Il realismo platonico di Galileo Galilei - La matematizzazione strumentalistica della natura e della fisica: dal Quale al Quanto

Pagina creata da Raffaele Costantini
 
CONTINUA A LEGGERE
Il realismo platonico di Galileo Galilei - La matematizzazione strumentalistica della natura e della fisica: dal Quale al Quanto
MARCO PAOLO ALLEGRI
         Il realismo platonico
           di Galileo Galilei
     La matematizzazione strumentalistica
della natura e della fisica: dal Quale al Quanto

                       1
Sommario

Introduzione

   1. L’ unificazione di fisica terrestre e fisica celeste
   1.1.  Realismo e strumentalismo
   1.2.  Galileo: la riunificazione di fisica terrestre e fisica celeste
   1.3.  Il senso comune e la miope pervicacia degli aristotelisti moderni

   2. La destituzione del paradigma tolemaico-aristotelico
   2.1.  La matematizzazione della fisica e della natura
   2.2.  I “puri astronomi” e gli “astronomi filosofi”
   2.3.  Matematismo e meccanicismo
   2.4.  La distruzione del paradigma tolemaico-aristotelico

   3. La matematizzazione della natura e della fisica
   3.1.  Contro Aristotele, la geometrizzazione del mondo sub lunare
   3.2.  La matematizzazione di tutta la scienza fisica
   3.3.  L’ accelerazione dei progressi nella matematica
   3.4.  Semplicità e ordine matematico della natura

   4. Aristotelici ed aristotelisti
   4.1.  Il linguaggio geometrico-matematico del “gran libro” dell’ universo
   4.2.  Platonismo e aristotelismo
   4.3.  Galileo autentico discepolo di Aristotele

   5. Il mondo-macchina
   5.1.   Lo statuto epistemologico del realismo platonico di Galileo Galilei: un dilemma
   5.2.   Modelli matematici teorici, fenomeni e loro corrispondenza
   5.3.   Finalismo e antrocentrismo antichi e moderni
   5.4.   Una nuova concezione dell’ esperienza

   6. “Dal mondo del pressappoco all’ universo della precisione”
   6.1.  L’ esigenza di precisione nelle misurazioni
   6.2.  “Non solo osservare, ma misurare”
   6.3.  Il pitagorismo di Keplero
   6.4.  Le implicanze tecnologiche della nuova scienza

   7. Esperienza ed esperimento
   7.1.  L’ autentica lezione di Aristotele per Galileo: le osservazioni
   7.2.  Mano e mente
   7.3.  “Intensive” la conoscenza matematica umana è pari a quella divina

                                             2
7.4.   La giusta misura tra creatività umana e potenza divina

8. Questioni di lana caprina …
8.1. Le “sottigliezze matematiche” sono applicabili alla materia sensibile?
8.2. Sfere, cavalli, locuste: architetture naturali e abilità umane
8.3. Esperimenti mentali

                                          3
4
Introduzione

  “Concludo per tanto, l’ intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle
cose intese, esser d’ infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’ avvilisco tanto, ch’
      io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto
  meravigliose cose hanno intese investigare ed operare gli uomini, pur troppo chiaramente
 conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti” (Galileo
   Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano, Giornata Prima)

“… il principale scopo de i puri astronomi è il render solamente ragione delle apparenze ne i
 corpi celesti, ed ad esse ed a i movimenti delle stelle adattar tali strutture e composizioni di
    cerchi, che i moti secondo quelle calcolati rispondano alle medesime apparenze, poco
curandosi di ammetter qualche esorbitanza che in fatto, per altri rispetti, avesse del difficile:
e l’ istesso Copernico scrive, aver egli ne’ primi suoi studi restaurata la scienza astronomica
 sopra le medesime supposizioni di Tolomeo, e in maniera ricorretti i movimenti de i pianeti,
 che molto aggiustamente rispondevano i computi all’ apparenze e l’ apparenze a i calcoli”
   (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano, Giornata
                                             Terza).

“Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente
  studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni
 suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un
 abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar
 d’ intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ‘l sentir nelle
publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo,
 e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’ avversario? Ma
 quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi,
 e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; chè non conviene che quelli che non filosofano
 mai, su usurpino l’ onorato titolo di filosofo” (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi
                       sistemi tolemaico e copernicano, Giornata Seconda)

 “La storia del pensiero scientifico del Medio Evo e del Rinascimento, che si comincia ora a
     comprendere un po’ meglio, si può dividere in due periodi, o meglio, perché l’ ordine
cronologico corrisponde solo molto approssimativamente a questa divisione, si può dividere,
grosso modo, in tre fasi o epoche, corrispondenti successivamente a tre differenti correnti di
   pensiero: prima la fisica aristotelica; poi la fisica dell’ impetus, iniziata, come ogni altra
 cosa, dai Greci ed elaborata dalla corrente dei Nominalisti parigini del XIV secolo; e infine
  la fisica moderna, archimedea e galileiana. Troviamo riprodotte queste fasi nelle opere di
Galileo giovane, che non solo ci informano sulla storia – o preistoria – del suo pensiero, sulle
sollecitazioni e i motivi che lo hanno dominato e ispirato, ma ci forniscono allo stesso tempo
      un quadro sorprendente e altamente istruttivo, condensato e come chiarificato dalla
    meravigliosa mente dell’ autore, di tutta la storia della fisica pregalileiana … La fisica
  aristotelica è sbagliata naturalmente; è del tutto antiquata. Ciò nondimeno è una “fisica”,
    cioè una scienza studiata in modo elevato sebbene non matematico. Non è una fantasia
fanciullesca, e nemmeno una esposizione in parole (e priva di significato) del senso comune,
bensì una teoria, cioè una dottrina, che basandosi naturalmente sui dati del senso comune, li
  sottopone a una manipolazione molto coerente e sistematica. I fatti o i dati che servono di
  base a questa elaborazione teoretica sono molto semplici e in pratica li ammettiamo come
  Aristotele. Sembra “naturale” anche a noi che un corpo pesante cada “in basso”. E come
Aristotele e San Tommaso saremmo molto stupiti se vedessimo un corpo pesante – una pietra
 o un bove – sollevarsi liberamente nell’ aria. Ci sembrerebbe abbastanza “non naturale” e

