IL ROMANZO E LA PAGINA BIANCA
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IL ROMANZO E LA PAGINA BIANCA Andrea Barabino L’avvio dell’opera, con la stesura delle prime righe – per cui, con una sorta di “big bang” narrativo si supera il blocco della pagina bianca e si organizza via via in un sistema complesso una macronarrazione – è un problema tipico del genere “romanzo”. Sulla questione del romanzo come genere torneremo più avanti: per ora ci preme sottolineare che il problema dell’incipit viene risolto diversamente per esempio nell’epica, la più antica forma di narrazione artistica, in cui è presupposto un “cominciamento” topico, un exordium basato sull’invocazione alla divinità, la Musa, che è la vera voce di quel canto. Il poeta epico, in effetti, è solo l’espressione occasionale, mediata e umana, di un racconto che deriva in ultima istanza da un piano assoluto, eterno, divino: la voce soprannaturale si umanizza nelle parole del poeta, che se ne rende strumento e portavoce. Nei romanzi, invece, già in epoca antica, il “cominciamento” non è standard, anche in virtù del fatto che il genere non è – come vedremo più avanti – codificato: per questo l’exordium è più vario e comporta, di fatto, soluzioni narrative differenti. Qui interessa mettere in rilievo che, pur nell’evidente rudimentalità dell’impianto, le scelte narrative adottate dai romanzieri antichi nell’avvio dell’opera permettono di riflettere su alcune strutture intrinseche del genere romanzo e consentono, pur nelle notevoli differenze, di istituire un parallelo con altre soluzioni – ben più articolate e sofisticate – adottate a distanza di millenni dai romanzieri moderni e contemporanei. I romanzi tra l’antico e il moderno Non è semplice, naturalmente, analizzare il romanzo antico alla luce delle categorie narratologiche moderne, sia perché sussiste “a priori” un problema di genere letterario, sia perché il romanzo moderno, a differenza di quello antico, ha maturato una consapevolezza ben più profonda delle regole narrative che lo governano, al punto che in alcuni casi – lo possiamo affermare tranquillamente – gli scrittori stessi, specialmente nel Novecento, sono apparsi attenti alle sottigliezze della costruzione dell’opera più che al messaggio ad essa sotteso. Il presente contributo si ripropone, dunque, di fornire una rapida disamina sulle diverse soluzioni, anche di carattere “metanarrativo”, legate all’incipit dei romanzi antichi. Il problema del genere “romanzo” Va chiarito innanzitutto, a scanso di fraintendimenti ed equivoci, che sussiste un fondamentale problema di genere letterario, legato storicamente al romanzo: nel canone letterario del mondo occidentale, rappresentato da quell’opera fondamentale che è la Poetica di Aristotele, non si fa infatti alcun cenno al romanzo. È plausibile, infatti, che all’epoca della stesura di questo trattato (Aristotele vive nel IV sec. a.C.) non esistessero ancora forme - www.loescher.it/mediaclassica -
letterarie simili a quelle che noi moderni definiamo romanzi. Le prime attestazioni di romanzo nel mondo antico risalgono, infatti, alla tarda età ellenistica, ovvero alla fine del II sec. a.C., con il cosiddetto Romanzo di Nino, di cui ci sono giunti solo pochi frammenti papiracei datati attorno al 100 a.C. Il primo romanzo greco a noi giunto integralmente, Cherea e Calliroe di Caritone di Afrodisia, è collocato da alcuni studiosi nel I sec. a.C., da altri nel I sec. d.C. Tutto lascia pensare, dunque, che la nascita del romanzo – un genere di intrattenimento, a larga diffusione popolare – sia successivo alla riflessione sviluppata da Aristotele nel suo trattato sulla poetica. Le opere che ci sono giunte dal mondo greco e che vengono etichettate come romanzi sono, oltre al già citato romanzo di Caritone, Le Efesiache di Senofonte Efesio; Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio; Le storie pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista; Le Etiopiche di Eliodoro. Ma i due maggiori romanzi dell’antichità, per intrinseco valore letterario, ci vengono dal mondo latino: sono il Satyricon di Petronio e Le metamorfosi (o L’asino d’oro) di Apuleio. L’arco temporale al cui interno sono collocate queste opere, benché la cronologia di alcune di esse sia fortemente controversa, va probabilmente dal II sec. a.C. fino al III d.C., epoca in cui viene attualmente datata l’opera di Eliodoro di Emesa. Ammesso che i parametri cronologici abbiano un senso, resta da concludere che questo genere deve aver ottenuto nell’antichità un certo successo, evidentemente già consolidato nel I sec. d.C., se è vero che il romanzo di Petronio si sostanzia di una forte carica parodistica, che non si potrebbe spiegare altrimenti, se non presupponendo un largo successo del genere già in quell’epoca. In età moderna, il romanzo “rinasce” o, meglio, “nasce”, perché nell’antichità queste opere letterarie non avevano acquistato un proprio statuto definito e definitivo. Per avere un’idea di questo concetto, basti pensare che non esisteva neppure un termine preciso che potesse contraddistinguere il genere: si pensa addirittura che fossero indicate con il generico dra&mata. Anche se i prodromi di questa resurrezione moderna affondano già nel Seicento, con l’opera Don Chiscotte di Cervantes, è a partire dall’inizio dell’Ottocento - con il romanzo storico, specialmente a partire da Ivanhoe di Walter Scott – che il romanzo acquista gradualmente ma inesorabilmente un suo preciso statuto, conquistando sempre più successo a livello di pubblico e dispiegando una fioritura tanto ampia e varia, da risultare già nell’Ottocento il genere letterario più letto ed amato in diversi paesi d’Europa. L’incipit Come si dà, dunque, inizio a un romanzo? Il dilemma della pagina bianca, che frena l’artista nell’avvio della sua opera, dicevamo, è un topos consolidato, che va al di là delle epoche e delle culture. Le soluzioni narrative, specialmente nel mondo moderno, sono molto varie, al punto che sarebbe impegnativo operare una casistica esaustiva. Nello sviluppo del presente contributo ci limiteremo, invece, ad analizzare i romanzi antichi con rapidi accenni di confronto con alcune caratteristiche rispetto all’epoca moderna, per sottolineare come alcune - www.loescher.it/mediaclassica -
interessanti soluzioni metanarrative – sia pur a livello ancora ingenuo – compaiano già in alcuni romanzi antichi. L’incipit nei romanzi antichi greci Esaminiamo ora, pur cursoriamente, i diversi “attacchi” dei romanzi antichi greci a noi giunti. • Caritone, Cherea e Calliroe «Io, Caritone d’Afrodisia, segretario dell’avvocato Atenagora, racconterò una storia d’amore avvenuta a Siracusa. Il generale siracusano Ermocrate, il famoso vincitore degli Ateniesi, aveva una figlia di nome Calliroe […]» [trad. it. di Giacomo Annibaldis, in Storie d’avventura antiche, Dedalo, Bari 1987] Prima dell’inizio del racconto vero e proprio, che sostanzialmente coincide con il classico “c’era una volta…” tipico dei racconti fiabeschi, l’autore presenta se stesso. Poche parole, ma fondamentali: Caritone sottolinea la propria identità e il proprio ruolo sociale (segretario dell’avvocato Atenagora), quindi propone quello che potremmo chiamare l’argomento del romanzo, una storia d’amore, parallelamente alla sua dislocazione geografica (a Siracusa). Le coordinate spazio-temporali si completano pochi istanti dopo, quando leggiamo che la storia è ambientata all’epoca del generale siracusano Ermocrate, vincitore degli Ateniesi che avevano organizzato, durante la Guerra del Peloponneso, una spedizione militare contro Siracusa (415- 413). La figlia di Ermocrate, Calliroe, è la protagonista femminile di questa storia d’amore, la cui vicenda viene descritta subito, già a partire dai paragrafi immediatamente successivi. L’avvio narrativo, dunque, appare