Ilva. Confindustria, Federacciai e Gozzi hanno la memoria corta

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Ilva. Confindustria, Federacciai e
Gozzi hanno la memoria corta…
Era il 2 settembre del 2014 quando Antonio Gozzi presidente della
Federacciai (associazione aderente a Confindustria) invitato ad un
dibattito alla Festa dell’Unità di Genova, disse: ‘Fino al 2012, gli
italiani in grado di gestire l’ILVA c’erano, ed erano i Riva. In 16
anni non hanno mai chiesto soldi allo Stato e hanno sempre dato
reddito ai lavoratori‘”. Per Gozzi dunque non era importante che a
causa dei veleni dell’ Ilva       le indagini epidemiologiche hanno
stabilito che i bambini di Taranto muoiono il 21% in più e si ammalano
di tumore per il 54% in più rispetto alla media pugliese. Sempre
Gozzi l’anno successivo intervistato dal programma radiofonico
 “Fabbrica 2.4″ condotto da Filippo Astone su Radio 24 ( di proprietà
di Confindustria n.d.r.) sosteneva che “L’incriminazione dei
commissari dell’ ILVA, Enrico Bondi e Piero Gnudi e’ spiegabile con
l’accanimento della magistratura nei confronti dell’ILVA e con un
rigore eccessivo rispetto alla realta’ delle cose“. Per Gozzi, lo
scopo finale della magistratura sarebbe di chiudere l’ILVA, provocando
danni importanti all’industria italiana e all’occupazione in Puglia.
“Da parte di settori dell’opinione pubblica, e anche da parte di
qualche sostituto procuratore o giudice delle indagini preliminari, si
pensa che nel rapporto costi/benefici della situazione tarantina
sarebbe meglio che l’ILVA fosse chiusa. In molti casi – ha proseguito
Cozzi – la magistratura ha avuto un ruolo esorbitante“

Gozzi ha sempre preso le difese della famiglia Riva definendoli
durante l’intervista sia “eroi“, sia “agnelli sacrificali”. Per Gozzi,
che non ritiene che le morti a Taranto siano ascrivibili all’ILVA, i
Riva sono “bravi imprenditori per quello che hanno fatto in 50 anni di
storia, gestendo molto bene le loro aziende“. Per Antonio Gozzi, il
presidente e proprietario dell’Entella calcio, un industriale che ha
fatto fortuna nella “bassa” bresciana, la statalizzazione
dell’ILVA sino a poco tempo fa era una buona idea, in tempi di
privatizzazioni forzate. Quindi in controtendenza rispetto alle scelte
governative dalla fine degli anni novanta in poi, una scelta
marcatamente di sinistra. Gozzi spiega: “In una situazione così grave
e straordinaria come quella dell’ ILVA non mi scandalizza che il
presidente del Consiglio abbia pensato a un intervento dello Stato
come a una delle possibili opzioni“. Gozzi continuava: “Il problema è
che pragmaticamente bisogna affrontare il tema di una grande fabbrica
che fino a quando ha avuto una gestione privata è stata in piedi e che
dopo due anni di choc provocata dallo Stato nelle sue diverse
articolazioni (magistratura, commissari, eccetera) è praticamente
sull’orlo del fallimento“.

Ieri Gozzi rispondendo alle domande dei giornalisti sull’attuale
situazione dell’ ILVA di Taranto, prima dell’inizio degli Stati
Generali dell’acciaio che si sono svolti a Milano alle Officine del
Volo, è ritornato sull’argomento “Sottolineiamo da tempo i moltissimi
errori che sono stati fatti in questa vicenda, a partire dai
commissariamenti che non hanno dato niente se non una gigantesca
distruzione di ricchezza. Hanno violato principi fondamentali del
diritto e rappresentato un’ombra sulla reputazione internazionale del
Paese” aggiungendo “quando si espropriano le aziende senza indennizzo
e poi si fanno fallire, l’investitore straniero ci pensa 50 volte per
venire ad investire“.

nella foto Antonio ed Emma Marcegaglia

Dichiarazioni quelle di Gozzi, come sempre smentite dai fatti. Infatti
Arcelor Mittal, multinazionale franco-indiano leader del settore
siderurgico è in prima fila per rilevare lo stabilimento di Taranto,
insieme al gruppo Marcegaglia. “Noi – ha replicato l’amministratore
delegato Antonio Marcegaglia – siamo da sempre schierati a fianco
di Arcelor Mittal e questa è una scelta precisa legata alla forza
industriale e finanziaria di Mittal. E riteniamo – ha aggiunto – che
Mittal sia il candidato più qualificato per una sfida così
importante.”

 “L’impegno di Mittal“ ha spiegato l’industriale Marcegaglia “è
assolutamente un investimento serio, solido e di medio termine. Non
capisco chi lo dava per non fondato. Mittal è interessato genuinamente
ad una maggiore presenza in Italia che sia certamente a rafforzamento
del mercato. Il nostro piano industriale per l’ ILVA è valido, così
come l’azienda è necessaria all’ Italia è assolutamente funzionale ai
piani di Mittal“. A più di qualcuno sopratutto dalla memoria corta o a
gettone, è sfuggito…che il Gruppo Marcegaglia è dell’omonima famiglia
che ha espresso un recente presidente di Confindustria, e cioè Emma
Marcegaglia, l’attuale multinazionale italiana nel settore energetico-
petrolifero. Che qualcosa di industria ci capisce.