                                                5
cercheremmo una spiegazione pensando esserci in azione qualche meccanismo nascosto. E’
  per noi altrettanto “naturale” che la fiamma di un fiammifero vada “verso l’ alto” e che si
      mettano pentole padelle “sopra” il fuoco. … Chiameremo infantile e semplice questo
    concetto, o meglio atteggiamento? Forse. Possiamo forse anche rilevare che secondo lo
     stesso Aristotele la scienza cominciò proprio dal cercare una spiegazione per cose che
    appaiono naturali … La fisica aristotelica, come la termodinamica, non si limita solo a
esprimere nel suo linguaggio il “fenomeno” del senso comune già ricordato; lo trasferisce, e
    la distinzione tra moti “naturali” e “violenti” assume una posizione determinata in una
 concezione generale della realtà fisica; le cui caratteristiche fondamentali sembrano essere:
a) fiducia nell’ esistenza di “nature” qualitativamente determinate e b) fiducia nell’ esistenza
  di un Cosmo – cioè fiducia nell’ esistenza di principi di ordine in virtù dei quali la totalità
    degli esseri reali forma un tutto ordinato gerarchicamente. Il tutto, l’ ordine cosmico, l’
   armonia sono concetti che richiedono che le cose nell’ universo siano (o debbano essere)
     distribuite e disposte in un certo ordine determinato; che la loro posizione non sia una
 questione indifferente (né per esse né per l’ universo); che, al contrario, ogni cosa, secondo
la sua natura, ha una determinata “posizione” nell’ Universo, che in certo senso è la sua. Un
posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto: la “posizione naturale” esprime questa esigenza
    teorica della fisica aristotelica … Così ogni movimento implica una specie di disordine
 cosmico, una perturbazione dell’ equilibrio del mondo, che è effetto diretto di una violenza
       o, al contrario, l’ effetto dello sforzo dell’ Essere di fare equilibrio alla violenza, di
   ricuperare il proprio ordine e equilibrio perduto e turbato, riportare le cose al loro posto
        naturale, dove possano fermarsi e rimanre. Questo ritorno all’ ordine costituisce
 precisamente quello che abbiamo chiamato moto “naturale”” (Alexandre Koyré, Galileo e
                                                Platone)

Wilhelm Dilthey1 vuole Keplero e Galilei come le massime espressioni del “pensiero
calcolatore” che, agli albori dell’ età moderna, analizzava l’ universo e scopriva le semplici
leggi che presiedevano ai suoi complessi fenomeni, sull’ onda delle esigenze della nuova
società borghese. Dilthey enfatizza il contesto sociale, tecnico ed economico nel quale Galileo
Galilei stabilì le leggi del movimento: “Il lavoro degli opifici urbani, i problemi sorti dall’
invenzione della polvere da sparo e dalla tecnica delle fortificazioni, i bisogni della
navigazione relativamente ad apertura di canali, a costruzione e armamento di navi, avevano
fatto della meccanica la scienza preferita del tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi Bassi e
in Inghilterra, questi bisogni erano assai vivaci, e provocarono la ripresa e continuazione degli
studi di statica degli antichi e le prime ricerche nel nuovo campo della dinamica, specialmente
per opera di Leonardo, del Benedetti e dell’ Ubaldi”2. Certamente, proprio in un simile
contesto, ricco di sollecitazioni e di aspettative, Galileo Galilei sviluppò il programma
centrale dello stesso Keplero, che dava preminenza assoluta all’ “armonia dell’ universo, la
cui bellezza è manifestazione di leggi rivolte ad un fine, e consistenti nel numero e nella
misura … La prima proprietà della sostanza è la quantità; e solo in quanto le determinazioni
qualitative possono ridursi a quantità, si può avere una conoscenza … La nostra conoscenza si
misura dal suo accostarsi alle nudae quantitates: In tal modo era stabilito il principio
metodico della moderna scienza della natura, secondo il quale una conoscenza esatta della
natura è possibile solo in quanto i fenomeni possono mettersi per così dire sullo stesso piano e
divenir così confrontabili; e quindi solo mercè la scienza naturale matematica” 3.
Ma a quale complessa operazione filosofica, e con quali categorie concettuali, pose capo
Galileo Galilei elaborando il suo metodo scientifico di indagine della natura? In quale

1
  Wilhelm Dilthey, L’ analisi dell’ uomo e l’ intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, prefazione e traduzione
italiana di Giovanni Sanna, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1927-1974, 16-vol. 2.
2
  Ibidem, 16-7-vol 2.
3
  Ibidem, 17-vol.2.

                                                               6
contesto culturale si mosse? Di quali istanze era portatore e in quale alveo della cultura
occidentale navigava, quando approdò alla novità delle esperienze sensate e delle
dimostrazioni necessarie, elaborando un metodo che costituisce, comunque, una netta
soluzione di continuità rispetto ad ogni tradizione e ad ogni concezione del passato? Non vi è
dubbio che le discontinuità non escludano le continuità, e le une non si danno, anzi, senza le
altre, reciprocamente.
Cogliendo bene la natura del metodo galileiano, Rodolfo Mondolfo nota che “Il vincolo
stabilito da Galileo tra osservazione e dimostrazione … le esperienze fatte mediante i sensi e
le dimostrazioni logico-matematiche della loro necessità – era un vincolo reciproco, non
unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione potevano valere scientificamente
senza la relativa dimostrazione della loro necessità, né la dimostrazione logica e matematica
poteva raggiungere la sua “assoluta certezza oggettiva” come quella della natura senza
appoggiarsi all’ esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua conferma in essa
nel suo punto d’ arrivo”4 .
Il metodo ipotetico-deduttivo-sperimentale di Galileo Galilei non è certamente la semplice
sommatoria dell’ empirismo induttivo e del razionalismo deduttivo moderni, pur avendo in
entrambe le concezioni, tradizionalmente contrapposte, le sue premesse. Rodolfo Mondolfo,
avvedutamente, metteva in guardia da una assunzione senza riserve e limitazioni dell’
“antitesi tradizionale di empirismo, personificato da Bacone (insieme con la maggior parte dei
filosofi inglesi), e di razionalismo, personificato da Cartesio (insieme alla filosofia
continentale fino a Leibniz)”5 . L’ operazione di Galileo Galilei non può consistere nel
semplice superamento di una tale antitesi e nella conciliazione dei due punti di vista. Ma è pur
vero che le “sintesi a priori”, se conservano gli elementi che esse unificano, li superano e li
“tolgono” in una prospettiva radicalmente nuova.
Ci si può approssimare notevolmente alla novità galileiana se si considera, con Rodolfo
Mondolfo, che “La deduzione della natura, che Descartes attua partendo dall’ idea dell’
estensione e dalle leggi fondamentali del movimento, è tutta una costruzione a priori, in cui s’
aprono ad ogni tappa, secondo lo stesso Descartes, molteplici possibilità diverse, tra le quali
la sola realizzata effettivamente risulta contingente, resa manifesta dall’ esperienza, che ha
quindi solo un compito di verifica post eventum, non prevedibile ante eventum per la
mancanza di una necessità causale univoca. Galileo invece, con il suo metodo sperimentale,
vuole scoprire nel fatto osservato una necessità intrinseca dovuta al suo legame con la causa
che lo produce … Ma è una deduzione o dimostrazione necessaria; e per ciò si differenzia
pure dall’ empirismo induttivo di Bacone … < il quale > con le sue tavole di presenza e di
assenza (come più tardi lo Stuart Mill con i suoi metodi di concordanza e differenza) mira
unicamente alla comprova dei fatti; e la comprova ha validità per i fatti osservati, non
necessariamente per gli altri”6 .
Dietro la sintesi galileiana di empirismo e razionalismo moderni, vi è, probabilmente una
ancor più profonda sintesi, quella tra platonismo e aristotelismo proto e premoderni, che
conclude e invera il dibattito quattro e cinquecentesco di umanisti e aristotelici7. Anche in tal
4
  Rodolfo Mondolfo, “Il pensiero di Galileo e i suoi rapporti con l’ antichità e con il Rinascimento”, in Figure e idee della filosofia
del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1963-1970, 118-59, 120-1.
5
  Ibidem, 121n.
6
  Ibidem, 122-3.
7
  Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, volume secondo, Einaudi, Torino 1966, ha scritto che: “Alla radice di gran parte
della nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accando al desiderio tutto rinascimentale di non lasciare intentata via alcuna, è viva
la certezza che il sapere ha aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi ripercorriamo la Teologia platonica,
vi troviamo al centro questa tesi, largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono presenti tutte le
essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione
alle eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva
non dare. Ma la volontà non tocca quel mondo razionale che costituisce l’ eterna ragione divina, il verbo divino, cui dunque si
conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente, rispecchia l’ ideale razionalità per il tramite dell’ intermediario
matematico: “numero, pondere et mensura”. La mente umana, raggio del Verbo divino, è nelle sue radici impiantata essa pure
in Dio; è in Dio partecipe in qualche modo dell’ assoluta certezza. La scienza nasce così per il corrispondersi di questa struttura
razionale del mondo, impiantata nell’ eterna sapienza divina, e della mente umana partecipe di questa luce divina di ragione.