molto elementare e scabro, con la “telecamera” che tiene subito puntato l’obiettivo sulla protagonista: nel volgere di pochi paragrafi verrà descritto il suo incontro con il bellissimo Cherea: il colpo di fulmine colpirà di identica passione i due giovani. La parte metanarrativa (Io Caritone d’Afrodisia ecc.), che brevemente è premessa al “c’era una volta”, dimostra senz’altro l’essenzialità espressiva delle soluzioni adottate, ma non va sopravvalutata. Non dimentichiamo che nel mondo antico le opere letterarie erano scritte non su libri, ma su volumi, organizzati in rotoli, che venivano avvolti per la conservazione e srotolati man mano per la lettura. I testi antichi, dunque, a differenza dei nostri, non avevano né una copertina con autore e titolo, né tanto meno una quarta di copertina che potesse introdurre sinteticamente l’argomento dell’opera e il profilo dell’autore. Non dobbiamo, quindi, bollare come mera forma d’imperizia letteraria questo tipo di incipit, perché, verosimilmente, l’attacco metanarrativo in cui l’autore presenta se stesso e la propria opera, si può spiegare secondo motivi d’ordine pratico, con la proposizione di notizie che normalmente in epoca moderna troviamo nell’involucro paratestuale della “confezione-libro”, la copertina. In modo non differente, anche se diametralmente speculare, troviamo una soluzione analoga nella chiusa delle Etiopiche di Eliodoro, che così si conclude: “Finisce così - www.loescher.it/mediaclassica -
il romanzo delle Etiopiche su Teagene e Cariclea. Lo ha composto un Fenicio di Emesa, della stirpe del sole, Eliodoro, figlio di Teodosio.” • Senofonte Efesio, Le Efesiache «C’era ad Efeso un uomo, uno dei più potenti tra i notabili del luogo, di nome Licomede. Questo Licomede ebbe da una compaesana, di nome Temisto, un figlio, Abrocome, un vero fiore di bellezza che non si era mai ammirato prima né in Ionia, né in altro paese. […]» [trad. it. di Giacomo Annibaldis, in Storie d’amore antiche, Dedalo, Bari 1987] Come si vede, in questo caso l’incipit è del tutto scabro, analogo all’inizio narrativo del romanzo di Caritone (eccettuata, dunque, la prima parte della presentazione metanarrativa dell’autore di Afrodisia). Il focus converge subito su uno dei personaggi principali, il protagonista maschile (Abrocome), mentre in Caritone l’attenzione era puntata innanzitutto sulla figura femminile (Calliroe). Forse è opportuno sottolineare che alcuni studiosi ritengono questa versione del romanzo un’epitome di un’edizione più ampia, il che renderebbe di per sé ragione dell’estrema essenzialità narrativa. • Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte «Sidone è una città sul mare – il mare degli Assiri –. La città è metropoli dei Fenici; padre dei Tebani il suo popolo. Nell’insenatura c’è un duplice porto, ampio, che dolcemente chiude il mare: perché, dove l’insenatura s’incurva sul fianco verso destra, è stata aperta una seconda bocca, e l’acqua penetra nuovamente, e dal porto nasce un nuovo porto, in modo che le navi da carico possano svernare al sicuro in questa parte, e passare l’estate nel porto all’ingresso del golfo. Qui giunto, reduce da una forte tempesta, stavo per fare un sacrificio di ringraziamento per la mia salvezza all’Afrodite dei Fenici (che i Sidoni chiamano Astarte). Mentre dunque andavo in giro per la città e mi soffermavo ad osservare soprattutto le offerte votive, ecco che vedo esposto un quadro con terra e mare insieme. Il quadro raffigurava Europa: con il mare dei Fenici e la terra di Sidone. [… NB: il taglio qui operato riguarda la lunga descrizione del quadro, N.d.C.]. Io apprezzavo certo il resto del quadro, ma, in quanto incline all’amore, guardavo con più interesse Eros che conduce il toro [uno dei particolari del quadro prima descritto, N.d.C.]; e dissi “Che lattante governa cielo e terra e mare!”