, ad un anno e 10 mesi di carcere “per svariati episodi di violenza privata tentata e consumata ai danni di numerosi lavoratori, commessi in Taranto all’interno dello stabilimento Ilva Spa dal dicembre 1997 al novembre 1998” e per “frode processuale” . Troppo facile accusare lo Stato di non aver scelto un management adatto. Quando poi a dare lezioni di scelte industriali è Antonio Gozzi, attuale amministratore delegato della società siderurgica Duferco e presidente di Federacciai, che è bene ricordare nel marzo scorso è stato arrestato a Bruxelles insieme ad un suo stretto collaboratore e dirigente del gruppo (Massimo Croci n.d.r.) ed è attualmente accusato di corruzione nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti pagate in Congo ad alcuni ufficiali pubblici per ottenere appalti, onestamente ci sembra un pò troppo…! Nessun commento da parte di Squinzi & co. alla circostanza che i Riva come accertato dalla Banca d’ Italia, Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza e Procura di Milano, abbiamo commesso una presunta evasione fiscale per circa 2mila miliardi. Nello specifico è bene ricordare che grazie all’eccellente lavoro fatto dal pool per i reati finanziari della Procura di Milano, guidato dal pm Francesco Greco sono stati bloccati e sequestrati ai Riva la modica… cifra di 1,2 miliardi riconducibili a trust gestiti da istituti finanziari svizzeri, di cui 1 miliardo circa è depositato presso Ubs Fiduciaria a Zurigo, e gli altri 200 milioni sono in Italia, presso Banca Aletti & Co, mentre per la somma residua si attende la decisione del Tribunale elvetico di Belllinzona a cui si sono rivolte le figlie di Emilio Riva, i cui familiari furbescamente hanno rinunciato all’eredità in Italia, salvo poi fare resistenza in Svizzera contro la rogatoria italiana, accolta dal Governo svizzero, per restituire allo Stato italiano i soldi portati all’estero frutto di accertata evasione fiscale. Altri 700-800 milioni sono stati poi congelati in un procedimento penale nei confronti di Adriano Riva, che ha completato da poco la fase del giudizio di primo grado. Per aiutare i “sodali” dei Riva, e cioè Squinzi e Gozzi mettiamo a loro disposizione dei significativi grafici realizzati dal collega Massimo Mucchetti, attuale senatore, ed ex vice-direttore del Corriere della Sera. Parlano meglio di tutte le inutili “parole” ascoltate ieri dai vertici confindustriali ieri a Taranto.
Arrestato Gozzi il Presidente della Federacciai, “fiancheggiatore” dei Riva Vi ricordate gli attacchi di Antonio Gozzi, presidente delle Federacciai contro i commissari dell’ ILVA, contro la Magistratura ? Ve ne ricordiamo noi qualcuno: “Pragmaticamente bisogna affrontare il tema di una grande fabbrica che fino a quando ha avuto una gestione privata è stata in piedi e che dopo due anni di choc provocata dallo Stato nelle sue diverse articolazioni (magistratura, commissari, eccetera) è praticamente sull’orlo del fallimento. Bisogna ragionare in maniera pratica su cose possibili da fare e se si è arrivati a ipotizzare in intervento dello Stato perché si ha il dubbio se i privati siano in grado di intervenire. C’è un’area da un miliardo e mezzo da realizzare, c’è un altoforno da rifare e costa 250 milioni, ci sono le perdite del 2015 che saranno altri 400-500 milioni, ci vogliono più di due miliardi, due miliardi e mezzo per questo intervento ed è un momento di grave crisi della siderurgia italiana dove non ci sono italiani con questa capacità finanziaria e lo stesso Mittal potrebbe avere una qualche difficoltà”. E poi “La gestione commissariale ( Bondi n.d.r.) ha fatto perdere tempo sul salvataggio dell’azienda, bruciando 1,5 miliardi di circolante. Il piano è frutto di direttive ambientali figlie dell’Aia difficili da attuare. Un errore del Governo Letta” (da La Repubblica, 9/6/2014) Ebbene oggi Antonio Gozzi, presidente di Duferco e di Federacciai, è stato arrestato dalle autorità belghe in una indagine per corruzione a Bruxelles. Secondo le accuse Gozzi avrebbe corrotto degli ufficiali nella Repubblica democratica del Congo per ottenere appalti. Lo ha reso noto TicinoNews con una nota di Duferco, società che che ha sede a Lugano. L’indagine coinvolge anche l’ex sindaco di Waterloo ed ex ministro vallone Serge Kubla. Secondo l’accusa, la società avrebbe chiesto a Kubla, arrestato il 24 febbraio scorso e successivamente scarcerato dopo 48 ore di fermo, di corrompere il presidente congolese per ottenere una diversificazione delle attività di Duferco anche nel settore del gioco d’azzardo. Gozzi ed il suo collaboratore Massimo