La memoria corta e le tangenti di Gozzi. Il presidente di Federacciai,
che nel marzo dello scorso anno è stato arrestato ( e poi
rilasciato) a Bruxelles, accusato di corruzione nell’ambito di
un’inchiesta su presunte tangenti pagate in Congo ad alcuni ufficiali
pubblici per ottenere appalti. Il quotidiano regionale ligure Il
Secolo XIX, citando alcuni quotidiani belgi, scriveva che “Gozzi era
sospettato di aver escogitato con altre persone un piano per
diversificare le attività del gruppo in Congo nel gioco
d’azzardo (l’uomo politico ha anche presieduto una società congolese
del settore) e nel sito Metallurgical Maluku. Kubla ha ammesso di aver
dato 20.000 euro alla moglie del primo ministro congolese Adolphe
Muzito durante una delle sue visite a Bruxelles, ma ha sostenuto
che “si trattava del pagamento di una fattura”. L’ex ministro aveva
inoltre fondato a Malta la Socagexi Ltd, che ha ricevuto dalla Duferco
( società di Gozzi – n.d.r.) un totale di 240.000 euro. Le fatture
fanno riferimento a un “sondaggio sulle prospettive commerciali in
paesi africani (Congo, Guinea)” e “costituzione di una società in
Congo”.

Quei bravi ragazzi dei Riva….. Gozzi      nella moltitudine di elogi
sperticato al Gruppo Riva, ha dimenticato      filone di indagine per
evasione fiscale guidato dal neo-procuratore capo di Milano Francesco
Greco che ha portato al sequestro di 1.2 miliardi di euro detenuti dai
trust promossi dai Riva in Jersey, una delle isole del Canale a
sovranità britannica, utilizzate per gli affari “offshore”, di cui 1
miliardo circa è depositato presso Ubs Fiduciaria a Zurigo, e gli
altri 200 milioni sono in Italia, presso Banca Aletti & Co. Secondo
la ricostruzione degli investigatori, i Riva avrebbero fatto confluire
il denaro nei trust di Jersey attraverso complesse operazioni
societarie su finanziarie di diritto olandese e lussemburghese, a loro
volta legate alle attività industriali del gruppo. In pratica, gli ex-
 padroni dell’ ILVA hanno prelevato denaro dalle casse delle aziende
produttive per nasconderlo all’estero al riparo del Fisco.
Il meccanismo finanziario messo a punto nel tempo dai Riva non temeva
confronti con le più sofisticate alchimie studiate dai grandi
banchieri internazionali. Ne sanno qualcosa gli investigatori che da
mesi stanno cercando di ricostruire i flussi di denaro che in qualche
modo fanno capo all’ottuagenario Emilio Riva insieme a figli e nipoti.
Alla morte di Emilio, i figli hanno rinunciato in Italia all’eredità,
ben consapevoli che i forzieri di famiglia stanno all’estero, ben
protetti al riparo di paradisi fiscali come l’Olanda e il Lussemburgo.
Del resto il patron Emilio era uomo di mondo, non solo per lo
splendido villone di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, da decenni
frequentato dalla famiglia. Più di vent’anni fa, alla caduta del Muro,
l’imprenditore milanese fu il primo a precipitarsi in Germania Est per
rilevare a prezzi di saldo alcune grandi acciaierie del posto.
Un affarone. Ma c’è dell’altro, molto altro. I documenti ufficiali
raccontano di movimenti per miliardi tra le società oltrefrontiera
“targate” Riva. Questo denaro serve in buona parte ad alimentare un
colosso industriale come l’ILVA, ma risalendo controcorrente il gran
fiume dei soldi non è escluso che possano emergere nuove sorprese. A
Torino, per esempio, i controlli dell’Agenzia delle entrate si sono
concentrati su un’operazione di rimpatrio che in qualche modo sembra
ricondurre ai Riva. Una somma importante, una cinquantina di milioni
di euro, è rientrata dall’estero in Italia grazie allo scudo fiscale
varato negli anni scorsi dalla premiata coppia Berlusconi-Tremonti.
Quel denaro, anche se formalmente gestito da un professionista,
sarebbe in realtà riconducibile ai padroni dell’ ILVA. Questo almeno è
il sospetto degli ispettori del Fisco nostrano, che hanno messo nel
mirino quel movimento anomalo. Resta da vedere se le indagini verranno
davvero a capo di qualche irregolarità. In generale, però,
l’individuazione del patrimonio dei Riva può rivelarsi fondamentale
per quello che in termini giuridici viene definito “sequestro per
equivalente“. E cioè le somme che eventualmente potrebbero servire per
far fronte al risarcimento per i danni ambientali causati dallo
stabilimento ILVA di Taranto.

Riva, Berlusconi e Bersani. Intanto però lo scandalo dei veleni che ha
travolto l’acciaieria, con gli arresti e il sospetto di mazzette a
funzionari pubblici, bastano (e avanzano) per proiettare una luce
sinistra sull’impero finanziario di una delle grandi famiglie del
capitalismo italiano, imprenditori che negli anni scorsi sono stati in
prima linea nel finanziamento a partiti e uomini politici, da Forza
Italia a Pier Luigi Bersani, e che ai tempi del governo Berlusconi non
si sono fatti pregare per intervenire nel mancato salvataggio di
Alitalia, di cui il gruppo Riva (con un investimento di 120 milioni di
euro) era di di fatto il terzo azionista dopo Air France e il gruppo
di società riconducibili a Banca Intesa. Sarà un caso, ma l’istituto
che all’epoca dei fatti guidato dall’ex- ministro Corrado Passera si è
distinto come uno dei più importanti finanziatori della galassia
d’attività della famiglia milanese. Una galassia in continua
evoluzione, come dimostrano le novità di queste ultime settimane.