. Mentre dicevo così un giovane, anche lui fermo là vicino: “Di questo avrei esperienza – disse –, per le tante ingiurie che ho patite da parte di Eros”. “E cos’è che hai patito – dissi –, mio caro? Perché dal tuo aspetto noto che non è da molto che sei stato iniziato ai misteri di questo dio”. “Risvegli uno sciame di racconti – disse –, perché le mie vicende sembrano storie favolose”. “Non indugiare, amico – dissi –, te ne prego in nome di Zeus e dello stesso Eros. Proprio queste vicende saranno particolarmente istruttive, per quanto possano sembrare storie favolose”. E così dicendo lo prendo per mano e lo conduco in un boschetto vicino, dove crescevano molti platani fitti, e da un lato scorreva acqua gelida e limpida, com’è quella che viene da neve appena sciolta. Lo faccio sedere su un sedile basso, mi metto anch’io a sedere a fianco e: “È il - www.loescher.it/mediaclassica -
momento – dissi – di ascoltare i tuoi racconti: un luogo simile è davvero piacevole e appropriato per raccontare storie d’amore. […]» [trad. it. di Onofrio Vox, in Storie d’amore antiche, Dedalo, Bari 1987] Innanzitutto va sottolineata la scelta della voce narrante: non si tratta più di un narratore esterno, come nel caso di Caritone e di Senofonte Efesio, ma di un narratore interno, cha a sua volta è narratario rispetto a un altro narratore interno, che a lui racconta le proprie infelici storie di amore. Interessante è anche l’incipit geografico: l’effetto “zoomata”, per cui ci si avvicina sempre di più con il focus narrativo al luogo in cui si svolge la vicenda narrata può essere, mutatis mutandis, accostato a “quel ramo del lago di Como” manzoniano o all’inizio di Elianto di Stefano Benni, che porta all’estremo, con dirompenti effetti caricaturali, questa tecnica ad avvicinamento progressivo rispetto al luogo in cui si svolgono le vicende descritte. Nel romanzo di Achille Tazio, però, la definizione geografica, con il restringimento della visuale, non introduce alla vicenda narrata stessa, ma rappresenta ancora una cornice metanarrativa: viene citato e parzialmente descritto il luogo che dà l’occasione all’avvio del racconto. Dinanzi al quadro, infatti, si trovano casualmente due personaggi: da un lato l’autore, dall’altro il narratore che racconta al suo narratorio (l’autore stesso) e in definitiva a noi lettori le sue pene d’amore. Questa cornice narrativa, che trova l’avvio nel casuale incontro di due spettatori di fronte a un quadro, si arricchisce di un altro topos, quello del locus amoenus: la coppia si sposta in un luogo incantevole, particolarmente adatto ai racconti d’amore, ricalcando con questo stilema da vicino l’ambientazione e le soluzioni narrative del Fedro platonico. • Longo Sofista, Le storie pastorali di Dafni e Cloe «Proemio. Nell’isola di Lesbo, mentre cacciavo in un bosco sacro alle Ninfe, mi capitò di vedere il più bello spettacolo ch’io abbia mai visto: un quadro che rappresentava la storia di un amore. Bello certamente era anche il bosco, fitto di alberi, pieno di fiori e ben irrigato; ma più piacevole il quadro e per gli straordinari pregi artistici e per la vicenda d’amore che ne era il soggetto, tanto che molta gente, attratta dalla fama, veniva anche da paesi stranieri, e per venerare le Ninfe e per ammirare il dipinto. Vi si vedevano donne nell’atto di partorire e altre che fasciavano bambini, bambini esposti, pecore e capre che li allattavano, pastori che li raccoglievano, giovani che si giuravano fedeltà, una scorreria di pirati, un’irruzione di nemici. Molte altre scene e tutte d’amore avendo visto e ammirato, mi prese il desiderio di descrivere il dipinto in parole. […]» [trad. it. di Ciro Monteleone, in Storie d’amore antiche, Dedalo, Bari 1987] Anche qui, come nel romanzo di Achille Tazio, la dettagliata descrizione di un quadro promuove l’inizio del racconto. Il romanzo nasce, letteralmente ed espressamente, come traduzione in parole di un disegno, di un quadro. La soluzione si configura, dunque, come - www.loescher.it/mediaclassica -