Croci erano stati invitati a Bruxelles per rispondere alle domande del giudice, che ha deciso di trattenerli. Venerdì compariranno davanti al giudice che deciderà se convalidare l’arresto. Duferco: Gozzi e Croci totalmente estranei. “Questo modo di procedere non può essere definito se non come un mezzo di pressione inammissibile“, afferma il gruppo Duferco che è di origine brasiliana e impiega 3000 persone in tutto il mondo. Oggi la società è controllata dalla cinese Hebei Iron and Steel Group. Il gruppo, “che rispetta dalla fondazione un rigido codice etico – aggiunge la nota – tiene ad affermare che Gozzi e Croci hanno più che mai la fiducia del gruppo e degli azionisti” In una nota diffusa da Duferco, si sottolinea che l’amministratore delegato Antonio Gozzi, e il dirigente della stessa azienda, Massimo Croci, si dichiarano “totalmente estranei” alla vicenda che ha portato al loro fermo in Belgio e intendono collaborare “pienamente con i giudici, confidando in un rapido accertamento della verità“. In una nota la multinazionale sottolinea che i due manager, di nazionalità e residenza italiana, “sono stati ascoltati ieri dal Giudice Istruttore Claise di Bruxelles da cui si sono recati spontaneamente per fornire agli inquirenti tutti gli elementi e le informazioni eventualmente in loro possesso, utili alla ricostruzione della verità e si sono resi disponibili per tutto il tempo necessario allo svolgimento delle indagini”. Fino a oggi, prosegue la nota, “il Gruppo Duferco, al di là di un primo comunicato iniziale, ha preferito mantenere il più stretto riserbo per rispetto al lavoro del Giudice Istruttore e delle indagini in corso“. Ma ora ritiene necessario ribadire alcuni punti: “la totale estraneità del Gruppo Duferco e dei suoi dirigenti a qualunque episodio di corruzione internazionale, nella Repubblica del Congo o in qualunque altro Paese; la rigorosa e severa policy del Gruppo Duferco, fatta di regole organizzative e metodiche di comportamento, volta a prevenire qualsiasi comportamento non corretto non solo da parte dei suoi dirigenti e impiegati, ma anche da parte degli stakeholder, primi fra tutti fornitori e clienti; la quarantennale reputazione del Gruppo Duferco nel mercato internazionale dell’acciaio, dell’energia e dello shipping, reputazione mai scalfita da qualsivoglia vicenda o anche singolo episodio meno che corretto“. La vicenda, nell’ambito della quale Gozzi e Croci sono stati ascoltati, ricostruisce il comunicato dell’azienda, “risale al 2009 e non riguarda direttamente società del Gruppo Duferco, ma società e interessi economici esterni al Gruppo e riferibili personalmente agli azionisti del Gruppo stesso. Si è trattato di un intervento di natura esclusivamente finanziaria in un settore esterno alle competenze tradizionali del Gruppo terminato, tra l’altro, con risultati
economici e finanziari negativi. Antonio Gozzi e Massimo Croci se ne sono occupati su incarico degli azionisti, ma non sono mai stati in vita loro in Congo, nè hanno mai conosciuto politici o funzionari pubblici congolesi o altre persone di quel Paese capaci di aver peso o influenza nell’emanazione di atti amministrativi. Hanno quindi dichiarato al Giudice Istruttore la loro totale estraneità ai fatti e confidano in un rapido accertamento della verità da parte della giustizia belga“, conclude la nota. L’INCHIESTA. La vicenda giudiziaria che ha portato in un carcere di Bruxelles Antonio Gozzi,presidente di Federacciai e nome di peso nell’organigramma di Confindustria parte dalla misteriosa scomparsa del revisore di bilancio Stephan De Witte, ed i magistrati di Bruxelles indagando sono approdati alla Duferco, il gruppo siderurgico guidato da Gozzi. Nelle mani degli inquirenti c’è una fattura di 60 mila euro pagata dall’azienda al politico Serge Kubla, già ministro dell’Economia del governo autonomo della Vallonia e fino a poche settimane fa sindaco di Waterloo, il paese della battaglia che segnò la fine di Napoleone. Come raccontano i colleghi Franchini e Malagutti del settimanale l’ ESPRESSO, “il sospetto è che quei soldi, prima rata di un pagamento complessivo di 240 mila euro, siano stati versati da Duferco per aprirsi la strada in Congo, l’ex colonia belga ricchissima di materie prime, diamanti e oro. Gozzi conosce bene Kubla, un politico di lungo corso molto vicino al premier di Bruxelles, Charles Michel. Nel 2003 la multinazionale dell’acciaio avviò la riconversione delle sue attività in Vallonia grazie ai finanziamenti pubblici per cui si spese l’allora ministro regionale. De Witte, invece, aveva lavorato a lungo come consulente di Duferco, che in Belgio controlla stabilimenti e altre attività logistiche e immobiliari. Sta di fatto che un paio di anni fa il contabile decide di cambiare vita: lascia la famiglia e trova un impiego in un grande parco botanico a un centinaio di chilometri da Kinshasa, la capitale del Congo. A un certo punto, però, De Witte smette di dare notizie di sé. Lo cercano amici, parenti e anche la moglie che nel giugno dell’anno scorso ne denuncia la scomparsa. L’inchiesta giudiziaria arriva a una svolta meno di un mese fa, il 24 febbraio, quando la polizia arresta Kubla. «L’indagine riguarda le attività del gruppo industriale Duferco nella Repubblica Democratica del Congo», questo è quanto si legge nel comunicato ufficiale della procura federale di Bruxelles. In altre parole l’azienda guidata da Gozzi è sospettata di aver corrotto “pubblici ufficiali congolesi per favorire – si legge ancora nel comunicato – la realizzazione di importanti investimenti nel settore dei giochi e delle lotterie”.