L’inchiesta dell’ Espresso. In un dettagliato reportage dell’ottimo
collega Vittorio Malagutti si evidenziava che non è difficile non
notare, infatti, che i Riva hanno messo mano al sistema delle loro
holding d’oltreconfine. Scissioni, scorpori, fusioni varate proprio
nelle settimane calde dell’inchiesta giudiziaria sull’acciaieria di
Taranto, con l’arresto, tra gli altri, di Emilio (ai domiciliari
vicino a Varese, prima di morire di tumore) e del figlio Fabio, che è
fuggito all’estero per evitare il carcere, e rimpatriato con rogatoria
internazionale si trova attualmente in carcere in Lombardi, dove si
sta curando dal tumore che ha colpito anche lui. Quella maledetta
malattia di cui rideva al telefono minimalizzandola quando parlava del
calvario dei molteplici tumori tarantini. La lussemburghese
Stahlbeteiligungen holding (d’ora in poi, per semplicità, Stahl
holding) ha girato la propria quota nell’ ILVA (il 25,3 per cento)
alla Siderlux, un’altra società lussemburghese creata in quei giorni
dai Riva. Poche settimane prima, invece, a fine luglio, la stessa
Stahl holding si era fusa con la controllata Parfinex, anche questa
con base nel Granducato.

Le “scatole cinesi” dei Riva all’estero per evadere il Fisco. In cima
alla catena societaria troviamo la Utia. Cioè la finanziaria che
controlla la quota più rilevante del capitale della Riva fire, la
holding italiana della famiglia. Utia ha formalmente sede in
Lussemburgo, ma in pratica ha i connotati di una società svizzera. Il
suo bilancio è espresso in franchi e lo statuto si basa sulle leggi
della Confederazione. Ebbene, il 3 agosto scorso, nel pieno della
bufera, Utia ha rafforzato il capitale di 20 milioni di franchi, circa
16,5 milioni di euro. Chi ha messo i soldi? Risposta: la Monomarch,
un’altra finanziaria, questa volta olandese, che fa capo alla famiglia
dei padroni dell’ILVA.

Come si spiegano queste operazioni? Va detto che anche in passato i
Riva hanno più volte rimescolato le carte nel mazzo del loro impero. E
i riassetti sono sempre stati spiegati con l’esigenza di semplificare
l’organigramma, nel senso di rendere più agevoli i flussi finanziari
(dividendi e altro) verso i piani alti della catena di controllo.
Certo che con l’aria che tira, e la minaccia di sequestri giudiziari
sulle quote della famiglia, ogni passaggio azionario finisce per
apparire di per sé non proprio casuale. Indagini a parte, per i Riva
l’obiettivo numero uno è sempre stato quello di pagare meno tasse
possibile. E allora, per ridurre al minimo indispensabile il carico
fiscale, conviene tenere all’estero le casseforti e giocare di sponda
sui finanziamenti alle controllate. La Stahl holding, per dire, a fine
2011 vantava un attivo di bilancio di 4,8 miliardi di euro con
prestiti alle consociate per 1,8 miliardi. Ma c’è una cifra che più di
tutte dà un’idea dell’enorme ricchezza parcheggiata all’estero dai
Riva. Conti alla mano si scopre che la Stahl holding custodisce
qualcosa come 1,6 miliardi alla voce “utili degli esercizi
precedenti“. Cioè i profitti non distribuiti ai soci che sono andati a
rafforzare il patrimonio della holding.
A volte, però, il gioco a rimpiattino con il Fisco finisce male. Nel
2011 il gruppo Riva ha patteggiato con l’Agenzia delle Entrate il
pagamento di 97 milioni per sanare una serie di irregolarità che
riguardano, recita il bilancio della holding Riva Fire, l’impiego di
liquidità. La somma sarà versata all’Erario in tre rate annuali. Ma
c’è anche un capitolo penale. Come ha rivelato a suo tempo il Corriere
della Sera , il pm milanese Carlo Nocerino chiuse un’inchiesta con
rinvio a giudizio a carico dei Riva, per frode fiscale che vedeva fra
gli   indagati Emilio Riva e alcuni manager dell’ILVA. In pratica
sarebbero state costruite alcune operazioni all’estero al solo scopo
di produrre perdite e quindi ridurre il carico d’imposte. Risultato:
secondo l’accusa l’azienda siderurgica sarebbe così riuscita a
risparmiare, in modo fraudolento, almeno 52 milioni sulle tasse.