amplificazione narrativa dell’ekphrasis, la descrizione di un oggetto, topos letterario a partire dall’età ellenistica. • Eliodoro, Le Etiopiche «Il giorno appena sorrideva e il sole illuminava con i suoi raggi le cime dei monti, quando degli uomini armati da briganti sbucarono sopra l’altura che si estende presso le foci del Nilo, la cosiddetta bocca di Eracle. […]» [trad. it. di Onofrio Vox, in Storie d’avventura antiche, Dedalo, Bari 1987] La narrazione prende l’avvio da questo istante: un gruppo di briganti si avvicina a una nave, che ha appena fatto naufragio. Su di essa era imbarcata la protagonista, Cariclea. La giovane, di bellezza straordinaria, viene fatta prigioniera. Il romanzo procederà da qui, attraverso la sviluppo successivo della vicenda fino al lieto fine conclusivo, ma al lettore saranno forniti via via diversi flash-back, che gli consentiranno di inquadrare gli avvenimenti passati e di ricostruire il filo logico del racconto. Non è un caso, dunque, se anche dal punto di vista della costruzione narrativa, Le Etiopiche risultano l’opera più complessa nel novero dei romanzi greci d’amore a noi giunti. L’incipit nei romanzi antichi latini Esaminiamo ora, pur cursoriamente, i diversi “attacchi” dei romanzi antichi a noi giunti. • Petronio, Il Satyricon Non è possibile operare riflessioni sull’incipit del romanzo di Petronio, perché l’opera, nonostante la mole del materiale pervenuto, ci è giunta fortemente incompleta. Abbiamo, infatti, solo un estratto dei libri XV e XVI dell’originale. • Apuleio, Le Metamorfosi «Ecco! In stile milesio voglio per te, o lettore, intrecciar varie favole, e col piacevole mormorio del mio narrare carezzar le tue benevole orecchie. Basterà solo che tu non ti rifiuti di dare uno sguardo a un papiro egiziano che è stato scritto con la finezza propria a una cannuccia del Nilo. Avrai da stupirti, ché si tratterà delle persone e delle sorti d’uomini cangiati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno nuovamente in forma primitiva. Inizio. – Chi è costui? – ti domanderai. Ti rispondo in breve. L’attica Imetto, l’epirota Istmo, la spartana Tenaro sono terre felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò in antico la mia prosapia; qui, nei primi esercizi della fanciullezza, appresi la lingua attica. Poi, nella città del Lazio, io, ch’ero straniero all’ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell’idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse. Chiedo perdono, dunque, se, parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare. Del resto, anche la varietà del mio linguaggio corrisponde all’abilità del passare da una storia all’altra, che è propria dell’argomento da me - www.loescher.it/mediaclassica -
trattato. Inizio dunque una favola che è alla foggia dei Greci. Stai attento, lettore, ché ci troverai il tuo spasso. […]» [trad. it. di Claudio Annaratone, Le metamorfosi o L’asino d’oro, BUR, Milano 1977] Prima dell’inizio vero e proprio della narrazione, Apuleio propone un capitolo introduttivo che offre molti motivi di riflessione. Innanzitutto, in diversi punti c’è il richiamo alla fabula Milesia, un genere letterario di antica origine orientale, di cui abbiamo alcuni esempi anche nelle novelle del Satyricon di Petronio, che era stato introdotto a Roma da Sisenna e che era costituito da brevi racconti spesso conditi di particolari piccanti e legati alla sfera del sesso. Poi l’autore accenna anche alla propria purezza linguistica: i limiti che denuncia (impiego di termini esotici o popolari) si spiegano per via dall’origine straniera di Apuleio, che, educato dapprima alla lingua greca, apprese solo in età successiva e potremmo dire con fatica da autodidatta (“intrapresi con durissima fatica lo studio dell’idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse”) la lingua latina, nella quale compone