                                                                  7
caso, l’ operazione compiuta va ben oltre un generico eclettismo, e non è neppur valutabile
soltanto nei termini di una soluzione sincretica. La novità è radicale e non è facile analizzarne
gli elementi tradizionali che vi convergono e comprenderne la loro sintesi strutturale.
a questione del sostrato e dei rimandi filosofici della dinamica galileiana ha suscitato un
vigoroso dibattito tra gli epistemologi e gli storici della scienza. Ha bene inquadrato la
questione Ernest A. Moody, riflettendovi in questi termini: “Quali sono i fondamenti
filosofici della fisica di Galileo e quindi della scienza moderna in genere? Galileo è
sostanzialmente un platonico, un aristotelico o nessuno dei due? Si limitò, come sostiene
Duhem, a rilevare e perfezionare una scienza meccanica che aveva avuto origine nel
Medioevo cristiano e i cui principi fondamentali erano stati scoperti e formulati da Buridano,
da Nicola Oresme e dagli altri esponenti della cosiddetta “fisica dell’ impetus” del XIV
secolo? Oppure, come sostengono Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa tradizione dopo
averla brevemente processata nella sua dinamica pisana e ripartì ispirandosi ad Archimede e
Platone? Le controversie più recenti su Galileo sono consistite in larga misura in un dibattito
circa il valore fondamentale e l’ influsso storico che su di lui avevano esercitato le tradizioni
filosofiche, platoniche e aristoteliche, scolastiche e antiscolastiche”8.
Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, E. A. Burtt e altri hanno sostenuto senza mezzi termini il
platonismo di Galileo, contro la tesi di Pierre Duhem – ripresa da J. H. Randall Jr., a sostegno

Solo perché Dio ha costruito razionalmente il mondo la ragione umana ritrova se stessa nella razionalità immanente alla natura
e “che in lei … vive”. Il numero viene perciò ad essere un’ espressione di questo fondamentale consenso fra l’ uomo, il mondo e
Dio; nel numero si articola e si precisa la scienza umana, che vi trova la saldezza e il fondamento dell’ immutabilità stessa di
Dio, della ragione divina, poiché da essa, e non dalla volontà creante, dipende la struttura delle cose. “Iddio mai non se po’
mutare” – osservava fra’ Luca Pacioli nella sua Divina proportione (1509), ove proclamava che “tutto ciò che per lo universo
inferiore e superiore si squaterna, quello de necessità al numero, peso e mensura fia sottoposto”. La concezione del
neoplatonismo fiorentino, permeata di motivi pitagorizzanti e cabalistici, mentre con Platone riconosceva alla matematica la
funzione di mediatrice fra l’ idea e la materia, rivestiva poi il numero di quelle virtù di cui l’ aveva cinto la gnosi dei cabalisti. Il
numero è il verbo immanente, la trama di cui il tutto è tessuto. Onde mal si è apposto a chi ha voluto vedere ad esempio nel
Pico per certe sue critiche alla matematica un’ antitesi con Leonardo. La matematica criticata dal Pico è mera astrazione, a cui
va sostituita quell’ ars numerandi che schiude con chiavi pitagoriche la porta del mistero naturale. Proprio perciò le ragioni
matematiche che Leonardo vuole scoprire sono di sapore platonico, mentre tutta la sua natura è viva per un’ anima di ragione
che ne spiega l’ ordine e la simmetria, e giustifica la nostra conoscenza. La certezza matematica, nella quale appunto il Ficino
aveva visto una rassomiglianza fra l’ uomo e Dio, è tale per un oggetto su cui essa si appoggia per quel nocciolo matematico
che è immanente al cosmo ” (616-7).
8
  Ernest A. Moody, “Galileo e Avempace: la dinamica dell’ esperimento della torre pendente”, in: Philip P. Wiener e Aaron
Noland (a cura di), Le radici del pensiero scientifico, Feltrinelli, Milano 1971-1977, 182-213, 184. A proposito del dialogo pisano
di Galileo Galilei, De motu, in Opere di Galileo Galilei, ed. Albèri, XI, Firenze, 1854, scrive Ernest A. Moody che “ … il problema
più difficile che si pone all’ aristotelismo quando sostiene che il mezzo fisico è una condizione necessaria del moto, è quello di
spiegare il moto dei proietti. In questo caso infatti il mezzo sembra solo ostacolare il moto e non produrlo né mantenerlo.
Siccome l’ agente che ha lanciato il proietto non è più a contatto con quest’ ultimo e potrebbe venire annullato senza che per
questo il proietto cessi di muoversi, sembrerebbe che non si possa individuare altra causa della continuazione del moto del
proietto se non il proietto stesso. Sembrerebbe in questo caso dimostrato da i fatti l’ esistenza del moto spontaneo
intrinsecamente determinato dal corpo in movimento; in tal caso verrebbe il crollo dell’ assunto fondamentale di Aristotele che
tutto ciò che si muove è mosso da qualcos’ altro. E’ per questo motivo che Galileo apre il dialogo chiedendosi perché i proietti
continuino a muoversi anche dopo aver lasciato la mano di chi li lancia. Egli inizia il suo attacco al principio fondamentale della
dinamica aristotelica proprio nel punto in cui la sua applicazione appare più debole. La discussione di Galileo assume la forza di
una confutazione degli sforzi di Aristotele per spiegare la continuazione del moto del proietto attraverso un’ azione propulsiva
dell’ aria o del mezzo. Gli argomenti di cui si serve a tal fine non sono originali; sono quasi letteralmente quelli usati da Buridano
e da Alberto di Sassonia e prima di loro da altri autori, e ripetuti dopo di loro dai commentatori della Fisica del Quattrocento e
Cinquecento. Galileo poteva leggere questi argomenti in numerosi libri pubblicati al suo tempo e senza dubbio li aveva sentiti di
prima mano da Francesco Bonamico che insegnava a Pisa quand’ egli studiava, e che discute estesamente la questione del
moto dei proietti nella sua enorme opera De motu. Questi argomenti, ancorché usati nel Medievo sia dai difensori della
meccanica dell’ impetus sia dai molti altri che ripudiavano la spiegazione del moto dei proeitti mediante l’ impetus, non
stabiliscono né implicano comunque alcuna teoria positiva sul moto dei proietti; servono solo a dimostrare che la spiegazione di
Aristotele è incompatibile con i fatti proposti dall’ esperienza quotidiana. Galileo si serve di questi argomenti per confutare
Aristotele; la sua conclusione va poco oltre una ripresentazione del problema dei proietti. Siccome il proietto non è mosso dal
mezzo, dev’ essere costretto a continuare il suo moto da qualche condizione o potere intrinseco che esso ha acquistato in
seguito alla precedente azione esercitata su di esso da chi l’ ha lanciato. Per designare q uesta causa intrinseca del moto del
proietto Galileo usa invece del termine impetus l’ espressione “forza impressa” (vis impressa). “Quale sia questa forza,”
conclude cautamente, “ci rimane oscuro”” (200-1). Ernest A. Moory ricorda anche i “… tre assunti fondamentali che distinguono
la meccanica di Galileo: assunti che persistettero nella meccanica della matuirità e che sono di ordine filosofico. Essi sono: 1) il
concetto di gravità come proprietà fisica e universale dei corpi materiali; 2; la concezione dello spazio come di per sé vuoto,
senza peso e immateriale, e ciononostante reale e dotato di proprietà matematiche, come una estensione vuota riempita o
occupata da corpi materiali pesanti; 3) l’ assunzione di un centro del mondo o dello spazio, che determina la posizione assoluta
dei corpi in esso contenuti e la direzione del moto “naturale” che deriva dalla gravità intrinseca dei corpi” (Ibidem, 189).