Il colpo grosso però fu un altro. Un affare da 400 milioni. anche
questo un affare fiscale . In pratica sintesi, nei conti del 2011 i
Riva erano riusciti a guadagnare qualcosa come 478 milioni di euro
grazie a una capriola contabile. Nel bilancio consolidato della
holding Riva Fire    apparve la voce “imposte anticipate su perdite
fiscali“. Praticamente, gli amministratori del gruppo hanno utilizzato
da subito i risparmi d’imposta che prevedono di avere nei prossimi
esercizi. E come per incanto alla fine il bilancio del 2011 si chiuse
con 327 milioni di profitti. In realtà senza quel provvidenziale
“giochetto” fiscale, però, i conti sarebbero in rosso per una trentina
di milioni. Operazioni queste regolari almeno fino a prova contraria.
Infatti questa manovra fiscale quando ricorrono particolari
circostanze è consentita dalla legge . E i Riva, a quanto pare, ben
consigliati hanno pensato bene di cogliere al volo l’occasione.
Un’occasione, come detto, che vale 400 milioni di euro.

Non caso un motivo la famiglia Riva sotto inchiesta per i veleni
dell’ ILVA di Taranto da molti anni è ormai tra i migliori clienti
dello studio fiscale    Biscozzi Nobili, cioè una delle “firme” più
rinomate della consulenza tributaria. I collegi sindacali delle
principali società del gruppo Riva non a caso sono presidiati da
professionisti dello studio Biscozzi Nobili. E spesso provengono anche
dallo stesso studio i fiduciari che prendono parte alle assemblee
societarie per conto della famiglia. In pratica, un servizio completo.
Consulenti, rappresentanti e controllori,     i commercialisti pagati
dai Riva per rappresentare la famiglia e quelli che, secondo la legge
dovrebbero vigilare sui conti del gruppo fanno capo al medesimo studio
professionale. Quando si dice un pacchetto chiavi in mano. Conflitto
d’interessi incluso.
nella foto il Procuratore Capo di Milano
Francesco Greco

I sequestri giudiziari della procura di Milano. Oltre agli 1.2
miliardi già sequestrati, la Procura di Milano ha congelato all’estero
altri 700 milioni, che fanno capo ad Adriano Riva, fratello di Emilio,
lo storico “patron” dell’ ILVA deceduto recentemente. La Procura di
Milano segue altri tre filoni investigativi per frode fiscale nei
confronti della famiglia Riva. Il primo riguarda un giro di derivati
con Deutsche Bank, per cui ILVA ha già pagato 180 milioni di euro e il
cui processo penale è attualmente in dibattimento a Milano. Un secondo
filone di indagini per “truffa ai danni dello Stato“, legata
all’utilizzo improprio di fondi Simest, ha portato in pochi mesi alla
condanna a 6 anni e mezzo di Fabio Riva, attualmente detenuto in
Lombardia.

Nell’ambito di questo processo, ha spiegato il procuratore capo Greco,
è avvenuta la confisca di 100 milioni di euro, in gran parte
costituiti da denaro contante o immobili siti in Italia. Un ultimo
filone di indagini riguarda le relazioni tra ILVA e Riva Fire. Il
rapporto tra le società era regolato da un contratto che prevedeva
un’erogazione media di circa 150 milioni annui di ILVA alla
controllante (Riva Fire), cifra battezzata dal precedente Commissario
Enrico Bondi la “tassa del Califfo”. Le analisi della società di
revisione PwC hanno rilevato che il contratto di prestazione di
servizi poteva vedere un’erogazione massima di 10-15 milioni annui. Il
differenziale tra gli importi segnala una modalità alternativa di
liquidazione degli utili di ILVA ai suoi soci, su cui gli inquirenti
milanesi stanno accertando il reato di frode fiscale.

Ma tutto questo Cozzi, la Federacciai, Confindustria   quando parlano di
ILVA e dei loro “amichetti” della famiglia Riva con    i giornalisti lo
dimenticano… sempre. Anche perchè tanto non glielo      ricorda nessuno.
Figuriamoci a Taranto dove i Riva hanno “oliato” la    maggioranza delle
testate e giornalisti locali,

Federacciai e Confindustria: “La
gestione commissariale Ilva è
fallimentare, occorrono nuovi
investimenti” . Ma a spese dello
Stato chiaramente…!
Il Consiglio generale della Confindustria riunitosi ieri a Taranto,
 indica ancora una volta una propria cura per un “nuovo” Sud, guarda
caso in prossimità della presentazione del prossimo Disegno di Legge
di Stabilità e del Masterplan per il Mezzogiorno che il Governo si
appresta ad adottare, approvando un proprio ventaglio di proposte per
l’industria meridionale richiedendo “un credito di imposta per
l’acquisizione di beni strumentali nuovi, da parte di imprese delle
otto regioni del Mezzogiorno, di durata almeno triennale“,          il
“rifinanziamento dei Contratti di Sviluppo, finalizzati all’attrazione
di investimenti di medio grandi dimensioni nelle regioni meridionali“;
“il potenziamento, attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali
europei, degli strumenti di garanzia per favorire l’accesso al credito
delle imprese meridionali“.