la propria opera. Accanto ai difetti della propria lingua, Apuleio sottolinea intelligentemente anche i pregi: il suo latino è duttile e vario, adeguata – insomma – alla materia stessa presentata, in cui compaiono continue trasformazioni metamorfiche e le vicende sono in un costante, magmatico ribollimento. Con questa opportuna osservazione, Apuleio salda abilmente l’aspetto di forma e contenuto, che verrebbero così a coincidere pienamente e ad essere caratterizzati da una sostanziale omogeneità di presupposti. Infine, ci pare interessante anche la breve proposizione dell’argomento, che appunta l’attenzione del lettore sul versante del tema “metamorfosi”, centrale appunto nell’opera, già a partire dal titolo: la storia di Lucio, che tra mille sensazionali avventure perde temporaneamente l’aspetto umano per riconquistarlo solo alla fine, è presentata al lettore sotto il profilo del piacere della lettura. Apuleio, infatti, già all’inizio sottolinea questo aspetto: “col piacevole mormorio del mio narrare carezzar le tue benevole orecchie”. Lo stesso concetto è ribadito nella parte conclusiva di questa introduzione: “Stai attento, lettore, ché ci troverai il tuo spasso” (“Lector intende: laetaberis”). È assolutamente evidente, però, che il piacere della lettura fa da esca, con il lettore, rispetto a un obiettivo più grosso e importante, cui mira l’autore: lo scopo vero è di avvicinare il lettore alla religione isaica, a cui si convertirà il “redento” Lucio nella conclusione dell’opera. La bellezza della favola, dunque, è il miele grazie al quale l’autore riesce a irretire il lettore, nell’intento di ammaestrarlo sulla via della salvezza dell’anima, nel quadro del culto egizio di Iside e Osiride. Conclusione I romanzi antichi, dunque, presentano differenti tipologie nell’inizio della narrazione: le forme più semplici ed elementari, come quelle proposte da Caritone e Senofonte Efesio, ricordano da un lato le favole (altro genere di estrazione popolare), dall’altro i romanzi storici tipici della prima metà dell’Ottocento, composti nel momento di maggior espansione di questo genere “nuovo” e non tradizionale. Esistono, poi, anche modalità più complesse e sofisticate, - www.loescher.it/mediaclassica -
per lo più riconducibili all’idea per cui il romanzo non è altro che una espansione verbale di un’altra forma di linguaggio, la pittura: il romanzo, insomma, è semplicemente la traduzione di un quadro, che viene spiegato, descritto in modo diffuso e articolato. Sotto questa angolatura, nel senso cioè di intendere il romanzo come tramite e “traduzione”, è possibile – sia pur con la dovuta cautela – istituire un paragone con I Promessi sposi di Manzoni, per la quale si rimanda all’Appendice, proposta a conclusione del percorso: come i due romanzieri antichi citati sono i traduttori da un codice (artistico e pittorico) a un altro (linguistico e narrativo) di un’opera altrui, così Manzoni è il traduttore dall’italiano del Seicento all’italiano dell’Ottocento della storia raccontata dall’Anonimo. Tornando ai romanzi antichi, interessante è anche l’uso dell’impianto: a fronte di una scelta per lo più legata a una narrazione cronologica degli eventi, con Eliodoro assistiamo anche a una forma più evoluta e matura di racconto, anacronica, con frequenti inserti di analessi o flash-back, che consentono al lettore di recuperare parti degli avvenimenti essenziali per comprendere lo sviluppo della vicenda. Anche la voce narrante è utilizzata con duttilità: se molti romanzi prediligono la scelta autoriale, del narratore onnisciente che parla come voce fuori campo, in alcuni casi – come in Achille Tazio – assistiamo a un gioco di specchi, per cui la narrazione diventa racconto di racconto, sdoppiando le figure dell’autore e del narratore. Il romanzo antico, dunque, pur nella semplicità sostanziale dei propri schemi narrativi e nell’ingenuità dei temi trattati, fornisce comunque una gamma varia e ampia di soluzioni. Appendice: Manzoni e l’Anonimo Molti lettori, ripensando all’incipit dei Promessi Sposi, possono essere tentati dall’idea che si tratti del famoso “Quel ramo del lago di Como...”