                                                                   8
del sostrato aristotelico scolastico, di matrice padovana, del metodo del Pisano – secondo cui
Galileo Galilei avrebbe rivalutato e valorizzato la fisica trecentesca della “forza impressa” (o
impetus o vis motiva che il motore trasmette al mosso, considerando che la fisica aristotelica
non concepiva azioni a distanza). Tuttora le valutazioni e la comprensione di Galileo Galilei
filosofo e “filosofo naturale” sono discordanti9.
E’ sostenibile tuttora una prospettiva realistica della scienza? I positivisti ottocenteschi
fondarono la scienza sulla certezza dei fatti e considerarono le teorie come ipotetiche e
destinate a funzioni meramente calcolistiche. Ernst Mach e Pierre Duhem avrebbero ritenuto
teorie e leggi scientifiche nient’ altro che schemi utili ad organizzare i fenomeni ed a
prevedere quelli futuri. Il loro convenzionalismo sarebbe divenuto poi uno strumento di
critica efficace nei confronti della scienza da parte di filosofi come Benedetto Croce e Henry
Bergson.
In ogni caso, è difficile all’ epistemologia contemporanea farsi portatrice di un realismo
ingenuo, che postuli la corrispondenza fra teorie e realtà. Buona parte della filosofia della
scienza novecentesca ha assunto un’ ottica strumentalista, che, rifiutando la veridicità e l’
aderenza alla realtà delle teorie scientifiche, ne accetta soltanto la funzione di organizzazione
dei dati in quadri coerenti e di previsione e anticipazione di nuovi dati. Le teorie scientifiche
non sono altro, insomma, che strumenti di calcolo, efficaci ed utili, che non colgono però
sostanziali aspetti reali. Il realismo ingenuo, laddove sopravvive, ritiene che la realtà esista
indipendentemente da ogni atto conoscitivo e oggetto conoscente, e che sia accessibile così
com’è. Le posizioni ontologigo-gnoseologiche che si sono contrapposte, nella storia della
filosofia, ad una tale posizione, possono definirsi, genericamente, idealistiche, ma prevedono
concezioni diverse. Idealismo, nominalismo, concettualismo, sono concezioni filosofiche che
si sono distinte dal realismo e che, sul piano gnoseologico, hanno rigettato variamente la
capacità del pensiero di conosce fedelmente la realtà. Come ha sottolineato Mariano Bianca10,
con quella dell’ induzione e del metodo induttivo, la questione del realismo costituisce uno
dei nodi fondamentali dell’ epistemologia post-neopositivista11.
Sul realismo platonico di Galileo, Alexandre Koyré non ha alcun dubbio. “Il pensiero, o se si
preferisce, l’ atteggiamento mentale di Galileo è sensibilmente diverso da quello di Descartes.
Quello di Galileo non è puramente matematico: è fisico-matematico. Galileo non formula
delle ipotesi sui modi possibili del moto accelerato: ciò che egli cerca, è il modo reale, il
modo di cui si serve la natura. Galileo non parte, come Descartes, da un meccanismo causale,
per tradurlo in seguito in un rapporto puramente geometrico, o anche, per sostituirvi un tale
rapporto. Egli muove dall’ idea – indubbiamente precostituita, ma che fornisce la base alla sua
filosofia della natura – che le leggi della natura sono delle leggi matematiche. Il reale incarna
il matematico. In tal modo non è presente, in Galileo, uno scarto tra l’ esperienza e la teoria:
la teoria, la formula, non si applica ai fenomeni dall’ esterno, non “salva” questi fenomeni, ma
ne esprime l’ essenza. La natura non risponde che alle domande poste in linguaggio
matematico, giacchè la natura è il regno della misura e dell’ ordine. E se l’ esperienza guida
così “come la mano” il ragionamento, ciò avviene perché, nell’ esperienza ben diretta, vale a
dire a una domanda ben posta, la natura rivela la sua essenza profonda che solo l’ intelletto, d’
altronde, è capace di comprendere.