Tra i punti delle proposte confindustriali anche “L’utilizzo di
voucher per l’internazionalizzazione da parte delle imprese del
Mezzogiorno per migliorarne la capacità di esportare, la conoscenza
dei mercati esteri e per favorire l’incontro con operatori
internazionali specializzati; la definizione di un piano per le
infrastrutture che dia attuazione, con tempi e risorse certi, agli
interventi già definiti in materia di ferrovie, porti, aeroporti,
strade e autostrade, dissesto idrogeologico, beni culturali, edilizia
scolastica, riqualificazione urbana“. Il Consiglio di Confindustria
 nel suo documento propone “la previsione di un adeguato stanziamento
per il 2016 di risorse destinate al Fondo per lo Sviluppo e la
Coesione, da dedicare in particolare al finanziamento di
infrastrutture, e l’accelerazione del processo di riparto di tutte le
risorse del Fondo per il periodo 2014-2020; la definizione della
governance della politica di coesione, attribuendo le deleghe a
livello nazionale, costituendo la Cabina di Regia con le Regioni e
rendendo pienamente operativa l’Agenzia per la Coesione“.

nella foto Giorgio Squinzi presidente di
CONFINDUSTRIA

Il presidente degli industriali italiani Giorgio Squinzi ha voluto
ricordare che il consiglio generale di Confindustria si è riunito
eccezionalmente a Taranto, città che per le vicende dell’ILVA, “è
diventata l’emblema delle difficoltà di fare impresa in Italia e,
soprattutto, al Sud“. L’Italia, ha aggiunto Squinzi, “non può
rinunciare a un’industria siderurgica senza arretrare, passando da
Paese di primo piano” ad uno inferiore. E’ per questo che
Confindustria ha deciso di riunire ieri il suo Consiglio generale
proprio a Taranto per lanciare un segnale sull’importanza dell’ ILVA
e del Sud in generale. “Quest’anno – ha concluso Squinzi – ricorre il
cinquantesimo anniversario dell’inaugurazione dello stabilimento di
Taranto: il futuro di questo impianto è il simbolo del futuro
manifatturiero del Sud e del Paese”.

 Nell’incontro con i giornalisti, inizialmente non previsto sino al
giorno prima, Squinzi ha detto che “la produzione dell’ ILVA si è
dimezzata da 10 milioni a 5 milioni di tonnellate di acciaio l’anno e
ritengo che le perdite siano consistenti in questo periodo, nella
misura di diverse decine di milioni di euro“. E ha aggiunto: “Pensiamo
che si debba cercare di recuperare, anche in un momento congiunturale
difficile come quello attuale per cui i consumi sono calati non solo
sul mercato italiano. Occorre recuperare il più possibile e tornare
vicino alle capacità reali di produzione dell’ ILVA, tenendo presente
che il calo importante di produzione si riflette immediatamente sul
conto economico per tutta una serie di costi che possono essere
ammortizzati soltanto con i volumi di vendita“.

Sentire parlare Squinzi dell’inadeguatezza di chi avrebbe costruito
delle case intorno allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA di Taranto
(ex Italsider) , facendo riferimento e prendendo ad esempio quanto
accaduto al suo stabilimento industriale, è dir poco “ridicolo” e
significa ammettere esplicitamente di non avere alcuna cognizione di
causa sulla storia dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto e
dell’adiacente quartiere dei Tamburi !

nella foto, Antonio Gozzi, presidente
Federacciai

Secondo Antonio Gozzi presidente di Federacciai, “la crisi dell’ Ilva
di Taranto Dopo più di due anni di gestione commissariale, non è stata
superata, il risanamento ambientale non è stato terminato e la
produzione è diminuita del 50%”. Una perdita questa, stima Squinzi
“di circa dieci milioni di euro. Ritengo che si debba tornare alle
reali capacità di produzione dell’ Ilva. Sulla famiglia Riva – ha
aggiunto il Presidente Squinzi – sono state scaricate delle colpe che
andrebbero accertate. Ciò che è certo è che in questo periodo è
mancata una gestione imprenditoriale di Ilva. L’azienda adesso è al
collasso perché diversamente dai vecchi proprietari, sono venuti meno
ingenti investimenti che hanno determinato gravi problemi in ambito
tecnologico e produttivo”.

Il Presidente di Federacciai ha dichiarato che “riteniamo fallimentare
il modello commissariale ed auspichiamo che ritorni ad occuparsi della
siderurgia, chi realmente ne ha competenza. É inevitabile per
rilanciare la fabbrica e rimetterla sul mercato”. In pratica, fra le
righe…gli industriali privati vorrebbero influire nelle scelte del
Governo sui Commissari ed il management aziendale, adducendo le
conoscenze e professionalità dell’intero sistema industriale italiano,
“nell’interesse del più grande stabilimento siderurgico d’Europa,
della nostra industria e di tutto il Paese”. “C onoscenze e
professionalità” come quelle del Gruppo Riva, hanno seminato morti ed
inquinamento nel capoluogo jonico ? Nessuno risponde.

Squinzi ed il suo “sodale” Gozzi avrebbe dovuto sapere inoltre che a
quella data Emilio Riva risultava peraltro gravato da due precedenti
condanne relative a reati successivamente abrogati o depenalizzati e
da due patteggiamenti (per lesioni colpose e per violazione delle
norme sulla tutela delle acque) risalendo a fatti di vecchia data,di
cui in Confindustria molti hanno fatto finta per lungo tempo di
ignorare disapplicando il proprio codice etico. Ma non è finita qui.
Infatti anche il figlio del patron dell’ ILVA, e cioè Fabio Nicola
Riva,   ha visto confermata dalla quarta Corte d’Appello Penale di
Milano la condanna a sei anni e sei mesi a suo carico,
per “associazione per delinquere e truffa“, confermando la multa da
1,5 milioni di euro per la RIVA Fire e la confisca complessiva di 90,8
milioni di euro e una provvisionale da 15 milioni di euro da versare
al Ministero dello Sviluppo Economico, parte civile nel procedimento.