. Non è così, ovviamente. Questo è l’attacco del I capitolo: il vero incipit sta nell’Introduzione, in cui Manzoni comincia a trascrivere le pagine dell’Anonimo, ma poi si ferma e riflette. Le prime parole dell’introduzione sono: “L’Historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo…”. Dopo aver trascritto diverse righe dal manoscritto dell’Anonimo, Manzoni ha un cedimento e si chiede: «Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? - Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. – Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, bene è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. […] In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo - www.loescher.it/mediaclassica -
genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani. – Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico, molto bella. – Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura? – Non essendosi presentato alcun obiezione ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo.» Fin dai primi momenti, dunque, Manzoni si propone al lettore come responsabile della – potremmo dire – traduzione del manoscritto dell’Anonimo, passando dall’inelegante, sgrammaticata, lombarda prosa del Seicento allo scorrevole italiano (sia pur grazie ai panni risciacquati in Arno!) ottocentesco del Manzoni. Con l’abile strategia metanarrativa dell’Anonimo, Manzoni si ripropone di raggiungere diversi obiettivi: da un lato riesce a garantirsi la verosimiglianza sotto il profilo del contenuto (la storia “bassa” di Renzo e Lucia trova una garanzia dal fatto che l’Anonimo è stato testimone oculare della vicenda e si salda alla “storia alta” per una lunga teoria di fatti e personaggi realmente storici, tra i quali citiamo solo la peste, le grida, il Cardinale Borromeo, l’Innominato, la rivolta di Milano sotto Ferrer), per un genere letterario, come il romanzo, non ancora completamente accreditato; dall’altro si pone solo come responsabile della “forma”, della lingua adattata, perché il contenuto appunto (la “serie de’ fatti”, come la definisce Manzoni stesso) appare bello e piacevole. A partire da questa scelta d’impianto, discendono alcune importanti conseguenze narrative: l’alter ego dell’Anonimo è corroborato da un solidissimo impianto storico, che conferma la credibilità, la verosimiglianza della vicenda, per la quale Manzoni si documenta con grande scrupolo (basti pensare alla stesura della Storia della colonna infame, a corollario della vicenda della peste descritta nell’opera); il punto dolente, per cui Manzoni sente (per averlo lui stesso scelto) la totale responsabilità, è il piano della lingua, dello stile. Da questo punto di vista, dunque, appare chiaro perché tante siano le stesure e le revisioni dell’opera, con limature a volte davvero minime (come capita di vedere con chiarezza in un confronto tra la versione del 1827 e quella del 1840), perché l’autore non era mai contento e soddisfatto dell’ambito per il quale aveva assunto agli occhi del lettore la piena responsabilità: la lingua e lo stile. Manzoni – è superfluo sottolinearlo – ha la piena consapevolezza delle proprie scelte strategiche, come dimostra la chiusa dell’opera, in cui ancora una volta declina e sdoppia le responsabilità dell’autore (l’Anonimo) e del traduttore (se stesso) nelle ultime righe, al momento del congedo dai lettori: «La quale (scil. storia), se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta (scil. l’Anonimo, N.d.C.), e anche un pochino a chi l’ha raccomodata (scil. Manzoni, N.d.C.). Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.» - www.loescher.it/mediaclassica -
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