9
  Si confrontino soltanto due distinti punti di vista: quello di Alexandre Koyré, Studi galileiani, Einaudi, Torino 1976, e quello di
Ludovico Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957. In buona sostanza, secondo Geymonat, in Galileo vi sono profonde
tracce di aristotelismo, soprattutto laddove egli antepone l’ esperienza al discorso, anche se l’ esperienza dev’ essere, secondo il
Pisano, sapientemente interrogata, se vuol essere probativa. Geymonat non intende contrapporre al Galileo platonico di Koyré
un Galileo puramente aristotelico, giacchè l’ osservazione del Pisano è quantitativa e non meramente qualitativa. Il più autentico
spirito dell’ indagine di Aristotele è comunque salvaguardato e inverato da Galileo Galilei.
10
   Cfr. Introduzione a Rom Harré, Le filosofie della scienza. Panorama introduttivo, Armando, Roma 1983, 7-32.
11
    Nel realismo Bianca coglie in sostanza due tesi. La prima è che “esiste una realtà esterna e indipendente al soggetto
conoscente (la scienza)”. La seconda è che “gli asserti scientifici conoscitivi espressi dal soggetto conoscente, la scienza, si
riferiscono direttamente alla realtà ad esso esterna” (26).

                                                                 9
Galileo ci esorta a partire dall’ esperienza: ma questa “esperienza” non è la bruta esperienza
dei sensi; questo dato al quale deve conformarsi, o con il quale deve concordare, la
definizione che egli cerca, non sono altro che le due leggi descrittive – le leggi dei sintomi –
della caduta di cui è già in possesso. Galileo ci esorta anche a farci guidare dall’ idea della
semplicità. Non la semplicità formale soltanto: si tratta di qualcosa di più; di qualcosa di
analogo, indubbiamente, ma purtuttavia differente: una semplicità reale, se si può dire, una
conformità interna alla natura essenziale del fenomeno studiato. In questa intuizione, nell’
attenzione ferma e costante al carattere reale del fenomeno, sta la ragione che permetterà a
Galileo di evitare l’ errore di Descartes; e il suo personale. Il movimento è, prima di tutto, un
fenomeno temporale. Avviene nel tempo. E’ in funzione del tempo dunque che Galileo
cercherà di definire l’ essenza del moto accelerato e non più in funzione dello spazio percorso:
lo spazio non è che una risultante, non è che un accidente, non è che un sintomo di una realtà
essenzialmente temporale. Non si può, è vero, immaginare il tempo. E ogni rappresentazione
grafica rasenterà sempre il pericolo di cadere nella geometrizzazione ad oltranza. Ma lo sforzo
sostenuto dall’ intelletto, dal pensiero, concependo e comprendendo il carattere continuo del
tempo, potrà senza pericolo simbolizzarlo con lo spazio. Il moto uniformemente accelerato
sarà dunque quello che lo sarà in rapporto al tempo. La nozione di tempo svolge così per e nel
pensiero di Galileo la funzione che quella della causalità reale svolgeva per e in quelli di
Beeckman e Descartes. Ma, giustamente, il fatto che egli ha potuto – o saputo – fare a meno
di ogni rappresentazione concreta del modo di produzione del moto, dell’ accelerazione
(forza, attrazione, ecc.) gli ha permesso di mantenersi, per così dire, in equilibrio su questa
frontiera, stretta come una lama, in cui, nel caso del moto, il reale coincide con il matematico.
Galileo è riuscito laddove Descartes è fallito”12.
Ci si può chiedere che cosa fosse, prima di Galileo Galilei, il movimento per gli Scolastici
medioevali e in particolare per San Tommaso d’ Aquino. “Tutte le prove tomiste < dell’
esistenza di Dio > - ha scritto Etienne Gilson – mettono in gioco due elementi distinti: la
constatazione di una realtà sensibile che richiede una spiegazione, l’ affermazione di una serie
causale di cui questa realtà è la base e Dio il vertice. La via più evidente è quella che parte dal
movimento. Nell’ universo c’è del movimento; questo è il fatto da spiegare, e la superiorità di
questa prova non dipende dal fatto che essa sia più rigorosa delle altre, ma dal fatto che il suo
punto di partenza è il più facile da capire. Ogni movimento ha una causa e questa causa deve
essere esterna all’ essere stesso che è in movimento; infatti non si potrebbe essere,
contemporaneamente e sotto lo stesso rapporto, il principio motore e la cosa mossa. Ma il
motore stesso deve essere mosso da un altro, e questo da un altro ancora”13.
Il movimento galileiano non ha altra causa fuori di sé. Non dev’ essere altro che misurato. E
così si coglie la sostanza delle leggi naturali e delle cose stesse. La mente umana possiede le
categorie matematiche per comprendere le leggi naturali. Essa è aperta alla realtà naturale,
nella sua struttura geometrico-matematica. E come non evocare, quindi, la distinzione di
verità ontologica e verità logica in San Tommaso d’ Aquino? La verità ontologica, secondo
San Tommaso, è che ogni ente è adeguato all’ intelletto divino. Una tale verità è espressa dal
principio secondo cui adaequatio rei ad intellectum. La verità logica (umana), invece, deve
tendere ad essere adeguazione alla cosa del nostro intelletto, secondo il principio adaequatio
intellectus nostri ad rem. Ogni ente è, comunque, espressione del pensiero e del progetto di
Dio14.
Resta inevasa una domanda epistemologica cruciale. Per formularla con Mauro Donato15,
“Perché le leggi di natura sono matematiche?”. Chiosando E. Wigner, Donato titola il

12
   Alexandre Koyré, Studi galileiani, Einaudi, Torino 1979, 156-8.
13
   Etienne Gilson, La filosofia del Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, Presentazione di Mario Dal Pra, La
Nuova Italia, Firenze 1973, 636.
14
   La teologia di San Tommaso d’ Aquino è esposta nella: Somma teologica, a cura dei domenicani italiani, con testo latino a
fronte, 34 voll., Salani, Firenze 1949 ss.
15
   Mauro Donato, Il software dell’ universo. Saggio sulle leggi di natura, Bruno Mondadori, Milano 2000, 68 e sgg..

                                                                10
paragrafo iniziale del suo saggio con “L’ “irragionevole efficacia della matematica” nel
descrivere il mondo fisico” e, “ … riprendendo le critiche che già Aristotele aveva mosso al
dualismo platonico tra mondo delle idee e mondo fenomenico, la duplicazione delle proprietà
del mondo fisico in un universo matematico “preesistente” alla comparsa della mente <
umana > sulla terra non fa che duplicare i problemi da risolvere. Il problema di spiegare
perché il mondo fisico riproduca le caratteristiche strutturali di un mondo astratto da esso
sconnesso e indipendente ci appare insolubile”16. Una concezione platonista della matematica,
secondo la quale vi sarebbe un “mondo” astratto non si può escludere a priori, ma “ … il
platonismo rende il problema dell’ applicabilità della matematica di ancor più difficile
soluzione …” perciò, conclude, “Sembra … assai plausibile ipotizzare che la matematica si
applichi all’ esperienza solo perché nasce e deriva da quest’ ultima e in particolare, come
Kant aveva anticipato, dalla nostra intuizione dello spazio (geometria) e del tempo
(aritmetica)”17.