 Sempre per conoscenza del presidente di Confindustria, e del suo
staff preoccupato di domande scomode…, ricordiamo che questo
processo (arrivato al secondo grado) riguarda una presunta truffa dei
Riva ai danni dello Stato dell’ammontare di circa 100 milioni di euro,
che sarebbe stata realizzata attraverso l’ottenimento di contributi
pubblici, erogati da Simest (società controllata da Cassa depositi e
prestiti), per il sostegno alle imprese italiane che esportano.
Secondo l’ipotesi accusatoria, confermata in 1° e 2° grado, il gruppo
della famiglia Riva avrebbe ottenuto indebitamente contributi
pubblici, interponendo in una serie di operazioni a Ilva spa la
società svizzera del gruppo, Ilva sa. La legge Ossola, che sarebbe
stata raggirata, prevede che a fronte di dilazioni di pagamento tra i
2 e i 5 anni da parte di acquirenti esteri, le imprese italiane
possano accedere a contributi erogati da Simest.
Evidentemente il Presidente Squinzi non viene informato abbastanza dal
suo staff… Se lo fosse, avrebbe potuto sapere che la Sesta sezione
penale della Suprema Corte di Cassazione ha giudicato definitivamente
colpevoli i Riva con la sentenza n. 31413 dell’ 8 marzo-21 settembre
2006, cioè appena…9 anni fa , ha confermato la sentenza della Corte di
Appello a carico di Emilio Riva (deceduto un anno fa) quale presidente
del consiglio di amministrazione della Ilva spa, ad un anno e 10 mesi
di carcere “per svariati episodi di violenza privata tentata e
consumata ai danni di numerosi lavoratori, commessi in Taranto
all’interno dello stabilimento Ilva Spa dal dicembre 1997 al novembre
1998” e per “frode processuale” .

Troppo facile accusare lo Stato di non aver scelto un management
adatto. Quando poi a dare lezioni di scelte industriali è Antonio
Gozzi,    attuale    amministratore      delegato    della    società
siderurgica Duferco e presidente di Federacciai, che è bene ricordare
nel marzo scorso è stato arrestato a Bruxelles insieme ad un suo
stretto collaboratore e dirigente del gruppo (Massimo Croci n.d.r.) ed
è attualmente accusato di corruzione nell’ambito di un’inchiesta su
presunte tangenti pagate in Congo ad alcuni ufficiali pubblici per
ottenere appalti, onestamente ci sembra un pò troppo…!

Nessun commento da parte di Squinzi & co. alla circostanza che i Riva
come accertato dalla Banca d’ Italia, Agenzia delle Entrate, Guardia
di Finanza e Procura di Milano, abbiamo commesso una presunta evasione
fiscale per circa 2mila miliardi. Nello specifico è bene ricordare
che grazie all’eccellente lavoro fatto dal pool per i reati finanziari
della Procura di Milano, guidato dal pm Francesco Greco sono stati
bloccati e sequestrati ai Riva la modica… cifra di 1,2 miliardi
riconducibili a trust gestiti da istituti finanziari svizzeri, di cui
1 miliardo circa è depositato presso Ubs Fiduciaria a Zurigo, e gli
altri 200 milioni sono in Italia, presso Banca Aletti & Co, mentre per
la somma residua si attende la decisione del Tribunale elvetico di
Belllinzona a cui si sono rivolte le figlie di Emilio Riva, i cui
familiari furbescamente hanno rinunciato all’eredità in Italia, salvo
poi fare resistenza in Svizzera contro la rogatoria italiana, accolta
dal Governo svizzero, per restituire allo Stato italiano i soldi
portati all’estero frutto di accertata evasione fiscale. Altri 700-800
milioni sono stati poi congelati in un procedimento penale nei
confronti di Adriano Riva, che ha completato da poco la fase del
giudizio di primo grado.

Per aiutare i “sodali” dei Riva, e cioè Squinzi e Gozzi mettiamo a
loro disposizione dei significativi grafici realizzati dal collega
Massimo Mucchetti, attuale senatore, ed ex vice-direttore del Corriere
della Sera. Parlano meglio di tutte le inutili “parole” ascoltate ieri
dai vertici confindustriali ieri a Taranto.
Arrestato Gozzi il Presidente della
Federacciai, “fiancheggiatore” dei
Riva
Vi ricordate gli attacchi di Antonio Gozzi, presidente delle
Federacciai contro i commissari dell’ ILVA, contro la Magistratura ?
Ve ne ricordiamo noi qualcuno: “Pragmaticamente bisogna affrontare il
tema di una grande fabbrica che fino a quando ha avuto una gestione
privata è stata in piedi e che dopo due anni di choc provocata dallo
Stato nelle sue diverse articolazioni (magistratura, commissari,
eccetera) è praticamente sull’orlo del fallimento. Bisogna ragionare
in maniera pratica su cose possibili da fare e se si è arrivati a
ipotizzare in intervento dello Stato perché si ha il dubbio se i
privati siano in grado di intervenire. C’è un’area da un miliardo e
mezzo da realizzare, c’è un altoforno da rifare e costa 250
milioni, ci sono le perdite del 2015 che saranno altri 400-500
milioni, ci vogliono più di due miliardi, due miliardi e mezzo per
questo intervento ed è un momento di grave crisi della siderurgia
italiana dove non ci sono italiani con questa capacità finanziaria e
lo stesso Mittal potrebbe avere una qualche difficoltà”. E poi “La
gestione commissariale ( Bondi n.d.r.) ha fatto perdere tempo sul
salvataggio dell’azienda, bruciando 1,5 miliardi di circolante. Il
piano è frutto di direttive ambientali figlie dell’Aia difficili da
attuare. Un errore del Governo Letta” (da La Repubblica, 9/6/2014)