Non è ancora chiaro quale sia stato il ruolo di De Witte in questa storia. Forse era stato arruolato come agente sul posto per coordinare le nuove attività congolesi. Le accuse contro Kubla, invece, sono molto precise. Il politico vallone, pezzo grosso del partito moderato MR (Mouvement Réformatour), avrebbe consegnato una somma di 20 mila euro alla moglie dell’ex primo ministro congolese Adolphe Muzito. La signora ha smentito tutto, minacciando querele. Quei soldi però, secondo l’accusa, erano solo l’acconto di una tangente da 500 mila euro. I rapporti tra Kubla e Gozzi risalgono almeno al 2003. A quell’epoca, come detto, i fondi pubblici della Vallonia finanziarono la riconversione di alcuni vecchi impianti di Duferco in Belgio. Sulla poltrona di ministro regionale c’era proprio l’uomo politico ora accusato di corruzione internazionale. Tra investimenti azionari e prestiti, l’azienda siderurgica incassò oltre 500 milioni di euro. Un fiume di denaro, tanto che la Commissione Europea ha avviato un’istruttoria per verificare se siano state rispettate le regole della Ue sugli aiuti di Stato. Molti anni dopo quella vicenda, tornano d’attualità la liason tra il manager italiano e l’ex borgomastro di Waterloo, dimissionario dopo l’arresto. Questa volta però le accuse sono ben più gravi. Adesso tocca a Gozzi fornire la sua versione dei fatti al giudice istruttore Michel Claise, specializzato in indagini sulla criminalità finanziaria. Il presidente di Federacciai è molto conosciuto nel mondo degli affari nostrano e anche in quello calcistico, come presidente della squadra dell’Entella di Chiavari, che milita in serie B. Il suo ruolo di vertice nell’apparato di Confindustria ha portato Gozzi a impegnarsi in vicende da prima pagina come la crisi dell’ ILVA di Taranto, spesso per attaccare i provvedimenti dei magistrati. La Duferco, una multinazionale con base a Lugano e un giro d’affari di oltre sette miliardi di euro l’anno, controlla numerosi impianti anche in Italia e di recente si era candidata a partecipare al salvataggio delle Acciaierie di Piombino sull’orlo del fallimento, poi passate al gruppo algerino Cevital. Al manager italiano è stata anche affidata – si legge nel bilancio – la “general supervision” delle importanti attività del gruppo in Belgio. Proprio Gozzi, insieme al collaboratore Massimo Croci, figura nel ruolo di amministratore di una piccola holding creata alla fine del 2010, la Successful Expectations Belgium. Quest’ultima, a sua volta, tira le fila di una serie di società con base in Congo, Ruanda, Burundi, Zambia, tutte impegnate nel settore dei giochi. Che cosa c’entra il business dell’azzardo con il trading di acciaio? In apparenza niente. L’ipotesi degli investigatori, però, è che gli appalti nelle lotterie, da sempre gestite dalla burocrazia statale,
potesse servire per allacciare rapporti con la politica locale. E quindi inserirsi negli affari ben più lucrosi che ruotano intorno alle materie prime (petrolio, metalli), ai diamanti, all’oro. I bilanci confermano che la holding belga gestita da Gozzi ha gettato la sua rete in Africa tra il 2011 e il 2012. Poco dopo è sbarcato in Congo il contabile De Witte, poi scomparso nel nulla.
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