Cremona, 2004                                          Marco Paolo Allegri

16
     Ibidem, 119.
17
     Ibidem, 119-20.

                                             11
1. L’ unificazione di fisica terrestre e fisica celeste

1.1. Realismo e strumentalismo. Aveva ragione, sostanzialmente, il gesuita Cardinal
Bellarmino, quando sosteneva, contro il realista copernicano Galileo Galilei, che le teorie
scientifiche non costituiscono rappresentazioni vere e oggettive della realtà18. Il rifiuto del
realismo ingenuo dei copernicani è condivisibile se si acconsente allo strumentalismo che
contraddistingue tutta l’ epistemologia del Novecento, pur non trovando mai esso un’
adesione netta, esplicita, “volgare”, nei filosofi della scienza del secolo appena concluso. Ma
è, comunque, vero che tutti costoro, in fin dei conti, strumentalisti, in qualche misura, lo
sono. Nessuno, infatti, aderirebbe più al realismo ingenuo e platonico di Galileo Galilei. Lo
stesso neopositivismo o positivismo logico del Circolo di Vienna (si pensi alla polemica tra
Moritz Schlick e Otto Neurath) mise in discussione il principio di verificazione, la sua
capacità a comprovare la veridicità delle teorie scientifiche secondo la loro aderenza alla
realtà empirica. Si pensi soltanto che le teorie scientifiche, secondo Karl Raimund Popper,
non sono di per sé né vere né false, ma servono soltanto ad inquadrare con coerenza le
osservazioni. E debbono essere riformulate ed ampliate quando siano poste a confronto con
nuove osservazioni che non riescono ad inquadrare.
Non altrettanta ragione aveva il Cardinal Bellarmino nei confronti “De l’ infinito, universo e
mondi”, in cui Giordano Bruno deduceva l’ infinità dell’ universo dall’ infinita potenza
divina. Del resto, un universo infinito, in cui tutto è centro e periferia, avrebbe dato le
vertigini a chiunque. Il basso assoluto e l’ alto assoluto erano certezze aristoteliche inveterate,
cui nessuno avrebbe spontaneamente rinunciato19.
A parte il monismo naturalistico di Giordano Bruno, quel che Copernico sosteneva non era
meno angosciante. Egli toglieva l’ uomo dal centro del Cosmo: “tutte le sfere ruotano intorno
al Sole come al loro punto centrale e pertanto il centro dell’ Universo è intorno al Sole”.
Copernico non difendeva una escogitazione, una semplice ipotesi geometrico-matematica che
giustificasse in via teorica le strane vicende dei pianeti. Strane, se non altro, se messe a
confronto con quello che si riteneva essere, da sempre, il loro indiscutibile e imprescindibile
moto circolare e uniforme. Copernico voleva spostare la posizione dell’ osservatore, che sulla
Terra è immobile, per confermare, più agevolmente, la circolarità dei moti celesti20 . Come

18
   Per approfondire la conoscenza delle traversie di Galileo Galilei si possono consultare: S. Drake, Una biografia scientifica, Il
Mulino, Bologna 1988; G. Morpurgo Tagliabue, I processi a Galileo e l’ epistemologia, Armando, Roma 1981; P. Redondi, Galileo
eretico, Einaudi, Torino 1983; G. De Santillana, Il processo a Galileo, Mondadori, Milano 1960.
19
   Thomas Kuhn, La rivoluzione copernicana, L’ astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Einaudi, Torino
1972, ha enfatizzato le angosce religiose, dottrinali, fideistiche, che il copernicanesimo dovette suscitare nei contemporanei. Se
non vi è distinzione tra mondo celeste e mondo terrestre, se il primo è tanto imperfetto quanto il secondo, perché l’ uomo
dovrebbe essere chiamato a soffrire nell’ “al di qua”, e perché dovrebbe esservi una drastica divisione tra il mondo del bene (il
mondo celeste) e il mondo del male (il mondo terrestre)? Se i cieli partecipano dell’ imperfezione e del male che vi sono sulla
Terra, possono essere una dimora degna di Dio? E, infine, in un universo infinito, senza centro e senza confini, ove si trova il
trono di Dio?
20
    Thomas Kuhn, La rivoluzione copernicana cit.. considera l’ innovazione copernicana alla luce della propria celeberrima
distinzione tra le epoche di “scienza normale”, in cui la ricerca scientifica è orientata da un paradigma unanimemente condiviso
dall’ intera comunità scientifica, e da “epoche rivoluzionarie”, in cui le incongruenze evidenziate dal paradigma vigente nella
comprensione della realtà, inducono all’ adozione di un nuovo paradigma. Così accadde nel caso dell’ eliocentrismo copernicano
che, seppur legato per vari aspetti a quello tolemaico, avviò un’ età di “scienza straordinaria” (Galileo, Keplero, Newton).
“Copernico – scrive Kuhn – viene spesso definito come il primo astronomo moderno, in quanto fu il primo a sviluppare
integralmente un sistema fondato sul moto della Terra. Ma, come dimostra il testo del De revolutionibus, altrettanto
opportunamente lo si potrebbe definire come l’ ultimo grande astronomo tolemaico. L’ astronomia tolemaica era molto di più di
un’ astronomia basata unicamente sull’ immobilità della Terra ed è soltanto in funzione della posizione e del moto della Terra
che Copernico ruppe con la tradizione tolemaica. La struttura cosmologica, in cui fu inserita la sua astronomia, la sua fisica
terrestre e celeste e perfino gli accorgimenti matematici che egli usò per far sì che il suo sistema potesse fornire previsioni
adeguate alla realtà, appartengono tutti alla tradizione che gli scienziati antichi e medievali avevano costruito. Sebbene gli
storici si siano, di tanto in tanto, affannati a stabilire se Copernico sia in effetti l’ ultimo degli astronomi antichi oppure il primo
dei moderni, la discussione è assurda in linea di principio. Copernico non è un astronomo né antico né moderno, ma piuttosto
un astronomo rinascimentale nella cui opera le due tradizioni si fondono. Chiedersi se la sua opera sia in effetti antica o
moderna è un po’ come chiedersi se, in una strada, la curva fra due rettilinei appartiene al tratto di strada che precede la curva
oppure a quello che viene dopo. Dalla curva si possono vedere entrambi i tratti e la continuità della strada è evidente. Tuttavia,
vista da un punto che precede la curva, la strada sembra proseguire dritta fino alla curva e poi scomparire, e la curva sembra l’
ultimo punto di una strada rettilinea. Vista, invece, da un punto del tratto successivo, dopo la curva, la strada sembra aver inizio