Ebbene oggi Antonio Gozzi, presidente di Duferco e di Federacciai, è
stato arrestato dalle autorità belghe in una indagine per corruzione
a Bruxelles. Secondo le accuse Gozzi avrebbe corrotto degli ufficiali
nella Repubblica democratica del Congo per ottenere appalti. Lo ha
reso noto TicinoNews con una nota di Duferco, società che che ha sede
a Lugano. L’indagine coinvolge anche l’ex sindaco di Waterloo ed ex
ministro vallone Serge Kubla. Secondo l’accusa, la società avrebbe
chiesto a Kubla, arrestato il 24 febbraio scorso e successivamente
scarcerato dopo 48 ore di fermo, di corrompere il presidente congolese
per ottenere una diversificazione delle attività di Duferco anche nel
settore del gioco d’azzardo. Gozzi ed il suo collaboratore Massimo
Croci erano stati invitati a Bruxelles per rispondere alle domande del
giudice, che ha deciso di trattenerli. Venerdì compariranno davanti al
giudice che deciderà se convalidare l’arresto.

Duferco: Gozzi e Croci totalmente estranei. “Questo modo di procedere
non può essere definito se non come un mezzo di pressione
inammissibile“, afferma il gruppo Duferco che è di origine brasiliana
e impiega 3000 persone in tutto il mondo. Oggi la società è
controllata dalla cinese Hebei Iron and Steel Group. Il gruppo, “che
rispetta dalla fondazione un rigido codice etico – aggiunge la nota –
tiene ad affermare che Gozzi e Croci hanno più che mai la fiducia del
gruppo e degli azionisti”

In una nota diffusa da Duferco, si sottolinea che l’amministratore
delegato Antonio Gozzi, e il dirigente della stessa azienda, Massimo
Croci, si dichiarano “totalmente estranei” alla vicenda che ha portato
al loro fermo in Belgio e intendono collaborare “pienamente con i
giudici, confidando in un rapido accertamento della verità“. In una
nota la multinazionale sottolinea che i due manager, di nazionalità e
residenza italiana, “sono stati ascoltati ieri dal Giudice Istruttore
Claise di Bruxelles da cui si sono recati spontaneamente per fornire
agli inquirenti tutti gli elementi e le informazioni eventualmente in
loro possesso, utili alla ricostruzione della verità e si sono resi
disponibili per tutto il tempo necessario allo svolgimento delle
indagini”.
Fino a oggi, prosegue la nota, “il Gruppo Duferco, al di là di un
primo comunicato iniziale, ha preferito mantenere il più stretto
riserbo per rispetto al lavoro del Giudice Istruttore e delle indagini
in corso“. Ma ora ritiene necessario ribadire alcuni punti: “la totale
estraneità del Gruppo Duferco e dei suoi dirigenti a qualunque
episodio di corruzione internazionale, nella Repubblica del Congo o in
qualunque altro Paese;     la rigorosa e severa policy del Gruppo
Duferco, fatta di regole organizzative e metodiche di comportamento,
volta a prevenire qualsiasi comportamento non corretto non solo da
parte dei suoi dirigenti e impiegati, ma anche da parte degli
stakeholder, primi fra tutti fornitori e clienti; la quarantennale
reputazione del Gruppo Duferco nel mercato internazionale
dell’acciaio, dell’energia e dello shipping, reputazione mai scalfita
da qualsivoglia vicenda o anche singolo episodio meno che corretto“.

La vicenda, nell’ambito della quale Gozzi e Croci sono stati
ascoltati, ricostruisce il comunicato dell’azienda, “risale al 2009 e
non riguarda direttamente società del Gruppo Duferco, ma società e
interessi economici esterni al Gruppo e riferibili personalmente agli
azionisti del Gruppo stesso. Si è trattato di un intervento di natura
esclusivamente finanziaria in un settore esterno alle competenze
tradizionali del Gruppo terminato, tra l’altro, con risultati
economici e finanziari negativi. Antonio Gozzi e Massimo Croci se ne
sono occupati su incarico degli azionisti, ma non sono mai stati in
vita loro in Congo, nè hanno mai conosciuto politici o funzionari
pubblici congolesi o altre persone di quel Paese capaci di aver peso o
influenza nell’emanazione di atti amministrativi. Hanno quindi
dichiarato al Giudice Istruttore la loro totale estraneità ai fatti e
confidano in un rapido accertamento della verità da parte della
giustizia belga“, conclude la nota.

L’INCHIESTA. La vicenda giudiziaria che ha portato in un carcere di
Bruxelles Antonio Gozzi,presidente di Federacciai e nome di peso
nell’organigramma di Confindustria parte dalla misteriosa scomparsa
del revisore di bilancio Stephan De Witte, ed i magistrati di
Bruxelles indagando sono approdati alla Duferco, il gruppo siderurgico
guidato da Gozzi. Nelle mani degli inquirenti c’è una fattura di 60
mila euro pagata dall’azienda al politico Serge Kubla, già ministro
dell’Economia del governo autonomo della Vallonia e fino a poche
settimane fa sindaco di Waterloo, il paese della battaglia che segnò
la fine di Napoleone.

Come raccontano i colleghi Franchini e Malagutti del settimanale l’
ESPRESSO, “il sospetto è che quei soldi, prima rata di un pagamento
complessivo di 240 mila euro, siano stati versati da Duferco per
aprirsi la strada in Congo, l’ex colonia belga ricchissima di materie
prime, diamanti e oro. Gozzi conosce bene Kubla, un politico di lungo
corso molto vicino al premier di Bruxelles, Charles Michel. Nel 2003
la multinazionale dell’acciaio avviò la riconversione delle sue
attività in Vallonia grazie ai finanziamenti pubblici per cui si spese
l’allora ministro regionale. De Witte, invece, aveva lavorato a lungo
come consulente di Duferco, che in Belgio controlla stabilimenti e
altre attività logistiche e immobiliari. Sta di fatto che un paio di
anni fa il contabile decide di cambiare vita: lascia la famiglia e
trova un impiego in un grande parco botanico a un centinaio di
chilometri da Kinshasa, la capitale del Congo. A un certo punto, però,
De Witte smette di dare notizie di sé. Lo cercano amici, parenti e
anche la moglie che nel giugno dell’anno scorso ne denuncia la
scomparsa.

L’inchiesta giudiziaria arriva a una svolta meno di un mese fa, il 24
febbraio, quando la polizia arresta Kubla. «L’indagine riguarda le
attività del gruppo industriale Duferco nella Repubblica Democratica
del Congo», questo è quanto si legge nel comunicato ufficiale della
procura federale di Bruxelles. In altre parole l’azienda guidata da
Gozzi è sospettata di aver corrotto “pubblici ufficiali congolesi per
favorire – si legge ancora nel comunicato – la realizzazione di
importanti investimenti nel settore dei giochi e delle lotterie”.
Non è ancora chiaro quale sia stato il ruolo di De Witte in questa
storia. Forse era stato arruolato come agente sul posto per coordinare
le nuove attività congolesi. Le accuse contro Kubla, invece, sono
molto precise. Il politico vallone, pezzo grosso del partito moderato
MR (Mouvement Réformatour), avrebbe consegnato una somma di 20 mila
euro alla moglie dell’ex primo ministro congolese Adolphe Muzito. La
signora ha smentito tutto, minacciando querele.

Quei soldi però, secondo l’accusa, erano solo l’acconto di una
tangente da 500 mila euro. I rapporti tra Kubla e Gozzi risalgono
almeno al 2003. A quell’epoca, come detto, i fondi pubblici della
Vallonia finanziarono la riconversione di alcuni vecchi impianti di
Duferco in Belgio. Sulla poltrona di ministro regionale c’era proprio
l’uomo politico ora accusato di corruzione internazionale. Tra
investimenti azionari e prestiti, l’azienda siderurgica incassò oltre
500 milioni di euro. Un fiume di denaro, tanto che la Commissione
Europea ha avviato un’istruttoria per verificare se siano state
rispettate le regole della Ue sugli aiuti di Stato. Molti anni dopo
quella vicenda, tornano d’attualità la liason tra il manager italiano
e l’ex borgomastro di Waterloo, dimissionario dopo l’arresto. Questa
volta però le accuse sono ben più gravi.

Adesso tocca a Gozzi fornire la sua versione dei fatti al giudice
istruttore Michel Claise, specializzato in indagini sulla criminalità
finanziaria. Il presidente di Federacciai è molto conosciuto nel mondo
degli affari nostrano e anche in quello calcistico, come presidente
della squadra dell’Entella di Chiavari, che milita in serie B. Il suo
ruolo di vertice nell’apparato di Confindustria ha portato Gozzi a
impegnarsi in vicende da prima pagina come la crisi dell’ ILVA di
Taranto, spesso per attaccare i provvedimenti dei magistrati.
La Duferco, una multinazionale con base a Lugano e un giro d’affari di
oltre sette miliardi di euro l’anno, controlla numerosi impianti anche
in Italia e di recente si era candidata a partecipare al salvataggio
delle Acciaierie di Piombino sull’orlo del fallimento, poi passate al
gruppo algerino Cevital.

Al manager italiano è stata anche affidata – si legge nel bilancio –
la “general supervision” delle importanti attività del gruppo in
Belgio. Proprio Gozzi, insieme al collaboratore Massimo Croci, figura
nel ruolo di amministratore di una piccola holding creata alla fine
del 2010, la Successful Expectations Belgium. Quest’ultima, a sua
volta, tira le fila di una serie di società con base in Congo, Ruanda,
Burundi, Zambia, tutte impegnate nel settore dei giochi.

Che cosa c’entra il business dell’azzardo con il trading di acciaio?
In apparenza niente. L’ipotesi degli investigatori, però, è che gli
appalti nelle lotterie, da sempre gestite dalla burocrazia statale,
potesse servire per allacciare rapporti con la politica locale. E
quindi inserirsi negli affari ben più lucrosi che ruotano intorno alle
materie prime (petrolio, metalli), ai diamanti, all’oro. I bilanci
confermano che la holding belga gestita da Gozzi ha gettato la sua
rete in Africa tra il 2011 e il 2012. Poco dopo è sbarcato in Congo
il contabile De Witte, poi scomparso nel nulla.
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