                                                                  12
mai, se i pianeti si muovono di moto circolare uniforme attorno alla Terra, alcuni di essi
mutano luminosità e dimensioni e sembrano talvolta sparire? Anzi, le retrogradazioni di
alcuni pianeti aggravano l’ incompatibilità del loro strano movimento con la presunta
circolarità dei corpi celesti. Un pianeta, incastonato in una perfetta e pura sfera cristallina, non
può che muoversi di moto circolare e uniforme, un moto perfetto, in cui ogni punto è inizio e
fine allo stesso tempo. Insomma i corpi celesti si muovono di moto perpetuo, l’ unico degno
di essi, visto che sono eterni, perfetti, immutabili e semplici. La loro luminosità, la loro
dimensione, la loro traiettoria, dovrebbero essere sempre le stesse …
Dalla cosmologia dell’ Accademia di Platone in poi, il mondo antico aveva sempre sostenuto
la perfetta circolarità del moto dei pianeti. Senonchè Eudosso di Cnido aveva elaborato da
puro matematico il sistema geostatico e geocentrico che Aristotele intese, invece, come reale.
Cinquantacinque intelligenze motrici più una (il Primo Motore immobile) muovono i cieli, dal
più esterno, il cielo delle stelle fisse, alla sfera della Luna. Gli astronomi postaristotelici,
Tolomeo in particolare, colsero però le incongruenze di un tale sistema. Le rilevazioni delle
irregolari posizioni dei pianeti ne evidenziavano l’ inconciliabilità col moto circolare. La
cosmologia ellenistica concepì, pertanto, alcune escogitazioni puramente matematico-
geometriche, come gli eccentrici, gli epicicli e gli equanti. Si trattava di ipotesi che miravano
a “salvare i fenomeni”, a giustificare gli irregolari moti dei pianeti, di fronte all’ irrinunciabile
ma aprioristico loro moto circolare. L’ orbita eccentrica di un pianeta non ha il suo centro in
quello della Terra; e quindi, il suo moto non sarà uniforme in rapporto alle stelle (fisse), pur
essendo uniforme il suo moto sull’ orbita circolare. L’ eccentrico contribuiva a spiegare la
varia luminosità dei pianeti, come confermavano le osservazioni. Gli epicicli erano le orbite
circolari percorse dai pianeti. Il centro di tali orbite coincideva con un punto di una seconda
orbita (deferente) avente per centro la Terra. Il centro dell’ epiciclo veniva, quindi, trascinato
dal deferente. Gli epicicli intendevano spiegare le retrocessioni dei pianeti e i loro arresti
improvvisi. L’ equante prevedeva che il centro dell’ epiciclo non si muovesse uniformemente
rispetto al centro del deferente, e scuoteva la regola platonica dell’ uniformità del moto
celeste.

1.2. Galileo: la riunificazione di fisica terrestre e fisica celeste. In realtà, la questione che
tormentava Galileo Galilei non era l’ alternativa fra sistema eliocentrico e sistema geostatico.
Bensì l’ unificazione di fisica terrestre e fisica celeste. Egli voleva estendere al mondo
sublunare le regolarità e le misurazioni matematiche, che Aristotele ne aveva
inappellabilmente espunto. E le mere ipotesi-escogitazioni degli astronomi matematici si
sarebbero trasformate in ipotesi da verificare nella realtà fisica. Un compito da attribuire ai
filosofi naturali, che si occupano della realtà e non di sistemi tracciati sulla carta. Occorreva
spezzare la commistione tra la cosmologia matematica di Tolomeo e la fisica qualitativa del
mondo sublunare di Aristotele. Abbattuto il paradigma tolemaico-aristotelico e i suoi
caposaldi, la fisica e la natura avrebbero potuto essere quantificate e matematizzate. Il sistema
copernicano spezzava, non soltanto, l’ unità solidale tra astronomia matematica e fisica
qualitativa, ma si apprestava a diventare un quadro teorico irrinunciabile per la nuova fisica
matematica.

nella curva stessa, da cui poi prosegue rettilinea. La curva appartiene, in ugual misura, a entrambi i tratti, oppure non
appartiene a nessuno dei due. Essa contrassegna una svolta della direzione d’ avanzamento della strada, cos’ come il De
revolutionibus rappresenta un cambiamento di direzione nello sviluppo del pensiero astronomico … Per i seguaci di Copernico
dei secoli XVI e XVII, l’ importanza fondamentale del De revolutionibus deriva dal suo solo concetto innovatore: la Terra
planetaria, e dalle conseguenze astronomiche innovatrici, le nuove armonie che egli aveva tratto da quel concetto. Per essi il
copernicanesimo significava il triplice moto della Terra e solo questo, inizialmente. Le concezioni tradizionali di cui Copernico
aveva rivestito la sua innovazione non erano, per i suoi seguaci, elementi essenziali della sua opera, semplicemente perché,
come elementi tradizionali, non costituivano un contributo originale di Copernico alla scienza. E non fu per questi elementi
tradizionali che gli uomini si trovarono in contrasto sul De Revolutionibus. Ecco, dunque, perché il De revolutionibus potè essere
il punto di partenza di una nuova tradizione astronomica e cosmologica e, nello stesso tempo, il culmine di una tradizione
antica”.

                                                               13
Il teologo protestante Osiander aveva già scritto, all’ insaputa di Copernico, nella introduzione
al “De revolutionibus”, che il sistema eliostatico andava considerato soltanto come una
escogitazione matematica: era più semplice di quello tolemaico, e si sbarazzava di epicicli ed
equanti. E grazie al movimento terrestre dava conto meglio di quello tolemaico delle strane
evoluzioni dei pianeti. La stessa tesi oppose il Cardinale gesuita Bellarmino a Galileo: il
sistema eliostatico poteva essere accettato ed apprezzato come una pura escogitazione – più
efficace e più semplice di quello tolemaico - atta a giustificare e salvare i fenomeni, le
osservazioni.
Di fronte all’ ammonimento e poi all’ imposizione dell’ abiura del sistema copernicano, si
comprende come il realismo di Galileo Galilei sembri vacillare. Almeno, se si leggono le
prime righe del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano. Nella
prefazione apposta all’ inizio del “Dialogo”, e rivolta “Al discreto lettore”, Galileo ricorda che
“Si promulgò a gli anni passati in Roma un salutifero editto, che, per ovviare a’ pericolosi
scandoli dell’ età presente, imponeva opportuno silenzio all’ opinione Pitagorica della
mobilità della Terra”. “…ho presa nel discorso – aggiunge – la parte Copernicana,
procedendo in pura ipotesi matematica, cercando per ogni strada artificiosa di rappresentarla
superiore, non a quella della fermezza della Terra assolutamente, ma secondo che si difende
da alcuni che, di professione Peripatetici, ne ritengono solo il nome, contenti, senza
passeggio, di adorar l’ ombre, non filosofando con l’ avvertenza propria, ma con solo la
memoria di quattro principii mal intesi”. E precisa che, nel “Dialogo”, “… si esamineranno li
fenomeni celesti, rinforzando l’ ipotesi copernicana come se assolutamente dovesse rimaner
vittoriosa, aggiungendo nuove speculazioni, le quali però servano per facilità d’ astronomia,
non per necessità di natura”. E conclude con l’ auspicio che si riconosca, alla fine del
“Dialogo”, che “… se altre nazioni hanno navigato più, noi non abbiamo speculato meno, e
che il rimettersi ad asserir la fermezza della terra, e prender il contrario solamente per
capriccio matematico, non nasce da non aver contezza di quant’ altri ci abbia pensato, ma,
quando altro non fusse, da quelle ragioni che la pietà, la religione, il conoscimento della
divina onnipotenza, e la coscienza della debolezza dell’ ingegno umano, ci somministrano”21.
Un Galileo Galilei pentito, transfuga del copernicanesimo, convinto che l’ eliocentrismo sia
una pura escogitazione per astronomi matematici? Sembrerebbe che Galileo Galilei aderisca
alla tesi strumentalista del Cardinal Bellarmino. Sostiene che il “Dialogo” è stato scritto per
far capire ai protestanti ed alle altre nazioni che la condanna pronunciata dalla Chiesa nel
1616 non scaturisce dall’ incompetenza scientifica o da debole speculazione. Parole
inconsuetamente prudenti e caute in un battagliero e mai domo Galileo, che sino a non molto
tempo prima era certo che le sue tesi sarebbero state accolte. La cautela non gli risparmiò l’
abiura, e comunque il “Dialogo” è irrevocabilmente copernicano.

1.3. Il senso comune e la miope pervicacia degli aristotelisti moderni. Nella Seconda Giornata
del “Dialogo”, Sagredo (Giovanfrancesco, “nobil veneziano, che poi in un de’ personaggi del
Dialogo dipigner mi piacque”, gentiluomo dotto, spirito libero, aperto alle nuove prospettive
scientifiche) chiede all’ aristotelista Simplicio “qual delle due opinioni sia più probabile e
ragionevole: quella che tiene, la sustanza de i corpi celesti esser ingenerabile, incorruttibile,
inalterabile, impassibile, ed in somma esente da ogni mutazione, fuor che dalla locale, e però
essere una quinta essenza diversissima da questa de i nostri corpi elementari, generali,
corruttibili, alterabili, etc.; o pur l’ altra che, levando tal difformità di parti dal mondo, reputa
la Terra goder delle medesime perfezioni che gli altri corpi integranti dell’ universo, ed esser
in somma un globo mobile e vagante non men che la Luna, Giove, Venere o altro pianeta”.

21
   Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano, in Opere, Barbera, Firenze 1890-1909/1929-
1939, VII. Nell’ edizione elettronica Manuzio, l’ avvertenza Al discreto lettore è alle pagine 3-4.

                                                           14
E poiché Simplicio si rinserra, come di consueto, dietro “l’ autorità di tanti grandi scrittori”22,
Sagredo gli propone un ricordo personale: gli aristotelisti negano l’ evidenza e si appellano
all’ “ipse dixit”. “Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove
alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di
notoria per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed
accadde quel giorno, che si andava ricercando l’ origine e nascimento de i nervi, sopra di che
è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista come,
partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi
distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo
come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’ egli conosceva per filosofo
peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con straordinaria diligenza scoperto e
mostrato il tutto, gli domandò s’ ei restava ben pago e sicuro, l’ origine dei i nervi venir dal
cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose:
“Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’
Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe
per forza confessarla per vera””23. Ed una tale pervicacia d’ aristotelista conferma proprio lo
stesso Simplicio, subito dopo, replicando che “…questa disputa dell’ origine de i nervi non è
miga così smaltita e decisa come forse alcuno si persuade. Tanto che Sagredo gli deve
ribadire “la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata
esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’ Aristotile, ma la sola autorità ed il puro
“ipse dixit””.
E a sostegno delle “sensate esperienze” lo scienziato copernicano Salviati s’ oppone alla
incrollabile certezza di Simplicio che Aristotele non debba esser soltanto inteso ma
approfonditamente conosciuto, perché è necessario “aver tanta pratica ne’ suoi libri, che se ne
sia formata un’ idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla
mente; perché e’ non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi sillogismi col
metodo triviale ordinato, anzi … ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che
par che trattino di ogni altra cosa”. Salviati cita alcuni “gentil uomini che furon presenti
quanto un dottor leggente in uno Studio famoso, nel sentir circoscrivere il telescopio, da sé
non ancor veduto, disse che l’ invenzione era presa da Aristotile; e fattosi portare un testo,
trovò certo luogo dove si rende la ragione onde avvenga che dal fondo d’ un pozzo molto
cupo si possano di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: “Eccovi il pozzo, che
denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta l’ invenzione de i cristalli; ed
eccovi finalmente fortificata la vista nel passare i raggi per il diafano più denso e oscuro”.
Vi è qui la denuncia del rifiuto dell’ unica autorità ammissibile: quella della ragione applicata
all’ esperienza. Gli aristotelisti trovan tutte le spiegazioni nei testi del Maestro. E negano l’
evidenza. Eppure, proprio i loro argomenti contro il moto della Terra sono sostenuti dall’
immediato senso comune. In effetti, essi rifiutano di metter in discussione l’ apparente
evidenza sensibile e di riformularne l’ interpretazione. Certo, direbbe Andrea Frova, evocando
gli “Studi galileiani” di Alexandre Koyré, non era facile abbandonare la convinzione che “la
velocità di un corpo fosse in qualche modo da collegare a una forza applicata”24. Se si vuole
che una carrozza viaggi con velocità costante, la forza complessiva che su di essa agisce deve
essere nulla. Altrimenti (per la legge di Isaac Newton: forza = massa per accelerazione) essa
continuerebbe ad accelerare. Lo spazio euclideo non è intuibile immediatamente dalla
percezione sensibile.

22
   Ibidem, Edizione elettronica Manuzio, 58.
23
   Ibidem, 59.
24
   Andrea Frova – Mariapiera Marenzana, Parola di Galileo, Rizzoli, Milano 1998, 81 e sgg.. Si veda, in particolare, la “Nota
fisico-matematica” al Capitolo 3.

                                                            15
Puoi anche leggere